NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 1 gennaio 2015

L'eredità dei Savoia

Il primo giorno dell'anno coincide con l'anniversario dell'entrata in vigore della costituzione repubblicana, pochi giorni dopo la morte del Re di Vittorio Veneto.
L'articolo che segue è comparso su "Il Candido" di Giovannino Guareschi del 18 Maggio 1958, a firma di Giorgio Pillon, lo stesso giornalista che scrisse "I Savoia nella bufera", sempre sul Candido.
Purtroppo gli eventi non sono stati all'altezza delle previsioni.



Roma, maggio
«Avrebbe dovuto vivere almeno altri quattro giorni», così Romita commentò con De Gasperi la notizia della morte di Vittorio Emanuele III diramata dalla Reuter verso le 16 del 28 dicembre 1947. A De Gasperi che lo guardava sorpreso, Romita spiegò: - Il primo gennaio andrà in vigore la Costituzione: se "il vecchio" (così Romita chiamava con evidente mal gusto l'ex Re d'Italia) avesse aspettato a tirare le cuoia dopo l'entrata in vigore della Costituzione, il suo patrimonio sarebbe automaticamente passato alla repubblica. Invece ci toccherà litigare con tutti i Savoia. E ci sarà - questo è il colmo! - qualche giudice che darà loro ragione».

Romita, almeno quella volta, vide giusto. Vittorio Emanuele morì proprio in tempo per salvare il suo patrimonio alle figlie Jolanda, Giovanna e Maria nonché ai nipoti (i figli di Mafalda) Maurizio, Enrico, Ottone e Elisabetta d'Assia. La legge per l'avocazione dei beni siti nel territorio nazionale degli ex Re e delle loro Consorti (disposizione XII delle norme transitorie e finali della Costituzione repubblicana) entrò in vigore alle ore 0,1 del l° gennaio 1948. Chiudendo gli occhi a "Villa Jela", al Cairo, il 28 dicembre il Re impedì automaticamente che i cosiddetti "beni privati" passassero allo Stato.

Vittorio Emanuele III morì senza testamento. E ciò stupì non poco monarchici e repubblicani. Giacché tutti concordemente riconoscevano al Sovrano una qualità: la precisione.

Come mai - si domandarono tutti in Italia - il Re non aveva pensato dì fare testamento? Possibile che egli, tanto metodico e previdente sotto molti aspetti, avesse trascurato questo ultimo gesto?

Il Re era sempre stato un accorto amministratore del suo ingente patrimonio. E lo aveva fatto osservando scrupolosamente le leggi. Quando nel 1936 il Ministro delle Finanze Tahon de Revel aveva ordinato la denuncia dei titoli e dei valori all'estero, il Re era stato tra i primi a presentare la sua documentazione. Il fascicolo era finito sul tavolo di Mussolini. Il Capo del Governo lo aveva letto e così postillato: «Credo che i titoli esteri di S. M. (tra l'altro Casa Savoia possedeva un forte pacchetto d'azioni della società che gestiva il Canale di Suez) siano da lasciare indisturbati. E’ giusto che un sovrano abbia un gruzzolo (e Mussolini sottolineò la parola) al sicuro. Il destino delle monarchie è spesso incerto e sarebbe poco degno se un popolo costringesse il proprio Sovrano in esilio a chiedere l'elemosina allo straniero ».

Ma Vittorio Emanuele III aveva effettivamente avuto tanta previdenza? Oggi, a distanza di oltre dieci anni dalla sua morte, possiamo rivelare un episodio estremamente significativo. Il Re aveva in animo dì fare testamento molto tempo prima che avvenimenti eccezionali e non previsti lo avessero spinto, suo malgrado, a cercare rifugio in terra egiziana. Nel 1944 aveva voluto consultare un illustre giurista particolarmente esperto in diritto civile, Aveva così appreso notizie estremamente interessanti. Come Sovrano - gli disse il giurista - egli era protetto dall'articolo 20 dello Statuto Albertino. Questo articolo dichiara inequivocabilmente che il Re non è tenuto alla osservanza delle leggi contenute nel Codice Civile. Per questo motivo Vittorio Emanuele aveva potuto sempre disporre del suo patrimonio privato, in modo diverso dal normale. Egli «aveva potuto (per citare un fatto, oggi tornato di attualità) regalare al principe ereditario, in data 7 dicembre 1929 (notaio Paolo Castellini, con studio a Roma in via due Macelli numero 79), il reale possesso di Racconigi costituito dal Castello e da fabbricati e terreni siti nei comuni di Racconigi, Cavallermaggiore, Casalgrasso, Cavallerleone, Carmagnola, Pancalieri»: un insieme di immobili valutati oggi oltre tre miliardi. Ed aveva fatto ciò senza danneggiare gli altri eredi.

Ebbene - e qui è tutto il gioco sottile giuridico messo in luce dall'illustre legale a suo tempo consultato - morendo non più re, senza alcuna prerogativa sovrana, Vittorio Emanuele avrebbe lasciato che la sua successione fosse regolata dalle leggi civili. In tal caso tutti i suoi figli avrebbero concorso alla divisione dell'asse ereditario, senza disparità di trattamento.

Questo che avrebbe voluto dire? Il giurista precisò meglio: Nel caso che anche l'allora Luogotenente del Regno fosse costretto a lasciare l'Italia dopo un referendum nettamente favorevole alla proclamazione della repubblica, che sarebbe successo, oltre al cambiamento della forma istituzionale? Tutti i beni di proprietà di Vittorio Emanuele III e di Umberto di Savoia sarebbero stati avocati dallo Stato. Racconigi regalata all'allora principe di Piemonte, sarebbe passata di proprietà del Demanio.

Se invece Vittorio Emanuele III fosse morto senza testamento, automaticamente avrebbe potuto dagli eredi essere invocato l'articolo 737 del Codice Civile. Questo articolo precisa che «ogni figlio o discendente che concorre alla successione insieme con i fratelli o con le sorelle o con i loro discendenti, ha l'obbligo di conferire ai coeredi tutto ciò che ha ricevuto dal defunto per donazione, salvo che il donante o il testatore abbia altrimenti disposto ».

E con ciò?, chiederà il lettore sprovveduto di cultura giuridica. La risposta non è difficile, purché si tengano presenti due punti: 1) La donazione di Racconigi fatta da Vittorio Emanuele al figlio il 7 dicembre 1929, nella imminenza delle nozze con Maria José del Belgio. 2) L'avocazione allo Stato di tutti i beni appartenenti a Umberto di Savoia, sancito dalla Costituzione repubblicana.

Racconigi, dunque, essendo sin dal 1929 di proprietà di Umberto di Savoia avrebbe dovuto automaticamente essere incamerata dallo Stato Italiano (e lo fu, infatti, però illegalmente). Morendo Vittorio Emanuele III senza lasciare alcun testamento, invece, tutti i suoi eredi avrebbero potuto invocare non lo Statuto Albertino ma il Codice Civile Italiano.

Così Vittorio Emanuele decise di morire senza lasciare alcun testamento, sicuro di giovare alle figlie e ai nipoti. Numerose cause sostenute più tardi dai Savoia contro lo Stato Italiano confermarono la lungimiranza del Re. L'Amministrazione delle Finanze perse una dopo l'altra due cause, quella che avrebbe voluto contrastare in Inghilterra la restituzione ai Savoia di una polizza di assicurazione stipulata a suo tempo da Umberto I (un deposito di molte migliaia di sterline conservato dalla banca Hambro di Londra) e quella che avrebbe voluto avocare allo Stato l'intero patrimonio dei Savoia. Il 6 marzo 1953 la Corte d'Appello di Roma dava torto al Ministro delle Finanze, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato e precisava che solo un quinto dei beni doveva essere avocato, quale quota dell'ex-re Umberto di Savoia.

Fu così che Jolanda di Savoia in Calvi di Bergolo, Giovanna di Savoia, vedova di Boris III Sassonia Coburgo Gotha, Maria di Savoia in Borbone Parma e i figli di Mafalda di Savoia in d'Assia (morta a Buchenwald) Maurizio, Enrico, Ottone e Elisabetta d'Assia si videro assegnare in parti eguali quattro quinti di una eredità valutata diversi miliardi

Da allora però una nuova battaglia venne ingaggiata dagli avvocati Giovanni Andrea Serrao e Carlo d'Amelío, intelligenti difensori dei Savoia: bisognava ottenere che il possesso eli Racconigi venisse dichiarato (proprio in virtù dell'articolo 737 del Codice Civile) non di proprietà unica di Umberto di Savoia ma parte della massa ereditaria comune a tutti.

Questa è la causa che sì discute attualmente alla prima sezione civile della Corte d'Appello di Roma (consigliere istruttore dottor Alfredo Albanese). Già una precedente sentenza ha dato ragione ai Savoia. Se la Corte d'Appello di Roma riterrà valide le ragioni sostenute dagli avvocati d'Amelio e Serrao, Racconigi, con il suo castello e le sue terre (un complesso valutato, secondo i valori di stima determinati dall'Amministrazione delle Finanze, tre miliardi, 78 milioni e 680 mila lire), verrà diviso in quattro parti eguali e destinato alle tre figlie di Vittorio Emanuele III Jolanda, Giovanna e Maria e ai quattro d'Assia.

In pratica però ciò non avverrà. Una persona molto vicina ai Savoia ci ha detto: «Noi non vogliamo anticipare le conclusioni della Magistratura. Ma se tutto andrà come si spera, Racconigí sarà uno di quei "beni" che non verrà mai diviso. Il Castello diverrà, sicuramente, il Museo dei Savoia, il sacrario della Casa Reale. Aperto al pubblico richiamerà con la sua armeria, i suoi quadri i suoi preziosi cimeli, folle di visitatori Forse nel laghetto vicino torneranno i cigni, anche ha per ricordare i 35 eleganti pennuti che a colpi di mitra vennero uccisi nel 143 mentre ignoti vandali devastavano il castello, provocando in poche ore di saccheggio danni per oltre un miliardo e perdite di importanza storica non facilmente valutabili.


GIORGIO PILLON

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