NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 31 dicembre 2015

31 Dicembre


Siamo innamorati di Giovannino Guareschi. 
E non siamo gli unici.
Grazie a Francesco Maurizio Di Giovine!
Auguri, amici!

martedì 29 dicembre 2015

Primo Carnera e il Re Umberto II

di Emilio del Bel Belluz

Un giorno Primo Carnera e sua  moglie si trovavano alla stazione ferroviaria di Venezia e da lì dovevano partire per Roma. La guerra non era ancora finita. Su un altro treno passava il principe  Umberto e si accorse che tra quella gente vi era il grande campione del mondo dei pesi massimi Primo Carnera. 
Il pugile emergeva con la sua figura imponente, era alto almeno due metri ed aveva un fisico da gladiatore. Il campione di Sequals, da qualche anno, aveva appeso i guantoni al chiodo, perché durante il periodo bellico non venivano organizzati incontri di boxe di grande rilievo. 
Dal  libro dedicato al pugile Primo Carnera “ Mio padre Primo Carnera “ ho tratto questo emozionante racconto scritto dalla figlia Maria Giovanna:” Il principe ha fatto fermare il treno ed è sceso per andargli a stringere la mano. Il futuro Re d’Italia a Carnera! 
La mamma era incinta di qualche mese. Con la presenza di spirito che la contraddistingueva  ha chiesto:“ Maestà, se nascerà un ragazzo ci permettete di chiamarlo Umberto?”. La risposta è stata:” Senz’altro, per me sarebbe un onore “. 
E’ stato un incontro consumatosi  in pochi attimi, ma di cui papà ci raccontava sempre con emozione. … “ Con i reali si è poi creato un legame affettivo duraturo, andato oltre il tramonto della Monarchia in Italia. Quando Umberto è nato la Casa Reale ha mandato in regalo un paio di guantini in pelle, con lo stemma dei Savoia, che la mamma ha conservato tanti  anni come ricordo. 
Abbiamo ricevuto telegrammi di Umberto II quando Giovanna Maria si è sposata e quando papà è morto. Inoltre, tanti anni dopo quell’incontro  alla stazione, l’ex Re ormai in esilio è capitato per un viaggio a Los Angeles. Sapeva che noi vivevamo lì, è venuto a trovarci e quando è entrato dalla porta la prima cosa che ha chiesto è stata: “Dove è il mio Umberto?”. Di quella promessa fatta dalla mamma  non si era dimenticato neppure lui”. Il 22 maggio 1967, nel momento in cui il campione ritornava in Italia gravemente ammalato, il Ministro Lucifero, per incarico del Re, gli scrisse una lettera molto commovente. 
“Caro Carnera, Sua Maestà il Re, che ricorda di avere avuto il piacere di incontrarla a Los Angeles nel novembre 1963, desidera farle giungere il suo saluto augurale, affettuoso e amichevole nel momento in cui ella torna in Patria. A lei che ha dato all’Italia per primo il massimo alloro mondiale e che è circondato dall’ammirazione e dalla simpatia di tutti, Sua Maestà si è compiaciuto darle la tangibile attestazione del Suo Alto apprezzamento e lei ne riceverà partecipazione ufficiale, mentre augura di cuore che le sue condizioni di salute si ristabiliscano completamente, nella quiete del paese natale. Il Re Umberto l’abbraccia bene augurando e saluta cordialmente la gentile signora Pina. Da me, che ho avuto pure la fortuna di incontrarla  a Los Angeles, voglia accogliere, con la gentile Consorte, gli auguri e i saluti migliori. 
Al Comm. Primo Carnera- Sequals- Udine. Falcone Lucifero.  

Credo che il Re abbia amato Primo, che per primo e unico, onorò l’Italia con la conquista di un titolo mondiale nelle categoria regina quella dei pesi massimi, e durante l’incontro molte bandiere Sabaude sventolavano prima e dopo il massimo trionfo. Alla fine del match, Primo alzò al cielo la bandiera Sabauda,  dando l’impressione di volerlo toccare. 
Alcuni anni fa, venne prodotto un ottimo film sulla vita di Carnera e nella scena per l’incontro per il titolo mondiale, vi erano delle bandiere sabaude, ma c’era pure una bandiera senza lo stemma che sventolava, e questa bandiera non aveva verità storica. Nessuno ha mai potuto togliere la gioia che Primo creò nella sua patria. 
Gli italiani residenti in  America avranno, di sicuro,  sventolato il tricolore del Re ed esposto delle proprie case la bandiera della loro patria lontana. La nostalgia per la propria terra lontana sarà stata mitigata dal successo del loro compaesano. 
Il Re Umberto stimava quel gigante dal cuore d’oro e dalle mani d’acciaio. Spesso mi capita di vedere delle ricostruzione  storiche dove volutamente si omette di collocare la bandiera del Re. Ho avuto occasione di sfogliare molti libri delle classi elementari degli anni cinquanta e quando ricordavano la terra d’Italia nella Grande Guerra veniva riportata la bandiera senza lo stemma Sabaudo. 
Non si deve accettare mai la verità mistificata  che gli storici hanno scritto con la penna rossa. Carnera quando tornò in Italia fu accolto da ali di folla. Solo un mese dopo, il 29 giugno 1967, a trentatré anni dalla conquista del titolo mondiale, il gigante si spense a Sequals, il paese dove era nato sessantun anni prima. 
Anche Re Umberto avrebbe  ardentemente sperato di poter morire nel Paese dove era nato, ma non gli fu mai permesso di tornare nella sua patria. Morendo pronunciò l’unica parola che aveva nel cuore e che rappresentava il suo ultimo desiderio :” Italia”.

sabato 26 dicembre 2015

UNA STORIA DI NATALE.

di Francesco Maurizio Di Giovine

Cari Amici che mi seguite sulle pagine di questo gruppo e date il vostro gradimento scrivendo "mi piace". 

Ricorrendo il Santo Natale ho pensato a Voi e, per ringraziarvi, voglio raccontare un fatto accaduto più di trenta anni or sono. Quel fatto, per me, trascende l'aneddotica potendo entrare nel patrimonio ideale di una generazione di giovani che ebbero la fortuna di militare nel F.M.G. .

Era pomeriggio del Venerdì 18 marzo del 1983. Ero in casa e la radio accesa mi faceva compagnia. Il Giornale Radio annunciò la morte, in una clinica svizzera, dell'ultimo Re d'Italia. 
La notizia non mi colse di sorpresa. Sapevo che il Re stava male. Ma l'annuncio della sua morte mi diede tanta sofferenza. 
Improvvisamente squillò il telefono. Dall'altra parte una voce rotta dall'emozione disse: "Maurizio, hai saputo?" Risposi tristemente di si. 
Era un vecchio maresciallo dell'Arma, mio buon amico, che giovanissimo, aggregato al Reggimento Cavalleggeri di Alessandria,si era guadagnato una Croce di Guerra al Valor Militare comportandosi da eroe nell'ultima carica della Cavalleria Italiana, a Poloi, nell'ottobre del 1942. 
In serata ebbi dei contatti con l'Istituto Nazionale delle Guardie Al Pantheon, di cui facevo parte, accettando di essere della pattuglia che avrebbe vegliato il Re sino alla sepoltura. Il giorno seguente, sabato, dopo mezzogiorno, partii in auto per Altacomba assieme al mio amico, dott. A. C., anch'egli Guardia d'Onore. 
Cominciava ad imbrunire quando giungemmo al passo del Frejus. Avevamo scelto quel transito perchè temevamo di incontrare la neve percorrendo la Valle d'Aosta. 
Ci fermammo al posto di dogana della frontiera dove ci venne incontro un giovane carabiniere che ci chiese i documenti. 
Li consegnammo prontamente ed il milite, piegandosi verso il finestrino, ci chiese dove eravamo diretti. In quel momento sfogai tutta l'aggressività che avevo dentro e che era andata crescendo durante il viaggio conversando con il mio amico di bordo. Risposi con tono fermo, quasi ad alta voce, proprio per affermare un concetto che non ammetteva equivoci: "Andiamo ai funerali del Re d'Italia!". 
Il giovane carabiniere non fiatò. Si avviò, portando con sé i documenti, verso la stazione di comando, situata al margine della strada. Dal finestrino dell'auto osservammo la scena grazie alla spaziosa vetrata, ma non potemmo ascoltare la conversazione. 
Intanto cominciai a provare un certo rimorso per la temerarietà osata. Pensammo che, forse, le mie parole avrebbero pregiudicato il proseguimento del viaggio. Probabilmente ci avrebbero trattenuto con cavilli pretestuosi. 
Il tempo trascorreva ed il pessimismo si impadroniva di noi. Con questo stato d'animo addosso continuammo ad osservare quel che accadeva nella piccola caserma di frontiera. Il carabiniere confabulava con un brigadiere che, ora, aveva in mano i nostri documenti e li scrutava con attenzione. 
Poco dopo vedemmo uscire da una porta il maresciallo comandante la stazione il quale, dopo aver ascoltato i suoi due dipendenti, prese in mano i nostri documenti e ci venne incontro. 
Ci preparammo al peggio. 
Camminava lentamente e si diresse verso il mio finestrino. il vetro dello sportello era abbassato. Appena giunto, si curvò verso di me, consegnandomi i documenti. 
A questo punto, dopo un silenzio che parve durare un'eternità, finalmente parlò e mi disse: "Quando sarete davanti alla salma del Re, portate il riverente saluto di un maresciallo dell'Arma". 
Fu un attimo. Lo guardai in viso e mi accorsi che aveva gli occhi lucidi. Improvvisamente si alzò. Si mise sugli attenti e portò il palmo destro della mano aperta alla visiera. 
Capii che non salutava me, ma il Re. Il nostro Re. Il suo Re!. 
Risposi: "sarà fatto" e ripartimmo verso la Savoia con un groppo in gola. Buon Natale carissimi amici.

dal gruppo facebook Monarchia Oggi

venerdì 25 dicembre 2015

Vercelli: Inaugurazione epigrafe dedicata a Umberto II Re d’Italia

Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon


DELEGAZIONE PROVINCIALE DI NOVARA
Via R.Sanzio,9 – 28068 Romentino (NO) Tel. 0321-867235 Cell. 346-8345183 Mail marco.lovison1981@libero.it

Lunedì 28 dicembre 2015 - Città di VERCELLI

INVITO - INAUGURAZIONE TARGA  - “S.M. UMBERTO II RE D’ITALIA”

Programma:
Ore 15,00  - Ritrovo presso il Municipio di Vercelli
Piazza del Municipio, 5

Deposizione corone dall’Alloro ai Caduti di tutte le Guerre 


Visita presso la gli uffici del Municipio, ove sono esposti cimeli Risorgimentali, Ritratti Sabaudi, e Bandiere del Regno d’Italia


segue il corteo


Arrivo presso la Confraternita di Sant’Anna – Via Fratelli Ponti, 9

Ore 16,00 – Inaugurazione Targa con epigrafe dedicata a S.M. Umberto II Re d’Italia
da parte del Delegato Provinciale e dal Sindaco di Vercelli, D.ssa Maura Forte

Segue Benedizione

Sempre il Delegato Provinciale, donerà al Sindaco la Bandiera Storica del Regno Italia e un quaderno, contenente testimonianze del Regno di  
Re Vittorio Emanuele III e Re Umberto II

Segue Santa Messa In suffragio di:

TUTTI I CADUTI DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE NEL CENTENARIO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

Re Vittorio Emanuele III 
Regina Elena 

Celebrante: Assistente Spirituale delle delegazioni Comm. Can. Mons. Gian Luca Gonzino 



Le Associazioni Combattentistiche e d’Arma, sono pregate di partecipare con bandiera e/o Labaro, i simpatizzanti possono manifestare questa condivisione con il Tricolore



Il Delegato Provinciale Marco Lovison

giovedì 24 dicembre 2015

Un Natale del Re Umberto II

di Emilio Del Bel Belluz  

Molto spesso il mio pensiero va al  ricordo di Re Umberto II. 
Una volta è avvenuto osservando una foto del 1946 che lo raffigurava assieme  ai suoi figli in Esilio. Stavano guardando  con curiosità un pescatore, che seduto in vicinanza del mare, riparava con vera maestria la sua rete. 
Forse il Re voleva che i suoi figli osservassero il lavoro di questo semplice pescatore. Le persone umili trovavano accoglienza nel cuore del sovrano. 
Molto spesso, il sovrano faceva proprie le difficoltà economiche di questi uomini di mare. Re Umberto II si intratteneva a parlare con loro, cercando di instaurare dei rapporti umani che mitigassero la sua immensa solitudine e la grande nostalgia per la sua cara Italia, che lo accompagnò fino alla morte.  
Questo Re aveva scelto di abbandonare il suo Paese per evitare che, in seguito all'esito del referendum si potesse prospettare uno scenario di guerra civile. La fede che non lo abbandonava mai gli è stata di grande aiuto per sopportare tutto questo. 
I pescatori che incontrava erano delle persone povere che possedevano solo la piccola barca, le reti per pescare e una casa molto modesta per rifugiarsi al rientro dal lavoro. Anche loro contraccambiavano l’affetto di Re Umberto II, lo vedevano con il volto disegnato dalla malinconia, ma con la volontà di sorridere; lo stesso sorriso che aveva nonostante la grande tristezza nel cuore quando salutò dal portellone dell’aereo prima di abbandonare per sempre la sua amata patria. Il suo primo Natale d’esilio l’aveva trascorso con la sua famiglia: la Regina e i suoi amati figli. 
Li immaginavo seduti attorno al caminetto il presepe allestito in un angolo del salone con le statuine acquistate in quel paese di pescatori. E lì accanto vi era pure l’angolo dei doni che i suoi figli più tardi avrebbero scartato con tanta felicità. Mille pensieri tormentavano la sua mente,  un piccolo palpito di gioia proveniva dalla lettura dei tanti messaggi e lettere di auguri provenienti da tutte le parti d’ Italia.  
Tutto ciò faceva comprendere che in Italia non lo avevano in nessun modo dimenticato. 
Lo immaginavo con la sua famiglia che si avviava  verso la piccola chiesa del villaggio per assistere alla Santa Messa di mezzanotte, la prima che trascorreva lontano dalla patria. Il sovrano alla sua uscita si fermava per stringere le mani e per scambiare gli auguri con gli altri fedeli. Il Re  era molto cattolico e ricordo delle foto che all’uscita dalla chiesa molti si avvicinavano per chiedergli degli aiuti economici, soprattutto le vedove dei pescatori. La miseria bussava in quelle case modeste e si faceva sentire  di più nei giorni di festa. Lo spirito caritatevole del sovrano era stato forse ereditato dalla madre, la Regina Elena che elargiva tutto quello che poteva ai poveri. 
Questo spirito di carità veniva manifestato dalla Regina. A Montpellier dove si era ritirata a vivere dopo la morte del marito. Si intratteneva volentieri a parlare con le donne italiane per lo più erano donne al servizio di qualche famiglia benestante. Sono venuto a conoscenza di questi episodi grazie alla testimonianza di una mia conoscente di  Rivarotta che si era recata in Francia a lavorare. 
Alcuni anni fa leggevo da un libro l’episodio in cui l’autore raccontava del dono fatto del Re Umberto II ad un pescatore: una barca nuova di cui era molto fiero. In esilio tutti lo chiamavano con rispetto: “Re d’Italia”. I natali successivi al primo il sovrano li aveva trascorsi da solo, raramente in compagnia di qualche italiano che si era recato  a Cascais. Ho immaginato il Re che una volta era stato invitato a passare il Natale in una famiglia di pescatori. 
Li ho visti seduti attorno ad un tavolo imbandito con delle pietanze  molto semplici ed illuminato da una candela e nei loro cuori albergava una grande umanità. Il Re si sarà commosso davanti a tanto calore ed affetto ed avrà dimenticato per quella sera la tristezza della lontananza. Aldo Fabrizi in una sua poesia descriveva la sua malinconia  nel non poter invitare il sovrano a casa sua a mangiare. 
Chissà quanti natali il Re avrà osservato dal terrazzo della sua casa  di fronte al mare  e avrà lasciato andare il suo saluto per l’Italia alle sue onde. 
Quanto bene avrebbe fatto al Paese se solo avesse potuto restare  a governarlo. 

mercoledì 23 dicembre 2015

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II

Hitler e Casa Savoia, nella XIV parte dell'intervista di Nino Bolla, del 1949.

Buona lettura e Buon Natale!

www.reumberto.it



A Bardonecchia si scopriranno le virtù dei Savoia

 
In Biblioteca il 26 dicembre l’autore Dino Ramella
Ritratto_di_Umberto_I

BARDONECCHIA – Il pomeriggio del 26 dicembre in Biblioteca sarà dedicato alla Casa Savoia. Alle 16,30 Dino Ramella presenterà il suo libro “Ritratti Sabaudi, vizi e virtù di Casa Savoia”, edito nel 2008 da Edizioni Ananke. Il testo ripercorre la vita di Re, Regine, Principi e Principesse di Casa Savoia dal 1713, anno di acquisizione del titolo reale del casato, sino ai giorni nostri, un vero e proprio album fotografico, narrante non la storia dei personaggi,ma i personaggi stessi.Testi e immagini, molte delle quali inedite, si alternano nel racconto dei vizi, delle virtù, degli aneddoti e delle curiosità, delle abitudini e dei retroscena amorosi legati a ciascun personaggio, in un linguaggio scorrevole e semplice, adatto ad ogni tipo di lettore. Il libro si compone di dieci capitoli, ciascuno dei quali affronta un periodo storico preciso dei tre secoli trattati. Studioso e appassionato storico di Casa Savoia, l’autore non solo si soffermerà sul libro citato, ma accennerà anche al suo secondo libro pubblicato nel settembre 2011 “Amori e selvaggina vita privata di Vittorio Emanuele II” , in occasione del 150° dell’Unità d’Italia, e ai personaggi che hanno soggiornato a Bardonecchia, quale località di vacanza invernale e estiva.

martedì 22 dicembre 2015

IL BILANCIO DEL 2015: MISERIA E NOBILTA’

Riceviamo e pubblichiamo volentierissimo questo articolo. Impossibile non condividerne i contenuti.


Per  chi  abbia    vissuto  la  vita  dei  movimenti  monarchici, se  non  dall'origine, perché  oggi  dovrebbe  avere  oltre  90   anni, almeno  da  qualche  decennio, sa  che  gli  stessi  non  hanno  mai  nuotato  nell'oro, salvo  un  breve  periodo, dal  1954  al  1958, quando  Achille  Lauro, uscito  dal  Partito  Nazionale  Monarchico  e  fondato  il  Partito  Monarchico  Popolare, cercava  di  imporre  questa  nuova  sigla, aprendo  sezioni, stampando  manifesti, organizzando  manifestazioni  di  massa, ottenendo  risultati  elettorali  senza  dubbio  notevoli  nelle  Elezioni  Regionali  Sarde  e  più  ancora  nelle  Elezioni  Comunali  a  Napoli, raggiungendo  la  maggioranza  assoluta  di  voti  e  di  seggi.

Per  il  resto  scarsa  la  stampa  quotidiana, scomparsa  “Italia  Nuova”, che aveva  combattuto  la battaglia  del  “referendum”, è  esistito  il “Corriere  della  Nazione”, organo  del  PNM, ed  il  “Roma”, strettamente  legato  a  Lauro . Quanto  a  periodici, molti  i  settimanali, tra  cui  “Italia  Monarchica”   anch’essa  organo  del  PNM, ”Italia  Sabauda”, ”Tribuna  Monarchica”, a  titolo  indicativo, ma  non  esaustivo, e  poi  “IL  Regno”, epoca  PDIUM, ma  pochi  o  nessuno di  questi  nelle  edicole, per  lo  più  mandati  ad  iscritti, ed  abbonati , praticamente  un circolo  chiuso.

Al  di  fuori  dei  partiti  e  dell’ Unione Monarchica  Italiana, quanto  a  giornali , possiamo  ricordare  prima  del  1953 , “Governo”, di  Roberto  Cantalupo, e  dal  1945 ,  il  “Candido”  di  Guareschi, che  dopo essersi  battuto  per  la  Monarchia  nel  “referendum”,  del  1946, nel  1953  fece una  vera e  propria  campagna  elettorale  per  “Stella  e  Corona”, dai  vertici della  quale  non ebbe  parole  di  gratitudine. Poi  qualche  tentativo  culturale, tipo  la rivista   “Monarchia” e il mensile “Critica Monarchica”, limitati  a  pochi  numeri   e  pochi  anni,  qualche  “Quaderno”, edito  dal  F.M.G., sempre  riservato  agli  iscritti, che  in  molti  casi  nemmeno  li  leggevano. 

Arriva  il  1972. Scompare  il  PDIUM , gli  esponenti   contrari   all'ingresso  nel  MSI, fondano  l’ Alleanza  Monarchica, hanno  uno   slancio  iniziale, ma  la  drammatica  mancanza  di  fondi  riduce  questo  movimento, pur   ricco  di  persone  culturalmente   valide, alla presenza di un periodico mensile  di  indubbio  valore  storico e politico, ma  anch'esso  limitato  nella  diffusione. Manca  una  vera  Agenzia  quotidiana  di  stampa, anche  se  nominalmente  ve  ne  è una  ancor  oggi,  diventata  un  periodico, ma  che  è  nel  nome  erede  di  una  vera  agenzia.

Passano  i  decenni, le file  si  assottigliano, anche  se  per  germinazione   spontanea, nascono  diversi  giovani   preparati  che  fanno  sperare  nell'avvenire.

La  vera  cultura  però   sempre  latita, per  cui  è  mancato   un  approfondimento  storico  e  politico  dell’azione  e del  significato  della  Monarchia  unificatrice, pur  avendo avuto ancora  viventi, fino  agli  anni  ’60  del  secolo  scorso,  grandi  storici  lasciati  però  ai  margini  della  vita  associativa  del  partito  monarchico. 

Un  solo  circolo  culturale  a  Roma, attivo ininterrottamente  da  decenni, che  per  mancanza   di mezzi  non  ha  mai  potuto   espandersi  in  altre  città, né  pubblicare  metodicamente, ma  solo  saltuariamente, le  centinaia  e  centinaia  di  conferenze  tenute, tutte  di  altissimo  livello, quando  il  Ministro  della  Real  Casa, Collari  dell’ Annunziata,  Presidenti  e  Segretari  Generali  di  partiti e  di  associazioni   nazionali, senatori  e  deputati, rettori  e  professori  d’Università, si  ritenevano  onorati  di  partecipare  e  presenziare  alla  vita  ed alle  attività  del  circolo.

Il  mondo  monarchico, nella  sua  storia  ha  sempre  visto, purtroppo, scissioni  e  polemiche  interne, di  carattere  personale, eccettuato  solo  il  1953  e  se  ne  videro  i  risultati  positivi, polemiche  e  scissioni  sulle  quali  la  stampa  non  era  avara  di  notizie , ma  vi  era , fino  al  1972, un  “materiale”  umano, di  tutto  rispetto  per  cui  esistevano  Consiglieri  Comunali, Provinciali , Regionali  e  Parlamentari, che  oggi  non   esistono  più.
Qualcuno  potrebbe  obbiettare: però  ci  sono  le  cerimonie  religiose! Nulla  in  contrario  perché  anche  questo  tipo  di  celebrazione  e  di  ricordo  è  necessario  e  le  preghiere  per  le  anime  dei  nostri   morti  salgono  verso   l’ Onnipotente, ma  senza  offesa “Con  preghiere  non  si  reggono  gli  Stati”, né  si  fa  propaganda  politica. Nel  migliore  dei  casi, se  vi  è  un  folto  pubblico, il  che  è  sempre  più  raro, possono  essere  propedeutiche  ad  altre  più  concrete  attività.

Però  ci  sono   cerimonie  seguite  da  raduni  gastronomici! Anche  questi  sono  necessari  per  nutrire  il  corpo, conoscersi, affiatarsi, sempre  però  che  non  siano  fini  a  sé  stesse, e  se  gli  stessi  partecipanti, presenziassero   e  si  attivassero  in  altre  più  concrete  attività.

Però   ci  sono  opere  di  beneficenza! Anche  queste  sono  attività  nobili  ed  opportune,  se  venissero  conosciute, come  lo  erano  quelle  effettuate  in nome  del  Re  Umberto  II, che ebbero  qualche  risalto  giornalistico, e  divenissero anche  queste  propedeutiche  ad  altre  attività, diversamente  concrete.
Invece   è  passato  il  150°  del  Regno   d’ Italia, gabellato  per  Unità  d’Italia, pur  di  non  parlare  di  Re, di  Casa  Savoia  e  di  Monarchia, ed  ora  sta  passando   il  centenario   della  Grande  Guerra, ma  le  iniziative  dei  monarchici   sono  state  scarse , se  si   eccettua  una  bella  mostra  itinerante  per  tutta  l’ Italia, predisposta  dall’ Istituto delle  Guardie  alle  Reali  Tombe  nel  Pantheon,  e  non  si  è  tenuto  conto  che  erano   le  sole  ed  ultime  ricorrenze  in  cui  far  risaltare  il ruolo  positivo  avuto  dalla  Monarchia  Sabauda, che  è  l’unica  e  sola  a  cui  gli  italiani  debbano  qualcosa! Gioacchino  Volpe  scrisse  una  volta  che  “Se  molto  l’Italia  aveva   dato  a  Casa   Savoia , molto  di  più  aveva  dato  Casa  Savoia, all’Italia”, frase  che  andrebbe  corretta  in  quanto  da  anni  nulla  ha  più  dato  la  repubblica  a  Casa  Savoia, se  non  l’ abrogazione, dopo  decenni, di  un  antistorico  ed  incivile  esilio, che  impedì  al  Re  di  chiudere  gli  occhi  nella  sua  terra  natia.

E’  pessimismo  tutto  questo?  No, è  realismo. Se  è  lecito  il  paragone,  molti  sono  gli  scribi  ed  i  farisei  che  vegetano  nel  campo  monarchico, attenti  alla  lettera, ma  non  allo  spirito  della  monarchia  italiana, così  come  uscita  dal  Risorgimento, fautrice  di  libertà civile  e  progresso  sociale. Ma  anche  questo è  premessa  o  giustificazione   per  abbandonare  la  battaglia?  No, è  coscienza  e  presa  d’atto  degli  errori  commessi ,per  non  ripeterli. E’  capire  che  se  anche  un  insieme  di  circostanze  fa  marciare  oggi  divisi  con  dispersione  delle  attuali  scarse  forze, uniti  si  può  colpire l’inconsistenza  istituzionale  e  costituzionale  repubblicana, vedi  l’articolo  139, senza  “fuoco  amico”,  gelosie, miserie,  polemiche  ed  ostracismi  personali, dato  che  oltretutto  non  ci  sono  né  degli  Alfredo  Covelli, né  degli  Achille  Lauro, o  reciproche  scomuniche, anche  perché   chi  è  il  Pontefice  che  può  erogarle?


Un  vandeano

sabato 12 dicembre 2015

Il Re in America e la bambina

 di Emilio Del Bel Belluz  


Sono sempre stato circondato da libri e da riviste specialmente quelle di un tempo. In quei giornali si trovavano spesso delle notizie ricche di umanità. Nella rivista - Oggi - del 1963 ho trovato la cronaca di un viaggio che fece Re Umberto II a New York.
In quell'ottobre del 1963 il Re  aveva 59 anni. Le foto lo riportavano vestito elegantemente e con il volto sorridente. Aveva compiuto questo viaggio su invito di alcune personalità americane. Gli americani avevano sempre ammirato la correttezza di Re Umberto II.
Non credo che nessun politico se ne sarebbe andato in esilio contando su oltre dieci milioni di cittadini che avevano scelto di votare per la monarchia. Il Re volle evitare una guerra, in quanto era una persona di grande cuore e di alti valori cristiani. Le persone umili hanno il potere di donare la serenità agli altri, ma che spesso non danno a se stessi. Le persone come Umberto erano nate per dare e non per ricevere. Giungeva a  New York il 16 ottobre alle ore 10.30, arrivando da Lisbona. Il giornalista che scrisse questo articolo era Gino Gullace.
Questo giornalista con penna delicata scriveva e raccontava un episodio che era accaduto al Re, incontrando una bambina.” L’ex sovrano stava visitando il Metroplitan Museum, a New York; per la  precisione, si trovava nella famosa sala degli impressionisti francesi. Una maestra di origine italiana, la signora Fasolino stava illustrando ai suoi piccoli allievi le caratteristiche di un Renoir. Quando notò Umberto interruppe la spiegazione per indicarlo discretamente alla scolaresca. Umberto  sorrise; in quel momento, dal gruppo dei piccoli visitatori si staccò una bambina. Si avvicinò a Umberto, abbozzò una riverenza e con la sua vocina aggraziata disse : “ Benvenuto Mister Re. Ma perché sei venuto a trovarci senza la corona?”. “ Perché Sua Maestà viaggia come privato e non in uniforme”, le rispose arrossendo la signora Fasolino. “ E’ proprio un peccato “, ribatté  la piccola prima di congedarsi con un’altra riverenza”. 
Credo che questo  piccolo fuori programma abbia divertito il sovrano, e penso che  quel sovrano così bello  sia stato ricordato dalla bambina per tutta la vita. Anche il Re si sarà portato con sé questo ricordo così dolce. Erano diciassette anni che aveva lasciato l’Italia,  ma non era stato dimenticato neppure in  America. In quei quattro giorni di visita ha partecipato a molti incontri con personalità della politica, come pure ebbe modo di incontrare molti italiani che abitavano in America. L’invito ufficiale gli era venuto dal cardinale Spellman, che desiderava presenziasse come ospite d’onore a una manifestazione di beneficenza che raccoglieva fondi per i poveri. Il Re si era dato a questa manifestazione con affetto ed entusiasmo.
Gli era capitato di incontrare un combattente della Grande Guerra che gli aveva donato una bandiera italiana. Anche questo episodio dimostrava che dopo 17 anni d’esilio non era stato dimenticato. Oltre al Cardinale Spellman aveva incontrato Rockefeller ed Eisenhower. Si era intrattenuto anche con molti uomini italiani di semplice estrazione che vedendo il Re sentirono per un momento d’avere  la loro patria vicina. Erano molti quelli che andarono in America a cercare fortuna. .
Per un attimo ho pensato a Carnera che con la  conquista del titolo mondiale in America  aveva reso felice gli italiani che vi abitavano. La commozione e l’affetto  che dimostravano nell’incontrare  il Re erano grandi e li permettevano di alleviare la sofferenza dovuta alla lontananza  dal suol patrio. Vi è un altro episodio avvenuto nella stessa mostra dove una bambina si avvicinò al re salutandolo. “ Nella sala dei quadri degli impressionisti, c’era un professore con il mento ornato di un pizzo rosso che spiegava ad alcuni studenti di scuola media i pregi di un quadro.
Hillary Garr, una studentessa sedicenne, si staccò dal gruppo e domandò chi fosse quel signore che camminava accompagnato da un numeroso seguito. Quando seppe che era l’ex Re d’Italia,  Hillary lasciò il professore con il pizzo rosso e giunta davanti a Umberto gli disse: “ Ciao Re”. “ Ciao ”Era l’unica forma di saluto che ella sapeva in italiano. L’ex sovrano si fermò, le strinse la mano, le rivolse cordialmente delle domande”.
L’indomani mattina il Re con un aereo privato assieme al ministro della Real  Casa Falcone Lucifero andarono alla fattoria dove viveva Eisenhower. La visita del sovrano viene descritta in modo minuzioso con queste parole: “Eisenhower vive nella sua fattoria di Gettysburg come Cincinnato. Si arriva alla sua casa passando per un vialetto, a piedi. Di solito, gli ospiti di riguardo sono attesi dal generale sulla soglia, ma per Umberto venne fatta una eccezione. Eisenhower inviò all’aeroporto  il generale Schultz, suo aiutante a prelevarlo con la sua automobile. Ike era di buon umore. Come vide il nostro fotografo disse, ridendo, a Umberto: “Maestà quello è l’unico uomo al mondo il quale può dirci cosa dobbiamo fare ora e come dobbiamo metterci”. Il fotografo, infatti, li pregò di fermarsi, di discorrere”. Il generale poi mostrò  al Re alcuni cimeli della guerra, tra cui alcuni giornali ed uno incollato ad una parete: “Herald  Tribune del 1944. Su quello del sei giugno a grossi titoli spiccava questa notizia: “Vittorio  Emanuele III nomina il principe ereditario luogotenente  del Regno”. Il Re ebbe un momento di tristezza che fu subito distratto dal dono di un libro, in cui il presidente rievocava i tempi della presidenza. Il Re in quel viaggio non aveva dimenticato il suo legame con la sua amata Italia. “
L’episodio più imponente e più pittoresco si svolse all’indomani, sabato, davanti alla chiesa della Madonna di Pompei, a Carmine Street. La strada sulla quale si trova la chiesa fa parte del quartiere italiano di Greenwich Village. Qui vivono decine di migliaia di vecchi immigrati di tutte le parti d’Italia. Fuori, quasi tutte le botteghe portano nomi italiani e offrono al pubblico mozzarelle, salami, oli d’oliva, che portano nomi come “ Pace o mio Dio” e “Olio mamma mia“. Le donne vecchie camminano con la coroncina del rosario tra le mani e la testa coperta da scialli. Qui c’è insomma un po’ d’Italia di cinquanta anni fa, imbalsamata, dove la gente parla ancora della guerra di Tripoli o scrive ai parenti per farsi giocare qualche numero all’otto sulla ruota di Bari o di Palermo. Nella chiesa di Carmine  Street, la mattina di sabato c’era una messa in suffragio delle vittime del disastro del Vaiont. Subito si sparse la voce che Umberto di Savoia avrebbe assistito a quella messa, e due ora prima che cominciasse davanti alla chiesa c’erano miglia di persone.

Umberto giunse alle 10.30. Subito dalla folla cominciarono a levarsi voci prima discrete e poi sempre più forti, in dodici dialetti e in lingua americana : “ God Bless You, Benedittu, Viva lu Re “. Le donne tendevano le mani, Umberto stringeva tutte quelle che poteva e ripeteva “ Grazie, grazie” Mentre due poliziotti gli aprivano un varco tra la gente. Quando la messa terminò la folla era raddoppiata. Umberto rimase come imprigionato; una vecchietta allungò la mano e gli accarezzò la guancia; un uomo di forme erculee si fece avanti e gli presentò una bandierina dicendo : “Ho avuto l’onore di fare il soldato ai vostri ordini”. Poi tutti cominciarono a battere le mani. Solo quando Umberto estremamente commosso, raggiunse la vettura e partì, in Carmine  street ritornò la quiete“.   

venerdì 11 dicembre 2015

La peggiore costituzione


Gianni Pardo

Domenica, 6 Dicembre 2015 
Non è possibile dire che abbiamo la peggiore Costituzione del mondo non perché l’affermazione sia scandalosa, ma perché per farlo bisognerebbe conoscerle tutte. E già questa osservazione ha sempre reso stupida l’affermazione che essa fosse “la migliore del mondo”. Lasciando da parte questi proclami infantili (“la mia mamma è più bella della tua) ci si può chiedere seriamente se la nostra Costituzione non abbia danneggiato e continui a danneggiare l’Italia.
La prima obiezione che si potrebbe fare a questa tesi è che una legge può danneggiare un Paese solo nel caso in cui sia presa sul serio. Per esempio non si è preso del tutto sul serio l’art.53 nel quale si dice che ogni cittadino deve contribuire alle spese dello Stato, cioè pagare le tasse. Infatti ognuno, per quanto possibile, ha cercato di violarlo.
Per parecchi decenni non si è data attuazione all’art.40, che avrebbe limitato le facoltà dei sindacati in materia di sciopero, e nessuno (salvo alcuni cittadini esasperati) se ne è mai seriamente lamentato.
Purtroppo invece gli italiani hanno preso sul serio gli articoli di cui avrebbero dovuto limitarsi a sorridere. E sono questi che hanno danneggiato l’Italia.
Per cominciare, una Costituzione – legge suprema dello Stato – dovrebbe avere carattere giuridico e non ideologico. Invece la nostra è un concentrato di buone intenzioni e alti ideali, necessariamente destinati a suscitare aspettative eccessive (e regolarmente deluse). E questa è già di per sé una mala azione. Inoltre la legge fondamentale (Grundgesetz, dicono i tedeschi) non è per nulla realistica, nemmeno dove sarebbe necessario: dire, come fa la nostra all’art.11, che l’Italia “ripudia la guerra”, è pressoché assurdo. È come se un cittadino dicesse che ripudia la malattia. Per giunta l’Italia non vuole la guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, come se mai uno Stato avesse ammesso di aver fatto una guerra per un motivo così futile e assurdo.
Ma nel testo si trovano sciocchezze anche peggiori di questa.
Il diritto al lavoro (art.4), per esempio. Un diritto è qualcosa che posso richiedere al giudice di applicare in mio favore. E poiché per il lavoro non è possibile, il lavoro non è un diritto. Scrivendo queste parole si volevano forse fare arrabbiare ancora di più i disoccupati? È vero che quel testo, prudentemente, avverte che la Repubblica “promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”, ma, appunto, se un diritto non è “effettivo”, che diritto è? All’università si insegna che un impegno del tipo: “Ti pagherò quando potrò” non ha valore giuridico. Chi ha scritto la Costituzione non aveva studiato materie giuridiche? Ma è vero che lo stesso articolo è così ideologico che prosegue assegnando ad “ogni cittadino [ha] il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Il che corrisponde a dire che chi non ha bisogno di lavorare e se la gode viola la legge. Per fortuna si tratta di una legge da non prendere sul serio.
Un ultimo esempio, anche perché, come dicevano i romani, ex uno disce omnes, se ne conosci uno capisci come sono anche tutti gli altri. Il diritto d’asilo, secondo l’art.10, deve essere garantito allo “straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”. Chi ha stilato la Costituzione si è reso conto che la stragrande maggioranza dei Paesi del mondo non fruisce delle nostre libertà democratiche? Quell’articolo corrisponde a dire che l’Italia dovrebbe concedere l’asilo politico a chiunque, eccettuati gli inglesi, i francesi, gli americani e gli altri pochi che hanno diritti simili ai nostri. Non sarebbe stato più realistico dire che l’asilo politico andava concesso a chiunque, nel suo Paese, rischiasse la vita o il carcere per motivi politici? Sarebbe ancora rimasto un numero sterminato di Paesi, ma almeno non avremmo scritto un articolo velleitario.
In questi giorni in Turchia sono stati arrestati dei giornalisti, a quanto dicono perché avevano criticato troppo il governo. Che facciamo, concediamo l’asilo politico a ottanta milioni di turchi, se si presentano a Otranto?
La nostra Costituzione può essere variamente giudicata, ma sembra veramente poco probabile che sia la migliore del mondo.

giovedì 10 dicembre 2015

Mistero ad Asti, in centro si aggira il fantasma del Re

Quest'articolo lo riproponiamo per intero,invece di inserirlo nella rassegna stampa, per la sua delicatezza, per il suo rispetto delle maiuscole, per i riferimenti precisi ad una città che votò per il Re nel 1946


Quelli che hanno visto il fantasma, lo hanno descritto come elegante e ben educato, proprio come si conviene a un sovrano.
fantasma
Mistero ad Asti: il fantasma di Re Umberto per strada
Sono tutti dipendenti del Comune, e lo hanno visto per almeno quattro volte, sempre all’ora di cena: si tratta dell’ultimo Re d’Italia Umberto II, il “Re di Maggio” e unico “Luogotenente Generale del Regno“, morto in esilio a Ginevra, in Svizzera, nel 1983.
Il fantasma si sarebbe qualificato come “Principe di Napoli“, un titolo che, in verità, l’ultimo sovrano non possedeva, perché appannaggio di suo padre Vittorio Emanuele III, ed avrebbe chiesto informazioni su una famiglia proprietaria di un palazzo nei pressi di Corso Vittorio Alfieri.
Tanto é bastato affinché ad Asti venissero chiamati d’urtenza i membri del “National Ghost Uncover” di Riccione, una sorta di Ghost Hunters all’italiana, affinché indagassero sul fatto.
Coordinati dal direttore Massimo Merendi, gli acchiappafantasmi sono al lavoro proprio in queste ore, ma dal tempo della prima apparizione di quest’anno, risalente al 26 novembre, non c’é stata ancora una spiegazione plausibile al fenomeno.
La voce, intanto, ha cominciato a circolare, e allora si è saputo che è dal 2011 che il Re d’Italia si fa vedere in diverse occasioni, peraltro cercando il palazzo in questione citando il vecchio numero civico, non più in uso da parecchi anni.
Alcuni hanno dichiarato persino che Umberto avrebbe dichiarato di essere pronto a ripresentarsi nell’ormai prossimo 2016, mentre altri dipendenti del Comune hanno riportato di aver visto delle ombre nelle sale del municipio astigiano.
Comunque finirà la storia, questa del Re é sicuramente una storia curiosa, una che stavolta non viene dall’Inghilterra delle brughiere o dalla Scozia dei castelli, bensì dal cuore della provincia italiana, in una città che, forse, quel Re non l’ha mai dimenticato.


http://zon.it/mistero-asti-centro-aggira-fantasma-re/

martedì 8 dicembre 2015

Buona festa dell'Immacolata!

Questo è un blog laico, abbiamo rispetto per tutte le confessioni religiose.
Ma siamo felici e gelosi dell nostra. 
Felici e non gelosi della Nostra Madre Celeste.
I nostri auguri ai nostri lettori cattolici!
Buona festa agli altri!

sabato 5 dicembre 2015

DANTE ALIGHIERI E L’UNITA’ D’ITALIA

di Gianluigi Chiaserotti
Signor Presidente,
Signore, Signore, Amici,
devo essere ancora una volta molto, ma molto grato al nostro benemerito Circolo di Cultura e di Educazione Politica “Rex” per l’opportunità che quest’oggi mi ha offerto, ma sempre ed esclusivamente  da appassionato di quella Signora che viene denominata Storia, cioè maestra della vita [esattamente «Historia est testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis», come scrive Marco Tullio Cicerone (106 a. C.-43 a. C.) nel suo “de Oratore”], che ho l’onore di parlare a Voi.
Leggo e studio l’Alighieri da sempre, e ciò sin dai tempi del Liceo nel Nobile Collegio Nazareno essenzialmente sul commento e sulle interpretazioni del Padre Luigi Pietrobono (1863-1960), che, nel 2013, ho ricordato sia qui, che al Liceo “Conti-Gentili” di Alatri, sua città natale.
Pianificando l’incontro di oggi con il nostro Presidente, ingegner Domenico Giglio, abbiamo giustamente pensato di distaccarci dai canoni tradizionalmente danteschi, ma nel DCCL anno dalla sua nascita, analizzare e comprendere come Dante fu, senza dubbio, uno degli ispiratori dell’Unità d’Italia.
Ma egli fu il più grande Poeta che l’Italia abbia mai avuto. Poeta, appunto, Scrittore, Saggista, Storico, Filosofo, Umanista, Cronista. Uomo Politico che seppe cosa fosse l’esilio.
Dante fu colui che scrisse l’unica ed autentica profezia “ante eventum” della Divina Commedia, quella del Veltro, a cui accennerò verso la fine.
Dante Padre della Lingua Italiana, e quindi anche prototipo dell’Unità d’Italia.
Di Dante va’ riscoperta la sua attualità, il suo pensiero, la sua vita.    
E senza volerlo quest’anno è il CL anniversario che Firenze, città natale dell’Alighieri, divenne Capitale d’Italia.
Penso di procedere così:

A) Note biografiche del Sommo Poeta;
B) Dante e l’idea di Italia;
C) Conclusioni finali.

§ 1. Note biografiche di Dante Alighieri -  
Secondo riferimenti indiretti è possibile risalire alla data di nascita di Dante nel periodo compreso tra il 14 maggio e il 13 giugno del 1265. Tuttavia, se sconosciuto è il giorno della sua nascita, certo invece è quello del battesimo: il 27 marzo 1266, Sabato Santo (il prossimo anno sarà proprio il giorno di Pasqua). Quel giorno vennero portati al sacro fonte tutti i nati dell'anno per una solenne cerimonia collettiva. Dante venne battezzato con il nome di Durante, poi sincopato in Dante, in ricordo di un parente ghibellino. Giovanni Boccaccio raccontava che la sua nascita fu preannunciata da lusinghieri auspici.
Dante nacque nell'importante famiglia fiorentina degli Alighieri, legata alla corrente dei Guelfi, un'alleanza politica coinvolta in una complessa opposizione ai Ghibellini; gli stessi Guelfi si divisero poi in Guelfi Bianchi ed in Guelfi Neri.
Dante credeva che la sua famiglia discendesse dagli antichi Romani (Inf. XV, 76), ma il parente più lontano che egli nomina è il trisavolo Cacciaguida degli Elisei (Par. XV, 135), vissuto intorno al 1100. Dal punto di vista giuridico perciò la presunta nobiltà derivantegli da questa ascendenza, già di per sé dubbia, si era comunque estinta da tempo. L’avo paterno, Bellincione, era un popolano, ed un popolano sposò la sorella di Dante.
Suo padre, Aleghiero o Alighiero di Bellincione, svolgeva la non gloriosa professione di cambiavalute, con la quale riuscì a procurare un dignitoso decoro alla numerosa famiglia. Era un guelfo ma senza ambizioni politiche: per questo i Ghibellini, dopo la battaglia di Montaperti (4 settembre 1260) non lo esiliarono come altri guelfi, giudicandolo un avversario non pericoloso.
La madre di Dante era Bella (diminutivo di Gabriella) degli Abati che  era un'importante famiglia ghibellina. Di lei si sa poco e Dante non ne parlò o non ne scrisse mai al riguardo.
Morì quando Dante aveva cinque o sei anni, ed Alighiero presto si risposò con Lapa di Chiarissimo Cialuffi, da cui ebbe Francesco e Tana (Gaetana), e forse anche - ma potrebbe essere stata anche figlia di Bella degli Abati - un'altra figlia ricordata dal Boccaccio come moglie del banditore fiorentino Leone Poggi e madre del suo amico Andrea Poggi. Si ritiene che a lei alluda Dante nella Vita Nova (XXIII, 11-12), chiamandola «donna giovane e gentile [...] di propinquissima sanguinitade congiunta».
Quando Dante aveva dodici anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di vent'anni.
Politicamente Dante apparteneva alla fazione dei Guelfi Bianchi, che, pur trovandosi nella lotta per le investiture schierati con il Papa, contavano molte famiglie della nobiltà signorile e feudale più antica ed erano contrari ad un eccessivo aumento del potere temporale papale.
Da Gemma, Dante ebbe tre figli: Jacopo, Pietro ed Antonia.
A Firenze ebbe una carriera politica di discreta importanza. Dopo l'entrata in vigore dei regolamenti (1293) di Giano della Bella (seconda metà del Sec. XIII-1311-14 ca.), che escludevano l'antica nobiltà dalla politica, permettendo ai ceti intermedi di ottenere ruoli nella Repubblica, purché iscritti a un'Arte, Dante si iscrisse a quella dei Medici e degli Speziali.
L'esatta serie dei suoi incarichi politici non è conosciuta, poiché i verbali delle assemblee sono andati perduti. Comunque, attraverso altre fonti, si è potuta ricostruire buona parte della sua attività. Fu nel Consiglio del popolo dal novembre 1295 all'aprile 1296; fu nel gruppo dei “Savi”, che rinnovarono le norme per l'elezione dei priori (dicembre 1296), cioè dei massimi rappresentanti di ciascuna Arte; dal maggio al settembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento. Fu inviato talvolta nella veste di ambasciatore, come nel maggio del 1300, a San Gimignano. Lo stesso anno fu priore dal 15 giugno al 15 agosto.
Nonostante l'appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo acerrimo nemico il Pontefice Bonifacio VIII [Benedetto Caetani (nato nel 1235 ca.) 1294-1303]. 
Con l'arrivo del cardinale Matteo d'Acquasparta (1240-1302), inviato come paciere, almeno nominale (in realtà spedito dal Papa per ridimensionare la potenza della parte dei Guelfi Bianchi, in quel periodo in piena ascesa sui Neri), Dante cercò, con successo, di ostacolare il suo operato. Egli stesso si recò dal Papa al fine di cercare di trovare un compromesso alla pace; ma durante il viaggio venne bloccato e condannato in contumacia.
Quale membro del Consiglio dei Cento, fu tra i promotori del discusso provvedimento che spedì ai due estremi della Toscana i capi delle due fazioni. Questo non solo fu una disposizione inutile (in quanto tornarono) ma fece rischiare un colpo di stato da parte dei Neri, che stavano per approfittare della situazione,  quando i Bianchi erano senza capo, ritardando oltre misura l'inizio del loro esilio. Inoltre il provvedimento attirò sui responsabili, Dante compreso, sia l'odio della parte nemica sia la diffidenza del c. d. “amici”, e da lui stesso fu definito come l'inizio della sua rovina.
Con l'invio di Carlo di Valois (1270-1325) in Firenze, mandato dal Papa come teorico paciere, ma di fatto conquistatore, la Repubblica spedì a sua volta a Roma un'ambasceria di cui era parte essenziale Dante medesimo, accompagnato da Maso Minerbetti, uomo senza volontà propria, e da Corazza da Signa, tanto Guelfo.
Dante si trovava quindi a Roma, sembra trattenuto oltre misura da Bonifacio VIII, quando Carlo di Valois, al primo subbuglio cittadino prese pretesto per mettere a ferro e fuoco Firenze con un colpo di mano. Il 9 novembre 1301 Cante Gabrielli da Gubbio (1260 ca.-1335 ca.) fu nominato Podestà di Firenze. Questi appartenente ai Guelfi Neri, diede inizio ad una politica di sistematica persecuzione degli esponenti politici di parte bianca ostili al Papa, e che si risolse alla fine nella loro uccisione o nell'esilio. Con due condanne successive (quella del 27 gennaio e quella del 10 marzo 1302), le quali colpirono inoltre numerosi esponenti delle famiglie dei Cerchi e soprattutto dei Gherardini di Montagliari (di cui l'amico Andrea Gherardini), il poeta fu condannato da Cante Gabrielli, in contumacia, al rogo e alla distruzione delle case. Dante fu raggiunto dal provvedimento di esilio a Roma e non rivide mai più Firenze.
Fuoriuscito da Bologna, Dante riparò probabilmente a Pistoia, presso l'amico Cino. Poi si trasferì in Romagna, ove fu quindi ospite di diverse corti e famiglie, fra cui gli Ordelaffi, signori ghibellini di Forlì, e dove probabilmente si trovava quando l'imperatore Enrico VII di Lussemburgo (1275-1313) entrò in Italia. Qui è possibile che abbia conosciuto le opere del famoso pensatore ebreo Hillel ben Samuel (1220-1295), che era da poco morto, dopo aver trascorso a Forlì gli ultimi anni della sua vita. Dopo altre peregrinazioni, il Nostro tornò a Forlì nel 1310-1311, ed ancora nel 1316 (data incerta, quest'ultima).
Dante terminò le sue peregrinazioni a Ravenna, dove trovò asilo presso la corte di Guido Novello da Polenta (1275 ca.-1333), signore della città, tuttavia i rapporti con Verona non cessarono, come testimoniato dalla sua presenza nella città veneta il 20 gennaio 1320, per discutere la “Quaestio de aqua et terra”, ultima sua opera latina.
Celeberrimi sono i versi del Canto XVII del Paradiso (58-60) in cui Cacciaguida prevede l’esilio del Poeta ed il suo peregrinare: «[…] Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro calle/lo scendere e ’l salir per l’altrui scale […]».  
Dante morì in Ravenna il 14 settembre 1321 di ritorno da un'ambasceria a Venezia, avendo contratto la malaria in quel di Comacchio.
I funerali, in pompa magna, vennero officiati nella chiesa di San Pier Maggiore (oggi San Francesco) a Ravenna, dove, sotto un portico laterale, venne posto il primo sarcofago del Poeta. Intorno al sarcofago nel 1483 venne costruita una cella, su progetto dello scultore Pietro Lombardo (1430-1515); nel 1780, l’archietto Camillo Morigia (1743-1795), su incarico del cardinale legato Luigi Valenti Gonzaga (1725-1808), progettò il tempietto neoclassico tuttora visibile.

§ 2. Dante e l’idea di Italia - 
Senza dubbio l’idea di una Italia unita era molto, ma molto antecedente ai Secoli XVIII e XIX.
La nostra penisola era, da secoli, divisa e per nulla tenuta in considerazione. Quindi  le grandi  e potenti nazioni d’Europa avevano trovato un campo aperto alle loro ambizioni.
L’Italia era considerata una semplice espressione geografica.
Tutti  si erano lanciati verso l’Italia, come, oserei dire, su una facile preda: Francia, Spagna, Austria erano venute a conquistarvi intere provincie: le due più  grandi città d’Italia, Milano e Napoli, erano cadute in mano straniera. Ed i superstiti piccoli Stati Italiani, anche se di nome avevano conservato la loro indipendenza, di fatto finivano con il gravitare, come satelliti, intorno ai pianeti europei.
Gli Italiani non erano più nessuno in casa propria.
Ed è veramente triste affermarlo!
Per lunghi, lunghissimi anni (più di trecento), nelle più fiorenti regioni italiane, francesi, tedeschi o spagnoli vi comandavano.
In questa situazione, anche attraverso i secoli, si erano levate voci che incitavano gli italiani a riconquistare la libertà perduta. Voci di poeti, di storici, di politici che testimoniavano la rivolta morale della parte più nobile del paese.
Ma perché l’Italia si risollevasse dalla decadenza, non bastava il richiamo di pochi spiriti eletti.
Era necessario che il risveglio penetrasse profondamente nell’animo della nazione.
Era necessario che gli italiani si trasformassero, si facessero, per così dire, un’anima nuova. Per acquistare la libertà, necessitava che negli animi sorgesse il desiderio, il bisogno della libertà.
Per raggiungere l’unità, era opportuno superare le divisioni, acquistare la coscienza di formare un’unica famiglia, affratellata in un’unica sorte. Per ottenere l’indipendenza, gli italiani dovevano apprendere  quello che, nei secoli, avevano dimenticato: a lottare, a combattere, a morire per la loro causa.
Scriveva Francesco Petrarca (1304-1374) nell’Epistola “Ad Italiam”: «O nostra Italia! Salve, terra santissima cara a Dio, salve, terra ai buoni sicura, tremenda ai superbi, terra più nobile di ogni altra e più fertile e più bella, cinta dal duplice mare, famosa per le Alpi gloriose, veneranda per gloria d’armi e di sacre leggi, dimora delle Muse, ricca di tesori e di eroi, che degna d’ogni più alto favore reser concordi l’arte e la natura e fecero maestra del mondo».
Il sogno dell’Unità politico-istituzionale del territorio che va dalle Alpi alla Sicilia è stato cullato per oltre due millenni da generazioni successive di giovani e di intellettuali, convinti che, senza unità, questo territorio non avrebbe mai trovato pace e prosperità. Diviso politicamente, sarebbe stato, come lo è stato per secoli, debole e fragile, facile preda degli appetiti di quelle Nazioni vicine più grandi, più forti e potenti, come lo sono state, di volta in volta fin dal Medioevo, la Germania, la Francia, la Spagna e l’Austria. Per non aver realizzato lo Stato Unitario, come abitanti della Penisola, siamo stati - come recita il nostro inno nazionale – per secoli «calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché divisi».
Una terra di antichissima civiltà e cultura, che era stata teatro di eventi divenuti nel canto di Omero non solo alta poesia ma modello di vita civile; e che, con il filosofo-matematico Pitagora (in lingua greca “Πυθαγόρας”,  570 a. C. ca.-495 a.C. ca.)  ed il medico Alcmeone (in lingua greca “Аλκμαίων”) in Crotone, con la poetessa Nosside (IV-III sec. a. C. ca.) in Locri, con il filosofo Archita (in lingua greca “Аρχύτας”,  428 a. C.-360 a. C.)  e il musicista Aristosseno (in lingua greca “Αριστόξενος”, 375 a. C. ca.-322 a. C.)  in Taranto, con i filosofi Empedocle (in lingua greca “Εμπεδόκλñς”, 495 a. C.-430 a. C.)  in Akragas (gr. “Ακράγας) (l’attuale Agrigento), e Parmenide (in lingua greca “Παρμενίδης”, 515/510 a. C. ca.-544/514 a. C. ca.) in  Elea, aveva fatto scuola nella più antica civiltà greca, era divenuta terra di saccheggio.
Era, come si afferma «il paese più frequentemente invaso del mondo».
Considerata dai patrioti del Secolo XIX, voluta da Dio come Nazione unitaria, per avere confini naturali, per il mare che l’avvolge per tre lati e per la protezione delle Alpi al Nord, l’Italia sembrava incapace di trasformare la molteplicità delle diverse città e piccole patrie in fattore di unità e di prosperità.
Il primo “italiano” ad avere chiaro nella mente la necessità e l’utilità di utilizzare il modello dialettico dell’unità e della molteplicità sul piano politico, è stato Niccolò Machiavelli (1469-1527). E lo ha applicato a una realtà geograficamente molto più vasta che non la Penisola italiana. La molteplicità degli Stati all’interno dell’Europa, indicata come unica entità geografica e culturale, per il Segretario Fiorentino è fonte e garanzia di virtù, di libertà e di umanità della storia.
«Chi considererà adunque la parte d’Europa» – scrive l’autore del Principe -,«la troverà essere piena di repubbliche e di principati, i quali, per timore che l’uno aveva dell’altro, erano costretti a tener vivi gli ordini».
A garantire la libertà e, quindi, l’equilibrio tra i diversi Stati in Europa erano le stesse tensioni che li garantivano nella Roma repubblicana, laddove, come annota ancora il Segretario Fiorentino, «i tumulti intra i Nobili e la Plebe […] furono prima causa del tenere libera Roma» perché «le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione».
Era «l’Europa esaltata dal conflitto, sale della politica».
Era proprio questo far convivere dialetticamente la molteplicità di tante piccole patrie nell’unità di un’unica grande Patria il sogno millenario degli Italiani, realizzato poi a prezzo di sacrifici e di vite donate da giovani e talvolta giovanissimi, che hanno vissuto sofferto e glorificato il Risorgimento Italiano. Era il desiderio di realizzare di nuovo l’Italia unita e pacificata dagli antichi Romani, come è testimoniato dalle parole con le quali  Augusto (63 a. C. – 14 a. C.) nel suo testamento, riassunse il plebiscito del 32 a. C.: «L’Italia tutta mi giurò fedeltà, spontaneamente» 
Era l’Italia che voleva risorgere e ritornare alla sua antica grandezza e prestigio.
Era l’Italia considerata da Dante Alighieri come una, pur nella diversità delle tradizioni e dei costumi dei suoi abitanti, minuziosamente elencati, regione per regione, nel suo “De vulgari eloquentia” (I, X).
I Siciliani, gli Apuli, i Calabri, i Napoletani, i Toscani, i Genovesi, i Sardi, i Romagnoli, i Lombardi, i Trevigiani, i Veneziani, tutti elencati da Dante nel suo grande libro sulla lingua volgare, pur nella loro grande diversità, con la poesia e la letteratura fiorita tra il ‘200 ed il ‘300 hanno raggiunto ciò che cercavano, una lingua «volgare, illustre, cardinale, regale e curiale», che sembra non appartenere a nessuno perché deve essere comune a tutti.
Era l’Italia che Alessandro Manzoni (1785-1873)  nella poesia “Marzo 1821”  dedicata a Teodoro Köerner (1791-1813), poeta e soldato della indipendenza germanica (nome caro a tutti i popoli che combatterono per difendere o per conquistare una patria), circa sei secoli dopo Dante, auspicava «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor», un’Italia unita politicamente, con un solo esercito, una sola lingua nazionale, una stessa religione, una sola memoria storica, una stessa origine e identici sentimenti.
Un’Italia dove «non fia loco ove sorgan barriere tra l’Italia e l’Italia mai più». Un’Italia «che tutta si scote, dal Cenisio alla balza di Scilla». Un’Italia che ritorna al patrimonio spirituale dei suoi avi, al suo retaggio, e «il suo suolo riprende».
Nell’ode manzoniana è contenuta una fortissima carica emotiva e sentimentale verso una patria largamente vagheggiata ma mai, fino a quel momento, progettata avendo in prospettiva concrete possibilità di realizzazione.
La coscienza unitaria nel tempo intercorso tra Dante e Manzoni non si appannò, non cessò di essere vigile e operativa.
L’anelito a vedere l’Italia politicamente unita in un solo Stato, dopo il 1494, cioè dopo la discesa di Carlo VIII di Francia (1470-1498) nella penisola senza incontrare resistenza, era molto forte.
Machiavelli, nel cap. XXVI del Principe dal titolo eloquente “Esortazione a pigliare la Italia e liberarla dalle mani dei barbari”, fa vibrare in maniera energica il potente sentimento di italianità. Incita i Medici a compiere l’opera di unificazione della Penisola, attraverso i versi della canzone Italia mia di Petrarca: «Vertù contra furore/ prenderà l’arme; et fia ‘l combatter corto:/ ché l’antiquo valore/ ne gli italici cor’ non è anchor morto».
Ma torniamo a Dante.
La grandezza dell’Italia nel passato e la penosa situazione che ha sotto gli occhi portano il Sommo Poeta ad una violenta invettiva contro il nostro Paese. Nel Canto VI del Purgatorio, l’affettuoso incontro di due concittadini mantovani,  i poeti Sordello da Goito (1200/1210 ca.-1269) e Virgilio (70 a. C.- 19 a. C.), suscita in Dante una amara e spietata apostrofe contro l’Italia del suo tempo, terra di tiranni, di dolore e di malcostume, simile ad una nave senza capitano nel mare in tempesta, la quale inizia con il verso
«Ahi, serva Italia, di dolore ostello, […]».
Gli abitanti di una medesima città si odiano e si dilaniano e non c’è pace in nessuna zona.
L’opera dell’imperatore Giustiniano, che aveva dato adeguate leggi all’Italia, risulta inutile, perché le leggi non vengono fatte rispettare.
Gli ecclesiastici, invece di dedicarsi alle cose sacre, si appropriano del potere laico, in mancanza dell’autorità politica voluta da Dio stesso per tenere a freno l’Italia, simile ad una cavalla selvaggia.
Manca l’autorità imperiale, perché Rodolfo d’Absburgo (1218-1291) e suo figlio Alberto (1255-1308) non si interessano all’Italia, giardino dell’Impero.
Dante quindi invita il suo successore, Enrico VII di Lussemburgo, a venire a vedere la discordia che regna in Italia, un paese che, come una sposa abbandonata, lo attende piangendo notte e giorno.
Sembra che anche Cristo l’abbia dimenticata, forse per un bene maggiore futuro.
L’invettiva contro l’Italia si conclude con un’ironica sferzata a Firenze, la quale legifera con leggi che non durano da ottobre a novembre.
La sferzata all’Italia nasce da uno sconfinato amore dell’Alighieri per quello che proprio lui ebbe a definire “Il Bel Paese”, e ciò nel Canto XXXIII, v. 80, dell’Inferno («del bel paese là dove ‘l sì sona»).
«Che Dante non amasse l’Italia» spiega Ugo Foscolo (1778-1827) «chi mai vorrà dirlo? Anch’ei fu costretto, come qualunque altro l’ha mai veracemente amata, o mai l’amerà, a flagellarla a sangue, e mostrarle tutta la sua nudità, sì che ne senta vergogna».
L’Italia (“umile”) sognata da Dante ha un modello: Camilla, la leggendaria vergine guerriera, di cui parla il Libro IX dell’Eneide di Virgilio. Camilla rievoca le amazzoni Ippolita e Pentesilea, Giuturna la sorella di Turno amata da un Dio, la saracena Clorinda, la puzella d’Orleans Santa Giovanna d’Arco (412-431).
Emula di Diana, alla quale il padre la consacrò ancora in fasce, Camilla rappresenta il popolo italico che lotta per la propria libertà e Dante le rende onore nella “Divina Commedia” (Inf. I, 106-107) ricordandola come la prima martire della nostra Patria: «[…] di quella umile Italia fia salute/per cui morì la vergine Cammilla».
Ed eccoci, come dicevo poc’anzi, al  Risorgimento che rappresentò, come sappiamo, il riscatto di un popolo diviso al suo interno ma profondamente unito dalla lingua, dalla tradizione, dalla cultura. Per la risoluzione di tale processo storico fu di fondamentale importanza il contributo ideologico, passionale e romantico che la letteratura e la filosofia profusero.
Il primo indiscusso precursore dell’Unità d’Italia non puo’ non essere considerato il Sommo Poeta.
Dante non aveva il concetto di stato nazionale secondo i parametri che si sarebbero andati definendo nella storia moderna.
La sua teorizzazione dell’Italia risentiva ancora dell’esperienza, mitizzata nel Medio Evo, dell’Impero Romano.
Benché gli studiosi siano molto discordi sull’argomento, in lui non è difficile cogliere il desiderio di unità nazionale. Dante idealizza l’Italia, la presenta in numerose opere e soprattutto nella Divina Commedia, con le formule più disparate, lascia presagire un certo qual immaturo desiderio di unità tra le varie componenti della Penisola.
Nell’Epistola XI, inviata ai cardinali in conclave, Dante parla di «Italia nostra» e idealizza la proposta di un idioma unitario rispondente a quattro caratteristiche: illustre, aulico, cardinale e curiale.
Al riguardo il Poeta vi ritorna nel suo “De vulgari eloquentia” quando, con fare frasi da profeta dell’unità linguistica italiana, al capitolo XV sostiene l’adozione di una parlata che sia l’estrema sintesi di quelle migliori presenti nella Penisola.
Il Poeta non viene meno di accennare anche ad altri importanti aspetti che caratterizzano ed unificano il potenziale popolo italiano nei capitoli XVI, XVII e XVIII del Libro I.
Dante non si limita, come fin qui ho cercato di far notare, ad esempi o teorie fittizie che quasi vogliono esplicitare i tratti comuni degli italiani.
Nella Commedia è particolarmente ricorrente un modo di vagheggiare l’Italia che ha quasi sempre un sapore romantico, proprio dell’innamorato più che del patriota.
Nel canto VI del Purgatorio, come detto, l’Alighieri dice senza mezzi termini che emerge in maniera chiara e nitida una visione dell’Italia molto, ma molto a carattere ideale e certamente prematura, ma sicuramente già recante in sé tratti importanti su cui la tradizione successiva poté trovare un terreno alquanto fertile.
L’idea della nazione italiana compresa nei suoi confini geografici era di già maturata nella mente dell’abate/pensatore Gioacchino Fiore (1130 ca.-1202) definito dal Nostro «[…] il calavrese abate Giovacchino/di spirito profetico dotato» (Par. XII, vv. 140-141), che ne aveva rilevato il primato fra le nazioni essenzialmente per la presenza della Chiesa Cattolica: idea poi rilanciata da Vincenzo Gioberti (1801-1852) (una confederazione di Stati con a capo il Papa).
La “renovatio” auspicata da Fiore per l’umanità, ma soprattutto per l’Italia e fatta propria da Dante, in realtà preludeva ad un’altra rinascita bramata da tanti e tanti personaggi.
Ecco nuovamente il Risorgimento.
Dunque Dante è stato il poeta-profeta dell’Unità d’Italia.
Per questo motivo nell’’800 il suo culto veniva proibito da certi governi tirannici della Penisola, specialmente da quelli facenti capo all’Austria, tanto che diversi patrioti furono arrestati ed imprigionati solo perché nelle loro case possedevano ed esponevano qualche ritratto dantesco.
Quando i trentini, riuscendo a farlo accettare al regime austriaco, nell’omonima piazza davanti alla stazione ferroviaria e di fronte alle Alpi (che il divino poeta con la mano indica come confine italiano), eressero il maestoso monumento a Dante (1896), nell’iconografia che lo arricchisce posero in evidenza l’incontro già ricordato con Sordello da Goito e ciò per proclamare a gran voce che Trento è una città della terra di Dante, e quindi italiana, come dimostra anche il sovrastante mausoleo di Cesare Battisti (1875-1916) poi eretto in vista del monumento dantesco.
Ecco perché la dissacrazione e denigrazione del Risorgimento offende anzitutto Dante, come offende tutti gli altri intellettuali (da Petrarca a Machiavelli, da Foscolo al Manzoni ecc….) che con il loro magistero morale e civile contribuirono a formare una coscienza nazionale e propiziarono un’unificazione politica.
Gli ideali ed i valori danteschi sono quelli dell’Italia: e Dante medesimo è un grandissimo valore per l’Italia.
In tutto il mondo Dante è considerato il simbolo dell’Italia e dire “Dante” significa dire “Italia”.
Egli indicò chiaramente i confini nazionali della nostra patria, includendovi già nel ‘300 l’Istria ed il Tirolo Meridionale. Celebri i versi nel Canto IX dell’Inferno: «[…] sì com’a Pola, presso del Carnaro/ch’Italia chiude e suoi termini bagna, […]». Intuì, interpretò ed alimentò la coscienza nazionale. Ne deplorò le divisioni interne. Portò la lingua e la letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura tuttora.

§ 3. Conclusioni finali –
Ed ora mi avvio alla conclusione con qualche breve considerazione.
Le nazioni civili, specialmente quelle che hanno dovuto affrontare una lunga ed ardua lotta per l’unità e quindi l’indipendenza, amano esaltare un proprio personaggio/eroe ed identificarsi in lui, nel quale assommano e riassumono il loro passato, le loro glorie, le loro amarazze.
Questo personaggio diviene quindi un mito ed assurge alla Nazione medesima.
L’Italia esalta Dante Alighieri ed in lui si riconosce.
Pressappoco il Sommo Poeta è per gli italiani come Mosè per gli ebrei; Omero per i greci; Virgilio per i romani; Maometto per gli arabi; Cervantes per gli spagnoli; Shakespeare per gli inglesi; Moliére per i francesi; Washington per gli americani, ed, infine, Goethe per i tedeschi.
Quindi, come abbiamo visto, fu anche l’Alighieri a contribuire ad edificare un’idea dell’Italia sulla tradizione romana e cattolica, mediterranea e poetica.
Ma fu soprattutto il filosofo Giovanni Gentile (1875-1944), in un suo scritto del 1918, a vedere in Dante il profeta dell’Italia risorgimentale e moderna.
Egli riconobbe nel Nostro non solo il Sommo Poeta, ma anche il filosofo e la divergenza con Benedetto Croce (1866-1952) fu netta. Codesta divergenza solitamente la si riconduce sul piano storico al dissidio tra fascismo ed antifascismo e sul piano filosofico al divario tra razionalismo liberale di Croce e l’irrazionalismo “mistico” di Gentile.
Ma Dante non è solo l’Italia, è ovunque nel mondo, anche grazie alle quattrocento sedi della Società “Dante Alighieri”, fondata nel 1889.
Dante è nella lingua che parliamo, è nella cadenza poetica di buona parte degli autori contemporanei, è nelle suggestioni di innumerevoli pittori dal Botticelli al Dalì e fino al Guttuso.
E Dante non è attuale è anche contemporaneo nella sua personale formulazione dell’idea di Europa.
Un grande sogno che il Poeta accarezzò per anni, al quale dobbiamo legare la sua visione non solo della libertà di Firenze dalle fazioni, ma dell’Italia e poi l’illusione di un’Europa-Impero ove il monarca illuminato placasse gli odi tra i comuni, all’interno delle città, così come aveva fatto Giulio Cesare 1300 anni prima, avendo intuito che la Repubblica aveva esaurito la sua funzione ed alimentava le guerre civili.
Egli unì l’Europa sotto le insegne dell’Aquila di Roma e sotto il suo immenso prestigio. Giulio Cesare ha dato alla politica i fondamenti millenari futuri ed a Roma la pace interna che durerà fino alle invasioni barbariche ed all’ultimo imperatore Romolo Augustolo.
Ed infine Dante, se con il suo “De vulgari eloquentia” ricerca  (ma in latino) una lingua volgare illustre, nella “Divina Commedia”, la lingua volgare accantona ogni complesso di inferiorità verso la blasonatissima lingua latina e diviene un esperimento raffinato e popolare, accessibile ed altissimo.
Immortale, oserei dire.
Desidero concludere con forse il momento più attuale, più interpretato della “Divina Commedia”.
La profezia “ante eventum” (l’unica del Poema) del Veltro.
Esso è un cane da caccia agile e scattante (identificato nel levriero), così chiamato in lingua mediovale,  ma sostanzialmente caduto in disuso, ma viene ricordato per via della famosa profezia che Dante pone all'inizio della Divina Commedia, nel I Canto dell'Inferno, in cui Virgilio, riferendosi alla lupa che rappresenta la cupidigia, afferma che:
« Molti son li animali a cui s'ammoglia
e più saranno ancora, infin che 'l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa
fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno
là onde 'nvidia prima dipartilla. »
In questi versi il veltro rappresenta un'azione di riforma, evidentemente ma probabilmente promossa da Dio, che perseguiti la cupidigia nelle sue forme ristabilendo in tutto il mondo ordine e giustizia.
Il significato letterale è: la lupa (della quale si parlava nei versi precedenti e che rappresenterebbe l'avidità) si accoppia a numerosi animali (forse intesi come altri vizi), sempre di più finché il veltro arriverà, e la ucciderà con dolore. Esso non avrà bisogno né di terra né di denaro (“peltro”), ma di sapienza, amore e virtù, e la sua origine sarà umile. “Feltro” puo’ essere inteso come panno di poco pregio, ma anche come un'indicazione geografica: tra Feltre e Montefeltro.
Il veltro sarà la salvezza (“salute”) dell’Italia, per la quale morirono Camilla, Turno, Eurialo e Niso (tutti personaggi dell’”Eneide” virgiliana), come ho di già detto.
Il veltro caccerà la lupa di città in città, finché la ricaccerà nell'inferno, da dove l'invidia primordiale di Lucifero (il riferimento è alla storia dell'angelo ribelle) l'aveva fatta uscire.
Molti hanno cercato un'identificazione con un personaggio reale [ad es. Cangrande della Scala (1291-1329)], Uguccione della Faggiuola (1250-1319), recentemente anche sulla base di un passo della celebre “Chanson de Roland “ dove è menzionato un veltro all'interno di una visione; altri invece hanno pensato genericamente a una carica (il papa, l'imperatore…), ma i versi sono volutamente oscuri ed è oggi ritenuto improbabile che Dante pensasse ad un personaggio particolare piuttosto che semplicemente all'azione di riforma in se stessa.
Una curiosità: tra i primi esegeti della "Commedia", Benvenuto da Imola (1330-1388) - che affronta il tema con molto impegno, quasi con sofferenza:
«est ergo, reiectis opinionibus vanis, ad istum passum arduum totis viribus insistendum», («respinte le vane opinioni, occorre cimentarsi con ogni energia su questo arduo passo») - finisce col ritenere «quod Virgilius loquatur de Augusto», insomma che «Virgilio con la figura allegorica del Veltro voglia indicare Augusto».
Anche chi ha pensato di poter identificare il veltro liberatore con il Cristo nulla ha potuto di fronte all'argomento insuperabile per cui Dante avrebbe dovuto parlare di un "tornare", e non di un "venire". Né ha offerto migliori argomenti l'interpretazione di coloro che hanno voluto vedere nel paladino la figura di Dante, cioè il suo Poema, la “Commedia”.
Francesco Di Montresor detto "Veltro" fu cavaliere di ventura di origini franco-veronesi, accompagnato spesso da un falco ed un levriero con cui andava a caccia fu forse la figura che contribuì ad associare nell'immaginario collettivo l'iconografia del veltro con il mito europeo della Caccia Selvaggia.
In ogni epoca, l’umanità ha dovuto combattere contro il c.d. “male”, che potevano essere i barbari nell’antica Roma, gli infedeli ai tempi delle Crociate, la cupidigia appunto.
Sarà venuto codesto “Veltro”.
Ed ora, richiamando, come è mia consolidata tradizione, i versi di Virgilio (Georg. III, 284), fulgida guida dantesta, nella loro perenne e duratura validità: «fugit interea, fugit inreparabile tempus […]», taccio e chiudo codesta mia sommaria e forzatamente molto incompleta esposizione, ma permettetemi di tacere con un mio ben modesto consiglio.
Ciascuno di noi abbia a consultare un’edizione, anche tascabile, della “Divina Commedia” e, rileggendola, applichi i versi  alla nostra vita giornaliera, ma anche analizzi, confronti quanto l’Alighieri è attuale, e quanto egli aveva previsto, e con netto anticipo, per i secoli dopo di lui.