di Julius Evola
articolo pubblicato grazie alla cortesia del Nostro amico, Marco Clarke

Pertanto, si dovrebbe capire quanto pericoloso sia
entrare in polemiche nelle quali si considera la "quistione
istituzionale" in semplici, vuoti e disaminali termini giuridici, la
Monarchia venendo implicitamente posta sullo stesso piano di altri regimi
politici : per cui, per la sua difesa dovrebbero essere addotti argomenti di
convenienza politica nel senso più volgare e «moderno» - cioè profano, «sociale», utilitaristico e
materialistico - della parola. Non che questi argomenti non abbiano il loro
peso e ad essi nell'attività, che questa rivista intende svolgere, si darà
indubbiamente il dovuto risalto. Ma tali aspetti concreti non sono che
consequenziali non toccano la dignità del simbolo monarchico in sé stesso,
dignità in ordine alla quale non dovrebbe essere ammessa alcuna discussione.
Il fondamento
essenziale gli ogni vera Monarchia è, infatti e appunto una sua sacrità reale e
tradizionale che da nessun'altra forma di reggimento politico saprebbe essere
rivestita. Il fatto che per circostanze contingenti legate alle ideologie che
hanno propiziato i moti del Risorgimento in Italia la Monarchia non ha potuto
affermarsi nella pienezza della sua potenza, non deve dar dimenticare che il
suo prestigio e il suo diritto sempre e dovunque si trassero da una sfera
superindividuale e spirituale: investitura, “diritto divino” e genealogie mistiche e così via, non
sono che modi figurati per esprimere il fatto essenziale sempre riconosciuto, e
cioè che un vero ordine politico, una unità veramente organica e vivente si
rendono possibili liti solo dove esista un centro, un principio sopraelevato
rispetto a qualsiasi interesse particolare, avente in proprio l'autorità e
l'intangibilità derivanti dal crisma insito in una forza dall'alto. Se in tempi
passati, ma già appartenenti alla cristianità, si poté perciò parlare di una
religio regalis (significativamente associata alla figura biblica di
Melchisedek) e di un sacramentum
fidelitatis – formula che conferiva, per analogia, la dignità di un
sacramento all’impegno di fedeltà del seguace e del suddito rispetto al Sovrano
– questa mistica si conservò anche più tardi, come anima più o meno avvertibile
di un etica speciale, dell’etica, appunto della fedeltà, della lealtà,
dell’onore. E questi sono valori che non possono avere il loro dispiegamento quando
manchi un punto superiore di riferimento, un simbolo personalizzato, reso
vivente ed evidente dall'alta statura di un principe, di un capo. In tempi
normali, che l’uomo non sia sempre all'altezza del Principio di una specie di
“ascesi del potere” (quella stessa che Platone considerò indispensabile in chi
accetta una funzione di capo), ciò non importa: la sua funzione resta sempre
imprescrivibile ed intangibile, perché non è all'uomo, bensì al Re che si
obbedisce, e la sua persona vale essenzialmente come un supporto a che si desti
quella capacità di dedizione superindividuale, quell'orgoglio nel servire
liberamente, quella prontezza all'azione e al sacrificio attivo (ove esso sia
necessario), che vanno a costituire una via di elevazione e di dignificazione
per il singolo, e nello stesso tempo, la forza più potente per tenere insieme
la compagine di un organismo politico.
Che tutto ciò non possa realizzarsi nella stessa misura in
un'altra forma di reggimento politico è chiaro. Un "Presidente" può essere
ossequiato, ma in lui non potrà mai essere riconosciuto altro che un
“funzionario” un “borghese” come un
altro, che solo estrinsecamente è investito da una revocabile e assai
condizionata autorità. E se conserva un senso vivo che ogni uomo ben nato, ogni
uomo di buona razza ancora percepisce, il «combattere por il proprio Re”, il
“morire per l'onore ed il diritto del proprio Re”, tutto ciò non può non presentare una coloratura parodistica
e quasi grottesca quando è al "proprio Presidente" , che, invece, ci
si dovesse riferire. In clima di repubblica predomina fatalmente il
nietzschiano "umano, troppo umano": nessuna realtà superiore
adombra l'uomo. E in regime di “contratto sociale” chiedere all'individuo un
comportamento che comunque porti di là del suo mero vantaggio personale sarebbe
come chiedere all'azionista di una società per azioni di sacrificarsi per la
società stessa che non incorpora nessun valore superiore, nessun diritto
superiore.
E’ vero che nei tempi più recenti alla mistica aristocratica
della Monarchia si è cercato di sostituirne un’altra, degradata, facendo intervenire idee o
retoriche sostanzializzate nate più o meno nel clima della rivoluzione
giacobina. In primo piano più che il Sovrano, si vorrebbe mettere la “Patria”,
la “Nazione”, il “Popolo”.
E’ in tal senso che si realizzarono le prime fasi del
franamento collettivistico che accende una inesorabile concatenazione, doveva
condurre per gradi dal ciclo dalla
grandi monarchie europee fino al socialismo, comunismo e bolscevismo. Il
ricorso a tali entità in effetti, non è che un
fenomeno regressivo : patria e
nazione non sono nulla più di un dato naturalistico elementare e nella
loro verità non vanno cercate in basso, nella sostanza promiscua del demos, del
“popolo”, ma in alto, ove ciò che è diffuso nella moltiplicità si raccoglie, si
personalizza, viene ad atto: non alla
base ma al vertice della piramide. E come anticamente poté dirsi «Dove è
l'imperatore là è Roma», così in un
sistema politico virile, personalizzato, ben articolato, anticollettivistico
può ripetersi, che è nel Monarca veramente all'altezza del simbolo da lui
incarnato che vivono la Patria e la Nazione: nella Monarchia l'una e l'altra
ricevono un superiore crisma.
E' tutto questa quasi fino a ieri lo sentì lo stesso
popolo, nel fluido indefinibile, misterioso legato alla persona dei Sovrani,
ben diverso da quanto può riferirsi a «stati di folla» di semplice esaltazione
patriottica momentanea, o quali l'arte
demonica di un tribuno del popolo, o capo popolo può suscitarli. Con la
Monarchia e col sistema gerarchico di cui essa dovrebbe essere la naturale
conseguenza al nazionalismo moderno, fenomeno di sospetta origine, i cui
effetti devastatori per l'Europa sono ad
ognuno noti, si sostituisce il senso sano, normale tradizionale della nazione
(della «nazionalità»), e liberata la sfera politica da nebulosi miti possono
avere giusto risalto quei superiori valori della personalità etica e spirituale
che trascendono necessariamente il fatto naturalistico della mera appartenenza
ad un particolare ceppo etico e ad una data comunità storica e che sono la base
per una sana differenziazione.
Questi contenuti dell'idea monarchica sono
essenziali, e nel riconoscerli dovrebbe apparire anche chiaro quale è la
principale premessa per una restaurazione monarchica: è una atmosfera un clima
spirituale clima che è quello proprio ad ogni vera civiltà tradizionale e che
si contrappone al materialismo Politico moderno. Vi è un equivoco fondamentale
circa il piano su cui, con netto distacco della prassi degli avversari, si
dovrebbe impostare l'azione. Affinché la Monarchia sia riconosciuta secondo la
dignità e la funzione di cui abbiamo or
ora detto, occorre che sorga nuovamente una sensibilità per tutto ciò che è
rango, gerarchia, dignità, onore e fedeltà, perché tutti questi sono valori che
nella Monarchia hanno il loro centro di gravità, mentre a loro volta, la
Monarchia risulterà come paralizzata, ridotta ad una sopravvivenza formale
quando questi valori non siano vivi ed operanti, quando essi, almeno in una
élite, in una vera classe dirigente, non abbiano di fatto la preminenza di
fronte a tutti gli altri di un piano più condizionato utilitaristico e
realistico in senso deteriore. Non sono le stesse corde che il difensore
dell'idea monarchica e quello di un qualsiasi altro sistema debbono far
risuonare nel singolo: così vi è qualcosa di ridicolo, di deleterio appunto per
quei fattori più sottili, per quella
“mistica” di cui si è detto, nell'affidare i destini dell’idea monarchica ad
una prassi partitistica più o meno ricopiante i metodi degli avversari.
L'essenziale per la causa monarchica è invece la
possibilità, o meno, che quello speciale tipo di sensibilità sia presente o
sufficientemente diffuso. Propiziarlo e rafforzarlo fino a creare un clima
generale è quel che veramente importa.
In tali termini l'affermarsi del simbolo monarchico e
il prestigio di esso avranno anche il valore di un indice segnaletico,
testimonieranno della presenza, in una data società, di un tipo umano
differenziato, perché i calori di cui si è detto sfuggiranno come acqua fra le dita a chi
pensi solo in termini di, materia e di
vantaggio personale e non abbia il senso di ciò che non si lascia né vendere né
comprare, né usurpare nelle dignità e nelle partecipazioni alla vita politica
Tutte queste sono cose che purtroppo oggi assai pochi
capiscono ancora. Anche le persone che dimostrano le migliori intenzioni oggi
sono succubi delle suggestioni dei
metodi e dell’abito mentale di un
mondo politico degradato. Eppure è su di esse che si dovrebbe insistere
perché questa è la pietra di prova, questo è il vero punto di partenza.
Chi vuole restituire alla Monarchia il suo prestigio,
e prepararne quindi la restaurazione, deve fare appello a forme diverse di
sensibilità, di interesse, di vocazione, a forme sostanzialmente diverse da
quelle su cui il demagogo il politicante democratico e l’agitatore marxista,
fanno leva e su cui contano per il loro successo, sinonimo di sovversione:
altrimenti oseremmo dire che la battaglia già partenza è pregiudicata nel suo
esito da un equivoco fondamentale.
E’, in una parola ad un tipo di uomo esistenzialmente
opposto ad u altro tipo di uomo che il monarchico deve parlare; e una nazione
non spezzata questo tipo di uomo deve essere capace di produrlo.
Come controparte occorre naturalmente che l'idea
venga definita rigorosamente anche nei termini di una dottrina dello Stato, la
struttura positiva dello Stato facendo in un certo modo da corpo, la mistica
della Monarchia facendo invece da fluido animatore, per usare l’espressione
aristotelica, da "entelechia", a questo corpo. Si è detto che in via
normale quando il mare della storia è relativamente calmo, il simbolo non può
essere pregiudicato dall'aspetto soltanto umano della persona che in qualche
caso lo incarna. In tempi, come gli attuali, occorrerebbe però che una tale
eventuale disequazione fosse ridotta ad un minimo, proprio con riguardo a quel
fattore spirituale immateriale, di cui abbiamo parlato: nella misura in cui un
Re rivendichi ancora il titolo tradizionale di «Maestà», occorre che questo
titolo non si riduca a un semplice articolo d'inventario del cerimoniale.
Bisogna che la dignità, diciamo così così, non profana di un Sovrano sia assi
curata di contro a certe errate concessioni alla «modernità». E per le ore decisive,
per il momento dell'azione, non sia dimenticato il detto che ci viene
dall'antica sapienza: Rex est qui nihil metuit - « E' Re chi nulla teme ».
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