NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 7 giugno 2012

La monarchia festeggia, la repubblica litiga



di Alessandro Campi
Domenica scorsa i sudditi di Sua Maestà britannica hanno festeggiato in pompa magna e in un clima di grande festa, sfidando una pioggia inclemente e un freddo quasi invernale, i sessant’anni di regno di Elisabetta; una regata di oltre mille imbarcazioni, aperta dal battello reale, ha percorso il Tamigi tra due ali di una folla applaudente, per non dire dei ricevimenti e dei fuochi d’artificio, dello sfoggio di abiti e del diluvio di rose e garofani che hanno scandito questa ricorrenza.
Nei giorni precedenti, i cittadini italiani e le forze politiche si sono invece divisi, arrivando a darsi del farabutto e dell’indecente, sulla cerimonia che ogni 2 giugno – attraverso la parata militare ai Fori imperiali e il ricevimento del giorno precedente nei giardini del Quirinale – dovrebbe ricordare la nascita della Repubblica italiana.
Da cosa dipende questa plateale differenza?
Si potrebbe rispondere che alle monarchie, ancorché costituzionali, sono connaturate per ragioni storiche cerimonie e coreografie; esse vivono di orpelli e messe in scena teatrali, di onorificenze, mostrine e fasti. Gli splendori e le solennità non si addicono invece alle istituzioni politiche repubblicane. La loro legittimità storica, infatti, non deriva da simboli e riti ancestrali, attraverso i quali rappresentare un potere che da un pezzo ha smesso di essere assoluto e insondabile. Deriva piuttosto dal rispetto che tutti i cittadini, compresi i governanti, debbono alla legge, che non ha nulla di arcano o misterioso ma è lo strumento, razionale e prosaico, attraverso il quale una comunità organizzata la propria esistenza.
Ma questa spiegazione non regge, se è vero che in tutte le democrazie contemporanee (in larga parte repubblicane) l’uso di simbolismi (a partire dalla bandiera) e di festività politico-civili, di modelli rituali solenni e di cerimonie scandite da un rigido protocollo, di forme di rappresentazione del potere che spesso rimandano ad una dimensione liturgico-sacrale, costituisce parte integrante della vita istituzionale. Le repubbliche o le democrazie non sono per definizione noiose e tristi, incapaci di suscitare passioni collettive o forme di coinvolgimento emotivo; riposano anch’esse su un fondamento mitico-irrazionale, hanno bisogno a loro volta, per suscitare consenso, di simboli, formule retoriche e feste di popolo.
Si potrebbe anche dire che, in questa particolare congiuntura storica, l’Italia ha altro cui pensare che a cerimonie, parate e ricevimenti di gala. Con la crisi economica che morde le famiglie, perdersi in festeggiamenti significa, come ha elegantemente sostenuto Roberto Maroni, “buttare i soldi nel cesso”. I contribuenti, peraltro sempre più tartassati dalle tasse, come possono tollerare un simile spreco di risorse pubblico a beneficio peraltro di una piccola minoranza di privilegiati che si limita a celebrare se stessa? Il problema è che neanche la Gran Bretagna, di questi tempi, è esente da difficoltà finanziarie e da problemi sociali anche gravi, che forse avrebbero dovuto consigliare anche lì risparmi e tagli di bilancio. Ma perché oltre Manica nessuno ha considerato il giubileo della regina uno spreco o un insulto alla miseria? Forse che i sudditi di Elisabetta sono più irresponsabili o meno intelligenti di quei cittadini italiani che in questi hanno gridato allo scandalo con ogni possibile argomento?
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