
L'articolo che segue è comparso su "Il Candido" di Giovannino Guareschi del 18 Maggio 1958, a firma di Giorgio Pillon, lo stesso giornalista che scrisse "I Savoia nella bufera", sempre sul Candido.
Purtroppo gli eventi non sono stati all'altezza delle previsioni.
Purtroppo gli eventi non sono stati all'altezza delle previsioni.
Roma,
maggio
«Avrebbe
dovuto vivere almeno altri quattro giorni», così Romita commentò con De Gasperi
la notizia della morte di Vittorio Emanuele III diramata dalla Reuter verso le
16 del 28 dicembre 1947. A
De Gasperi che lo guardava sorpreso, Romita spiegò: - Il primo gennaio andrà in
vigore la Costituzione :
se "il vecchio" (così Romita chiamava con evidente mal gusto l'ex Re
d'Italia) avesse aspettato a tirare le cuoia dopo l'entrata in vigore della
Costituzione, il suo patrimonio sarebbe automaticamente passato alla repubblica.
Invece ci toccherà litigare con tutti i Savoia. E ci sarà - questo è il colmo!
- qualche giudice che darà loro ragione».
Romita,
almeno quella volta, vide giusto. Vittorio Emanuele morì proprio in tempo per
salvare il suo patrimonio alle figlie Jolanda, Giovanna e Maria nonché ai
nipoti (i figli di Mafalda) Maurizio, Enrico, Ottone e Elisabetta d'Assia. La
legge per l'avocazione dei beni siti nel territorio nazionale degli ex Re e
delle loro Consorti (disposizione XII delle norme transitorie e finali della Costituzione
repubblicana) entrò in vigore alle ore 0,1 del l° gennaio 1948. Chiudendo gli
occhi a "Villa Jela", al Cairo, il 28 dicembre il Re impedì
automaticamente che i cosiddetti "beni privati" passassero allo
Stato.
Vittorio
Emanuele III morì senza testamento. E ciò stupì non poco monarchici e
repubblicani. Giacché tutti concordemente riconoscevano al Sovrano una qualità:
la precisione.
Come
mai - si domandarono tutti in Italia - il Re non aveva pensato dì fare
testamento? Possibile che egli, tanto metodico e previdente sotto molti
aspetti, avesse trascurato questo ultimo gesto?
Il
Re era sempre stato un accorto amministratore del suo ingente patrimonio. E lo
aveva fatto osservando scrupolosamente le leggi. Quando nel 1936 il Ministro
delle Finanze Tahon de Revel aveva ordinato la denuncia dei titoli e dei valori
all'estero, il Re era stato tra i primi a presentare la sua documentazione. Il
fascicolo era finito sul tavolo di Mussolini. Il Capo del Governo lo aveva letto
e così postillato: «Credo che i titoli esteri di S. M. (tra l'altro Casa Savoia
possedeva un forte pacchetto d'azioni della società che gestiva il Canale di
Suez) siano da lasciare indisturbati. E’ giusto che un sovrano abbia un
gruzzolo (e Mussolini sottolineò la parola) al sicuro. Il destino delle monarchie
è spesso incerto e sarebbe poco degno se un popolo costringesse il proprio
Sovrano in esilio a chiedere l'elemosina allo straniero ».
Ma
Vittorio Emanuele III aveva effettivamente avuto tanta previdenza? Oggi, a
distanza di oltre dieci anni dalla sua morte, possiamo rivelare un episodio
estremamente significativo. Il Re aveva in animo dì fare testamento molto tempo
prima che avvenimenti eccezionali e non previsti lo avessero spinto, suo
malgrado, a cercare rifugio in terra egiziana. Nel 1944 aveva voluto consultare
un illustre giurista particolarmente esperto in diritto civile, Aveva così appreso
notizie estremamente interessanti. Come Sovrano - gli disse il giurista - egli
era protetto dall'articolo 20 dello Statuto Albertino. Questo articolo dichiara
inequivocabilmente che il Re non è tenuto alla osservanza delle leggi contenute
nel Codice Civile. Per questo motivo Vittorio Emanuele aveva potuto sempre
disporre del suo patrimonio privato, in modo diverso dal normale. Egli «aveva
potuto (per citare un fatto, oggi tornato di attualità) regalare al principe
ereditario, in data 7 dicembre 1929 (notaio Paolo Castellini, con studio a Roma
in via due Macelli numero 79), il reale possesso di Racconigi costituito dal
Castello e da fabbricati e terreni siti nei comuni di Racconigi,
Cavallermaggiore, Casalgrasso, Cavallerleone, Carmagnola, Pancalieri»: un insieme
di immobili valutati oggi oltre tre miliardi. Ed aveva fatto ciò senza
danneggiare gli altri eredi.
Ebbene
- e qui è tutto il gioco sottile giuridico messo in luce dall'illustre legale a
suo tempo consultato - morendo non più re, senza alcuna prerogativa sovrana,
Vittorio Emanuele avrebbe lasciato che la sua successione fosse regolata dalle
leggi civili. In tal caso tutti i suoi figli avrebbero concorso alla divisione
dell'asse ereditario, senza disparità di trattamento.
Questo
che avrebbe voluto dire? Il giurista precisò meglio: Nel caso che anche
l'allora Luogotenente del Regno fosse costretto a lasciare l'Italia dopo un
referendum nettamente favorevole alla proclamazione della repubblica, che
sarebbe successo, oltre al cambiamento della forma istituzionale? Tutti i beni
di proprietà di Vittorio Emanuele III e di Umberto di Savoia sarebbero stati
avocati dallo Stato. Racconigi regalata all'allora principe di Piemonte,
sarebbe passata di proprietà del Demanio.
Se
invece Vittorio Emanuele III fosse morto senza testamento, automaticamente
avrebbe potuto dagli eredi essere invocato l'articolo 737 del Codice Civile.
Questo articolo precisa che «ogni figlio o discendente che concorre alla
successione insieme con i fratelli o con le sorelle o con i loro discendenti,
ha l'obbligo di conferire ai coeredi tutto ciò che ha ricevuto dal defunto per
donazione, salvo che il donante o il testatore abbia altrimenti disposto ».
E
con ciò?, chiederà il lettore sprovveduto di cultura giuridica. La risposta non
è difficile, purché si tengano presenti due punti: 1) La donazione di Racconigi
fatta da Vittorio Emanuele al figlio il 7 dicembre 1929, nella imminenza delle
nozze con Maria José del Belgio. 2) L'avocazione allo Stato di tutti i beni
appartenenti a Umberto di Savoia, sancito dalla Costituzione repubblicana.
Racconigi,
dunque, essendo sin dal 1929 di proprietà di Umberto di Savoia avrebbe dovuto
automaticamente essere incamerata dallo Stato Italiano (e lo fu, infatti, però
illegalmente). Morendo Vittorio Emanuele III senza lasciare alcun testamento,
invece, tutti i suoi eredi avrebbero potuto invocare non lo Statuto Albertino
ma il Codice Civile Italiano.
Così
Vittorio Emanuele decise di morire senza lasciare alcun testamento, sicuro di giovare
alle figlie e ai nipoti. Numerose cause sostenute più tardi dai Savoia contro
lo Stato Italiano confermarono la lungimiranza del Re. L'Amministrazione delle
Finanze perse una dopo l'altra due cause, quella che avrebbe voluto contrastare
in Inghilterra la restituzione ai Savoia di una polizza di assicurazione
stipulata a suo tempo da Umberto I (un deposito di molte migliaia di sterline
conservato dalla banca Hambro di Londra) e quella che avrebbe voluto avocare
allo Stato l'intero patrimonio dei Savoia. Il 6 marzo 1953 la Corte d'Appello di Roma dava
torto al Ministro delle Finanze, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
Generale dello Stato e precisava che solo un quinto dei beni doveva essere
avocato, quale quota dell'ex-re Umberto di Savoia.
Fu
così che Jolanda di Savoia in Calvi di Bergolo, Giovanna di Savoia, vedova di
Boris III Sassonia Coburgo Gotha, Maria di Savoia in Borbone Parma e i figli di
Mafalda di Savoia in d'Assia (morta a Buchenwald) Maurizio, Enrico, Ottone e
Elisabetta d'Assia si videro assegnare in parti eguali quattro quinti di una
eredità valutata diversi miliardi
Da
allora però una nuova battaglia venne ingaggiata dagli avvocati Giovanni Andrea
Serrao e Carlo d'Amelío, intelligenti difensori dei Savoia: bisognava ottenere
che il possesso eli Racconigi venisse dichiarato (proprio in virtù
dell'articolo 737 del Codice Civile) non di proprietà unica di Umberto di Savoia
ma parte della massa ereditaria comune a tutti.
Questa
è la causa che sì discute attualmente alla prima sezione civile della Corte
d'Appello di Roma (consigliere istruttore dottor Alfredo Albanese). Già una
precedente sentenza ha dato ragione ai Savoia. Se la Corte d'Appello di Roma riterrà
valide le ragioni sostenute dagli avvocati d'Amelio e Serrao, Racconigi, con il
suo castello e le sue terre (un complesso valutato, secondo i valori di stima
determinati dall'Amministrazione delle Finanze, tre miliardi, 78 milioni e 680
mila lire), verrà diviso in quattro parti eguali e destinato alle tre figlie di
Vittorio Emanuele III Jolanda, Giovanna e Maria e ai quattro d'Assia.
In
pratica però ciò non avverrà. Una persona molto vicina ai Savoia ci ha detto: «Noi
non vogliamo anticipare le conclusioni della Magistratura. Ma se tutto andrà
come si spera, Racconigí sarà uno di quei "beni" che non verrà mai diviso.
Il Castello diverrà, sicuramente, il Museo dei Savoia, il sacrario della Casa
Reale. Aperto al pubblico richiamerà con la sua armeria, i suoi quadri i suoi
preziosi cimeli, folle di visitatori Forse nel laghetto vicino torneranno i
cigni, anche ha per ricordare i 35 eleganti pennuti che a colpi di mitra
vennero uccisi nel 143 mentre ignoti vandali devastavano il castello,
provocando in poche ore di saccheggio danni per oltre un miliardo e perdite di
importanza storica non facilmente valutabili.
GIORGIO
PILLON
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