NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 28 giugno 2012

Un altro Caduto

Un altro nostro ragazzo morto in Afghanistan. Mi domando se, undici anni dopo l'11 settembre, serva ancora questo stillicidio al servizio di una comunità internazionale che non muove in dito per la liberazione dei nostri marò assurdamente trattenuti in India, dopo avere contribuito a preparare il golpe di palazzo che ci ha consegnati ad un governo senza alcuna legittimazione popolare, sul modello degli ajatollah o dei militari egiziani, lasciandoci marcire sotto il tallone di ferro del Quarto Reich.

di Tommaso Francavilla

Dal gruppo facebook "monarchici". Copiamo questo post convinti che della nostra situazione attuale nessuna sintesi migliore sia stata fatta .
Lo staff

martedì 26 giugno 2012

La Monarchia Sabauda e i problemi sociali. VII Parte


VII - NASCITA E SVILUPPI DEL MOVIMENTO OPERAIO

Il movimento operaio si sviluppò tardi nel nostro Paese, perché il fenomeno della grande industria stentò parecchio a realizzarsi.

Come in tutti i Paesi europei, esso fu inoltre seriamente ostacolato dalla legislazione repressiva delle corporazioni: Inghilterra: 1753-17.56; Austria: 1771; Olanda: 1780; Prussia: 1791; Toscana: 1770; Veneto: 1797; Stato Pontificio: 1801; Napoletano: 1821; Piemonte: 1798-1844; Francia: 1776, Turgot, poi abolito, 4 agosto 1789; Milanese: 1787.

A tale legislazione, seguì quella repressiva delle associazioni professionali, nel timore che queste riproponessero di fatto il tema delle corporazioni, ritenute dai fisiocrati e dai liberisti un grave ostacolo al progresso economico e scientifico. La più celebre legge repressiva delle associazioni professionali fu quella francese del 14 giugno 1791, presentata all'Assemblea costituente dal deputato del terzo Stato Le Chapelier.

In Piemonte, dopo la promulgazione dello Statuto, la libertà di associazione fu costantemente rispettata: ne fa fede la costituzione a Torino, nel 1848, della società dei compositori tipografi, che stipulò con i proprietari contratti di lavoro rinnovati nel '50 e nel '51: un'associazione sindacale vera e propria, quando altrove, in Italia, non ne esistevano; una prova che il Piemonte sabaudo fu anche all'avanguardia nel campo sindacale.

Dopo l'unificazione, le legislazioni repressive dei vari Stati italiani furono fuse nella legge 29 maggio 1864, che rimase in vigore fino al Codice penale del 1890.

Nei primi dieci anni del Regno, ragioni politiche ed economiche non consentono al problema operaio di assumere proporzioni tali da preoccupare seriamente i politici e l'opinione pubblica: l’operaio, nella maggior parte dei casi, è anche contadino, gli opifici non assumono grandi dimensioni e stenta quindi a formarsi una solidarietà di classe.

Prosperano invece le « Società operaie di mutuo soccorso » (1862: 417 con 111608 membri effettivi; 1873: 1146 con 218822 membri; 1878: 2091 con 331508 membri), fondate sulla collaborazione tra classe dirigente e lavoratori, ma condotte dai soci onorari, non operai, con criteri paternalistici. Scopi: soccorso in caso di malattia; prestiti; istituzione di cooperative di consumo; scuole per i lavoratori, ecc. Dopo il 1860, esse si distinsero, per le finalità politiche, ma non per il contenuto economico che era il medesimo, in associazioni appoggiate dal governo e dal partito moderato e associazioni di ispirazione mazziniana.

Queste associazioni, che in Piemonte erano state in parte promosse per quanto concerne le campagne, dall'Associazione Agraria Subalpina, fautrice di asili di infanzia, scuole gratuite e casse di piccolo risparmio, riuscirono per qual-che tempo a mantenere il controllo del movimento operaio e anche dopo il 1864, che segna l'inizio della propaganda « internazionalista » di Bakounin in Italia; ma, in seguito, nonostante le ampie benemerenze sociali, mostrarono i loro limiti e, man mano si formava negli operai e nei contadini una coscienza di classe, perdevano l'antica influenza: non era, ad esempio, più concepibile che i lavoratori rinunciassero a trattare i minimi salariali o l'orario di lavoro e affidassero la soluzione di questi problemi al ceto padronale.

Un indice statistico del cambiamento dopo il '70, nei rapporti tra datori di lavoro e prestatori d'opera, fu dato dal numero medio annuo degli scioperi industriali: periodo: 1860 - 69: 13; 1871: 26; 1876- 58; 1886: 96

Dopo il 1875, già sì uniscono nelle associazioni operaie i due caratteri delle società di mutuo soccorso e delle leghe di resistenza, ed esse sorgono appunto nelle regioni dove l'industria è più progredita: indizio sicuro della profonda trasformazione politica, economica e sociale alla quale il Paese va incontro (25).


(25) CORRADO BARBAGALLO: «Le origini della grande industria contemporanea», La Nuova Italia, Firenze, 1951.

RAIMONDO LURAGHI: «Sulle origini del movimento contadino nella pianura padana irrigua: il Vercellese», in «Nuova Rivista Storica», settembre-dicembre 1956, pag. 489.

GINO LUZZATTO: «Storia economica dell'età moderna e contemporanea Parte seconda: l'età contemporanea»,  CEDAM, Padova, 1948, specie le pagine 381, 382, 383.

NICCOLO' RODOLICO: «Storia degli Italiani», Sansoni, Firenze, 1954, specie le pagine da 926 a 929.


giovedì 21 giugno 2012

Sergio Romano sul Corriere della Sera


Riportiamo certe notizie esattamente così come vengono riportate sui giornali, affidandoci al senso critico degli amici che leggono. Fin troppo facile per noi dire che non siamo completamente soddisfatti della risposta di Romano che però, almeno, riconosce al Re Vittorio Emanuele III il merito di aver salvato lo Stato Italiano.
A nulla vale che il Re si sia opposto con ogni possibile mezzo che lo Statuto gli affidava alla tragica entrata in guerra dell'Italia nel 1940 e lo stato di necessità nel quale si trovò ad agire nei tragici giorni dell'8 Settembre.
Ma almeno qualcosa si inizia a riconoscergli.
Lo staff

Quei re in fuga

Caro Romano, durante l'invasione della Norvegia da parte dei nazisti, il re se ne fuggì in Inghilterra, senza che nessuno avesse qualcosa da obiettare. Quando, in circostanze analoghe, il nostro re Vittorio Emanuele III se ne andò a Brindisi, furono dette peste e corna. Come si spiega questa differente valutazione?

Mario Minissi , 
Haakon VII lasciò il suo Paese quando la resistenza dell’esercito norvegese contro l’invasione tedesca divenne impossibile; e il suo esilio a Londra dimostrò quale fosse la collocazione politica dello Stato norvegese nel grande conflitto mondiale. La sua scelta divenne particolarmente significativa e utile alla Norvegia quando il commissario tedesco per gli affari norvegesi installò a Oslo un governo presieduto da Vidkun Quisling: un nome che divenne sinonimo di collaborazionismo. Anche Vittorio Emanuele III ebbe, a mio avviso, il merito di salvaguardare la continuità dello Stato. Ma non è possibile negare che la sua storia politica sia stata assai meno lineare di quella del re di Norvegia.

Notizie della repubblica italiana: Come volevasi dimostrare


Taglio dei deputati, Lega e Pdl rimandano.
Il Pd : «Decisione grave, solita politichetta»

Gli ex alleati trovano un'intesa sul timing della riforma costituzionale: «Prima il Senato federale».


ROMA - L'Aula del Senato ha accantonato l'articolo 1 del ddl di riforma costituzionale sul taglio del numero dei deputati. La richiesta è venuta dalla Lega che, con Bricolo e con l'ok del Pdl, ha proposto di affrontare prima le modifiche del Senato e dunque anche gli emendamenti con cui il Carroccio chiede il Senato federale. Il presidente del Senato Renato Schifani ha però subito voluto chiarire: «Questo non significa che non si torni sull'articolo 1 relativo alla riduzione del numero dei parlamentari. Ne è responsabile la presidenza. Si tratta- dice Schifani- di un accantonamento tecnico, non di merito».

ZANDA: AL MACERO GLI ACCORDI - «Rinviare la votazione sulla riduzione del numero dei parlamentari è una decisione gravissima ed è un peccato che considerazioni di bieca politichetta entrino nel dibattito sulla modifica della nostra Carta Costituzionale». Così il vicepresidente dei senatori del Pd Luigi Zanda è intervenuto nell'Aula del Senato nel corso del dibattito sulle riforme Costituzionali. «Il rischio -ha affermato- è di mandare al macero un accordo importante, frutto del clima nato intorno alla maggioranza che sostiene il governo Monti e basato sul principio che le grandi regole del gioco, della nostra democrazia, si cambiano insieme, solo a larghissima maggioranza».
[...]

mercoledì 20 giugno 2012

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II



Nel sito dedicato a Re Umberto un Suo messaggio del 1954 indirizzato ai giovani dell'Unione Monarchica Italiana.

http://www.reumberto.it/fmg54.htm

Viva il Re!

Notizie della repubblica italiana: i consiglieri regionali sardi ribaltano la volontà del popolo sardo


LO SCANDALO DEGLI STIPENDI AI CONSIGLIERI REGIONALI SARDI

by MARIO GIORDANO on GIUGNO 14, 2012


Dunque succede questo: c’è un referendum, fanno di tutto per farlo fallire, il referendum (vivaddio passa), ergo le indennità dei consiglieri regionali sardi dovrebbero essere tagliati. Si badi bene: oggi un deputato sardo ha uno stipendio più alto del governatore di New York (11.417 euro contro 10.612). E allora che fanno i consiglieri regionali sardi? Semplice: si trovano e con un blitz notturno (le  manovre più vergognose si fanno sempre di notte) approvano una legge che, in barba al referendum, ristabilisce l’integrità della loro indennità. “La politica costa”, dicono. “Scandalo? Macché: giusto così”. Inutile dire che il provvedimento della vergogna è stato approvato dai deputati di tutti gli schieramenti, come si usa in queste circostanze. Scandalo bipartisan. Prendendo a calci il voto popolare. Poi però non si scandalizzino se la gente non va più alle urne.

http://www.sanguisughe.com/2012/06/lo-scandalo-degli-stipendi-ai-consiglieri-regionali-sardi/

Notizie della repubblica italiana: salta il taglio dei parlamentari


IL TAGLIO DEI PARLAMENTARI? SALTA PURE QUELLO

by MARIO GIORDANO on GIUGNO 18, 2012

Se avevate qualche speranza, deponetela. Il taglio dei parlamentari non si farà. Già era un taglio piuttosto risibile (183 su 945, alla faccia del “dimezzamento”…). Ma anche questo piccolo gesto di buon senso (già annunciato e strombazzato dai parlamentari come dimostrazione della disponibilità della casta a fare sacrifici) è destinato a insabbiarsi. E a sparire nel nulla. Il testo si è infatti arenato al Senato e sembra che nelle intense trattative dei partiti sia vicina l’intesa per dimenticarsene del tutto. Tanto è vero che, come riporta “La Stampa”, nelle simulazioni sugli effetti di nuove leggi elettorali continua a far bella mostra il numero di 630 deputati. Cioè quello di oggi. L’intenzione dunque è quella di non cambiare nulla. E tutte le parole spese sulla riduzione? La solita presa per i fondelli.

http://www.sanguisughe.com/2012/06/il-taglio-dei-parlamentari-salta-pure-quello/

sabato 16 giugno 2012

11 Giugno ’46: fine della monarchia, a Napoli è l’inferno


Storie poco note che descrivono i connotati del paese.


Angelo Forgione - 2 e 3 Giugno 1946, il referendum sancisce un passaggio storico per la Nazione italiana dopo la guerra: la fine della monarchia e la nascita della Repubblica. I Savoia, dopo 86 anni di regno e di danni, perdono per sempre il trono.
Alla vigilia, il Nord del paese spinge per la repubblica ma gli italiani del Sud e delle Isole sono nella stragrande maggioranza monarchici. Il 4 Giugno è il giorno degli spogli e a metà delle operazioni la monarchia sembra in vantaggio, la previsione parla di vittoria del re Umberto II nonostante i misfatti del padre Vittorio Emanuele III nella guerra appena conclusa. È a questo punto che Palmiro Togliatti, leader del Partito Comunista, decide di intervenire direttamente assegnando ai funzionari addetti alle circoscrizioni «autonoma gestione dei voti al di fuori di ogni controllo». Tradotto in soldoni, bisogna far vincere la repubblica a tutti i costi. All’alba del 5 Giugno, senza risultati ufficiali, lo stesso Togliatti comunica l’esito pro-repubblicano ad Umberto II. Dopo un durissimo scontro tra i servizi segreti americani favorevoli alla Repubblica e quelli inglesi favorevoli alla Monarchia, nella notte tra il 5 ed il 6 Giugno i risultati si capovolgono in favore della Repubblica con l’immissione di una valanga di voti di dubbia provenienza.
[...]

martedì 12 giugno 2012

In mostra a S. Pietro i documenti del referendum del ‘46. Un patrimonio da riscoprire



In occasione della festa del 2 giugno celebrata a Marsala, è stata allestita la mostra “Marsala e la Repubblica” a Palazzo VII Aprile, sede dell'attuale Consiglio comunale, a cura di Milena Cudia, che rende pubblici e conoscibili a tutti, i documenti relativi al Referendum Istituzionale del 2 giugno 1946, in cui gli italiani furono chiamati a scegliere tra Repubblica e Monarchia. In particolare è possibile leggere i risultati ottenuti a Marsala, dove la Repubblica si impose con 22.099 voti, mentre la monarchia...
solo con 9.941, un risultato a dir poco schiacciante. Adesso la mostra si è spostata al Complesso Monumentale di S. Pietro e, come ci ha spiegato la Cudia, “...l'obiettivo principale è quello di far conoscere il prezioso patrimonio storico-culturale della nostra Città, soprattutto ai giovani, per far apprezzare il bene culturale e salvaguardarlo”. Da quello che si può leggere nei documenti storici, Marsala si è contraddistinta, a differenza di altre città, per il forte piglio repubblicano, sicuramente dovuto alla sua storia, un terreno fertile dove Garibaldi ed i suoi Mille hanno potuto davvero costruire l'Italia. “Il 7 aprile 1946, quindi poco prima del referendum, si tennero a Marsala le prime elezioni amministrative in forma democratica, dove votarono finalmente anche le donne – ci ha informato Milena Cudia – ed il sindaco eletto risultò Luca Frazzitta, firmatario del referendum. Ma abbiamo recuperato anche i registri di Giunta, del '46, che a maggio diede le disposizioni sul referendum, il registro sulla prima convocazione del Consiglio comunale dello stesso anno, più alcuni documenti storici davvero unici, riguardo il marsalese Francesco De Vita e i primi atti relativi alla stesura della Costituzione”. De Vita infatti, a soli 33 anni, venne votato nel collegio palermitano per fare parte della sottocommissione che si occupò della stesura di una parte della Costituzione, la prima, dall'articolo 13 al 54, sui diritti ed i doveri dei cittadini. Durante la festa del 2 giugno scorso, inoltre, alcuni alunni del Liceo Classico “Giovanni XXIII”, hanno letto dei passi scritti da Francesco De Vita sulla libertà e la necessità di riforme sociali che puntassero sul merito del cittadino e non sul privilegio; è stato letto anche un discorso di Calamandrei sulla Costituzione Italiana.
[...]
http://www.marsalace.it/web/index.php?option=com_content&view=article&id=6722:in-mostra-a-s-pietro-i-documenti-del-referendum-del-46-un-patrimonio-da-riscoprire&catid=37:iniziative

lunedì 11 giugno 2012

La Monarchia Sabauda e i problemi sociali - VI parte

VI - LA PROCLAMAZIONE DEL REGNO (1861), LE DIFFICOLTÀ DEL PRIMO DECENNIO E IL PAREGGIO DEL BILANCIO (1877)


Uno sfortunato scrittore siciliano - sfortunato perché la morte gli impedì di vedere pubblicata l'unica sua lodatissima opera -, nell'immaginare o, forse meglio, rievocare l'incontro di un aristocratico siciliano con un piemontese, all'indomani della liberazione del sud dai Borboni, così fa discorrere il primo:

« ... Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio vedo piuttosto -una centenaria trascinata in carrozzino all'Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, che si impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto a ritrovare il proprio dormiveglia... il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio... » (20).

Tale testimonianza e le altre -contenute nell'ormai famoso romanzo, anche se scritte ai nostri giorni, spiegano, forse più di un'ampia analisi storica, perché le speranze di benessere nutrite dai più, prima del '61, risultassero presto in gran parte deluse.

Francesco Ferrara, con Vittorio Scialoja il più grande economista italiano del tempo, notò che il Paese denunciava un'esasperante mancanza di iniziativa in materia economica ed era afflitto da «incertezza» e «mancanza di speranza nell'avvenire», proprio quando gli altri Stati procedevano spediti sulla strada del progresso (21).

Se scendiamo nei dettagli, ci rendiamo pienamente conto degli sforzi allora compiuti -per migliorare il desolante stato di cose.

Per cominciare, il disavanzo del bilancio era cresciuto nel '65 e nel '66, rispettivamente, a 532 e 634 milioni, ma l'adozione del corso forzoso (1866) poté condurre, nel giro di un decennio, al pareggio (1877): gran merito della Destra storica!

Altro aspetto inquietante era rappresentato dall'immobilità demografica delle città: mentre la popolazione totale era passata da 12, 13 milioni nel '60 a 25 milioni nel '61, le città non avevano generalmente visto aumentare i propri abitanti, «indice quanto mai significativo della stazionarietà di tutta la vita economica e sociale di gran parte delle regioni italiane » (22). Dopo il '66, anche tale fenomeno negativo comincia a dissolversi in talune regioni e Napoli, Roma, Milano e Torino si pongono all'avanguardia nello incremento demografico.

Trasferita la capitale da Torino a Firenze, l'incremento di Torino e quello di Milano, che pure aveva sofferto per la perdita della posizione della quale godeva nel Lombardo-Veneto, si spiegano con la formazione del triangolo industriale Torino - Milano - Genova e la industrializzazione dell'alta Lombardia.

Non si dimentichino inoltre i problemi di Venezia e di Roma, quello del contrasto Stato-Chiesa e l'altro del brigantaggio, piaga politica e sociale delle contrade meridionali. 

Moltissimo giovò a consolidare l'unità ed a creare, dal 1875-76, un effettivo mercato nazionale la politica ferroviaria del governo: nel 1877 le grandi costruzioni ferroviarie potevano già considerarsi ultimate, essendo in esercizio 8200 chilometri di ferrovie.

Gli anni difficili furono contrassegnati da agitazioni popolari, alle quali non poco contribuirono temporalisti, borbonici, austriacanti e in genere sostenitori dei regimi sconfitti dalla rivoluzione nazionale: Emilia, Romagna, Sicilia, furono i principali teatri di tali moti.

Le difficoltà del momento, le preoccupazioni che in uomini di alta responsabilità morale e civile, come Quintino Sella, destava, ad es., il problema, che sembrava irrisolvibile, del debito pubblico, dovuto in massima parte alle necessità connesse alle guerre di indipendenza, non si conciliavano con le esigenze di una politica di alleviamento delle condizioni economiche delle classi più umili; queste erano chiamate a dare un contributo non indifferente al risanamento finanziario dello Stato: i governi attuavano quella che oggi si dice una politica di « austerità ».

Molti malcontenti vedevano nel « piemontesismo » la ragione di tanti mali, ma a torto, perché «quel prevalere numerico dei Piemontesi ne,ll'amministrazione dello Stato era necessità di vita ... Per tutta una generazione dopo il '61, lo Stato italiano si trovò costretto ad attingere soltanto a quella riserva che il Piemonte poteva dargli . . . Oggi quelli che la mordace fiorentinità caricaturava appaiono ben altri: silenziosi al lavoro in quei duri anni, in cui era messa a prova la resistenza del nuovo debole organismo statale, che si andava consolidando tra enormi difficoltà amministrative, finanziarie, economiche, politiche e religiose ... A far l'Italia valse non poco questo duro lavoro di montanari » (23).

Altro elemento positivo fu dato dallo sviluppo della borghesia che, nelle industrie nascenti e nei commerci non più regionali, ma nazionali ed internazionali, nella pubblica amministrazione e nello artigianato cittadino, pur in varia misura, diede un contributo grandissimo all'affermarsi della nuova Italia. L'ascesa della borghesia fu palese dimostrazione della socialità della Monarchia sabauda che, dopo l'abolizione di ogni privilegio di ceto, altro non chiedeva se non intelligenza e volontà a chi si accingeva a salire i gradini della comunità.

Al dinamismo della borghesia cittadina si contrapponeva l'assai minore contributo di progresso della borghesia agraria. In effetti, uno dei problemi che rimasero anche dopo il terz'ultimo  decennio dell'800, quando altri parvero essere stati risolti, fu quello delle campagne insufficienti a sfamare il grandissimo numero di persone che su esse e per esse vivevano. Non mancò l'interesse del Parlamento, del Governo e degli studiosi: ricordiamo l'inchiesta

parlamentare del 1876, gli studi di F. S. Nitti e di Giustino Fortunato. Se un appunto può farsi ai governi del tempo è che essi, preoccupati di salvaguardare l'industria nascente, adottarono una politica doganale e tributaria dannosa all'agricoltura e quindi al Mezzogiorno che non aveva altre risorse, fenomeno però non limitato alla sola Italia, ma caratteristico di tutti i Paesi, all'affermarsi della grande industria.
L'emigrazione servì in gran misura a sanare le piaghe sociali in agricoltura, anche perché fece uscire i contadini dallo stretto ambito in cui erano vissuti per secoli, ne migliorò le condizioni economi-che, debellò l'usura, ridusse la delinquenza, diede loro una coscienza civile e il desiderio dell'istruzione (24).

Non è facile tracciare il quadro di un periodo in cui le più intelligenti e oneste intenzioni urtavano contro l'impossibilità pratica di attuarle, per un complesso di motivi le cui origini occorre spesso cercare in secoli e secoli addietro: l'istruzione elementare obbligatoria gratuita non poteva, ad es., trasformare milioni di contadini afflitti da millenaria ignoranza in persone sufficientemente istruite: essa giovò però alla piccola borghesia e all'artigianato cittadino e non poco contribuì ai progressi del secolo successivo in cui anche le classi più umili avrebbero avuto il diritto di voto.

Prima di chiudere questo capitolo, rammenteremo che sostanziali miglioramenti furono ottenuti nel campo della giustizia sociale, quando si passò, in merito agli infortuni sul lavoro, dalla teoria della « colpa soggettiva », per la quale il lavoratore infortunato, al fine di pretendere il risarcimento dal proprio datore di lavoro, doveva dimostrare l'esistenza di un rapporto di causa ad effetto tra questi e l'infortunio, a quella dell'« inversione dell'onere della prova » e poi a quella «contrattuale »: l'« inversione » attribuì l'onere della prova al datore di lavoro, mentre la teoria « contrattuale » gli impose anche la dimostrazione, per evitare il risarcimento, di aver usato la normale diligenza nel prevenire l'incidente (art. 1644 del Codice Civile del 1865: « L'imprenditore è responsabile dell'opera delle persone che ha impiegato »). Un ennesimo progresso fu segnato dalla teoria della « responsabilità obbiettiva », che trasferiva la responsabilità dalla persona alla cosa (art. 1153 C. C. 1865: «Ciascuno parimente è obbligato non solo pel danno che cagiona per fatto proprio ma anche per quello che viene arrecato col fatto delle persone delle quali deve rispondere, o delle cose che ha in custodia . . . »); essa preludeva a quella del « rischio professionale » attribuito al datore di lavoro come contraente più forte, indipendentemente da ogni misura precauzionale assunta per evitare il verificarsi del sinistro: questa teoria assicurava al lavoratore il risarcimento del danno in ogni caso, nell'ipotesi di infortunio.


(19) GINO LUZZATTO: « Storia economica dell'età moderna e contemporanea - Parte seconda: l'età contemporanea », CEDAM, Padova, 1948, pagine 321, 322, 323.

(20) GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA: «Il Gattopardo», Feltrinelli, Atilano, 1959, pag. 210.

(21) FRANCESCO FERRARA: «Rassegna di Finanza», in «Nuova Antoíogia, gennaio 1866.

(22) GINO LUZZATTO: «Storia economica deIl'età moderna e contemporanea - Parte seconda: l'età cont-,mporanea», CEDAM, Padova, 1948, pagine 352, 353.

(23) NICCOLO' RODOLICO: « Storia degli Italiani », Sansoni, Firenze, 1954, pagg. 910, 911.

(24) NICCOLO' RODOLICO, opera citata, pagg. 918, 919, 920.

sabato 9 giugno 2012

VACANZA ROMANA DI MARIA PIA COL MARITO MICHEL DI BORBONE


di Lidia Lombardi

Rossella: dopo 33 anni assurdo l'«esilio» degli ultimi sovrani


«Nel 1979 ero di sinistra e scrivevo per Panorama, settimanale di sinistra.


Andai a Cascais a intervistare Umberto II. L'ex re aveva una conoscenza incredibile dell'Italia di quegli anni. Nel suo studio, cataste di riviste del Touring Club consumate per quanto le aveva sfogliate. Toccammo l'argomento del ritorno delle salme reali a Roma, per la sepoltura al Pantheon. Un tema che trovava d'accordo pure la sinistra. Dopo 33 anni non è ancora avvenuto. Assurdo». Il rilievo è di Carlo Rossella, giornalista di razza e di bon ton. E lo fa davanti alla primogenita di Umberto II, Maria Pia, la principessa soave e glamour che ha saputo essere modella per Vogue e giornalista, al centro del bel mondo e custode saggia delle memorie familiari. La cornice dell'incontro è il romano Palazzo Ruspoli, dove Maria Pia e il principe Michele de Bourbon-Parma, suo secondo marito, sono stati ospiti per due giorni di Sforza Ruspoli. E dove appunto Rossella insieme al professor Guglielmo de' Giovanni Centelles ha parlato di fronte a un parterre de roi (il cardinal Poupard, Francesco Perfetti, Giulio Anselmi, Carla Fendi, Emmauele Emanuele, Janos Esterhazy tra gli altri) del libro «La mia vita, i miei ricordi» firmato per Mondadori da Maria Pia, e di «Un prince dans la tourmente», l'autobiografia del suo consorte. Foto inedite fanno la parte del leone nel volume della principessa Savoia. Quelle con maman Maria Josè, la regina altera che ebbe il coraggio di insultare gli occupanti tedeschi. Quelle degli anni portoghesi, del primo matrimonio con Alessandro di Jugoslavia, dei quattro figli. E ancora, gli scatti durante l'intervista al Duca di York e quelli della crociera organizzata dalla sovrana di Grecia, Federica. «Sotto la monarchia forse Atene stava meglio», commenta Carlo Rossella svariando dal mondo dorato degli anni '60 a quello tormentato di oggi. Ma a colpire sono soprattutto le pagine finali dell'autobiografia: «Non ho mai dimenticato che un sorriso e l'ottimismo servono a vivere la fantastica avventura che è la vita», scrive Maria Pia, principessa esiliata a dieci anni. «È maestra di stile - rilancia poi Rossella - Dei quattro fratelli, quella che somiglia di più a Umberto II. E la sua prediletta, come ben sapeva Giovanni Agnelli. Ma ci deve spiegare qualcosa in più di lei. Quel suo speciale rapporto con l'angelo custode...». Maria Pia glissa, charmant nella camicetta a ramages. Non una parola sul ritorno delle spoglie dei genitori in Italia, tantomeno sull'angelica protezione. «Sono felice di essere a Roma e di rivedere tanti amici dopo molto tempo». E cede la parola a Michele de Bourbon, che ha ancora, a 86 anni, il piglio elegante del francese e quello deciso del combattente. Le memorie pubblicate da Nimrod dicono del sedicenne addestrato negli Usa per la resistenza ai nazisti. Della guerra in Vietnam dove viene catturato dai vietmin e sbattuto per mesi in una prigione di canne di bambù. «Per raccontare quello che ho vissuto ho aspettato il Freedom Information Act», sottolinea. Anche lui è stato protetto dall'arcangelo.

venerdì 8 giugno 2012

Notizie della repubblica italiana: Quel bancomat senza limiti per i senatori


di Paolo Bracalin

Il conto del gruppo al Se­nato usato come bancomat, a cui attingere con molta libertà: nel mirino una ventina di senatori, tra Udc, Pd e Lega (ma sono attese new entry). I prelievi segnalati dalla filiale Bnl di Palazzo Madama. Sono 37,6 i milioni di euro per i gruppi parlamentari stanziati dal Senato nel bilancio del 2011


 - Una ventina di senatori, tra Udc, Pd e Lega (ma sono attese new entry). Il conto del loro gruppo al Senato usato come bancomat, a cui attingere con molta libertà.Le segnalazioni partite della filiale Bnl di Palazzo Madama verso Bankitalia, obbligatorie per la legge antiriciclaggio, sarebbero una quarantina in tutto, come svela il Quotidiano nazionale. Per il Pd sarebbero coinvolti alcuni senatori di area Margherita, ma il Pd nega tutto e minaccia querele. Tutto regolare anche secondo Udc e Lega. Dai rapporti però emergerebbero prelievi sul conto Lega nord per circa 2mila euro settimanali da parte di quattro senatori. Dal resoconto della Bnl, presto all’attenzione della Guardia di Finanza, risulta che i fondi pubblici destinati ai gruppi parlamentari, depositati in uno o più conti corrente intestati al partito presso il Senato, siano diventati di fatto, per alcuni senatori più introdotti nel meccanismo, una riserva liquida da usare come stipendio extra. 


In particolare ci sarebbe un senatore che ritira ogni mese 750 euro e li tiene per sé, come fosse il suo conto corrente. Un altro, racconta invece Qn, avrebbe delegato per il ritiro del cash un amico,noto come «spallone» (quelli che portano denaro in Svizzera). Altra pratica diffusa è quella di incassare assegni intestati a se stessi, frazionando in più operazioni cifre anche considerevoli, attività di cui era esperto Lusi, ex tesoriere della Margherita e appunto senatore, presenza frequente agli sportelli della Bnl al Senato.

[...]

http://www.ilgiornale.it/interni/quel_bancomat_senza_limiti_senatori/08-06-2012/articolo-id=591570-page=0-comments=1

Camera: torna busto Vittorio Emanuele II, proprio dove fu proclamata Repubblica




Roma, 7 giu. (Adnkronos) - 
Vittorio Emanuele II, primo re d'Italia dal 1861 al 1878, riemerge dagli scantinati di Montecitorio per tornare ai piani alti del Palazzo. Per decenni il suo candido busto marmoreo e' rimasto sepolto nel magazzino della Camera. Ma dal primo giugno, giorno di inaugurazione del percorso espositivo permanente sul significato storico, politico e culturale del Parlamento, il 're galantuomo' ha trovato posto tra i padri della Patria, nella galleria dei busti, al primo piano.

Una Presidentessa della Repubblica? Con il Re non sarebbe successo. Viva la Monarchia



Cara lettrice, Caro lettore,
è giunta una missiva con la quale è richiesto il nostro aiuto per dirimere un dubbio. Di seguito la lettera e la risposta.
Gentilissimo D’Aspromonte
non so se sbraitare, esultare o se trincerarmi dietro un malinconico silenzio, per la voce che darebbe Emma Bonino come futuro Presidente della Repubblica Italiana. La notizia arriva da una fonte certa (un tale giornalista parlamentare) e quindi mi verrebbe da crederci.
Lei cosa ne pensa?
Ossequi
Lettera Firmata
Gentilissimo signore,
leggo la sua firma e dunque sono onorato di averLa tra i miei lettori, ma sgombero subito il campo dai fraintendimenti dicendoLe che sono un monarchico convinto, quindi al Quirinale uomo o donna per me pari son.
Vorrei augurarLe il contrario, ma temo che anche Lei rimpiangerà la suprema Lex Salica sulla quale si regge la linea di successione al trono d’Italia in casa Savoia. «De terra vero nulla (salica) in muliere hereditas non pertinebit, sed ad virilem sexum qui fratres fuerint tota terra pertineat » « Nessuna terra (salica) può essere ereditata da una donna, ma tutta la terra spetta ai figli maschi ».

Suggerirei, ad ogni modo, di non accalorarsi molto sulla vicenda e soprattutto di mantenere un certo contegno. Innanzitutto perché la sua fonte è tra le più fallaci che esistono a questo mondo - i giornalisti sono dei noti fanfaroni - ma soprattutto perché la voce di un gentiluomo deve essere udibile solo dal più vicino interlocutore. Figurarsi sbraitare. Comunque sia Le consiglio, per adesso, di trincerarsi dietro il massimo riserbo. Ad esultare, si fa sempre in tempo, che tanto il carro dei vincitori viene allargato in corso d’opera.
D’altro canto, spero convenga con me, sarebbe tempo che le donne arrivino al potere in Italia. Non ce ne voglia nessuno, soprattutto le gentildonne, ma almeno sarebbero i fatti a parlare e nessuno potrebbe tacciare questi di sessismo. Tendo sempre a diffidare da qualsiasi uomo che sponsorizza una donna, avrà senz’altro doppi fini. Il più meschino dei quali è fornirsi di un paravento. Spero voglia fare altrettanto.
Lei è una così brava persona, a tal punto che potrebbe formalizzare la sua candidatura come prossimo Presidente della Repubblica Italiana. Un comune amico giornalista ha confermato che nei giorni scorsi il segretario di un partito politico si era lasciato sfuggire, in una sorta di lapsus freudiano, il suo nome come prossimo Presidente della Repubblica. Spiace chiederglielo, ma cos’è successo dopo? Non vorrei darLe troppi consigli raffazzonati, però le converrebbe organizzare un comitato che perori la sua candidatura. Tenga presente che noi saremmo felici di fornirle tutto il supporto di cui ha bisogno, a patto che Lei si adoperi per indire un referendum che permetta agli italiani di scegliere una volta per tutte tra Repubblica e Monarchia. Questa volta, però senza imbrogli. Badi bene.
Cordialità
GianMaria D’Aspromonte 

http://www.linkiesta.it/blogs/le-flaneur/una-presidentessa-della-repubblica-con-il-re-non-sarebbe-successo-viva-la-monarchia

giovedì 7 giugno 2012

La monarchia festeggia, la repubblica litiga



di Alessandro Campi
Domenica scorsa i sudditi di Sua Maestà britannica hanno festeggiato in pompa magna e in un clima di grande festa, sfidando una pioggia inclemente e un freddo quasi invernale, i sessant’anni di regno di Elisabetta; una regata di oltre mille imbarcazioni, aperta dal battello reale, ha percorso il Tamigi tra due ali di una folla applaudente, per non dire dei ricevimenti e dei fuochi d’artificio, dello sfoggio di abiti e del diluvio di rose e garofani che hanno scandito questa ricorrenza.
Nei giorni precedenti, i cittadini italiani e le forze politiche si sono invece divisi, arrivando a darsi del farabutto e dell’indecente, sulla cerimonia che ogni 2 giugno – attraverso la parata militare ai Fori imperiali e il ricevimento del giorno precedente nei giardini del Quirinale – dovrebbe ricordare la nascita della Repubblica italiana.
Da cosa dipende questa plateale differenza?
Si potrebbe rispondere che alle monarchie, ancorché costituzionali, sono connaturate per ragioni storiche cerimonie e coreografie; esse vivono di orpelli e messe in scena teatrali, di onorificenze, mostrine e fasti. Gli splendori e le solennità non si addicono invece alle istituzioni politiche repubblicane. La loro legittimità storica, infatti, non deriva da simboli e riti ancestrali, attraverso i quali rappresentare un potere che da un pezzo ha smesso di essere assoluto e insondabile. Deriva piuttosto dal rispetto che tutti i cittadini, compresi i governanti, debbono alla legge, che non ha nulla di arcano o misterioso ma è lo strumento, razionale e prosaico, attraverso il quale una comunità organizzata la propria esistenza.
Ma questa spiegazione non regge, se è vero che in tutte le democrazie contemporanee (in larga parte repubblicane) l’uso di simbolismi (a partire dalla bandiera) e di festività politico-civili, di modelli rituali solenni e di cerimonie scandite da un rigido protocollo, di forme di rappresentazione del potere che spesso rimandano ad una dimensione liturgico-sacrale, costituisce parte integrante della vita istituzionale. Le repubbliche o le democrazie non sono per definizione noiose e tristi, incapaci di suscitare passioni collettive o forme di coinvolgimento emotivo; riposano anch’esse su un fondamento mitico-irrazionale, hanno bisogno a loro volta, per suscitare consenso, di simboli, formule retoriche e feste di popolo.
Si potrebbe anche dire che, in questa particolare congiuntura storica, l’Italia ha altro cui pensare che a cerimonie, parate e ricevimenti di gala. Con la crisi economica che morde le famiglie, perdersi in festeggiamenti significa, come ha elegantemente sostenuto Roberto Maroni, “buttare i soldi nel cesso”. I contribuenti, peraltro sempre più tartassati dalle tasse, come possono tollerare un simile spreco di risorse pubblico a beneficio peraltro di una piccola minoranza di privilegiati che si limita a celebrare se stessa? Il problema è che neanche la Gran Bretagna, di questi tempi, è esente da difficoltà finanziarie e da problemi sociali anche gravi, che forse avrebbero dovuto consigliare anche lì risparmi e tagli di bilancio. Ma perché oltre Manica nessuno ha considerato il giubileo della regina uno spreco o un insulto alla miseria? Forse che i sudditi di Elisabetta sono più irresponsabili o meno intelligenti di quei cittadini italiani che in questi hanno gridato allo scandalo con ogni possibile argomento?
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mercoledì 6 giugno 2012

La storia di una bandiera. La storia in una bandiera



Il Presidente del Consiglio comunale uscente, Francesco Alfano, esprime le più sentite condoglianze e si stringe al dolore della famiglia Brucculeri per la perdita del caro Giuseppe, persona generosa animato da autentico amore verso la Città, che ha donato ai concittadini la storica prima bandiera tricolore, esposta in Girgenti nell’aprile del 1860 davanti la chiesa di San Lorenzo (Purgatorio), ed oggi in mostra presso l’aula “Sollano” di Palazzo dei Giganti. Sulla importante donazione si acclude una nota storica a firma di Settimio Biondi.

La storia non ci dice se la bandiera italiana recentemente donata al Comune di Agrigento da un nostro commendevole concittadino, il geometra Giuseppe Bruccoleri, sia stata o meno la prima ad essere allestita in Città; ci dice però che fu la prima in assoluto ad essere esposta in pubblico. Non è infatti improbabile che una qualche similare bandiera sia stata preparata ed occasionalmente esposta nel chiuso di qualche magione di patrioti locali, tra pareti domestiche che favorivano e proteggevano gli incontri e i conciliabili dei girgentini anti borbonici ed anti napoletani, come allora si usava dire. La bandiera tricolore poteva ben servire a rafforzare gli animi, a coagulare i sodali e a fare sperare nel futuro degli avvenimenti. E però, al di là di questa non peregrina ipotesi sulla quale nulla ci dice la storia per mancanza di fonti tanto avverse che confermative, noi sappiamo che una bandiera unitaria nazionale venne confezionata da Caterina Ricci Gramitto madre di Luigi Pirandello, ed estesa a sventolare tra le mani, che sembravano essere scolpite proprio per questo, di una delle settecentesche statue della chiesa di San Lorenzo. A dircelo è proprio il figlio di quella madre, il nostro grande drammaturgo. Certo, Caterina Ricci Gramitto si compiaceva di quel ricordo, lo trasmetteva ai figli. L’episodio, risalente al 1860, era divenuto di dominio pubblico nella cerchia di quelle persone, notabili e civili, che facevano opinione e custodivano la memoria della Città. Il patriottismo risorgimentale ed unitario siciliano trovava i proprio prodomi nel patriottismo indipendentista della prima metà dell’800, fondato sul risentimento storico anti napoletano prima ancora che anti borbonico. I patrioti del 1860 saranno gli stessi patrioti della rivoluzione del 1848, o i loro figli e nipoti. Nel 1848 la famiglia Ricci Gramitto aveva patito diverse tribolazioni, culminate nell’esilio maltese di Rocco, che aveva combattuto con idee ed opere per l’indipendenza siciliana sotto la bandiera rosso-gialla della Trinacria. Questi ricordi dolevano ancora nella mente di Caterina Ricci Gramitto, e su di essi fece rivalsa, in un contesto rinnovato che vedeva sostituita all’idea autonomista quella unitaria nazionale, con il trionfante allestimento di quel drappo tricolore, adornato nella candida banda centrale dallo scudo crociato di Casa Savoia ed esposto in S. Lorenzo per salutare una nuova e vindice storia. Prezioso cimelio, dunque: sia per le circostanze in cui venne esteso, sia perché cucito da una donna il cui figlio si sarebbe chiamato Luigi Pirandello.
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Clotilde di Savoia. Il “sì” che fece l’Italia.



Cristina Tessaro
“Il mio dovere è di rimanere qui tanto che lo potrò, dovessi io restarci e morirvi; non si può fuggire davanti al pericolo. […] Non tengo al mondo, alle ricchezze, alla posizione che ho, non ci ho mai tenuto caro papà; ma tengo ad adempiere fino alla fine il mio dovere. […] Non sono una principessa di Casa Savoia per niente!”.
A pronunciare queste parole, capolavoro di coraggio e di dedizione alle proprie responsabilità, fu la ventisettenne Clotilde di Savoia, figlia primogenita di Vittorio Emanuele II. Furono scritte a pochi giorni dal 2 settembre 1870, quando, con la sconfitta dei francesi ad opera dei prussiani a Sedan, si registrò l’irreversibile crollo del Secondo Impero e del suo fautore Napoleone III. Allora la principessa si trovava a Parigi, dove viveva dal 1859 quando, non ancora sedicenne, aveva sposato il cugino dell’imperatore, il principe Napoleone Giuseppe Carlo Paolo Bonaparte.
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martedì 5 giugno 2012


L’altra faccia del 2 giugno,
quella che non raccontano a scuola

LA STORIA - Mi avevano detto che gli italiani con un referendum avevano dato un calcio nel culo ai Savoia nel primo grande trionfo della democrazia che americani e partigiani avevano riconsegnato al popolo, finalmente sovrano. Il prof non mi disse il contrario, semplicemente mi raccontò tutti gli interrogativi che per sempre rimarranno nell’ombra

Federico Quarato
Festa della Repubblica 2 giugno
“Questa è una storia che a scuola nessuno vi ha mai raccontato”. È iniziata così la mia ultima lezione di lettere sui banchi del Liceo Marconi di Milano, un piccolo scientifico di periferia. Non ne ricordo molte altre, questa invece è nitida come fosse ieri: era venerdì 1 giugno 2007. La voce era quella roboante di un professore giovane ma all’antica, saggio come i vecchi, l’unico che avrei voluto chiamare volentieri maestro. Fin dalle elementari mi avevano insegnato cos’era la Repubblica, cos’era la festa del 2 giugno. Mi avevano raccontato che gli italiani con un referendum avevano dato un calcio nel culo ai Savoia nel primo grande trionfo della democrazia che americani e partigiani avevano riconsegnato al popolo, finalmente sovrano. Fin a quel giorno mi sentivo orgoglioso del nostro ordinamento. Il prof non mi disse il contrario, non diede giudizi, semplicemente mi raccontò tutti gli interrogativi che per sempre rimarranno nell’ombra. Mi raccontò la cronistoria del referendum del 2 giugno di 61 anni prima (ora sono 66 ndr).
2 giugno 1946: gli aventi diritto al voto sono circa 28 milioni. Non votano i cittadini dell’Alto Adige e della Venezia Giulia perché non ancora tornati totalmente sotto la sovranità italiana. Per la prima volta in Italia votano in una consultazione elettorale nazionale anche le donne. Era già successo in primavera, tra il 10 marzo e il 7 aprile, ma si trattava di elezioni locali (in 5.722 comuni, 7.862.743 uomini e 8.441.537 donne andarono alle urne).
4 giugno 1946, ore 8:00: secondo il Ministero dell’Interno sono già stati scrutinati gran parte dei seggi del nord Italia, mentre rimangono incompleti quelli del Sud. Alla Repubblica andava il 65% dei consensi, alla Monarchia il 35%. Dato che nel meridione prevalevano di gran lunga i monarchici, il Presidente del Consiglio De Gasperi comunica al Re che la Monarchia sta vincendo il referendum e si dichiara pronto a dimettersi alla conferma dei risultati.
4 giugno 1946ore 18:00: il Ministero dell’Interno annuncia che le circoscrizioni del Nord sono quasi tutte scrutinate mentre al Sud manca ancora parecchio. La Monarchia si attesta già alle soglie del 55%.
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lunedì 4 giugno 2012

Eugenio di Savoia Difensore della Tradizione e della Cristianità II Parte


di Gianluigi Chiaserotti

Dalla conversazione tenuta il 20 novembre 2005 a  Roma al Circolo di Cultura e di Educazione  politica “Rex”




Sempre a Vienna, nel cuore della città, l’imperatore Francesco Giuseppe d’Absburgo (1830-1916) gli fece erigere  (1859) un monumento equestre modellato dal Fernkorn proprio di fronte al palazzo imperiale nella Heldenplaz. Vi è un monumento anche a Budapest, dinanzi all’entrata principale del Palazzo Reale ed affacciato sul Danubio. Sul basamento del monumento viennese, nelle tre targhe di bronzo, si legge:  “Al saggio consigliere di tre imperatori”, “Al glorioso vincitore dei nemici dell’Austria”, “Al Principe Eugenio, il Nobile Cavaliere”. I tre imperatori furono: Leopoldo I, Giuseppe I e Carlo VI.

Una cantabile melodia, nata sul campo – durante l’assedio di Belgrado – recita: “Prinz Eugen, der edle Ritter….. (il Principe Eugenio, il nobile cavaliere…….)”. Tuttora l’inno ufficiale della nostra cavalleria è la “Marcia del Principe Eugenio”, composta, nel 1914, da Gustav Leonhardt.

Scrive di lui un grande storico della Chiesa: “terminava la serie delle Crociate, da Goffredo di Buglione sino ad Eugenio di Savoia”.

Lo storico, generale Carlo Corsi, nel 1884, scrisse di Eugenio di Savoia che “(…) sovrastò gli altri Capitani dei suoi tempi per l’ingegno strategico e per la severa osservanza della militare disciplina. Tolse regola a’ suoi atti dalle qualità del terreno e del nemico e fu altrettanto pronto e vigoroso nell’eseguire quanto audace nell’immaginare, sicchè potè condurre a buon esito imprese che apparvero temerarie (…) Lo si addita come sommo nel condurre le marce e nello scegliere il punto ed il momento opportuno per gli assalti decisivi. Oltre la nobiltà del sangue e dei modi, concorsero a procacciargli il rispetto e la devozione dei capi e delle milizie la severità dei costumi, la maestà della parola ed il freddo coraggio veramente meraviglioso, ch’era attestato dalle ferite toccategli in tredici battaglie.”                    Ed ancora, il poeta e drammaturgo austriaco Hugo von Hoffmannsthal (1874-1929), nel 1914, scrisse di lui, fra l’altro, parole divenute  famose: “(…) rimanere alla testa di un esercito, come egli rimase, conducendolo a battaglie e poi ancora a battaglie, ad assedi e poi ancora ad assedi, per trentanove anni. Tirarlo fuori dal fiume Sava, condurlo in Lombardia e poi indietro, attraverso il Tirolo verso la Baviera e sul Reno e poi di nuovo giù nel Banato e su, un’altra volta, nelle Fiandre. Cadere ferito per tredici volte e poi di nuovo sul cavallo, di nuovo in tenda, di nuovo in trincea. Ed i suo sguardo d’aquila su tutto, sull’esercito e sulle salmerie, sull’artiglieria e il territorio e il nemico. E la brevissima preghiera prima dell’azione” come prima abbiamo ricordato “quel di lui “Mon Dieu!”, con uno sguardo verso il cielo, eppoi il segno “Avancez!”, con un unico breve movimento della mano. Spingere tutto ciò, sempre avanti, con la sola forza della volontà. E mantenere ogni cosa in vita, imporre tutto con forza vitale, compensare, nutrire, penetrare tutto col suo spirito, e per trentanove anni. Quale fatica d’Ercole!.
Il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) giudicò Eugenio di Savoia: “(…) un filosofo guerriero, che considera con indifferenza la sua dignità e la sua gloria, discorre degli errori che ha commesso con la massima schiettezza, come se parlasse di un altro e che è più caldo ammiratore delle altrui virtù che delle proprie.

Il Principe Eugenio, nel corso del lungo esilio dei nostri Sovrani, fu ricordato almeno due volte, ed a Vienna. La prima fu nel 1963, Terzo Centenario della nascita, alla presenza del Principe Adalberto di Savoia-Genova, Duca di Bergamo, (1898-1982), in rappresentanza del Re Umberto II, e la seconda nel settembre 1986, 250mo anniversario della scomparsa, alla presenza del Principe Vittorio Emanuele di Savoia, ci siam recati nel Duomo di Santo Stefano nella Cappella dedicata al Nostro, e dove abbiamo provato, innanzi all’”urna” del “forte” Eugenio, una rinnovata patriottica scintilla foscoliana.

Non Vi abbiamo volutamente parlato della vita privata del Principe Eugenio di Savoia, di cui ben poco si conosce. Possiamo dire solo che era un uomo occupatissimo, modesto nel vestire – solitamente indossava una giubba di panno scuro, senza distinzioni – non si sposò e non si creò una propria famiglia. Ma un unico fatto conosciuto, che dia la sensazione di un omaggio profondo e duraturo alla Femminilità, è la sua lunga, costante, palese amicizia con la contessa Lori (Eleonora) Batthyani, splendida dama e gentildonna di grande intelligenza e di eccezionale cultura, alla quale il Principe rendeva visita nel di lei palazzo in Vienna, e ciò anche il 20 aprile 1736, ultima sera della vita del Nostro.                 Non abbiamo altresì accennato a’ diversi e multiformi aspetti della sua vita pubblica, ma solo e soltanto sottolineato i maggiori titoli della sua grandezza: la difesa dell’Impero, dell’Europa e della Civiltà Cristiana. Grandezza che trae la sua fonte dalla lotta, dal sacrificio, da una forza messa al servizio dei grandi ideali. Se questi ideali non sono morti, se vera grandezza fu quella di Eugenio, non sarà grandezza, non sarà nobiltà, non sarà eroismo, quello di chi, confidando nell’aiuto di Dio, vorrà dedicare le sue energie a difendere anche oggi, nel Terzo Millennio dell’Era Cristiana, l’Europa e la Civiltà Cristiana dai suoi nemici, in una lotta che non è militare, ma prima di tutto ideologica e morale?

L’Europa del Nostro era romana, cristiana e libera in campo politico, militare, scientifico, letterario ed artistico in un’epoca in cui – fra l’altro – netta era ancora la distinzione fra il bene ed il male, fra le virtù ed i vizi e fra la verità e la menzogna. Ed Eugenio è la personificazione di ciò!

Eugenio, il grande “defensor christianorum” – emulo dei grandi da Lepanto a Belgrado (vittorie tutte ispirate dalla Madonna, come più volte abbiamo detto e scritto) – solo con la sua fede in Dio e nella Madonna potè arrivare a tanto e fare tanto per la Chiesa e contro gli infedeli. Egli è la personificazione dell’uomo che respinge la tentazione della mediocrità e della resa per la resa e pone innanzi a tutto la fedeltà, il dovere, il sacrificio e la lotta. Egli è un crociato nel senso che la Storia, Maestra di vita, ci tramanda questa figura. E le Crociate sono tutte un’ispirazione mariana.

Rodi, Lepanto, Vienna, il filo conduttore è sempre lo stesso: combattere, in nome di un’ispirazione, il male e gli infedeli.

La scelta di Eugenio deve  essere la nostra scelta contro l’attuale male, odio e violenza verso una pace anche e soprattutto interiore.

Noi per il futuro vogliamo la pace; quella vera a cui tutte le forze del nostro cuore, sinceramente e profondamente aspirano.

Eppoi la visione dell’Europa che il Principe Eugenio ha, per il futuro, ispirato, e che si è concretizzata nel 1989 con la caduta dei regimi estranei che da oltre quarant’anni imperversavano nell’europeissimo est europeo.

Ed ecco che si torna a parlare di Monarchia: di sentimenti tradizionali, di interesse per le nobili figure dei Re: Michele per la Romania, Simeone per la Bulgaria, Wladimiro per la Russia, Otto d’Absburgo per l’Ungheria. Si torna a parlare di Monarchia nei paesi che, fino al 1918,  erano il cuore dell’Europa tradizionale e sopranazionale. Solo in Italia si continua ad addurre ai Savoia colpe, se di colpe di deve parlare, che furono di altri.

Quindi Eugenio Francesco di Savoia Carignano Soissons è la Tradizione, è l’Europa.

Perché coloro che hanno redatto la Costituzione Europea - solennemente sottoscritta a Roma il 29 ottobre 2004 - non hanno tenuto conto nel c.d. “Preambolo” di questi valori? I valori cristiani e tradizionali che hanno rappresentato, che rappresentano e che rappresenteranno il nostro Continente. I valori fatti propri da Eugenio. Valori, come ho già detto, che poi sono gli stessi da Lepanto in poi.

Questa è la strada mostrataci da Eugenio!

Nell’attesa del fulgido giorno, di quel sole “libero e giocondo” che è il restauro della Monarchia, partiremo spiritualmente da Roma, perché italiani, perché europei e proclameremo l’opera e le gesta indicateci del grande Eugenio Von Savoy che benediremo.

In ogni epoca, come abbiamo ampiamente visto e commentato, l’umanità ha dovuto combattere contro il c.d. “male”, che potevano essere i barbari nell’antica Roma, gli infedeli ai tempi delle Crociate, la cupidigia, che sotto l’allegorica forma di una lupa, Dante, nella sua “Commedia” al Canto I dell’Inferno, di essa dice:


Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ‘l Veltro
verrà, che la farà morir con doglia.

E’ la profezia “ante eventum”, l’unica tale nella Divina Commedia.
Sarà venuto questo “Veltro”.
Con una libera interpretazione potrebbe essere stato Eugenio di Savoia Carignano Soissons?