NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 30 giugno 2010

LETTERA APERTA AI MONARCHICI D’ITALIA


Padova, 1 giugno 2010
Cari amici del variegato mondo monarchico italiano, e per amici intendo anche coloro che proprio non la pensano come chi scrive (ci capiamo vero?) credo che, dopo vani tentativi riservati e privi di riscontri positivi, dopo altri invece d’interessanti come quello vissuto recentemente in Sicilia, in prossimità delle assordanti (quando mai!) celebrazioni per i 150 anni della proclamazione del Regno d’Italia Sabaudo concomitanti con quelle dell’Unità della Patria, in verità raggiunta dopo la IVa Guerra d’Indipendenza nel 1918, sia giunto il momento di guardarci lealmente negli occhi, individuare e riconoscere quei Valori che certamente ci uniscono e, per quelli, decidere se continuare a rimanere nell’ombra di nostalgici ricordi ovvero ritrovare una unità operativa nel nome dell’Italia e
di quel Tricolore che tutti ci unisce.

Sto pensando ad una proposta – per il momento solo un’idea che vi invito ad elaborare assieme – che potremmo sviluppare unitariamente lasciandoci trasportare da quegli ideali che condividiamo tralasciando la contingenza di quei problemi che innegabilmente ci separano o comunque possono oggi essere di ostacolo a quel processo di rinnovamento istituzionale che da più parti i monarchici italiani ci chiedono anche nella speranza di un ricambio generazionale ai vertici delle nostre Organizzazioni ed Associazioni.

Tanto i nostro Riferimenti sembrano aver fatto scelte diverse da quelle che tutti noi ci aspettavamo. Gli ideali monarchici, per essere realizzati e vissuti, devono appartenere al Popolo e non essere patrimonio di qualche individuo.

Parto quindi dalla convinzione che tutti noi amiamo la nostra Patria e ne abbiamo a cuore le sorti tanto più trovandoci inermi spettatori di un decadimento istituzionale e politico così gravi che potrebbe venir meno la struttura democratica dello Stato.
Da quando ricevetti il mandato di governare il Movimento Monarchico Italiano, riconoscendone gli ideali costitutivi del 1984, ho cercato in tutti i modi a non commettere l’errore di lasciarmi coinvolgere nella polemica dinastica perché prima sono monarchico istituzionale e poi perché ritengo che il problema, pur sollevato da altri con dovizia di argomentazioni (!), non debba necessariamente essere risolto ora, tanto più che, pure nella legittima aspirazione di una nuova Monarchia in Italia, non ne vedo l’avvento in tempi brevi e comunque penso che tale diatriba possa essere sospesa di fronte a obiettivi più concreti ed immediati.

Dico di più, la disputa dinastica, se ripetutamente alimentata, continua ad essere organica ad una campagna d’informazione denigratoria che, coinvolgendo direttamente le immagini dei Principi – tutti indistintamente - e della Casa Reale d’Italia, di fatto arreca inevitabilmente un grave danno anche a tutti noi.
Ed aggiungo che, in prossimità delle celebrazioni per il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, avremmo certamente bisogno di tranquillità; sarebbe un esempio di enorme importanza anche per rafforzare quella “armonia nazionale” che fermamente chiediamo e che potremmo toccare concretamente con mano solo dopo la sepoltura al Pantheon di Roma delle Salme dei nostri amati Sovrani che ancora rimangono sepolti in terre straniere.
Se amiamo Casa Savoia, la Dinastia millenaria che ha unito l’Italia e non ho dubbi che sia così, se riteniamo di essere “prima italiani e poi monarchici”, se pensiamo di poter essere utili anche politicamente al nostro Paese, è nostro dovere preoccuparci innanzi tutto del degrado dell’attuale situazione di una comunità, la nostra, che ha perso ogni ideale di riferimento, ogni etica, non sentiamo l’orgoglio di essere italiani e il senso di appartenenza ad un grande Popolo inferiore a nessuno
per arte e cultura . Noi possiamo farlo, ma solo se sapremo ritrovarci in un progetto condiviso. Forza amici, l’esempio venga prima da noi!
Non sarà facile, ne ho la consapevolezza.
Ma almeno noi, se ci proveremo, avremo la coscienza a posto e i segnali che mi giungono da più parti sono di conforto ad una azione autonoma per una proposta politica riformatrice dello Stato nel riconoscimento di quei Valori che furono propri dei nostri Avi e in tutti coloro che hanno creduto nel Risorgimento.

Se un giorno riusciremo, mantenendo alte le insegne delle nostre associazioni e sventolando la Bandiera Tricolore che ci accomuna, ad impegnarci con umiltà, onestà e rispetto per quello che io penso potrà divenire un nuovo soggetto politico avremo certamente adesioni, credibilità e possibilità di partecipare, finalmente con una nostra ritrovata comune identità, a quelle iniziative politiche che ora, per la nostra frantumazione e debolezza, ci sono precluse nonostante i nostri sani ideali.
Ciascuno di noi è costantemente avvicinato dal mondo politico, ma esclusivamente a titolo individuale e questo al sottoscritto piace poco perché funzionale alla ricerca di quei consensi che mai sono valorizzati!

Che fare quindi?
La mia è solo, ripeto, una idea che vorrei sviluppare con voi trasformandola in proposta concreta, patrimonio e mission delle nostre organizzazioni ed associazioni.
Ovviamente dopo i necessari approfondimenti, credo che potremmo formalizzare, farci carico e lanciare pubblicamente l’iniziativa degli “Stati Generali Monarchici”; una sorta di laboratorio, anche aperto a qualificate collaborazioni esterne, che dopo un serrato confronto sui temi che in comune individueremo proponga una “Costituente Monarchica” da realizzarsi a Roma magari nel 2011.
In tempi brevi potremmo istituire una sorta di “testa pensante” per elaborare un concreto programma di lavoro che aspirerei fosse realizzato, innanzi tutto, dalla “base monarchica” attraverso commissioni o gruppi tematici di lavoro.
Temi già alla nostra attenzione e che potrebbero sfociare in una sorta di “Libro Bianco monarchico” condiviso, ripeto rimanendo però in tema di proposta istituzionale e politica, non dinastica.
Da tutto questo dovrebbe sortire poi una proposta operativa concreta per un’azione politica partecipata e condivisa con un nuovo soggetto da inventare; un nuovo soggetto capace di concretizzare un’azione credibile, seria, onesta e occupare spazi di sicuro interesse, non fosse altro che per le argomentazioni a noi usuali che sapremo proporre con maggiore forza e convincimento.
Forse vi appaio eccessivamente preoccupato, ma ho la convinzione che non trovando qualche nuovo stimolo continueremo a commemorare il passato sprecando idee e risorse; credo che nessuno di noi, individualmente con la propria associazione, pur con ogni migliore volontà, abbia la possibilità di riuscire in una tale iniziativa e quindi diamoci una mano finché siamo in tempo!
Chiunque intenderà partecipare allo sviluppo di questa proposta, che nel motto “l’Italia innanzi tutto” potrebbe coinvolgere anche chi nella monarchia non crede e spera comunque nel bene della nostra Patria, mi contatti al seguente indirizzo di posta elettronica: segreteriammi@libero.it.
E gridiamo assieme Viva l’Italia Unita, viva il Tricolore!
Alberto Claut
Segretario Nazionale MMI

lunedì 28 giugno 2010

Le nozze della regina normale

«Nunca mas» aveva detto re Juan Carlos di Spagna dopo che Vittorio Emanuele di Savoia aveva steso con un pugno il cugino Amedeo al banchetto di nozze di suo figlio Felipe, a Madrid, sei anni fa. Una condanna che adesso alle nozze di Victoria di Svezia, sembra compiersi. Nessun Savoia e nemmeno Aosta nella lunghissima lista di invitati di questo Royal Wedding che segna un punto importante nella storia della Svezia, prima di tutto perché Victoria sarà la prima regina del paese, grazie a una riforma costituzionale approvata dopo la sua nascita, ma anche perché lo sfarzo dato all'evento in un momento di crisi ha fatto rialzare la testa ai repubblicani fino ad oggi schiacciati dal largo consenso di cui godeva la casa reale. Ci saranno quindici capi di Stato, re, regine, eredi al trono, anche quelli della Romania e della Bulgaria. Ma nessuno dall'Italia  Il mistero si infittisce quando cerchi di capire cosa è successo. Così il portavoce di Emanuele Filiberto ti spiega che il principe è impegnato in tv mentre dei genitori non sa. E Vittorio Emanuele tace, ma certo il suo nome e quello della moglie Marina nella lista degli invitati non si trovano. Così a rappresentare l’Italia al banchetto di nozze che si terrà stasera a palazzo reale sarà solo il cuoco più famoso della Svezia, Stefano Catenacci, chef personale di Re Gustavo.

Sarà una sfilata di teste coronate (arrivato anche l’erede al trono giapponese Naruhito e re Abdallah di Giordania) con una sfida di bellezze tra regine e principesse: Rania, Letizia di Spagna, e la sorella della sposa Madeleine, le favorite. Molto più popolare, però, Victoria con il suo passato di bulimica, anoressica, la dislessia. Imperfezioni che la avvicinano alla gente, come i suoi modi semplici e l’essersi impuntata per sposare un ragazzo qualunque, Daniel Westling, professione personal trainer. E nonostante questo molti svedesi non tollerano che metà del budget delle nozze (circa 2,5 milioni di euro) siano stati tolti dalle loro tasche, ossia dalle tasse. E certo non aiuta lo scandalo dei cioccolatini «memorabilia» fatti con cioccolato prodotto dal lavoro di bambini africani sfruttati. Ma il glamour non si ferma davanti a niente. Arrivato a Stoccolma anche Alberto di Monaco, che avrà accanto oggi la sua Charlene, nuotatrice sudafricana, eterna fidanzata ma non ufficialmente. Anche se in molti pensano che averla portata in questa occasione può significare solo una cosa: nozze in vista.

E su tutte queste corone vigileranno 2000 poliziotti e 6000 militari, «la più grande operazione militare che la Svezia ricordi», hanno spiegato ieri i responsabili della sicurezza. Tutto questo per un «sì» e gli svedesi si innervosiscono. Ma ormai si è arrivati al grande giorno, stessa data delle nozze di Carlo Gustavo con la hostess tedesca Silvia Sommerlath, quando al pranzo gli Abba dedicarono alla sposa «Dancing Queen», divenuto poi parte del musical «Mamma mia». Il re ha chiesto al gruppo di riunirsi per festeggiare Victoria ma ha ricevuto un fermo «no grazie». Anche se si dice che Benny Andersson abbia composto una canzone che regalerà alla sposa. Tra i regali, 1000 bicchieri dal Parlamento, un alveare di api, pesce secco e alberi da frutto da piantare nel parco del castello di Haga, dove è cresciuto il papà di Victoria, futura residenza della coppia. Per la sicurezza è stato recintato tutto il bosco, anche dove gli svedesi andavano a fare i picnic la domenica. E anche questo non ha giovato alla popolarità della monarchia. I Repubblicani dicono che non ci sarebbe potuta essere una propaganda migliore di queste nozze alla loro causa. E oggi contro-festeggeranno all'hotel «Republik» con pranzo di gala e musica del rapper Timbuktu, famosissimo nell'Europa del nord. Mentre il duo Roxanne (considerati gli eredi degli Abba) ha scelto Victoria. Anche la musica si schiera.

da www.lastampa.it

sabato 5 giugno 2010

Commemorazione dello Statuto


di Piero Operti
La prima domenica di Giugno, durante il Regno d'Italia, era la Festa dello Statuto.
In omaggio a quella non dimenticata festa, e grazie a S.E. Camillo Zuccoli che ne ha fornito il testo, pubblichiamo una conferenza tenuta da Piero Operti, Senatore del Regno.

In questo nostro tempo in cui tutto è fluido e precario e nessuno sa se ciò che oggi viene considerato giusto sarà considerato giusto fra un mese o una settimana; in questo tempo posto sotto il segno di Vertumno, il dio della mitologia pagana che presiedeva ai cambiamenti, alle metamorfosi, alle conversioni; in questo tempo in cui nulla più esiste di certo, nemmeno il sesso, e infatti si legge sovente sui giornali di uomini che diventano donne e di donne che diventano uomini, ed è evidente che dinanzi a siffatta casistica i cambiamenti di opinioni politiche e istituzionali sono bazzecole, in questo strano tempo è di conforto ricordare un passato nel quale esistevano in Italia dei punti cardinali ed esisteva una bussola che li indicava e a cui potevamo affidarci nella nostra navigazione.

Il ricordo di quel passato è di conforto almeno per noi monarchici, uomini e donne senza problematica di sesso e di coscienza, per noi monarchici dichiarati. che non temiamo di venir respinti a causa di questa dichiarazione ai margini della famosa «area democratica», salvo i casi in cui i nostri voti vengono accettati e sollecitati in quanto servono a sciogliere i nodi gordiani della repubblica. La propaganda dei democristiani in questi giorni raccomanda all'elettorato di astenersi dal votare a destra, perché sarebbero voti perduti o voti congelati; ma come il sole di maggio ha sgelato i nostri voti, così noi possiamo presumere che altre circostanze interverranno nelle quali i nostri voti si sgelino.

In quel passato - quando non era ancora stata inventata la parola problematica, destinata ad assolvere ogni tradimento ed ogni rinnegamento - nella prima domenica di giugno, noi ricordiamo lo Statuto, anche se i repubblicani storici o estemporanei ci considerano un relitto dell'età paleolitica. Allora, in tutti i centri in cui esistevano corpi militari, in questo giorno si faceva la «rivista», e noi ricordiamo quando ancora bambini per mano al babbo assistevamo alla sfilata, ricordiamo, il palpito e la trepidazione che ci prendeva alla vista dei reparti incolonnati marcianti alle note della marcia reale e la nostra commozione al passaggio delle gloriose bandiere del Risorgimento con le medaglie tintinnanti sospese all'asta; ricordiamo la maschia fierezza che ci gonfiava il cuore, anni dopo, quando noi stessi, inquadrati nei reparti, eravamo incolonnati dietro la nostra bandiera risorgimentale con nel mezzo quella croce raggiante circondata dal nastro azzurro di Amedeo il Crociato; ricordiamo l'emozione cocente che ci invadeva, anni dopo, quando assistevamo alla sfilata assiepati nella folla, e non potevamo più tenere il passo di marcia, perché al servizio di quella bandiera avevamo perduto la nostra integrità fisica e i nostri passi erano legati dalle nostre vecchie cicatrici.
Talora vien fatto a noi anziani di compiangere i giovani d'oggi ai quali nulla viene offerto che appaghi il bisogno di sentimenti nobili e puri connaturato alla gioventù.

La data dello Statuto è la data centrale del Risorgimento: essa segna l'ora in cui la Dinastia, sovrapponendo lo scudo sabaudo al tricolore italiano, si alleò alla rivoluzione nazionale e liberale, ne assunse la guida e nello spazio di 22 anni la portò al successo.

La Monarchia non fu un'occasione o un espediente, fu la condizione stessa del Risorgimento. Un patriota napoletano, Luigi Settembrini, scrisse: «L'esercito sardo è il filo di ferro che ha cucito l'Unità italiana».

Diciamo rivoluzione nazionale e liberale: due ideeforza congiunte ma distinte. La rivoluzione nazionale comportava l'unità e l'indipendenza: unità territoriale, fare dei sette stati della penisola un unico stato; indipendenza dallo straniero, dall'Impero asburgico, che direttamente o indirettamente dominava una metà della penisola; e non dobbiamo dimenticare che l'Austria era allora la prima potenza militare del mondo. Gli ideali di unità e indipendenza erano autoctoni, originali, nostri, italiani, cresciuti per processo secolare sul nostro suolo. L'altra idea, l'idea di libertà politica, intesa come sistema rappresentativo e cioè fondata sul principio del potere dal basso, non era un'idea cresciuta sul nostro suolo, ma era stata mutuata dalla Rivoluzione francese.

Voi sapete che Carlo Alberto ebbe lunghe esitazioni prima di accedere a questa idea francese della libertà politica, e perciò il Carducci lo chiamò «italo Amleto». Ancora nel 1845, riferendosi ai suoi ideali politici egli scriveva nella sua agenda queste parole: «Io penso di attuare una forma di governo nella quale il mio popolo abbia tutta la libertà che è possibile con la conservazione delle basi della Monarchia. Credo che si possa stabilire un governo nel quale la libertà e i personali vantaggi siano maggiori di quelli di certi governi costituzionali ove la libertà è una finzione e l'amministrazione dello Stato si sostiene basandosi sulla corruzione». Scrivendo questo Carlo Alberto pensava alla monarchia di Luigi Filíppo di Orleans, sorta a Parigi dalla rivoluzione di Luglio. Ma per i liberali italiani non esisteva libertà se non concepita alla francese, cioè democraticamente e non aristocraticamente all'inglese, e le condizioni dello spirito pubblico in Italia erano tali che non si poteva alzare la bandiera dell'indipendenza senza aver prima alzata la bandiera di quella libertà.

Il motto che Carlo Alberto aveva in comune con i patrioti italiani lo indusse da ultimo ad accettare anche ciò che non aveva in comune con essi, ossia quella determinata idea di libertà. Il giorno 8 febbraio 1848 comparve a Torino un proclama nel quale il Re annunziava prossima la proclamazione dello Statuto e ne delineava i punti principali. Da quel giorno il Consiglio di Conferenza, come si chiamava il Consiglio dei Ministri, elaborò gli articoli della carta costituzionale, che fu portata a termine il 2 Marzo, venne firmata dal Re il 4 e fu promulgata il 5 marzo. Gli 84 articoli del documento stabilivano le prerogative della Corona e la legge di successione dinastica e della reggenza, definivano la formazione e il funzionamento dei tre poteri: l'esecutivo rappresentato dal governo del Re, il Legislativo affidato ad una rappresentanza nazionale uscita da libere elezioni, il Giudiziario assegnato a una Magistratura indipendente così dal Legislativo come dall'Esecutivo. Si attuava in tal modo la «trícotomia dei poteri» teorizzata dal Montesquieu, il principio cioè secondo il quale la libertà sarebbe garantita soltanto dalla separazione dei poteri.

Gli articoli dello Statuto distinti in nove gruppi esponevano poi i diritti del cittadino sulla base dell'uguaglianza giuridica e della libertà di parola, scritto, riunione, associazione. Lo Statuto era preceduto da un preambolo nel quale Carlo Alberto dichiarava: «Con lealtà di Re e affetto di padre noi oggi veniamo a compiere quanto avevamo annunciato ai nostri amatissimi sudditi col nostro proclama dell'8 Febbraio scorso, con cui abbiamo voluto dimostrare in mezzo agli eventi straordinari che circondano il Paese come la nostra confidenza in loro crescesse con la gravità delle circostanze e come prendendo unicamente consiglio dall'impulso del nostro cuore fosse ferma nostra intenzione di conformare la sorte alla ragione dei tempi, agli interessi ed alla dignità della Nazione. Considerando noi le larghe e forti istituzioni rappresentative contenute nel presente Statuto come il mezzo più sicuro di raddoppiare quei vincoli di indissolubile affetto che stringono alla itala nostra corona un popolo che tante prove ci ha dato di fede, di, obbedienza e d'amore, abbiamo determinato di sancirlo e promulgarlo nella fiducia che Iddio benedirà le pure nostre intenzioni e che la nazione libera forte e felice si dimostrerà sempre più degna dell'antica fama e saprà meritarsi un glorioso avvenire ».

In questo preambolo Carlo Alberto dichiarava di interpretare la ragione dei tempi, giusta espressione con la quale egli si richiamava a uno dei pregi peculiari dell'istituto monarchico, alla sua attitudine ad accogliere in sé ed incorporare i vari contenuti storici che nel corso dei secoli esso incontra sul suo cammino. Infatti la Monarchia fu feudale quando il centro della vita associata era il feudo, essendo questo la migliore struttura che la società potesse allora darsi per evitare una selvaggia anarchia; la Monarchia nel Cinque e nel Seicento fu assoluta quando la ragione dei tempi prospettava l'esigenza di eliminare il particolarismo feudale e di creare un potere centralizzato; la Monarchia nel Settecento fu illuminata quando si prospettò la necessità di riformare un ordinamento giuridico invecchiato. Nell'Ottocento la Monarchia divenne liberale quando la libertà politica intesa come sistema rappresentativo sorse dall'esigenza di chiamare un maggior numero di persone alla partecipazione del potere statale. Non che in precedenza mancasse la libertà, e la prova che la libertà esisteva anche prima è evidente nel fatto che tutta la critica demolitrice dell'assolutismo, caratteristica della cultura dell'enciclopedismo, si svolse sotto l'assolutismo. Nell'Ottocento la rivendicazione della libertà politica fu la forma che venne data a un episodio della rotazione delle classi al potere. Il terzo stato, cioè la borghesia, voleva accedere alle posizioni politiche precedentemente occupate dall'aristocrazia e perciò proclamò il principio del potere dal basso, principio che essa in progresso di tempo e dopo aver conseguito il suo scopo, non poté limitare al proprio beneficio, e quindi venne l'ora in cui un potere più basso, il quarto stato, lo rivendicò nei confronti del terzo, che era il basso rispetto all'alto rappresentato dall'aristocrazia, ma che divenne l'alto rispetto al basso, rappresentato dal quarto stato. Suffragio ristretto e suffragio universale sono i due momenti dell'attuazione di quel principio. Nel secolo scorso la Monarchia, convertendosi da assoluta in costituzionale, aderì a questa sostituzione di classi al potere, mostrando ancora una volta la sua capacità di assimilare i contenuti storici prospettati dalle diverse età.

Nel nostro secolo la Monarchia, nei paesi in cui sussiste, è sociale, poiché la socialità è la idea centrale dell'età presente, con l'intento di un elevamento materiale e morale dei ceti del lavoro manuale, e i Paesi ancora monarchici sono quelli in cui si realizza nell'ordine il massimo di progresso e di giustizia retributiva.

Tornando allo Statuto, possiamo notare che esso attuò la concezione moderna dello Stato, come volontà impersonale in cui convergono e si armonizzano tutte le volontà personali, dove la libertà risiede nella consentita sovranità della legge e quindi si identifica con la responsabilità. In effetti, libertà e responsabilità sono un concetto in due parole e dove vi è libertà senza responsabilità essa non può recare che danni.

Non occorre richiamare le vicende seguite immediatamente alla proclamazione dello Statuto: la prima guerra d'indipendenza e il suo infelice esito a Novara. L'atto del sovrapporre lo Scudo sabaudo al Tricolore italiano fu scontato e consacrato da Carlo Alberto con la morte nell'esilio; e Gabriele d'Annunzio nell'ode Al Re giovane, composta all'indomani dell'assassinio di Umberto I, rivolgendosi a Vittorio Emanuele III, divenuto re nel mare, gli dice: «Ricordati di un altro padre - partito per un più duro esilio»; l'esilio di Oporto è dal poeta considerato più duro che non l'esilio della morte subita da Umberto 1: « Ricordati del figliuol vinto - che cavalcò quel giorno - verso il bianco maresciallo », Vittorio Emanuele II che raccoglie la corona sul campo di Novara e si reca a Vignale a chiedere l'armistizio al Radetsky: « Rifioria l'itala primavera - tra i dolci fiumi e il Re sardo discese dal suo cavallo - per segnare il duro patto. Tutto fu nemico intorno, - egli disse al suo cuore gagliardo: - sopporta o cuore e spera, - egli volle Roma - egli ebbe il Campidoglio - egli ha pace nel tempio romano ».

In questa rievocazione del Campidoglio e del Pantheon, con brevi parole il poeta sintetizza l'opera di Vittorio Emanuele II, che ebbe dalla storia il titolo di Re Galantuomo per aver dato dopo Novara e contro il consiglio del Radetsky mantenuta la costituzione e dalla nazione ebbe il titolo di Padre della Patria per aver dato all'Italia l'unità politica e territoriale. Importa al riguardo osservare che l'anno scorso nelle celebrazioni del centenario (che non era centenario dell'Unità, come si disse, ma della proclamazione del Regno d'Italia) il protagonista maggiore del Risorgimento fu totalmente ignorato dai mistificatori e dai falsari della Storia.

Tra l'esilio di Oporto nel 1849 e l'esilio di Alessandria d'Egitto nel 1946 è compreso, salve le ragioni dell'avvenire, il secolo dell'Italia risorgimentale e monarchica, il secolo in cui si realizzò l'unità morale del popolo italiano e in cui il nostro paese da espressione geografica si innalzò a grande potenza, una delle sette grandi potenze che fra la fine dell'800 e il principio del '900 erano sulla terra. Dico «salve le ragioni dell'avvenire», perché non si può da una parte proclamare la sovranità popolare e dall'altra parte dichiarare irrevocabile un atto compiuto da un governo che non usciva da un parlamento creato a sua volta da una consultazione elettorale, ma fu compiuto da un governo di politici rappresentanti i partiti; e precisiamo, rappresentanti i partiti non attraverso elezioni congressuali ma autonominatisi rappresentanti di partito. Il «popolo sovrano» in tutto questo non entrò per nulla, perché quegli uomini non avevano ricevuta alcuna investitura dal basso. Le prime elezioni politiche fatte in Italia dopo la guerra furono quelle del 2 giugno 1946 per la creazione della Costituente, e il governo che eliminò la Monarchia era un governo costituito precedentemente, era il governo De Gasperi sorto nel dicembre 1945, era cioè un governo di uomini autonominatisi rappresentanti dei partiti.

Per intendere come si giunse a quell'atto occorre rifarsi alla tragica estate del 1943, occorre ricordare l'azione svolta dai nostri politici e politicanti della sinistra per portare, durante i tre anni di guerra regolare, l'Italia alla sconfitta (azione di cui esiste una vasta documentazione anche perché costoro in molti scritti e discorsi vantarono il contributo da essi dato alla sconfitta), occorre ricordare come si prospettava la situazione italiana dopo la capitolazione dell'8 settembre 1943.

Voi ricordate che si costituirono allora clandestinamente in tutta l'Italia occupata dai tedeschi, essendo la penisola spaccata in due da opposte occupazioni, i Comitati di Liberazione Nazionale facenti capo al Comitato romano presieduto dall'on. Ivanoe Bonomi. Ora, chiunque abbia fatto parte, come chi vi parla, di un CLN o ne sia stato a contatto, sa che questi comitati erano totalmente dominati dalle forze di sinistra.
Essi riunivano esponenti di cinque partiti: comunista, socialista, azionista, democristiano, liberale: comunisti e socialisti agivano di conserva, stretti da un patto di unità di azione che risaliva al tempo del fuoriuscitismo, e ad essi si affiancavano gli azionisti, argutamente definiti da Benedetto Croce « falsi liberali e falsi socialisti ». Democristiani e liberali agivano in ordine sparso, non potevano nulla contro la volontà dei colleghi, e la loro presenza nei comitati serviva a dare una mascheratura di nazionale dove non esistevano se non correnti partitiche dominanti o dominate. In queste condizioni, il giorno 16 Ottobre 1943, tre giorni dopo il rovesciamento del fronte e la dichiarazione di guerra alla Germania da parte del governo del Sud, il CLN romano emanò un postulato di autodecisione istituzionale per il popolo italiano. Questo postulato, voluto da socialisti comunisti - azionisti e subito dai rappresentanti degli altri due partiti, era un'ipoteca avanzata sul futuro, perché postulare il diritto popolare a una autodecisione istituzionale significava aprire la via a un referendum prefabbricato.

Per le sinistre era venuta l'ora in cui l'obbiettivo da colpire non era più il fascismo ma la Monarchia. Il fascismo era un fenomeno transeunte dovuto a cause transeunti, e alla sua nascita la condotta delle sinistre nel primo dopoguerra aveva dato un contributo determinante.

Con la seconda guerra a eliminare il fascismo provvedevano le migliaia di fortezze volanti e di carri armati anglo-americani. Dopo aver dato agli anglo-americani una mano per sconfiggere l'Italia, l'impegno dei socialcomunisti italiani era di eliminare la Monarchia, come condizione non sufficiente ma necessaria alla introduzione del sistema marxistico nel nostro paese. Di fatto in nessun paese in cui esista la Monarchia è mai penetrato il marxismo, per la contraddizione che nol consente, perché la Monarchia è fondata su un concetto morale della vita associata, mentre il marxismo è fondato su un concetto esclusivamente economico della vita associata. Per le sinistre, tolti di mezzo i Savoia, la meta non era raggiunta, ma era spianata la via verso di essa.

Intanto esisteva, con sede a Brindisi, il governo regolare legittimo dello Stato italiano limitato alle regioni meridionali. Voi ricordate come si era costituito questo governo. Il primo ministero era stato formato all'indomani del 25 luglio da Badoglio chiamando ai vari dicasteri alte personalità delle amministrazioni centrali; poi vi era stato il trasferimento della sede governativa a Brindisi e Badoglio il 16 novembre aveva formato il suo secondo gabinetto, dando funzione di ministri a sottosegretari, perché non tutti i ministri lo avevano seguito nel trasferimento a Brindisi. Egli però intendeva dare una più larga base al ministero e avrebbe voluto includervi gli esponenti di tutti i partiti. Sennonché al congresso di Bari del 28-29 gennaio 1944 i partiti negarono la propria partecipazione al governo, ponendo come condizione l'abdicazione del Re. Badoglio respinse questa condizione e mantenne il suo secondo gabinetto.

La situazione cambiò il 13 aprile 1944 con l'arrivo in Italia di Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista, il quale si dichiarò pronto a collaborare col governo del Re. Questo atto non esprimeva soltanto lo spregiudicato possibilismo dei comunisti: Togliatti veniva da Mosca; prima di partire per l'Italia aveva avuto contatti con Stalin e la sua condotta rifletteva il realismo staliniano. Egli sapeva tre cose:

1) che nel momento il maggiore impegno del governo del Sud doveva essere di partecipare attivamente alla guerra;

2) che per partecipare alla guerra occorrevano un esercito e un minimo di ordine e di legalità nel paese;

3) che esercito e legalità si creavano attorno al Re, mentre nulla di costruttivo nasceva intorno ai partiti, rivali tra loro in tutto salvo che nella professione antifascista.

Bisognava perciò servirsi del Re finché era utile, in attesa di estrometterlo quando non avesse più servito.
Dinanzi al gesto di Togliatti gli altri partiti recedettero dalla loro intransigenza e per entrare nel gabinetto si contentarono di una dichiarazione fatta il 12 aprile da Vittorio Emanuele III, il quale disse che quando gli alleati fossero giunti a Roma egli avrebbe ceduto la luogotenenza del Regno al figlio. Si costituì così il 21 aprile coi rappresentanti dei partiti il terzo gabinetto Badoglio, che ebbe sede a Salerno.

Gli Alleati giunsero a Roma il 4 giugno; il giorno dopo il Re, in ottemperanza alla dichiarazione del 12 aprile, cedette la luogotenenza del Regno a Umberto, e questi, assumendo la carica, accettò il postulato enunciato dal CLN romano il 16 ottobre precedente, ossia s'impegnò a rimettere la forma istituzionale dello Stato a un referendum da indire dopo la guerra.

Ai tre gabinetti di Badoglio seguì il ministero Bonomi che durò un anno, dal giugno 1944 al giugno 1945, e fu seguito, a guerra finita, dal gabinetto Parri, durato dal giugno al dicembre 1945, che fu seguito a sua volta dal primo gabinetto di De Gasperi, il quale presiedette otto ministeri, dal dicembre 1945 al luglio 1953.

La luogotenenza del principe Umberto durò dai primi del giugno 1944 fino al 9 maggio 1946, allorché Vittorio Emanuele III abdicò alla corona in favore del figlio e con la Regina s'imbarco a Gaeta per l'esilio di Alessandria. Da quel giorno Umberto II diveniva il sovrano d'Italia.

Sotto il primo gabinetto De Gasperi, il giorno 2 giugno 1946 si fecero le elezIoni per la Costituente alle quali venne abbinato il referendum istituzionale, e un atto di quella portata storica fu compiuto mentre al corpo elettorale mancavano alcuni milioni di elettori, cioè: i prigionieri di guerra non ancora rimpatriati, gli Italiani residenti nelle Colonie, gli abitanti della Venezia Giulia e della provincia di Bolzano non ancora ricongiunte al territorio nazionale, i colpiti dalle misure epurative, i trattenuti nei campi di concentramento.

Le forze politiche organizzate erano in prevalenza ostili alla Monarchia; ostili i tre partiti di sinistra, divisi sulla questione i democristiani e i liberali e quindi non in grado di intervenire, come partiti, nella campagna per il referendum, che fu dominata d ai fautori della repubblica. Numericamente i cittadini iscritti ai partiti non costituivano allora la decima parte della popolazione e questa era in maggioranza per la Monarchia. Ma i monarchici non avevano una propria organizzazione partitica, un «apparato» che potesse competere con gli apparati degli avversari, e in tutta l'Italia settentrionale la loro propaganda fu impedita con la violenza, mentre ogni menzogna e ogni calunnia contro la Casa di Savoia aveva libero corso. «La repubblica o il caos!» proclamava Nenni; i capi delle forze alleate in Italia furono prevenuti che la repubblica avrebbe accettato le condizioni di pace quali che fossero, cosa non altrettanto sicura se avesse vinto la Monarchia; il dittatore jugoslavo Tito minacciava, se avesse vinto la Monarchia, di invadere il Veneto: e questo interessamento straniero per una questione interna degli Italiani era significativo.

Fatto lo spoglio delle schede i risultati venivano comunicati dalle Prefetture al Ministero degli Interni, e in un suo libro il ministro, il socialista Pietro Romita, scrive che nella notte sul 4 giugno, procedendo il computo la Monarchia era in testa con un forte vantaggio, quando una valanga di voti repubblicani giunse dal meridione. A parte l'inspiegabile «valanga» repubblicana proveniente dalle regioni più sicuramente monarchiche, è da notare che fu violata la stessa legge del referendum - 16 marzo 1946 n' 98 - la quale parlava di maggioranza di elettori votanti, mentre la Suprema Corte di Cassazione diede comunicazione dei dati ricevuti dal Viminale computando la maggioranza dei voti validi e denunciando un milione e mezzo di voti nulli. Perché tante schede nulle? Elettori ignoranti che non seppero votare? E come mai quegli stessi elettori seppero votare la scheda della Costituente, molto più complicata di quella del referendum? L'enigma si spiega col fatto che per Romita e i suoi colleghi del gabinetto doveva vincere la repubblica. L'esclusione di un milione e mezzo di votanti abbassava di 750.000 l'indice di maggioranza. Senza alcun controllo né dei verbali delle sezioni (circa 35.000) né dei ricorsi e contestazioni per brogli (oltre 30.000) presentatí da elettori e presidenti di seggi elettorali alla Suprema Corte, questa il giorno 10 pubblicò il conteggio provvisorio che attribuiva alla Monarchia 10 milioni 719.000 voti, alla Repubblica 12.705.000 voti. Per protesta contro le irregolarità di tali procedimenti il Procuratore Generale della Corte, Massimo Pilotti, presentò le dimissioni. Romita fece arrestare alcuni presentatori di ricorsi e fu disposto che le schede venissero distrutte in loco, rendendo impossibile ogni controllo. Cosa fatta capo ha!

All'annuncio dell'esito scoppiarono a Napoli tumulti popolari che la polizia represse con morti e feriti, e fu il battesimo di sangue della repubblica. Senza attendere la pubblicazione del conteggio definitivo a cui la Corte era tenuta per il 18 giugno, il giorno 12, con decisione unilaterale, il Consiglio dei Ministri dichiarò decaduta la Monarchia e attribuì al Presidente del Consiglio «lo esercizio delle funzioni di Capo dello Stato». Dinanzi a questo atto rivoluzionario Umberto II si trovò nell'alternativa di subire la sopraffazione e 'abbandonare l'Italia o di rispondere con la violenza alla violenza, e volendo risparmiare al Paese una seconda guerra civile Egli scelse la prima alternativa. Il giorno 13 giugno, dopo aver lanciato un proclama nel quale denunciava il colpo di stato perpetrato dal governo, parti per il Portogallo. Poiché non vi fu trapasso di poteri Egli rimase, e rimane, il Re d'Italia, e per tale è riconosciuto da milioni di monarchici italiani.

Desidero ora esporvi un fatterello personale che illumina il modo con cui si svolse il referendum del 2 giugno. Io ero a Torino presidente di una sezione elettorale e dopo esaurita la votazione nel giorno 2 e il 3 fino a mezzogiorno, feci lo spoglio delle schede e il relativo conteggio. Fatto il computo, compilati i verbali, chiusi e sigillai i pacchi delle schede, mi venne, chissà perché, una specie di premonizione, e in un foglio trascrissi tutti i dati sia del referendum sia della Costituente, applicai sul foglio il timbro della sezione lo fírmai e lo feci fírmare dal segretario della sezione, e mi misi il foglio in tasca. Poi, accompagnato dal segretario, andai al Tribunale a consegnare i verbali e i pacchi delle schede e ne ritirai le relative ricevute. Questo la sera del giorno 3. La mattina del 4 ricevo dal Tribunale, ove si svolgeva lo spoglio, una telefonata che mi dice: «Ma i suoi verbali dove sono?». Rispondo: «Li ho consegnati ieri sera al Tribunale e ho le ricevute». Corro al Tribunale e mostro le ricevute. «I suoi verbali non si trovano». Cavo di tasca il mio foglio e dico: «Se credete alla mia parola e alla parola del segretario i risultati della mia sezione sono questi, perché ieri li ho trascritti qui». «Vada alla Pretura dove abbiamo mandato i pacchi delle schede e veda se riesce a cavare qualcosa».

Vado alla Pretura che è attigua al Tribunale e mi guidano in uno stanzone tutto scaffalato alle pareti e con gli scaffali pieni di pacchi di schede squarciati, dai quali erano cadute miriadi di schede gialle del referendum e azzurre della Costituente e il pavimento era letteralmente coperto da uno strato di migliaia e migliaia di schede; e non si trattava di pacchi di schede che fossero state già compulsate e quindi avessero perduto importanza, ma erano, almeno in parte, pacchi di schede di sezioni delle quali erano scomparsi i verbali. Infatti in quello stanzone si trovavano dieci o più persone che rovistavano rari nantes in gurgite vasto, in quel mare di schede. Erano presidenti di sezione come me, che dal Tribunale, essendo scomparsi i loro verbali, erano stati mandati alla Pretura perché tentassero di raccapezzarsi.

Voi immaginate cosa significhi in mezzo a decine di migliaia di schede appartenenti. a centinaia di sezioni, ricostruire la situazione. Io cercai qua e là e trovai qualche scheda della mia sezione, tornai al Tribunale e dissi: « Se mi date una settimana, lavorando giorno e notte, riuscirò a rimettere insieme le 850 schede della mia sezione, posto che non ne siano state sottratte. Una settimana è il minimo di tempo necessario a un lavoro simil ». « Non importa, noi teniamo fede al foglio che lei ci ha presentato».

Ma riguardo a quegli altri presidenti di sezione che non avevano avuto la mia premonizione, quali dati vennero fuori? Io sapevo che nella mia sezione su 850 voti circa 500 erano stati monarchici e 350 erano stati repubblicaní, ma sui risultati complessivi di Torino che secondo la pubblicazione ufficiale diede circa 300.000 voti alla repubblica e 200.000 alla Monarchia quale garanzia esisteva?

Il giorno stesso feci alla Corte Suprema di Cassazione un ricorso nel quale esposi la situazione. E il mio fu uno dei 30.000 ricorsi a cui la Suprema Corte non diede nemmeno uno sguardo. Ma i casi di brogli, i casi di irregolarità, furono soltanto 30.000? Badate che in quei giorni vi furono arresti fra i presentatori di ricorsi; quindi il fatto che in Italia vi siano state, in quel « clima », 30.000 persone capaci di affrontare quel rischio costituisce un miracolo. E la prova la ebbi io stesso, perché tra i presidenti di sezione che si trovavano in quella stanza della Pretura ve n'era uno che conoscevo di vista e sapevo chi era, e prima di spedire il mio ricorso gli telefonai e gli dissi: « Lei è nelle stesse condizioni mie, vuole associarsi a me nel ricorso che mando a Roma?». « Ma sa, veramente non saprei, è una decisione grave... ». «Non importa, era solo una proposta, lei ha pieno diritto di agire come crede meglio ».
Dall'episodio possiamo arguire che i 30.000 furono una minoranza tra coloro che assistettero a irregolarità e peggio. Ora, se questo accadde a Torino, che ha fama di essere una città amante dell'ordine e rispettosa delle leggi, si può immaginare che cosa accadde in quei centri meno ordinati e meno legalitari. A completare il quadro venne dal ministro Romita l'ordine di distruggere immediatamente le schede.

Dell'avventura capitata alla mia sezione elettorale informai subito il segretario del mio partito, avv. Villabruna e gli dissi di andare alla Pretura a vedere quello che succedeva. Mi rispose che ne prendeva nota e nella sua qualità di segretario del partito liberale avrebbe fatto presente la cosa a Roma. Dell'avv. Villabruna sapevo che era monarchico, e infatti rimase monarchico fino al 10 giugno quando la Suprema Corte dichiarò vincente la repubblica. Da quel momento egli divenne repubblicano, e fu uno dei numerosi casi di monarchicí della vigilia i quali si mostrarono ligi a una scelta popolare espressa nelle ineccepibili forme che abbiamo veduto.

lo non fui tra coloro che ebbero da Romita lonore dell'arresto e il fatto si spiega. In tutta l'Italia settentríonale, e quindi anche a Torino, esisteva allora il governo dell'AMGO, che era una emanazione del CLN sotto la tutela del comando militare alleato. In quel governo avevo una carica d'una certa importanza che mi era stata assegnata dal CI,N regionale in ragione del mio passato di antifascista antemarcia il quale aveva pagato lo scotto del suo antifascismo. Il mio arresto avrebbe fatto scalpore: era meglio lasciare che il mio agitarmi di quei giorní si spegnesse, a cose fatte, nel silenzio. Perciò non fui toccato, mentre venivano toccati altri che non erano immunizzati da un uguale passato politico. Unica conseguenza di quel mio agitarmi fu la mia cancellazione dalla lista dei designabili a presiedere un seggio elettorale.

A Torino alla testa del governo dell'AMGO si trovava l'italo-americano colonnello Poletti, e qualche gíorno prima del referendum in un colloquio che ebbi con lui a causa del mio ufficio gli dissi che la vittoria della repubblica con ogni probabilità avrebbe significato, prima o poi, un orientamento dell'Italia verso la costellazione moscovíta, e il colonnello mi rispose che questa era un'ipotesi riguardante un futuro lontano, mentre in un futuro prossimo si trovava il trattato di pace, le cui clausole territoriali avrebbero comportato riduzioni alle frontiere dell'Italia, ed essi sapevano che la monarchia avrebbe recalcitrato a quelle riduzioni, e sapevano per certo che con la repubblica tutto sarebbe andato liscio e nel migliore dei modi.

Anche questo è un chiarimento sulla condotta del comando alleato in occasione del referendum, e d'altronde la stessa gioia con cui l'esito fu accolto dai nemici e dai falsi amici esterni ed interni dell'Italía denuncia in esso un fatto nocivo al paese. All'esterno gli stranieri sapevano che per non incontrare mai più sul loro cammino l'Italia, non come ambiziosa antagonista qual'era stata nel tempo fascista, ma anche solo come modesta concorrente, bisognava privarla del suo centro di coesione molecolare; all'interno si realizzavano i voti delle sinistre con l'abbattimento del più forte ostacolo alla sovversione. Concedetemi che sulle conseguenze della soppressione della monarchia vi legga una pagina d'una mia Storia d'Italia che è in corso di pubblicazione presso l'editore Casini di Roma:

« Alle rovine morali portate dalla sconfitta altre rovine si aggiunsero con la caduta della monarchia, il cui primo effetto fu la distruzione di quel residuo di spirito nazionale che era sopravvissuto alla sconfitta e ciò probabilmente era nei calcoli di chi aveva voluto il referendum dandone in anticipo per scontato l'esito. In effetti un popolo che avesse conservato vivo il sentimento nazionale non avrebbe potuto accettare come classe di governo una schiera di uomini molti dei quali nei tre anni della guerra regolare erano stati gli alleati del nemico. D'altro canto una Italia disossata e disintegrata sarebbe stata più facilmente fagocitabile dagli stranieri portatori di verbi vecchi o nuovi.

Le conseguenze del colpo inferto al patriottismo abolendo il suo centro di raccolta ebbero riflessi di largo raggio. La nostra maggiore necessità era ed è di consentire in ciò che noi Italiani tutti abbiamo in comune e di conseguentemente agire; e in un paese di tradizioni particolaristiche e di recente formazione unitaria solo l'istituto monarchico aveva il potere di armonizzare le volontà almeno nelle cose essenziali.

La Patria è l'unità costante nel tempo e nello spazio da cui procede ogni nostra vita individuale, e il patriottismo non è nulla di arbitrario e di opinabile: è l'articolazione intelligente e generosa di ciascuno nel complesso collettivo, è tolleranza e comprensione reciproche, è vigile senso degli interessi generali e costanti all'interno e all'esterno, è prontezza a subordinate a quelli i propri interessi individuali o di categoria, è dare ai doveri sui diritti una precedenza da cui derivano tutte le virtù spirituali e temporali.

Patriottismo è senso di dignità e responsabilità civile, e fortissimo esso fu presso i popoli che esercitarono un ruolo determinante nel divenire umano. Monarchia e patriottismo sono termini convergenti in quanto non si può essere monarchici senza essere patrioti, secondo la formula del nostro antico giuramento di soldati: «per il bene inseparabile del Re e della Patria»; e, come il bene, così è inseparabile per l'uno e per l'altra il male. Dire che tutto ciò appartiene al passato e che ormai l'era delle nazioni è tramontata e bisogna guardare oltre è un discorso vacuo.
L'Europa unita e confederata esisterà quando sarà una realtà morale, ossia quando verrà sentita come nostra nazione comune, e quegli Europei che sono insensibili alla loro piccola patria non potranno concorrere a creare la grande patria, che richiederà essa pure amore e abnegazione, e ne resteranno ai margini. UEO, CECA, OECE, CED, EURATOM, MEC, CEE, e quant'altre similari sigle esistono in atto o in progetto sono avviamenti all'Europa ma non sono l'Europa, e chi da quelle sigle si vede sciolto da antichi vincoli di fedeltà senza assumere nuovi vincoli sarà Europeo d'anagrafe ma non d'aníma, come, in precedenza, soltanto per anagrafe era Italiano o Francese o Belga, ecc.

Spento il patriottismo, gli egoismi individuali e di gruppi tengono incontrastati il campo e ultima filosofia superstite rimane l'edonismo, fomite di contrasti sempre rinnovantísi e non mai risolti, perché manca una superiore ragione in cui le parti avverse possano consentire. Il principio edonistico fa dell'economia la protagonista esclusiva della vita associata, fa del denaro l'unico bene appetibile e l'unica misura dei valori. Al contrario ' con la sua sola presenza il Re, impersonante una suprema autorità derivata dall'alto e riconosciuta dal basso, attesta l'esistenza di un ordine etico. La Monarchia è una sorgente assidua di energia spirituale, una sorta di asettico atto a neutralizzare la corruttíbilítà della natura umana. Essa è per assunto la custode dei valori morali di un popolo e quindi è organicamente incompatibile col materialismo storico che fa della sola economia il destino dell'uomo. In questo caso il fatto istituzionale è l'indice di un « clima », d'una mentalità che non ammette usurpazioni della materia sullo spirito.

La Monarchia non disconosce il dato economico ma lo tiene, per usare un'espressione dantesca, « dentro a sua meta »; essa accoglie ogni esigenza di giustizia sociale per il fatto stesso che la sua mira costante è il bene


La Monarchia non disconosce il dato economico ma lo tiene, per usare un'espressione dantesca, « dentro a sua meta »; essa accoglie ogni esigenza di giustizia sociale per il fatto stesso che la sua mira costante è il bene generale e come una madre guarda con più amore ai figli meno agguerriti contro le difficoltà del vivere, libera da ogni spirito di parte e da ogni condizionalità di ragioni particolari; essa può essere rivoluzionaria senza sovvertimenti e conservatrice senza reazioni, e nella sua funzione mediatrice delle età e conciliatrice degli interessi è tradizionale in quanto gelosa dei valori consacrati dai secoli e ancora vitali, e innovatrice in quanto aperta a ogni istanza di vero progresso. Giustamente perciò i marxisti videro in essa la grande barriera da abbattere approfittando dello sconcerto in cui il dramma nazionale aveva gettato il popolo italiano».

E' evidente che nel 1946, quando gli eserciti angloamericani si trovavano in Italia, i marxisti nostrani non potevano sperare di impadronirsi del potere. Gli Alleati avevano già avuto abbastanza fastidi dall'Italia fascista e non ne volevano altri da un'Italia polarizzata verso la Russia; però quell'occupazione non poteva essere eterna e ai marxisti restava il campo del futuro. Per essi i governi di centro erano il ponte di passaggio al governo di centro-sinistra, come il governo di centro-sinistra è il ponte di passaggio al governo di sinistra; e anche per questa ragione opportunissima è la nostra odierna rievocazione della Costituzione Albertina e dell'Istituto che è connaturato così alla storia del nostro Paese come all'indole della popolazione, e nel quale il Capo dello Stato non esce stentatamente e faticosamente da nove scrutinii, scelto da un'assemblea di politici paralizzati dalle loro opposizioni interne, ma possiede il prestigio dei secoli ed è scelto dalla Provvidenza divina.

giovedì 3 giugno 2010

02-06-10 150* UNITA': GIOVANARDI, RIVALUTARE MONARCHICI E FARE FICTION SU EVENTI

02-06-10
150* UNITA': GIOVANARDI, RIVALUTARE MONARCHICI E FARE FICTION SU EVENTI
(ASCA) - Roma, 2 giu - ''Rivalutiamo i Monarchici quelli che sono stati fedeli ai Savoia. Che fecero del bene all'Italia.

Penso che in occasione delle manifestazione una riflessione su questo vada promossa. Amo profondamente il mio paese e il valore dell'Unità. Ma il processo di unificazione non va dipinto come un processo fantastico, idilliaco, fatto solo di eroi''. Lo ha detto il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi nel corso del suo intervento a KlausCondicio, programma in onda su You Tube e condotto da Klaus Davi, parlando dell'Unita' d'Italia.


''Questo - ha aggiunto - non significa che condivida il percorso che invece enfatizzano le ombre di questo processo e non si sentono per questo italiani. Credo che oltre ai garibaldini e ai valorosi combattenti del regno, oltre ai signori dei ducati e alle plebi contadine che nessuno interpellò durante la consultazione; agli sconfitti di Lissa e gli equipaggi vincitori Veneto Istriano dalmati, la Massoneria trionfante e i cattolici che la subirono, vadano ricordati anche i Monarchici fedeli alla dinastia Savoia troppo criminalizzati da certa storiografia errata, '' ha aggiunto nel corso del programma aggiungendo ''questo lo devono capire soprattutto i giovani''.


Giovanardi poi ipotizza una fiction tv che ricostruisca gli eventi che hanno portato all'Unita' di''Italia: ''Il prossimo anno magari nelle occasioni ufficiali mi piacerebbe vedere le foto dei Garibaldini ma anche degli ufficiali del Regno delle due Sicilie . Vorrei vedere anche quei cattolici che vennero sopraffatti da una visione laicista e anticlericale. Erano anche loro italiani e volevano anche loro l'Unita d'Italia. Solo che la sognavano in maniera diversa. Per questo sarei d'accordo se su queste cose venissero prodotte delle fiction che spieghino la verità ''.


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martedì 1 giugno 2010

I Savoia nella Bufera



Aggiunta sul sito dedicato a Re Umberto II l'ultima puntata dell'inchiesta "I Savoia nella bufera".
In questa ultima puntata la morte in esilio a Montpellier della Regina Elena.