NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 30 giugno 2022

Amedeo di Savoia Duca d’Aosta

 

di Emilio Del Bel Belluz

Quando la storia viene scritta dagli eroi che hanno versato il loro sangue per la Patria durante le guerre, il loro sacrificio davanti agli occhi di Dio e della nazione non può in nessun modo essere cancellato. Il soldato che ha dimostrato con orgoglio la sua appartenenza all’Italia è simile all’amore che una persona ha verso la propria madre. In questi giorni ho letto che c’è l’intenzione di cambiare il nome del liceo scientifico di Pistoia, intitolato ad Amedeo di Savoia duca d’Aosta. 

Questo tentativo non può trovare un terreno fertile.  Nella mia vita ho incontrato alcuni soldati che erano stati in guerra con Amedeo Savoia duca d’Aosta, tra cui Ferruccio Cibin di Motta di Livenza.  Costui, sapendo che amavo la storia, spesso mi raccontava della sua vita militare a fianco del suo eroe il Duca, e nel dire questo aveva le lacrime agli occhi dalla commozione. 

Quante volte ho sentito recitare a memoria il testamento del suo comandante. Passando davanti alla sua casa penso alla sua lealtà di soldato verso quello che la storia ha onorato come un eroe, morto il 3 marzo 1942. 

Nel suo testamento il Duca scrisse: “Quante volte ho pensato con amarezza, specialmente in questi ultimi giorni, che sarebbe stato meglio morire sul’Amba Alagi. Si poteva morire benissimo lassù. Ma adesso capisco: sarebbe vanità. Bisogna saper morire anche in mano al nemico, anche in ospedale… com’è bello morire in pace con Dio, con gli uomini, con se stesso. Questo è ciò che veramente conta”. (Nairobi 2 marzo 1942). 

L’Italia è un Paese che non può diventare ostaggio di quelli che cancellano la propria cultura, che abbattono le statue, che cambiano i nomi delle vie. Questa Italia deve prima di tutto conservare la sua storia e le sue tradizioni, rispettare quelli che si sono immolati per l’Italia. Il loro sangue è quello degli eroi.  

Walter Scotto scrisse: “Se perdiamo tutto il nostro avere preserviamo almeno immutato l’onore”. Questo è l’insegnamento che ci è stato offerto dagli eroi come il duca. Quanto vorrei aver studiato in una scuola prestigiosa che portasse il nome di un così grande personaggio. Kipling scrisse. 

“Nulla può dirsi concluso finché non è concluso con giustizia”. Onore a tutti quei soldati che caddero per la Patria, il cui nome e l’eroismo solo Dio conosce.  


Giugno 2022

venerdì 24 giugno 2022

Le ragioni della Monarchia - VI



ORGANIZZAZIONE DELLA SOCIETA', DIRITTI E LIBERTA' IN UNA MONARCHIA TRADIZIONALE

L'ordine cristiano si basa su gerarchie sociali ognuna delle quali risponde ad un compito ben preciso. Ogni ceto ha i diritti ed i doveri, i privilegi e gli obblighi, che lo tutelano e gli rendono possibile di con­tribuire nel miglior modo all'ordinata esistenza della società. 

Valga per tutti l'esempio della aristocrazia. Essa come aristocrazia feudale e terriera godeva sí di privilegi, ma svolgeva un ruolo so­ciale insostituibile con obblighi gravosi. Basti pensare al dovere di fornire soldati quando lo richiedeva il Sovrano, al compito di difendere gli abitanti del feudo in caso di guerra, all'obbligo di sfamarli gratuitamente in occasione delle carestie. Lo stretto contatto tra Signore, villici ed artigiani creava un clima patriarcale di collaborazione tra i ceti e di solidarietà. Quando l'aristocrazia si trasformò in nobiltà cor­tigiana, per colpa anche del Monarca che voleva estendere il suo potere, cessando in gran parte di svolgere un ruolo insostituibile nell'or­ganizzazione sociale, allentando i propri legami col popolo, ma pretendendo di conservare o accrescere i privilegi di un tempo, la società organica divenne vulnerabile alle idee rivoluzionarie.

 

Nella Monarchia tradizionale i costumi, cioè la vita stessa, pre­valgono sulla legge, che alla vita si impone. L'assoluto predominio della legge, tipico del diritto romano, significa assoluta autorità dello Stato e quindi prevalenza della politica, spesso astratta e faziosa, sul vivere comune e naturale. Nella società tradizionale vi è il dominio del personale, del preciso, del naturale, e l'orrore dell'astratto, dell'arti­ficiale.


I diritti che si godono in una Monarchia organica, Rudyard Kipling, il bardo dell'Impero Britannico, li definisce in due versi: "Antichi diritti inavvertiti / come il respiro che traiamo". Immagine più eloquente di mille discorsi. Mi varrò di due lunghe citazioni per spie gare i concetti di libertà, eguaglianza e fratellanza in una società tra­dizionale.

 

Scrive Roberto de Mattei:"...Ogni società tradizionale importa la diversità tra uomo e uomo. E' la necessaria diversità tra ogni cosa finita e la misura della diversità del finito è data dal suo rapporto con il Principio permanente, con l'Essere. Ma realizza anche la vera uguaglianza che deriva dalla comune condizione umana di creature, dalla presenza in ogni uomo dell'Essere. Ogni società tradizionale realizza, inoltre, la vera fraternità, che è il legame che stringe tutti gli uomini rispetto alla comune paternità divina. Questo legame di fraternità unisce tutta l'umanità creata, non soltanto i vivi, ma i morti, e coloro che nasceranno, il passato e l'avvenire; è il rapporto degli uomini con tutti gli altri uomini, con il proprio sangue, in una parola con il proprio destino. Ogni società tradizionale realizza infine la vera libertà. Le libertà assoluta, come l'assoluta verità, é solo in Dio.

 

All'uomo, creatura imperfetta e finita, è dato aspirare solo a una libertà parziale, che sarà tanto maggiore quanto più vicino l'uomo sarà alla verità, cioè a Dio. Questa libertà, che è l'autentica libertà, è stata definita dai Padri della Chiesa come Libertas maior. Come Libertas minor è stato invece definito il libero arbitrio, la facoltà di scegliere o rifiutare la verità. La libertà cioè di essere liberi. Solo infatti quando l'uomo usi di questa facoltà per scegliere la verità realizza la sua libertà. Non esistono epoche o società che possono soffocare o modificare la Libertas minor, inerente come essa è alla condizione umana. Esistono bensì epoche o società che possono rendere più o meno facile la scelta della Libertas maior, della verità.

Ogni società tradizionale, dunque, in quanto fondata sulla verità, è l'unica realmente fondata sulla libertà e si può a ragione contrapporre alle società oppressive, sia che esse indirizzino l'uomo verso pseudo-verità, sia che esse, proclamandosi agnostiche, neghino la esistenza stessa di una verità" (25).

Augustin Cochin spiega, in maniera originale e penetrante, come si modifica il concetto di libertà con l'avanzare del processo rivoluzionario: "Abbiamo distinto tre atteggiamenti dell'uomo nei confronti della libertà, a seconda che vi tenda attraverso l'opera, l'azione o il pensiero verbale. Verità reale, di fede; verità attuale, di scienza, verità sociale, d'opinione. A questi tre tipi di conoscenza corrispondono tre ordini di gerarchia sociale, tre generi di autorità o di libertà.

a) Nella società reale, il cui regime sociale è l'idea-tipo, la libertà è un termine lontano quanto una conoscenza adeguata, ma ciascuno vi gode una libertà relativa, proporzionata al suo grado di essere. Tutti i gradi di essere sono possibili. Sotto il vecchio regime, non si diceva la libertà o il popolo, ma le libertà, i popoli. Ogni provincia, ogni città, ogni corporazione ha le sue libertà. Ve ne sono di ogni genere e di ogni misura; non esiste funzione pubblica che non abbia la sua carta costituzionale, e tutte variano, si sviluppano, si perdono. Quanto all'autorità, essa appartiene di diritto a coloro che trovandosi per casta o funzione più vicini all'idea centrale l'incarnano in qualche modo, agli occhi degli altri. In tutto ciò non v'è nulla di arbitrario o di tirannico. si tratta unicamente di legittime distinzioni, utili alla stessa libertà degli inferiori, poiché rivelando loro l'ideale comune, rendendoglielo sensibile e incarnandolo, li si aiuta a realizzare se stessi, li si affranca. Non si può dire che l'uomo di qualità, il nobile, sia un tiranno, non lo è come non lo è il maestro per l'allievo, anche se lo fa lavorare senza discussioni: lo sviluppa secondo il suo essere. Se il nobile comanda agli altri, è perché realmente si trova davanti agli altri sulla via per la quale tutti si sforzano di procedere. Egli incarna, letteralmente, la perfezione della razza, il tipo, l'idea centrale.

Come sempre è la fede che fornisce gli esempi supremi: “più ci si dimentica di se stessi, più si è se stessi: per trovarsi bisogna perdersi; perché il seme germogli, è necessario che muoia”. La libertà reale nasce dal progresso stesso dell'essere.

b) Il regime parlamentare ha prodotto un'altra libertà: una libertà legale, politica, civile. Non è una libertà di fatto, come la prima. è di diritto, riconosciuta e illimitata per principio, ma in realtà limitata da ostacoli materiali: può manifestarsi solo in certe condizioni, in certe forme, in certi momenti. L'insieme di queste regole è la Costituzione. Non esiste più padrone, ma esistono ancora dei rappresentanti, non più autorità, ma potere. Questa libertà corrisponde esattamente alla verità attuale così come l'abbiamo definita. E' la volontà attuale della maggioranza, un verdetto fittizio, in quanto, come la legge scientifica, costituisce una soluzione di compromesso, una media tra le volontà individuali, media però che è praticamente e provvisoriamente sufficiente per stabilire una regola comune, un governo materiale. Un tale governo, se ha coscienza della propria origine, sarà liberale, ossia si asterrà da qualsiasi intervento nel campo del reale, allo stesso modo in cui la scienza ignora lo spirito. 

c) li regime sociale, infine, è alla base di un terzo tipo di libertà, che non è più né reale né legale, ma sociale, poiché deriva dall'esistenza stessa dell'associazione. Gli associati sono liberi appunto in quanto, grazie   “esistenza della società che dà un valore a questo nulla, si sono uniti soltanto per parlare, e non per agire. È l'anarchia nel senso etimologico del termine: assenza di autorità. Non più ope­ra, e dunque non più convergenza reale, né padrone che incarni la realtà centrale, e neppure rappresentanti. La convergenza reale nella opera è esclusa per principio, giacché non accade nulla fuori dell'assemblea. tutto finisce con il voto. E quindi nella nuova città la libertà non ha restrizioni, così come il pensiero non ha impegni: un rappre­sentante è inutile, dato che non c'è da deliberare; un padrone è odio­so, perché non c'è da lavorare realmente e la sua autorità avrebbe una ragione d'essere unicamente se dovesse dirigere l'opera e lo sforzo reali. Nel mondo della libera discussione l'autorità può essere soltanto tirannia. Disgraziatamente, l'assenza di ostacoli è solo una condi­zione negativa. Dal fatto di non avere “né Dio né padrone” non conse­gue necessariamente l'essere liberi" (26).

In una società tradizionale si hanno dunque le libertà concrete e naturali e non la libertà astratta, con la cui concessione la società ri­voluzionaria vuol fare dimenticare la soppressione delle prime. "Nessuno nasce iscritto ad un partito", ma ognuno nasce in una famiglia, in un comune, appartiene ad una professione. Siamo chiamati a vo­tare su problemi enormi e globali e poi non possiamo dire una parola su una infinità di piccole vessazioni con cui il mastodontico apparato dello stato centralizzato ci opprime, riducendo al minimo l'autono­mia dei singoli e delle società naturali. Gravano su di noi obblighi sco­nosciuti fino alla Rivoluzione francese, come la coscrizione obbligatoria.

Soprattutto, in una società tradizionale non ci può essere assolutamente uguaglianza tra bene e male, libertà per l'errore; semmai solo tolleranza, se ciò serve ad evitare un male maggiore. Intossicati da quasi due secoli dalla mentalità liberale, dobbiamo fare uno sforzo per capire che come a noi oggi può sembrare una enormità quanto ho appena scritto, altrettanto assurdo sarebbe apparso nel Medioevo il sostenere che il male dovesse avere gli stessi diritti del bene. La dot­trina della Chiesa su questo punto è chiarissima, da S. Tommaso ("Ora se il fine della vita presente è di conseguire la celeste beatitudine, dovere del Re è di procurare in tal guisa la retta vita della moltitudine, che essa sia adatta a raggiungere tal felicità, e imponga ciò che conduce a detta beatitudine, proibisca ciò che l'ostacola" (27) a Pio XII ("Ciò che non risponde alla verità e alla norma morale non ha oggettivamente alcun diritto né all'esistenza, né alla propaganda, né all'azione" (28) 

In effetti tutte le società pongono dei limiti alla libertà, al male, all'errore. C'è l'aborto, si liberalizzano le droghe leggere e per uso personale, ma non c'è, ancora, la libertà di fare l'apolo­gia dell'assassinio, la libertà di commettere oscenità in pubblico, la libertà di commercio della droga, ecc... Se i rivoluzionari fossero con­seguenti alle loro premesse ideologiche, e infatti i radicali sono su questa strada, non dovrebbero porre alcun limite alla libertà di parola e alla libertà di agire singolarmente o in gruppo come più aggrada, purché non si coinvolga in tali azioni chi non lo desidera. E invece i limiti ci sono, per ora. Anzi, quando avviene qualche fatto sconvol­gente, ci si chiede se non bisognerebbe, per prevenirlo, educare e reprimere. Ma tutto resta come prima, perché la società rivoluziona­ria non si riconosce il diritto di educare, di prevenire, di reprimere. Al massimo, ipocritamente, essa evita il totale disfacimento vivendo di rendita sui valori che si sono salvati dalla Rivoluzione, come ha scritto Augusto Del Noce: "E' da notare come questa società soprav­viva soltanto per un tacito ricorso alle riserve di quei valori perma­nenti, sulla cui negazione pure si è edificata" (29).


25)     Op. cit., pp. 7-8. 

26)     In Meccanica della rivoluzione, ed. Rusconi, 1971, pp. 194-197. 

27)     De Regimine Principum, cit. in de Mattei, op. cit., pp. 52-53. 

28)     Discorso ai partecipanti al V Convegno Nazionale dell'unione Giuristi Cat­tolici Italiani, 6-12 1953. 

29)     In Eternità e storia, cit., p. 51.

 

Capitolo XI: La maestra e Genoveffa




di Emilio Del Bel Belluz 


In paese era finalmente arrivata la nuova  maestra. Il parroco fu il primo che la accolse, e la perpetua volle farla accomodare in canonica perché si potesse rinfrescare, dopo il lungo viaggio in treno. La perpetua venne sorpresa  dai suoi modi gentili.  Era la prima volta che si allontanava da casa per andare ad insegnare. La maestra Silvana, dopo il conseguimento del diploma magistrale, aveva insegnato a  Brescello,  il paese dove era nata venticinque anni fa. Silvana si sentiva davvero molto stanca, ma non osava chiedere di potersi ritirare. 
La perpetua  le faceva molte domande sul suo passato. Con molta fatica rispondeva, cercando d’essere molto precisa, e di non far trasparire la sua poca conoscenza della vita. Poi suonò alla porta Genoveffa che, nel frattempo, era stata avvertita dal sacrestano che in paese era giunta la nuova maestra. Genoveffa in quei giorni aveva messo in ordine la casa, e aveva fatto dipingere la stanza dove avrebbe dormito la maestra. 
La camera era piuttosto grande, vi aveva collocato un tavolo con una sedia e un piccolo scaffale in legno di quercia che gli aveva fatto il falegname del paese con delle vecchie assi, avanzate da un precedente la lavoro. La perpetua andò ad aprire e la maestra appena la vide, le sorrise e ciò faceva ben sperare che tra loro due si potesse intessere un legame d’affetto. La giovane  Silvana le strinse la mano e, poco dopo, preso il suo piccolo bagaglio che si era portata dal paese, si avviò con Genoveffa verso la sua casa. Per la strada Silvana confidò le sue aspettative da questa nuova esperienza di vita. 
La maestra ringraziò Genoveffa per l’ospitalità offertale.  Dopo che vide la sua stanza, con impeto, Silvana abbracciò Genoveffa per dimostrarle la sua riconoscenza. Per cena Genoveffa aveva preparato delle pietanze ricercate e mi aveva fatto recapitare degli assaggi tramite un ragazzo che si era offerto di farle il piacere. Quella sera Genoveffa non si sarebbe recata da Vittorio e questo la rammaricava. Da tempo ero abituato a vederla per l’ora di cena e quella sera mi sentii solo. Venni preso dalla tristezza,  avrei voluto andare a trovare  Elena, ma era ormai tardi, e avevo passato la giornata a solcare il fiume per trasportare delle merci  per un cliente che mi aveva pagato molto bene. La stanchezza s’impadronì di me. Prima di dormire lessi qualche pagina di un libro che parlava di un pittore che dipingeva lungo il fiume. L’artista viveva in un mulino vicino al fiume. 
Da bambino aveva sempre avuto la passione per il disegno al quale dedicava molto del suo tempo. Una delle sue passioni era quella di ritrarre delle madonne che vedeva nella chiese, ed altre immagini sacre che trovava sui santini che il parroco ogni tanto gli donava. Il padre era convinto  che disegnare equivalesse a perdere tempo, e che questa sua passione lo distoglieva dal lavoro al mulino di famiglia.. Il suo interesse per il disegno era tale che anche alla luce della luna vi si dedicava. Gli bastava un foglio di carta e un mozzicone di matita per fare delle cose davvero notevoli. 
Questi disegni poi li appendeva  nella casa, e al mulino. La gente lo considerava una persona poco affidabile perché il disegnare non era considerato un vero lavoro. Il parroco del paese gli aveva fattore restaurare alcuni quadri che da anni erano rimasti in una soffitta. Il giovane aveva svolto un lavoro certosino ottenendo un ottimo risultato, tanto che il parroco si sentì in dovere di pagarlo e di voler parlare a suo padre sul futuro del ragazzo.  Il curato era un vecchio che aveva imparato molto dalla vita. Era stato un cappellano militare, ed era fiero delle sue posizioni conservatrici. Alla sera fece cucinare alla perpetua della selvaggina, e  incaricò il sacrestano di acquistare tre bottiglie di vino, ma ne consegnò solo due. Il parroco sapeva che l’uomo sorseggiava volentieri qualche goccio di vino e s’era accorto che il vino usato durante la santa messa era annacquato. Il padre del pittore arrivò presto all’appuntamento, e la perpetua lo fece accomodare. Il parroco giunse poco dopo come una furia. Salutò il padre del pittore e iniziò a parlare, dicendogli che il figlio andava incoraggiato nella pittura, bisognava fargli fare una scuola d’arte, affinché la sua dote non dovesse perdersi.  Il giovane doveva studiare, sarebbe stata una follia non farlo. 
Il padre  volle essere sincero e gli disse che le braccia del giovane erano molto utili al mulino e non se ne poteva fare  a meno. L’alternativa era quella di studiare come autodidatta ma la cosa non convinse il sacerdote, che dopo la lauta cena lasciò il padre che ritornò a casa con qualche sorso di vino in più e canticchiando. Il parroco comprese che, al momento, l’impresa era fallita e non se ne poteva fare nulla, ma era talmente convinto della propria idea che ne avrebbe parlato ancora.   Il giovane  nei giorni che seguirono fu ancora una volta richiesto in canonica per restaurare una tela che da troppo tempo era stata buttata in disparte.  Il quadro era stato rosicchiato dai topi in alcune parti e, precisamente, era mancante l’immagine della Madonna. Il prete per agevolarlo gli aveva messo a disposizione un Santino della Madonna dei Miracoli di Motta a cui era molto devoto. In occasione  del restauro aveva chiamato un frate che spesso veniva in paese con il suo asinello per l’elemosina. Costui che voleva conoscere il pittore si chiamava fra Silvio. Si diceva fosse un santo. La gente lo amava molto perché i suoi consigli erano davvero preziosi.  
Fra Silvio volle prima vedere il quadro da restaurare e poi il ragazzo. Il quadro era talmente preso male,  che il frate  disse che  non ne valeva la pena di fare qualcosa: la tela era troppo rovinata e sarebbe stato impossibile sistemarla. Il vecchio curato del paese non era d’accordo, un tentativo doveva essere fatto. Quel quadro era sicuramente del seicento e non poteva essere buttato. Fra Silvio allargò le braccia in senso di resa, aveva capito che non sarebbe riuscito a convincere il curato. Il quadro, come si rilevava dai documenti della parrocchia, era di un pittore  che durante un periodo di permanenza presso  una famiglia del paese, e essendo molto malato, aveva deciso di utilizzare il tempo che gli rimaneva da vivere, facendo un quadro della Natività. Si leggeva che quel pittore, un tale Pietro Sassi, era arrivato in paese accolto da una sua parente che aveva avuto pietà di lui. L’uomo aveva oltre settant’ anni, e aveva dipinto tutta la sua vita. La fortuna non lo aveva arriso, né reso celebre, ma si era guadagnato da vivere decorando le pareti delle case. La sua passione erano i paesaggi di campagna e quelli a tema religioso.  Quando arrivò a Villanova era ormai molto malato, le mani deformate dal lavoro e il suo cuore piuttosto debole. Negli anni era  rimasto in contatto con questa parente alla quale in certi momenti aveva fatto giungere qualche aiuto finanziario. Da una lettera ritrovata era scritto che il pittore Pietro aveva deciso di dipingere quel quadro come se una voce interiore glielo avesse suggerito, e portò a termine la sua opera proprio la notte di Natale; fu portata subito in chiesa e benedetta dal parroco. Il giorno di Natale il pittore, ormai alla fine delle sue forze, spirò. Quel quadro fu molto amato dalla gente, e l’uomo non fu scordato. Alla sua morte venne sepolto nel piccolo cimitero del paese, lo accompagnarono tutti gli abitanti che gli erano grati per quell’immenso quadro che arricchiva la povera chiesa. A trecento anni dalla sua morte non erano rimaste tracce della sua tomba ma quel quadro, che aveva reso felice un paese, doveva essere di nuovo rimesso a nuovo. Fra Silvio l’indomani sarebbe tornato a Villanova con dei pennelli e dei colori, oltre ad un pezzetto di tela da usare per il restauro.  
Il frate tornò al convento con un sacco di farina che il curato gli aveva dato. Era felice perché i suoi poveri avrebbero avuto il loro pane per alcuni giorni.   Quella sera il vecchio parroco dormì profondamente, aveva nel cuore la speranza che qualcosa di bello potesse accadere. L’indomani avrebbe chiamato il ragazzo, perché voleva farlo conoscere a Fra Silvio, e addormentandosi sognò la Beata Vergine.  L’indomani mattina per la Santa Messa delle sei vi era più gente del solito. Arrivò da Motta anche Fra Silvio con tutto l’occorrente per il restauro.  Il Frate assistette alla messa, e rimase anche per colazione. Poi arrivò il ragazzo che era fiducioso nel riuscire a portare a termine il difficile restauro della tela. Era molto rammaricato per il mancato consenso del padre di poter accedere alla scuola d’arte, e sapeva che tale decisione non sarebbe cambiata. Si mise subito al lavoro. Furono giorni febbrili, lavorava dalla mattina alla sera, in una stanza dove usciva solo per i pasti e per assistere alla messa. Il parroco gli aveva messo disposizione un letto per dormire la notte. Il compito di restaurare quel quadro era sentito come una missione da compiere a tutti i costi. Spesso di notte si alzava per controllare se i colori si fossero asciugati  e se non si notasse dove aveva aggiunto il pezzo di tela mancante.  Dopo una settimana volle mostrare il restauro, ne era uscito un quadro nuovo, perfetto come se lo avesse dipinto il povero pittore del seicento. Il giovane spesso gli era parso che la sua mano fosse guidata da una forza divina, la stessa che aveva avuto la prima persona che aveva dipinto il quadro. Il vecchio prete ne fu entusiasta e, naturalmente, con il suo somarello arrivò dal convento fra Silvio che ne rimase abbagliato dalla bellezza dei colori e dal perfetto ritratto della Madonna. Il frate abbracciò il giovane la cui mano era stata diretta da qualcosa di superiore, e gli promise che si sarebbe interessato a lui. 
Il destino del giovane cambiò. Fu accettato a lavorare da una contessa a Venezia, che s’era presa a cuore il suo caso. Il giovane, pertanto, poté frequentare l’ Accademia delle belle arti.  

domenica 12 giugno 2022

Capitolo X: Il vecchio e la vita.

di Emilio del Bel Belluz

Nel pomeriggio andai a trovare un amico a cui dovevo chiedere il suo aiuto per riparare la barca. Quando arrivai alla sua casa mi accorsi che n
on c’era, era dovuto andare a Motta di Livenza. Vidi solo un vecchio che se ne stava seduto all’ombra di una grossa quercia. L’uomo, che doveva essere molto anziano, si era fatto costruire una grande panca dove stava seduto per delle mezze giornate a vedere quei pochi uomini che passavano per la strada.

Quando mi avvicinai a lui, non mi riconobbe, era da molti anni quasi cieco, e si spostava a fatica. Gastone era il suo nome, aveva una barba fluente, bianca, come la neve, avrebbe potuto fare il babbo natale, data la sua grande somiglianza.  L’uomo chiese il mio nome e, una volta sentito, mi fece cenno di sedermi sull’erba per conoscermi meglio. Sul piccolo tavolo vicino alla panca aveva una caraffa di vino rosso, che attirava molte mosche. Ricordò subito che conosceva i miei genitori, e disse che il buon Dio li aveva accolti.

Un attimo dopo recitò una poesia che non avevo mai sentito e che mi commosse: “Siediti ai bordi dell’aurora, /per te leverà il sole. /Siediti ai bordi della notte, /per te scintilleranno le stelle. /Siediti ai bordi del torrente, / per te canterà l’usignolo. / Siediti ai bordi del silenzio, /Dio ti parlerà/.” Il vecchio disse che questa poesia era diventata un perno nella sua vita e me l’aveva recitata perché aveva intuito che ne avevo bisogno.

L’uomo conosceva la mia storia, sapeva che vivevo vicino al fiume, e che la mia vita non era facile, come non era stata semplice la sua vita di contadino e di combattente. Senza che gli dicessi nulla, prese un bicchiere di vino e lo vuotò d’un fiato. Con la manica della camicia si asciugò la bocca, e iniziò a farmi delle domande.

Gli piaceva parlare con i giovani, in un certo modo si sentiva maestro, uno che aveva molte cose da trasmettere.  Dopo un po’ che si discorreva, gli chiesi quali fossero stati i momenti più difficili della sua vita e come li aveva superati. I suoi consigli mi sarebbero stati d’aiuto, perché talvolta, mi trovavo in serie difficoltà e avevo timore per il mio futuro che mi sembrava incerto.  Il fiume spesso era avaro con i pescatori.

L’uomo sorrise e mi disse subito che una regola che aveva sempre cercato di rispettare era quella che se non si fa del male nella vita non si deve temere nulla. Dio assiste sempre le persone, non le abbandona. Il vecchio mi versò del vino che bevetti con molta avidità, volevo far vedere che non lo disdegnavo. Il vino era molto buono, e mi mise allegrezza.

L’uomo disse che da bambino era talmente povero che, assieme ai suoi fratelli, andava a cercare il ferro che la guerra aveva lasciato nei campi di battaglia. Il ferro che raccoglieva veniva dato a un panettiere che ogni giorno passava con la sua bicicletta che trainava un carretto per portare il pane.  Il ferro veniva scambiato con del pane. Un giorno fu felice d’aver trovato un pezzo di ferro piuttosto pesante che lo ferì alla mano. Accadde quello che non avrebbe dovuto mai accadere, la ferita si infettò e venne portato con il carro e i buoi all’ospedale.

Per la strada la gente cercava di capire quello che gli era successo, ma non lo sapeva nessuno. Quando giunse all’ospedale di Motta di Livenza, aveva una febbre altissima, e il medico dopo averlo visto, diagnosticò che aveva contratto il tetano. Tutti i muscoli del corpo si irrigidirono. La situazione si era fatta molto grave, sentiva sua madre che preoccupata ne parlava con il dottore. La stanza dove mi portarono era grande con alcuni letti dove vi stavano dei vecchi morenti. Aveva solo undici anni e sentiva che la vita se ne stava andando. Si sentiva sempre peggio e soffriva tremendamente.

 

Il medico disse a sua madre che per lui non c’erano speranze e riferì all’infermiere di chiedergli se sentiva quando veniva toccato.

 Se avesse risposto che non sentiva nulla per lui sarebbe stata la fine. Pertanto, quando l’infermiere gli pose la domanda, gli rispose che stava sentendo. Mia madre si mise a gridare, e furono costretti a chiuderla in una stanza a chiave perché le sue urla si sentivano fino in piazza. Mia madre era sicura che fossi già morto, e piangeva. A nulla valsero i tentativi d’una infermiera e di una suora a calmarla. Sua madre piangeva disperata. Accadde poi che quell’infermiere, sollecitato dalla sua risposta, si mise a massaggiarlo energicamente per una buona mezz’ora. Continuava a provare dolore, ma nello stesso tempo, iniziava a sentirsi più vivo, e meglio.

A mia madre distesa a terra che pregava e cercava l’aiuto della Madonna, le diedero la notizia che era salvo. Mia madre non ci credette, pensava che volessero consolarla.  Quando mi vide, svenne dall’emozione, e dopo alcuni giorni tornavo a casa su quello stesso carro con cui ero arrivato. Mia madre portò alcuni ceri alla Madonna. Da quel giorno sulla povera casa dove abitavano fu collocata una Madonna, per ringraziarla del miracolo avvenuto e mentre parlava il vecchio me la indicò. Il suo racconto mi aveva commosso e mi aveva fatto capire che bisognava sempre confidare nell’aiuto del buon Dio. Si era fatta sera, il sole cocente se ne era andato. Finalmente ritornò l’amico al quale volevo chiedere il favore. Mi fu proposto di fermarmi a cena da loro, che accettai di buon grado.

Ma prima di metterci a tavola mi volle raccontare della seconda prova a cui lo aveva sottoposto la vita. Un giorno con dei suoi amici stava andando alla sagra del paese, quando da un ponticello di legno scivolò nel fiume. Sommerso dall’acqua gelida si mise a gridare che lo salvassero, la corrente lo stava portando via, e aveva perso i sensi quando uno dei due amici lo portò in salvo. La temperatura di quell’inverno era molto rigida e assieme al suo amico bagnati fradici chiesero aiuto, bussando a una casa, dove videro che c’era un lume acceso.  

Vennero soccorsi da una donna e da suo marito, e fu una vera fortuna. La moglie, dopo averli asciugati, volle darli del brodo caldo che si rivelò miracoloso. Il vecchio cercò di alzarsi, ma le sue gambe erano piuttosto malferme, e mi chiese aiuto. Entrammo in cucina a mangiare un boccone, e il vecchio era felice d’avermi raccontato queste due storie che mi fecero capire come la vita ti potesse riservare dei momenti veramente tragici. Prima di partire mi abbracciò, dicendomi:”

La vera forza della vita passa attraverso il coraggio e la speranza che non devono morire mai. Una luce nelle avversità deve poter illuminarti il cuore e quella luce era il buon Dio, che non lasciava mai sole le persone “. Prima di andarmene mi misi d’accordo con l’amico per il lavoro che avremmo fatto l’indomani. Mentre mi allontanavo, osservai la piccola Madonna illuminata da una fioca luce.  Prima di giungere a casa osservai le stelle, avevo annotato in un foglietto la poesia raccontatami del vecchio e la lessi al fiume.

sabato 11 giugno 2022

Le ragioni della Monarchia - V

 


MONARCHIA E SOCIETA' TRADIZIONALI

 

Descriviamo la Monarchia e la società tradizionali. Anticipiamo subito che la Tradizione deve sempre avere un aggancio metafisico e religioso e poiché uno solo è il vero Dio, una sola è la vera Tradizione a cui dobbiamo rifarci. Ciò richiede un chiarimento preliminare con i tradizionalisti non cattolici. Come dimostra il fatto che ci siamo valsi dell'insegnamento di Evola, è possibile, in sede di dottrina monarchi­ca, una larga parte di cammino in comune tra tradizionalisti cattolici e non cattolici. Poiché il Cristianesimo ha recepito in sé, nella dottrina, si pensi a S. Tommaso che si serve della metafisica classica greca, e nelle istituzioni, nel Medioevo romano-germanico, parecchi elemen­ti del mondo tradizionale pre-cristiano, molti caratteri della Monar­chia tradizionale sono ugualmente rivendicati da cattolici e da pagani. A questi ultimi manca però l'aggancio finale e più alto, la roccia saldissima che solo possiede chi, abbracciando la dottrina e la fede cattolica, può arrivare alla dimostrazione razionale, data in maniera insuperata dalla filosofia scolastica e neo-scolastica, dell'esistenza di un Dio Persona e Creatore.

I costanti richiami che farò alla dottrina cattolica vogliono fornire alla dottrina monarchica la base più solida e vera; in una certa misura, il discorso generale può essere accettato anche dai tradizio­nalisti che tale base rifiutino, ma perde la più inattaccabile delle difese.

Ulteriore chiarimento richiede l'esistenza, attuale o potenziale, di monarchie, tradizionali e non, cristiane non cattoliche o di altre religioni non cristiane. Quanto a queste ultime, in esse possono sussistere, accanto ad elementi barbarici (la Tradizione non ha nulla a che vedere con il mantenimento acritico di usanze primitive), caratteri tradizionali affini al nostro modello, e comunque sarà sempre da preferire, nell'ambito di una stessa confessione religiosa, una Monarchia ad una repubblica. Il problema di una conversione alla vera religione di tali popolazioni non si vede come potrebbe essere posto diretta mente dai monarchici.

Una critica apparentemente fondata è quella di chi osserva che oggi esistono più monarchie protestanti che cattoliche. Ma, a parte che è stata appena restaurata la Monarchia nella Spagna cattolica, tale non schiacciante prevalenza dipende in molti casi più da ragioni storiche particolari che dalla religione della nazione. Il caso della Gran Bretagna, la più splendida delle monarchie esistenti, conferma che non si può generalizzare. Infatti, a parte che evidentemente le basi della Monarchia erano già saldamente poste quando il paese era cattolico, ciò che dà un contributo, ma non certo l'unico, importante alla solidità della Corona può essere certo la religione anglicana (essa è però in piena crisi ed ha recentemente compiuto scelte politiche di "sinistra"), ma più per il fatto di essere religione di stato con a capo la Regina che per il suo contenuto protestante, che, oltre tutto, tra le varie sette, è il meno lontano dal Cattolicesimo.


Ma il discorso di fondo è un altro. Se i monarchici vogliono vivacchiare cercando di salvare le monarchie esistenti a prezzo di qualunque concessione e sperando nella buona sorte per restaurarne qualcuna, possono benissimo trascurare tutto il discorso che segue e rifiutare di aderire alla vera religione. Se invece vogliono operare per una inversione del ciclo rivoluzionario degli ultimi secoli, convinti che ciò sia possibile o comunque debba essere tentato, e che solo in tal modo si possa avere un ritorno generale delle monarchie, allora evidentemente di tale discorso di restaurazione globale la vera religio­ne è il pilastro.

Descriveremo un modello meta-storico di Monarchia e società tradizionali e cattoliche; modello che si realizzò però largamente nel Medioevo. Dobbiamo chiederci: tutta la società nel Medioevo è tradizionale? Non è esistito nulla di tradizionale al di fuori di esso? Non potrà di nuovo esistere una società tradizionale? Vediamo l'insegna mento della Chiesa. Papa Pio XII ha detto: "Si pretende, sovente, identificare Medioevo e civilizzazione cattolica. La fusione non è del tutto esatta. La vita di un popolo, di una nazione, si svolge in un ambito molto vario che oltrepassa i limiti dell'attività propriamente religiosa. Quando una società rispetta, in tutta l'estensione del termine, i diritti di Dio e si interdice di varcare le frontiere poste dalla dottrina e dalla morale della Chiesa, a buon diritto può dirsi cristiana e cattolica.

 Nessuna civiltà può vantarsi di essere tale, così totalitariamente, nemmeno la civiltà medioevale, per non dire che essa era in continua evoluzione e che, in quell'epoca, andava arricchendosi di una nuova corrente di civiltà antica" (11).

D'altro canto S. Pio X scrive che: "La civiltà cristiana non è più da inventare, e neppure la nuova città da erigere nelle nuove. Essa è stata, essa è: è la civiltà cristiana, è la città cattolica" (12).

Il concetto di Civiltà Cristiana deriva dal dogma della Regalità Sociale di N.S.G.C. Il Papa Leone XIII afferma, riferendosi al Medio­evo, che. "Fu già tempo che la filosofia del Vangelo governava gli Stati, quando la forza e la sovrana influenza dello spirito cristiano era entrata bene addentro nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in tutti gli ordini e ragioni dello Stato, quando la religione di Gesù Cristo, posta solidamente in quell'onorevole grado, che le conveniva, traeva su fiorente all'ombra del favore dei Principi e della dovuta protezione dei magistrati, quando procedevano concordi il Sacerdozio e l'Impero, stretti avventurosamente tra loro per amiche­vole reciprocanza di servizi. Ordinata in tal modo la società, recò frutti che più preziosi non si potrebbe pensare, dei quali dura e dure­rà la memoria, affidata ad innumerevoli monumenti storici, che niuno artifizio di nemici potrà falsare od oscurare" ( 13 ).

 

Cosa concludere? Il Regno di Dio non è di questo mondo e quindi non potrà mai su questa terra realizzarsi nella sua forma per­fetta. "Ciò che non bisogna però dimenticare è che in un mondo cri­stiano (come la cristianità medioevale, ad esempio) il mondo, inteso nel senso delle tre concupiscenze e del rifiuto di Dio, ha una impor­tanza ben reale e fa sentire la sua influenza nefasta... le istituzioni, bene o male, erano conformi alla giustizia e permeate di spirito cri­stiano. Che cosa faceva allora il demonio? Tentava di distogliere i re e gli uomini dall'ideale di giustizia cristiana che era quello della cit­tà. Tuttavia, finché la citta, nell'insieme, rimaneva cristiana, non dive­niva in quanto tale uno strumento del demonio..." (14). COSÍ il mo­dello di Monarchia tradizionale non potrà mai realizzarsi compiuta­mente (ciò vale anche per tutti i progetti derivanti puramente da ideologie terrene, che non si realizzano mai in forma pura).

 

Però il Medioevo è la civiltà più cristiana che sia mai esistita, tanto che si parla, per quel periodo, di "Cristianità", intesa come "l'universalità dei Principi e dei popoli cristiani obbedienti alla stessa dottrina, animati dalla stessa fede, soggetti allo stesso magistero spirituale" (13). Il fine della nostra milizia di monarchici contro-rivoluzionari è la restaurazione della società tradizionale. Ciò sarà tanto più possibile quanto più sapremo in primo luogo esserne degni noi stessi. "Società tradizionale è ogni società fondata sul principio della Contemplazione, o del Sacro, o del Metafisico. In essa l'uomo ha due ordini di rapporti. Un primo con il Principio che lo trascende, ed è un rapporto metafisico, e quindi verticale, perché presuppone il salto qualitativo tra Creatore e creatura. Esso determina il posto dell'uo­mo nell'Universo. Un secondo con tutti gli altri uomini, ed è un rap­porto sociale, e quindi orizzontale, perché presuppone la eguaglianza metafisica tra le creature. Esso determina il posto dell'uomo nella società. E come ciò che è imperfetto deve riflettere ciò che è perfetto, come l'opera dell'uomo deve imitare l'opera di Dio, così l'orizzontale deve modellarsi sul verticale, l'ordine sociale deve rispecchiare l'ordine cosmico" (16).

 

In una società tradizionale, quindi, "Dio è misura" e vi è una gerarchia di valori, religiosi e metafisici, spirituali, morali, politici, economici.

La pietra angolare che garantisce l'esistenza e la sopravvivenza di tale società è la Tradizione, cioè "un insieme di principi aventi una immutata validità normativa e un carattere metafisico" (17). Ha scritto il grande Francisco Elias de Tejada: "La Tradizione si filtra due volte: in un primo passaggio sociologico, in un secondo etico. Nel primo, il suo contenuto va depurandosi naturalmente nel corso della storia. Nel secondo, la Tradizione si depura metafisicamente nella pietra di paragone assoluta che è la legge di Cristo" (18).

La Tradizione può dunque essere definita come il giudizio che il naturale senso morale formula sugli avvenimenti storici.

Mentre lo storicismo sottomette i valori al giudizio della storia, rimanendo privo di qualunque aggancio che possa salvarli dalla dissoluzione rivoluzionaria, il tradizionalismo giudica i fatti storici alla lu­ce della Verità, che è sovra temporale. Perciò il tradizionalismo sot­tintende una metafisica dell'essere quale quella della tradizione tornistica e una concezione della verità quale "Adaequatio intellectus ad rem", che è propria del realismo critico di S. Tommaso.

Il filosofo Luigi Pareyson ha scritto che "Il senso profondo di tradizione, quello che direi metafisico-ontologico, è proprio questo: sentire, pensare, volere e agire nell'infinito dell'essere" (19). Un atteggiamento filosofico che rifiuti una metafisica dell'essere porta, oltre che alla dissoluzione della filosofia stessa, al rifiuto del reale, ad una concezione prometeica della ragione umana, ritenuta capace di creare essa la realtà, alla utopia rivoluzionaria (20).

Dopo Hegel, viene necessariamente Marx,

La società tradizionale non nasce da un ipotetico contratto, ma è il naturale sviluppo della famiglia, delle comunità naturali, dei corpi intermedi; si fonda sulle tradizioni ed i costumi, senza necessariamen­te avere bisogno di una costituzione scritta (21 ); è organica, cioè si organizza attorno ad un centro, ad un'idea che tutta la informa.

La fonte del potere è Dio: "Per me reges regnant" (Prov. VIII, 15). Insegna Papa Leone XI I I:"Moltissimi dicono che ogni potere vie­ne dal popolo: per cui coloro che esercitano questo potere, non lo esercitano come proprio ma come dato loro dal popolo, e altresì con la condizione che dalla volontà dello stesso popolo, da cui il po­tere fu dato, possa venir revocato. Da costoro però dissentono i cat­tolici, i quali il diritto di comandare derivano da Dio, come dal suo naturale e necessario principio" (22).

È stato scritto che "Il Cattolicesimo consacrò l'autorità e san­tificò l'obbedienza". Va però precisato chiaramente che può invocare per il suo potere la "Grazia di Dio" solo l'autorità legittima l'autorità che, con la fedeltà quotidiana alla vera religione, unisca la legittimità di esercizio alla legittimità di origine. Altrimenti qualunque tiranno, interpretando erroneamente il "Non est postestas nisi a Deo" (Rom. XII, 1) (2 2 bis) potrebbe proclamare di essere l'unto del Signore. La "Grazia di Dio" deve essere ad un tempo segno di privilegio e di umil­tà: il Re cattolico davanti al confessore è uguale al più modesto dei suoi sudditi.

Sia detto per inciso che unire alla "Grazia di Dio" la "volontà della nazione" è un ibrido ed un assurdo. O la "volontà della nazione" è intesa nel senso che la Provvidenza divina che agisce nella sto­ria dei popoli consente che il Re continui a regnare, e allora essa è già compresa nella "Grazia di Dio". Oppure si vuole intendere, ed è questo il senso corrente, che l'autorità deriva a mezzadria da Dio e dal popolo, e allora ciò è in netto contrasto con l'insegnamento di Leone XIII, testé ricordato, e della Chiesa.

Si pone evidentemente il problema dei rapporti tra potere reli­gioso e potere politico. È chiaro che il primo è superiore, per la ge­rarchia di valori sopra accennata e per il fatto che il Papa, dotato a certe condizioni di infallibilità, è il custode del dogma, che costitui­sce la pietra di paragone ultima della Tradizione. Naturalmente l'au­torità religiosa deve lasciare la giusta autonomia al potere politico nelle questioni temporali. Si ricordi comunque che in una società tradizionale i due poteri devono collaborare per la salvezza celeste ed il benessere terreno dei sudditi. L'artificioso separatismo liberale, che vorrebbe scindere in una stessa persona il cittadino dal credente, non è concepibile. Le lotte tra Papato ed Impero nel Medioevo riguarda­vano i limiti delle rispettive zone di influenza, ma non fu mai messo in dubbio che i due poteri dovessero collaborare a maggior gloria di Dio ed a beneficio della Cristianità.

Bene sintetizza il Papa Gregorio X, dicendo: "Se è dovere di coloro che reggono gli stati salvaguardare i diritti e l'indipendenza della Chiesa, è anche dovere di coloro che hanno il governo ecclesiastico di adoperarsi affinché i Re ed i Principi abbiano la pienezza della loro autorità" (23).

Il potere del Sovrano è limitato dalle leggi divine e dalle tradi­zioni, non dagli uomini: "Quod rex non habet hominem qui sua facta dijudicet". Il giurista inglese Sir Edward Coke, in polemica con le tendenze assolutiste di Giacomo 1 Stuart, gli ricordò queste parole di Henry Bracton, giureconsulto dell'epoca medioevale:"Quod Rex non debet esse sub homine sed sub Deo et lege". Naturalmente la legge di cui qui si parla è la common law del diritto anglo-sassone, cioè ap­punto i costumi e le tradizioni, non certo la legge intesa quale norma impersonale e generalizzata emanante da un parlamento democratico. Se qualcuno pensa che il potere del Re non sia in tal modo efficace­mente condizionato, ricordi che "I secoli sono più forti dei Re". Nonostante l'assolutismo abbia rappresentato una degenerazione della Monarchia tradizionale, aprendo la strada, specialmente con l'assolu­tismo illuminato, alla Rivoluzione, non è affatto vero che nell'Ancien Régime immediatamente prima della Rivoluzione francese il potere del Sovrano fosse così illimitato come si vuol far credere. Alla vigilia del 1789 vi erano in Francia 4 Consigli Superiori e 13 Parlamenti (co me è noto i Parlamenti nell'Ancien Régime erano corti di giustizia che avevano il compito di vegliare sul mantenimento e sulla applica­zione delle leggi, unendo in una certa misura il potere giudiziario a quello legislativo). Molto più illimitato ed assoluto è il potere delle odierne democrazie totalitarie (24)


13)     Enciclica Immortale Dei, -11-1885

14)      R. Th. Calme!, Per una teologia della storia, ed. Borla,1967, p. 25.

15)      R. Pernoud, Luce del Medioevo, ed. Volpe, 1978, p. 98.

16)      R. de Mattei, La società tradizionale, ed. Volpe, 1972, P. 5

17)      Cit. in Trono e Altare, scritti inediti del Principe di Canosa, Ist. ed. del Mediterraneo, 1973, p. 5.

18)      In La Monarchia tradizionale, ed dell'Albero, 1966.

19)     Nel volume di AA. VV., Eternità e storia, ed. Vallecchi, 1970, p. 29.

20)     Sulle conseguenze della "ragione impazzita", cfr. M. De Corte, L'intelligen­za in pericolo di morte, ed. Volpe, 1973.

21)     De Maistre ha scritto che non ha senso chiedere in che libro sia scritta la legge Salica, perché essa è scritta nel cuore dei francesi (op. cit., p. 33).

22)     Enciclica Diuturnum, 29-6-1881, in Tutte le encicliche dei Sommi Ponte­fici, ed. Dall'Oglio, 1964, p. 364.

22 bis) Vedere sul tema: G. Torti, Non est potestas nisi a Deo, Ed. Thule, 1977.

23)     Cit. in Pernoud, op. cit., p. 100.

24)     Sull'ancien régime, cfr. i primi capitoli di P. Gaxotte, La Rivoluzione fran­cese, ed. Rizzoli, 1949. Sul concetto di "democrazia totalitaria", cfr. J.L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, ed. Il Mulino, 1967.


domenica 5 giugno 2022

Capitolo IX: Una maestra arriva in paese.

 


 di Emilio Del Bel Belluz

 

Negli ultimi giorni la pioggia era stata molto battente e incessante per cui non uscii in barca. Quello che mi aveva preoccupato era che il Livenza era salito di qualche metro, e le acque limacciose sembravano, data la loro velocità ed altezza, voler esondare. Il fiume trasportava sempre degli alberi che erano stati sradicati, ed alcuni di essi si fermavano lungo la riva, come se fossero dei naufraghi.  Non capitava spesso che ci fossero dei grossi alberi che spiaggiavano lungo la riva.  Gli alberi sembravano degli esseri umani che chiedevano aiuto. Si trattava di alcune querce, la cui lunghezza e robustezza evidenziavano che avevano almeno una decina d’anni. Quando trovavo degli alberi davanti alla mia riva li consideravo miei, e in questo modo, avevo la possibilità di fare legna da ardere per l’inverno. Il fiume mi faceva un grande favore, portandomi questi doni. Non era raro che giungesse qualcosa di piuttosto importante, una volta trovai vicino alla riva una barca che si era slegata e la recuperai. Il padrone della barca era venuto a cercarla e mi donò del denaro per avergliela condotta in salvo. 

Questa persona ogni tanto mi veniva a trovare, gli piaceva parlare con me, e anche questa amicizia era nata grazie al fiume. Con la piena non avevo potuto andare a trovare Elena. Mi era capitato di vederla dall’argine che mi salutava, ci volevamo bene e questo era davvero molto importante. Il nostro legame mi faceva sentire più felice, e mi creava una forza nuova dentro di me. Spesso nei momenti in cui mi trovavo ad aggiustare le reti, anche se ero solo, mi capitava di parlare con lei, di raccontarle cosa stavo facendo, e dei mille progetti che mi passavano per la testa. Il mio futuro era immaginabile solo con lei. Una volta la sognai che mi aspettava davanti alla mia casa, mentre ritornavo dalla pesca. Elena nel sogno era assieme ai nostri figli, che mi venivano incontro, uno di loro mi prendeva in mano il cappello da marinaio che di solito avevo calato sulla fronte.  Questa scena famigliare mi sembrava il regalo più grande che un uomo potesse avere dalla vita. Poi entravo in casa, mi sedevo davanti al fuoco stanco, e dopo aver mangiato un buon boccone m’intrattenevo a giocare con i miei figli. 

Mi sedevo sulla poltrona posta vicino al fuoco, alimentato da un grosso ceppo che riscaldava le pareti della casa, asciugandone l’umidità della notte.  Elena in questo sogno mi guardava incantata ed entrambi ammiravamo la nostra casa che era diventata più accogliente dopo le migliorie apportate. Elena aveva il nome di una regina che era tanto buona e di cui spesso si leggeva nei giornali. Molte volte la moglie del sovrano appariva in certe copertine di giornali per signore, che Genoveffa ci donava. La Regina Elena, intervenuta durante il terremoto di Messina del 1908, aveva salvato con la sua insistenza nelle ricerche, una bambina. Sempre dai giornali si leggeva come la Regina si prodigasse in tantissime opere benefiche. In questo sogno avevo immaginato che nel giorno di Natale a mangiare nella nostra casa fosse arrivata la Regina, la cui foto era in bella mostra su una parete della mia classe.  Una donna che era stata mandata dal buon Dio per aiutare gli altri, per essere la mamma di tutti gli italiani.  Quella mattina, nel risvegliami dal sogno che avevo fatto, volli subito mettermi a scrivere tutto quello che mi ricordavo. A scuola non ero molto brillante in italiano, ma mi accontentai di appuntare sul foglio alcune frasi che mi facessero ricordare quello che avevo vissuto. Anche se era un sogno conteneva delle speranze che avrei voluto si verificassero nella mia vita. 

Poi decisi che era tempo di tornare al fiume, il cui livello si era rialzato di altri centimetri.  C’erano delle persone che osservavano dall’argine e uno di loro guardava con un cannocchiale. Quando mi avvicinai, mi accorsi che si trattava di tecnici che erano venuti per delle rilevazioni. Mi presentai a loro, mi accorsi che conoscevano bene la situazione, e mi parlarono di un argine, che distava pochi chilometri dal luogo dove eravamo, che aveva ceduto. Alcuni uomini stavano chiudendo la falla con dei sacchi di terra. Uno di essi mi chiese se avevo paura del fiume, gli raccontai che ne avevo viste di piene, ma ringraziando il buon Dio tutto era andato bene. Quando ci si affida alla Divina Provvidenza non si resta mai delusi e ripetei la frase che mio padre diceva sempre nei momenti difficili: “Dio vede e Dio provvede”. Salutai quella gente e me ne tornai a casa. Nella cucina c’era Genoveffa che stava lavando i piatti, e non mi aveva sentito arrivare, mi accolse con un sorriso come di chi avesse qualcosa da dire. Genoveffa era felice che il parroco le avesse chiesto di ospitare nella sua casa la nuova maestra che stava arrivando in paese. 

La donna veniva da lontano e il vecchio prete aveva pensato che Genoveffa potesse ospitarla.  Quando mi raccontò di questa novità ne fui felice, non mi dispiaceva che arrivasse una   nuova maestra, che in qualche modo sarebbe stata una boccata d’ossigeno per il paese.  La maestra sarebbe arrivata nei prossimi giorni, il prete aveva già commissionato al vecchio Davide di andarla a prendere a Motta di Livenza.  Genoveffa fu gentile come sempre, volle prepararmi un buon pranzetto, con della carne che aveva comprato in una casa di contadini che conosceva molto bene. Ieri avevano ucciso dei polli e ne aveva comprato uno.  In quei giorni non potevo uscire con la barca, la cosa mi infastidiva; la sola buona notizia era che la pioggia era cessata, dalla finestra era entrato il sole, e corsi fuori a vederlo, come se fosse un ospite gradito. Mi sedetti fuori dalla casa, e da qualche tempo avevo cominciato ad usare una vecchia pipa che doveva essere appartenuta a qualcuno di famiglia. La trovai in una scatola tra gli oggetti di mio padre. Avevo comprato del tabacco alla bottega e mi sentivo come un lupo di mare, ne avevo aspirato qualche boccata e sentendomi tossicchiare uscì dalla cucina Genoveffa che scherzò sul fatto che non sapessi fumarla. 

L’odore del tabacco che costava molto poco aveva reso più familiare l’aria, Genoveffa si avvicinò per farsi consegnare la pipa come se fosse una mamma con il figlio, ma non vi riuscì. Allora mi disse che se volevo sembrare più vecchio dovevo farmi crescere la barba, così avrei avuto le sembianze di un lupo di mare. Quella frase mi fece sorridere, presi un vecchio giornale e mi misi a leggere. Se il tempo fosse rimasto clemente, l’indomani avrei potuto andare da Elena e questa era la cosa più bella che potessi chiedere alla vita. Quella lontananza mi aveva fatto capire che Elena era importante nella mia vita. Osservai la sua casa, e vidi che il camino stava fumando, e la immaginai indaffarata nelle faccende domestiche. Il tempo migliorò sensibilmente nel pomeriggio, e riuscii a recuperare alcune reti che avevo calato prima che la pioggia fosse scesa così copiosa. Una rete non fu facile issarla, perché vi si erano infilati dei rami, e un oggetto metallico che la corrente aveva portato giù. Era un elmetto militare della Grande Guerra, che magari era caduto a un soldato mentre navigava il fiume. Proprio in quella zona si erano effettuati dei combattimenti, quando l’esercito Austro- Ungarico si stava ritirando. Un vecchio del paese mi aveva raccontato che vi erano stati dei morti da entrambe le parti. 

Una bomba era caduta su una casa vicina alla chiesa, e qualcuno era stato ucciso. Pensai che questo elmetto fosse un piccolo tesoro che il fiume m’aveva fatto ritrovare. Lo presi e lo misi nella barca assieme al pesce che avevo trovato nelle reti. Trovandomi a poca distanza dalla casa di Elena decisi di andarla a trovare. Fu per lei una sorpresa, e non vedeva l’ora di comunicarmi che non avevano più intenzione di lasciare la casa lungo il fiume. La notizia mi riempì di gioia. Questo significava che il nostro legame si sarebbe fortificato e magari, tra qualche tempo, si sarebbe potuto parlare di fidanzamento. Quel giorno la baciai mille volte. Entrammo in casa, la madre m’invitò a cena che rifiutai perché non potevo attardami, visto la piena del fiume.  Quando Elena mi accompagnò alla barca le donai del pesce, e le mostrai l’elmetto che il fiume mi aveva restituito. Lo prese in mano e mi accorsi che una lacrima le solcava il viso, perché immaginava che potesse appartenere a un soldato ucciso in guerra. 

Nel cuore di Elena regnava la speranza che le guerre non potessero più avvenire.  Le raccontai che avevo sognato la regina Elena che veniva nella nostra casa a trovare i bambini che avevamo. Questo sogno le piacque tanto, mi abbracciò, e mi baciò. La barca scivolava nell’acqua limacciosa, ma il nostro amore era limpido come una sorgente di montagna.

giovedì 2 giugno 2022

IL LIBRO AZZURRO SUL REFERENDUM

Nella data posticcia del 2 giugno pubblichiamo in un unico post il sommario di ogni capitolo ed ogni paragrafo del "Libro Azzurro".

L'occasione è cara perché quando iniziammo c'erano sia l'Ambasciatore Camillo Zuccoli sia l'Ingegnere Giglio che rispettivamente, ebbero  l'idea e fornirono il libro che poi abbiamo fedelmente riportato sul blog.

Ai nostri amici carissimi, a Camillo e zio Domenico, facciamo  ancora riferimento nella nostra attività.

Nel loro ricordo e con il loro esempio continuiamo.
Buona lettura!



IL LIBRO AZZURRO SUL REFERENDUM

Premessa 1

Premessa 2

 

Capitolo 1 

Nomina di Umberto a Luogotenente generale del Re

1

Capitolo 

Tregua istituzionale

1

2

Capitolo 3 

Condizioni di legalità per il referendum istituzionale

1

2

3

Capitolo 4 

L'abdicazione di S.M. il Re Vittorio Emanuele III e la successione di

 Umberto II

1

2

Capitolo 5 

La legge del referendum

1

2

Capitolo 6 

Esclusioni del diritto del voto per il referendum

1

2

3

Capitolo 7 

La campagna per il referendum

1

2

3

4

Capitolo 8 

La vigilia del referendum

1

Capitolo 9 

La votazione

1

2

3

Capitolo 10 

I brogli

1

2

3

4

Capitolo 11 

Ricorso dell'on. Selvaggi (consiglio dei ministri dell'8 giugno)

1

2

3

4

5

6


Capitolo 12 

La suprema Corte di Cassazione

1

2

Capitolo 13 

Il verbale della Corte di Cassazione del 10 giugno

1

2

3

4

5

6

Capitolo 14 

Gli alleati

1

Capitolo 15 

Colpo di Stato

1

2

Capitolo 16 

Il proclama del Re del 13 giugno

1

2

Capitolo 17 

La parola alla legge

1

Capitolo 18 

Interferenze estere coll'intervento di Molotoff

1

Capitolo 19 

Dopo la partenza del Re

1

2

3

4

5

  

Capitolo 20 

Osservazioni di giuristi sul criterio adottato per stabilire la

 maggioranza e sul numero dei votanti in rapporto alla popolazione

1

2

Capitolo 21 

Studio sui risultati ufficiali del referendum istituzionale del 2 giugno

 1946 del prof Agostino Padoan

1

2

3

4

5

6

7

8

Capitolo 22 

La questione istituzionale esiste ed è aperta

1

2