NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 27 febbraio 2020

Costiera amalfitana nella storia: dallo sbarco al referendum e la vittoria della Monarchia nella Divina


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I risultati furono proclamati dalla Corte di cassazione il 10 giugno 1946: 12 717 923 cittadini favorevoli alla repubblica e 10 719 284 cittadini favorevoli alla Monarchia. 
La particolarità di quel periodo storico da attribuire alla Costa d’Amalfi, è il fatto che stravinse la Monarchia con più del novanta percento dei voti.
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mercoledì 26 febbraio 2020

Una rosa rossa sulla tomba della Regina Giovanna di Bulgaria

di Emilio Del Bel Belluz  

Il 26 febbraio saranno trascorsi vent’anni dalla morte in esilio della Regina di Giovanna di Savoia, moglie di Re Boris III e sorella dell’ultimo Re d’Italia, Umberto II. 
Qualcuno non la ricorda ma era la quartogenita del Re Vittorio Emanuele III e della regina Elena di Montenegro. 
La regina Giovanna era nata nel 1907 a Roma, dopo che il padre era diventato Re sette anni prima, in seguito all’uccisione di suo padre Umberto I. 
Per ricordare la sovrana farò deporre una rosa rossa sulla sua tomba ad Assisi proprio nel giorno dell’anniversario della sua morte. La regina è sepolta in terra italiana, dove aveva chiesto di poter venire ad abitare dopo il referendum istituzionale che aveva visto sconfitta la monarchia in Bulgaria, ma le fu vietato, perché troppo stretti erano i rapporti dei nostri comunisti con quelli bulgari e, inoltre, non volevano dar un dispiacere a Mosca. 
Ha voluto essere sepolta in una cappella dei francescani ad Assisi, perché alcune vicende della sua vita avevano avuto come protagonista questa città e l’amore per S. Francesco. Quando era bambina si era gravemente ammalata, assieme alla sorella Mafalda di tifo e promise al buon Dio che se sarebbero guarite non avrebbero mai dimenticato il buon San Francesco a cui avevano affidato tutte le loro speranze. 
Entrambe le sorelle guarirono. In seguito, incontrò il Re Boris di Bulgaria, e nel 1930 si sposa, proprio ad Assisi, un posto che aveva nel cuore e che non dimenticherà mai. Questa cerimonia fu ripetuta anche in Bulgaria, con rito ortodosso, grazie alla mediazione del nunzio apostolico Roncalli, che telegrafò al Papa: ”Tutte le forme sacramentali del matrimonio sono state osservate”. Con il Monsignor Roncalli, la Regina di Bulgaria instaurò una grande amicizia, e previde che sarebbe diventato Papa. Egli scrisse questa previsione nel suo diario, ma senza alcuna convinzione. 
Ma quando questa ipotesi divenne realtà, la sovrana andò a trovarlo, assieme a tutta la sua famiglia. La vita della Regina Giovanna non fu un tappeto di rose, infatti, dovette affrontare il dramma della morte del suo consorte, nel 1943. Si racconta che fu avvelenato da Hitler, questo avvenne nel momento culminante della guerra. Al trono salì il figlio Simeone che aveva pochi anni, e nel 1946 dovettero allontanarsi dal Paese, dopo il referendum che vide vincitore la repubblica popolare. La regina chiese di tornare in Italia, ma la risposta fu negativa. L’Italia aveva mandato in esilio il fratello Re Umberto II, e non c’era posto per i Savoia. 
Rifiutata dall’Italia, trovò rifugio in Egitto, dove si trovavano la madre regina Elena e il suo consorte Re Vittorio Emanuele III. La famiglia in qualche modo si ricompattò, il dolore li univa. 
Un nuovo lutto li addolora: la morte del re Vittorio Emanuele III. In seguito, la Spagna di Franco la accoglie nella sua terra. Nel 1962 la Regina di Bulgaria lascia la Spagna dopo il matrimonio del figlio Re Simeone II, e va a vivere in Portogallo, a tre chilometri dalla residenza del fratello, re Umberto II, cui era molto legata. Il destino crudele li unisce, sono entrambi in esilio. Il destino del Re Umberto II, è più crudele non potendo mai tornare in Italia, né da vivo né da morto. 
La Regina di Bulgaria, invece, dopo la fine del comunismo potrà rivedere il Paese che l’aveva accolta dopo il matrimonio con Re Boris III. L’ultimo desiderio di questa regina lo realizzò nel 1999, la costruzione di una chiesetta disegnata da un architetto bulgaro e benedetta il 19 marzo dello stesso anno. Fu la prima chiesa ortodossa per i fedeli bulgari, in Portogallo. In questi anni pochi si sono ricordati di questa regina così buona e servizievole verso la patria lontana. 
La Regina di Bulgaria assieme al suo amato consorte aveva aiutato ben 48 mila ebrei a fuggire dalla Bulgaria, assicurando loro un transito sicuro verso aree non occupate dai nazisti. 
Gli Stati Uniti e Israele, resero omaggio alla famiglia dei reali di Bulgaria e Re Boris III fu dichiarato “ Giusto fra i Giusti”.

martedì 25 febbraio 2020

“Per un nuovo Risorgimento”, conferenza del Presidente Giglio


CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA

REX

“il più antico Circolo Culturale della Capitale”







72° Ciclo di Conferenze 2019- 2020 – Seconda Parte
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Da anni imperversa una sistematica diffamazione del Risorgimento e dell’Unità da parte dei cosiddetti neo borbonici, ai quali si sono aggiunti nostalgici asburgici e del potere temporale dei Papi, per non parlare di un movimento politico che, all'origine, propugnava addirittura la secessione dell’Italia del Nord. Nessun storico a conforto di queste tesi, ma giornalisti improvvisati storici. In questo momento in cui l’Italia ha bisogno di una scossa per riprendere il suo cammino ed il suo sviluppo, il Circolo REX come Circolo di Cultura riproporrà i valori ed il significato di questo movimento che portò all'indipendenza ed all'unità nazionale nel solo modo possibile affidando l’analisi al suo Presidente


Dr. Ing. Domenico Giglio

Domenica 1 Marzo alle ore 10,30

“Per un nuovo Risorgimento”



Sala Italia presso Associazione “Famija Piemonteisa - Piemontesi a Roma”

Via Aldrovandi 16 ( ingresso su strada) e 16/B (ingresso con ascensore) raggiungibile con linee tramviarie “3” e “19” ed autobus “910”,”223”, e “52”


INGRESSO LIBERO

Nota : in sala saranno disponibili copie del recente volume “La solitudine del Re”, edizioni Helicon, presentato al Rex, domenica 2 febbraio, contenente una selezione delle lettere scambiate tra Umberto II ed il Ministro della Real Casa, Falcone Lucifero,e del volume “Dittatura e Monarchia - L’Italia tra le due guerre” - editore Pagine -, fondamentale opera storica del professore Domenico Fisichella.

lunedì 24 febbraio 2020

Io difendo la Monarchia Cap IX - 1

L'ARMISTIZIO E LA DIFESA DI ROMA
Uscire dalla guerra fascista - Le difficili trattative di armistizio - La missione Castellano - Come si giunse all'otto settembre - Si poteva difendere Roma? - Il disinvolto generale Carboni e le sue due versioni - Il diario di Stimson - Il diario di Caviglia - Il Capo dello Stato non doveva rimanere prigioniero - La serie dei tradimenti tedeschi - Non c'è terra di Europa che non abbia sofferto di un inganno germanico.

Ed ora eccoci alla fase culminante del dramma. Scrive Montanelli nel suo saggio sulla Rivoluzione d'Italia: «La storia vera non è contemporanea. Mentre il conflitto ferve ancora vivo, noi siamo accusatori che citiamo in giudizio, accusati che ci difendiamo, testimoni che rendiamo testimonianze più o meno passionate e quindi più o meno sospette; nessuno di noi può, senza ridicola presunzione, arrogarsi la parte di giudice. Il giuri della storia comincia quando tacciono le passioni che accompagnano la lotta; i giudizi che preferisce sono le epigrafi mortuarie che una generazione scrive sulla tomba della generazione che fu. Fanno dunque pietà più che sdegno alcuni storici contemporanei i quali si piccano dar lezioni all'uman genere colla grave impostura di dottoroni sputasentenze e a noi che ne conosciamo vita, morte e miracoli vogliono dare ad intendere di essere i rappresentanti della posterità» (1).
Cerchiamo di essere degli onesti testimoni di quello che abbiamo vissuto e sofferto e vediamo di allontanare dalla narrazione gli elementi drammatici che esasperano le passioni e tolgono serenità al giudizio.
Che Mussolini andasse levato di seggio sono tutti concordi nell'affermare, almeno nei limiti in cui sia possibile indovinare e riassumere in una nazione la volontà generale. Certo non mancavano i fascisti fanatici e irriducibili, ma è importante notare che non uno in tutta la Penisola si levò per difendere il dittatore o per rivendicarne il merito e le azioni. Il fascismo e i mussoliniani scomparvero nei quarantacinque giorni e riapparvero solo dopo il dieci settembre con le schiere tedesche.
Levato di mezzo Mussolini tutti pensavano che si dovesse al più presto uscire dalla guerra. Se la caduta del fascismo era provocata dalla nozione ormai certa della sconfitta, bisognava uscire al più presto dalla tormenta, separare tempestivamente la nostra causa da quella tedesca. Non ci si poneva certo su di un sentiero fiorito. Avremmo avuto probabilmente un duro periodo di occupazione anglo-americano, certamente la guerra con la Germania, ma poi che tutto questo era fatale meglio era avvenisse subito. Si sperava che l'armistizio italiano potesse portare a conseguenze simili in tutti i paesi danubiani e balcanici; potesse incoraggiare la Turchia all'intervento e, insomma, far precipitare rapidamente il lungo dramma della guerra verso il suo epilogo. Così avvenne anche nel 1918 quando alla resa della Bulgaria successe, in brevi settimane, la sconfitta austriaca e quella tedesca.
Purtroppo gli avvenimenti politici e militari di questa guerra non hanno seguìto nei dettagli il corso di quelli del 1914-1918. Sì, la stessa aggressione della Germania, la stessa violazione della neutralità dei piccoli paesi, le stesse irresistibili vittorie tedesche all'inizio e poi il rafforzamento della coalizione avversaria, l'equilibrio delle parti e infine il regredire della Germania e la sua sconfitta. Questo in linea generale, ma nei dettagli le cose sono andate diversamente. Questa volta il declino della forza tedesca è stato assai lento e contrastato: la difesa è stata tenace, fanatica e feroce. Il maggior peso delle conseguenze di questo mutato corso degli avvenimenti ha gravato sull'Italia che per due anni è stata teatro della nuova guerra. Nessuno però nell'estate del 1943 poteva prevedere che il nazismo fosse un così accanito nemico della stessa patria tedesca, tanto da preferire alla resa la distruzione di tutte le sue città e lo smembramento forse definitivo del Reich.

A ogni modo per gli italiani non vi era dubbio. La caduta di Mussolini doveva significare la caduta del fascismo; la riprovazione e il ripudio della sua politica, delle sue alleanze, delle sue aggressioni, delle sue guerre. Via, dunque, dalla guerra fascista. Essa era la conseguenza di un'intesa ideologica, l'Asse, e di un patto derivato da tale intesa ideologica (2). Gli alleati promettevano il loro soccorso e si impegnavano a rimetterci le nostre colpe. Non si può proprio dire che questo sia avvenuto; purtroppo molte aspettative sono andate deluse, molte condizioni dell'occupazione sono parse troppo gravose, molte amarezze hanno fatto seguito alle troppo candide illusioni iniziali. Ma per giudicare obiettivamente del comportamento anglo-americano verso di noi, dobbiamo confrontare le nostre condizioni di paese vinto, non con quelle della. Francia, ma con quelle della Germania.
Gli italiani dunque volevano subito uscire dalla guerra. E il Governo Badoglio si propose di venire incontro al desiderio della generalità degli italiani. Esso prescelse nei confronti con i tedeschi la via della dissimulazione a quella dell'aperta denuncia dell'alleanza. Qui cade il discorso sul rapporto che deve correre tra la politica e la morale. Discorso che ad ogni stagione della politica si rinnova in Italia da quattro secoli.
Anche recentemente in un articolo su La città libera Benedetto Croce torna a fissare con grande chiarezza questo rapporto. «In verità — egli ha scritto — io come chiunque pensi seriamente la politica, mi onoro di dirmi machiavelliano e penso che l'Italia dovrebbe erigere in una delle sue piazze illustri una statua al grande suo figlio che per primo segnò con tratti incisivi il carattere e l'autonomia della politica.
«La sfera della politica — continua Croce — che è anche essa nello spirito umano, è sembrata talora star fuori di questa, quasi forza della natura, appunto perché la politica ha. le sue ragioni che non sono quelle della morale. Il mondo che il Campanella definiva un animale. grande e perfetto sazia, per l'appunto, come un animale i suoi bisogni e impulsi vitali e le sue necessità di cangiamenti e di riassetti mercé la guerra -e. le altre lotte della politica, ed è perfettamente puerile volergli impartire lezioni e pretendere di addomesticarlo perché esso, al pari dell'amore sauvage oiseau di cui canta Carmen ou ne peut pas l'apprivoiser ».
Coloro che giudicano immorale la dissimulazione verso i tedeschi- tra, il venticinque luglio e l'otto settembre non pretendono che l'Italia dovesse continuare la- guerra germanica, ma solo pensano che un diverso metodo avrebbe giovato maggiormente alla causa italiana di quello seguito dal Maresciallo. Volevano insomma un inganno più accorto, non rifiutavano l'idea dell'inganno. E se non doveva esserci inganno ma guerra aperta è naturale che, di tanto più deboli dei tedeschi nelle nostre forze; ci si dovesse assicurare con segreti accordi l'appoggio delle democrazie. Ma pur senza addentrarci nei meandri di una discussione accademica domandiamoci: « Si può con i tedeschi seguire altra via? ». Non vi è popolo d'Europa che non abbia conosciuto i metodi di spudorata menzogna e di sistematico inganno dei tedeschi. Si può trattare con lealtà con un governo che ha adoperato con la Cecoslovacchia nel marzo del 1939 i metodi che atterrirono il Presidente Hacha? Per non dire dei metodi seguiti con l'Austria, la Norvegia, il Belgio, l'Olanda, la Danimarca, la Polonia.
La storia delle trattative laboriose e difficili tra il Governo di Badoglio e il Comando alleato di Eisenhower è nota. Essa è stata descritta minutamente da fonte inglese come da fonte italiana.

(1) G. MONTANELLI: La rivoluzione d'Itaiia. Edizioni Sestante », Roma, 1945, pag. 4.
(2) Vedi la premessa agli articoli del Patto d'Acciaio del maggio 1939.


S.A.R. Maria Gabriella Di Savoia custode della storia d’Italia


Da Residenze Sabaude a Residenze Reali Piemonte...

“Theatrum Sabaudiae”? Fino a quando? Forse una futura edizione dell'ammiratissima sontuosa opera verrà intitolata semplicemente “Teatro”. Via ogni riferimento alla (e ai) “Savoia”. Lo stesso varrà per la “Galleria Sabauda” nel 1984 amorevolmente descritta da Rosalba Tardito Amerio in un bel volume della Cassa di Risparmio di Torino? Diverrà “Galleria” o forse “Tunnel”, “Sottopasso”.
“Gutta cavat lapidem...”. Uno scialbo un giorno, una scalpellata l'altro, l'abrasione corruttiva del passato procede sempre più celere. Quasi 75 anni dopo il cambio istituzionale qualcuno ha sferrato un'altra mazzata: le Residenze Sabaude, patrimonio mondiale dell'Unesco, non saranno più tali. Divengono Residenze Reali Piemonte. Aleggia cupo il motto “Indietro Savoia”, lanciato da un libello di Lorenzo Del Boca, che però combatte a viso aperto.
La decisione di togliere o aggiungere un aggettivo non è mai casuale. Come ricorda il generale CdA Oreste Bovio in un insuperato volume dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore, all'indomani dell'Unità l'Esercito inizialmente fu “Italiano”. L'aggiunta dell'aggettivo Regio suggellò la sua piena identificazione con la monarchia che aveva unito l'Italia: e tale rimase con le bandiere fregiate dallo scudo di Savoia al centro della banda bianca, secondo le dinamiche descritte dallo stesso Bovio in altre sue opere sull'Araldica militare.
Ora le Residenze fatte erigere nei secoli e via via abbellite da conti e duchi di Savoia, poi re di Sardegna e d'Italia, da Sabaude declinano a un generico “Piemonte”, con drastica amputazione della Valle d'Aosta, pur orgogliosa del castello di Sarre, dal quale prese titolo comitale Umberto II alla partenza dal suolo patrio il 13 giugno 1946, come avevano fatto Vittorio Emanuele III, conte di Pollenzo alla partenza per Alessandria d'Egitto, e  Carlo Alberto, conte di Barge quando andò esule a Oporto. La burocrazia sforbicia la Storia. Anziché un passo innanzi nella ricomposizione della memoria ne fa uno di lato, verso il vuoto. “Era ora” pare abbia inneggiato un supporter del “cambio”. Un altro avrebbe aggiunto che “i Savoia hanno fatto di tutto, e solo nel male”. E quelle Residenze, dunque? Per coerenza giacobina andrebbero demolite come le Vele di Scampia. E, per conseguenza logico-cronologica, chi oggi vi si accampa dovrebbe dare alle fiamme sedia e scrivania e cercarsi un altro mestiere.

Un atlante geo-storico di personaggi evocativi: il caso della Spagna
Sarà Wikipedia a far memoria di ogni Paese? L'esempio salutare (o allarme?) arriva dalla Spagna, che ha classificato i personaggi più rappresentativi della sua storia millenaria provincia per provincia sulla base degli “articoli” nei quali essi vi compaiono: duemila anni di vicende complesse e al tempo stesso lineari lungo i quali si sono susseguiti romanizzazione, età dei Visigoti, invasione araba, Riconquista, il balzo a impero mondiale con Carlo V d'Asburgo, il lungo regno da Filippo II ai Borbone e le convulsioni dell'Otto-Novecento sino all'età presente, incarnata da Filippo VI di Borbone. Lo spagnolo più antico svettante nella classifica di Wikipedia non è Viriato, strenuo combattente contro la conquista dell'Iberia da parte dei Romani, assassinato a tradimento nel 139 a.Cr. e celebrato a Zamora, ma Lucio Anneo Seneca, nativo di Cordova, filosofo, precettore sfortunato di Nerone, che gli ordinò di suicidarsi dopo la fallita congiura di Pisone. Lo seguono Traiano, l'imperatore di Roma (98-117 d.Cr.) nato a Italica, il suo immediato successore, Adriano (117-138), e Teodosio (380-395), della provincia di Segovia.
Nella celebre e abusatissima enciclopedia informatica i più citati tra gli “eroi” rappresentativi della storia di Spagna sono anzitutto i sovrani: Filippo II d'Asburgo, nato a Valladolid, come suo nipote Filippo IV (altrettanto famoso: terzo in assoluto per numero di “articoli”), Filippo III d'Asburgo, nato a Madrid, da poco “inventata” quale capitale di uno Stato policefalico e centrifugo, Carlo II (ultimo Asburgo), il discusso Fernando VII di Borbone, Alfonso XIII, che lasciò la Spagna (ma non la corona) all'indomani di banali elezioni amministrative. Tra le teste coronate ispaniche non mancano donne memorabili, da Urraca la Temeraria, rappresentativa della provincia di León, a Isabella la Cattolica, moglie di Ferdinando di Aragona, nativo di Saragozza, ove il suo nome è oscurato da quello del pittore Francisco de Goya. La “mappa” dei Re è una sorta di catena di unione che conduce da Pedro I di Castiglia il Crudele (o Giustiziere?) a Pedro IV di Castiglia il Cerimonioso e ad Alfonso VIII di Castiglia che sconfisse gli almoavidi a Las Navas de Tolosa: battaglia decisiva per le sorti della Spagna e dell'intero Occidente.
Oltre a teste coronate la Spagna vanta anche un papa, Alessandro VI Borgia, rappresentativo della provincia di Valencia (ma andrebbe ricordato anche l'antipapa Benedetto XIII  “de Luna”, morto a Peñiscola), e Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, originario della provincia di Guipúzcoa. Seguono conquistatori che hanno ampliato i confini dell'Europa: Hernan Cortés, originario di Badajoz, vincitore sugli Aztechi in Messico, e Francisco Pizarro, nativo della provincia di Cáceres, che soggiogò gli Incas in Perù. L'Ottocento risulta povero di “politici”, a parte Práxedes Mateo Sagasta (La Rioja). Nel Novecento con oltre mille “articoli” spicca ovviamente Francisco Franco y Bahamonde (el Ferrol), superato in classifica nazionale solo da Filippo II, e molte lunghezze avanti rispetto ai conterranei Manuel Fraga Iribarne (Lugo) e Mariano Rajoy (Pontevedra). Il “caso Franco” è eloquente. La sua salma è stata deportata dal Valle de los Caidos per cocciuto capriccio del socialista Pedro Sánchez “l'Obliabile”, ma la sua opera rimane nella Storia.
L'“atlante” delle celebrità designate da Wikipedia a rappresentare la Spagna “Una, grande y libre” si completa con una pleiade di musicisti (Manuel de Falla per Cadice), pittori (Salvador Dalì per Gerona) e Picasso (Malaga), architetti (è il caso di Gaudì, tarragonese), poeti (Federico García Lorca, granadino), filosofi e pensatori  (Melchor Gáspar de Jovellanos, illuminista ma non massone; Menéndez Pelayo e Miguel de Unamuno).
Data la reciprocità tra domanda e offerta, che vale per Wikipedia come per ogni altra rappresentazione del sapere, dal I secolo dopo Cristo a oggi la Spagna si racconta ed è narrata all'insegna della continuità: Roma, cristianità, impero universale, costruzione e ricostruzione, tra arroccamento sulla propria identità e missione planetaria. Il ritratto che ne emerge è nell'insieme appagante, anche se qualche gigante rimane soccombente. È il caso del madrileno Miguel de Cervantes, surclassato da Filippo III d'Asburgo. Ma l'elenco delle celebrità forzatamente restate in secondo piano (o “di riserva”) potrebbe essere lunghissimo, a conferma della straordinaria ricchezza storica e culturale di un Paese che ha tutti i requisiti di un Continente. Ed è motivo di riflessione che, malgrado settecento anni di presenza su suolo ispanico con tutte le ben note ricadute demografiche, costumali e toponomastiche in regioni vastissime dall'Aragonese a El Ándaluz, gli “Arabi” non abbiano lasciato alcun nome capace di far sintesi di una delle tante province da loro dominate per secoli (lo stesso, del resto, vale per la Sicilia).

Le Province d'Italia in cerca di personaggi rappresentativi
La “mappatura” proposta sulla scorta della frequenza in Wikipedia fa interrogare sull'immagine che gli italiani hanno oggi di sé e, ancor più, su quella che si stanno dando a colpi di spugna sul passato. Se si scorrono le più diffuse riviste di storia, le “terze pagine” dei quotidiani e i maggiori successi editoriali sorgono molte perplessità. A far la parte del leone è il Novecento. Nel suo ambito dominano il fascismo, elevato a canone universale, e il duce, Benito Mussolini. Piaccia o meno (a chi scrive, assai poco), il maggior successo editoriale del 2019 è stato “M. Il figlio del secolo” di Antonio Scurati (ed. Bompiani), presentato come “romanzo” dalle ambizioni storiografiche. Anni addietro trionfò il “Canale Mussolini” di Gianni Pennacchi. A nessuno scrittore è venuto in mente di incardinare la memoria sul meritorio Canale Cavour… A confronto delle dozzine di biografie più o meno sagaci dedicategli sin da quando era al potere (come dimenticare “Dux” dell'ebrea Margherita Sarfatti e “Colloqui con Mussolini” di Ludwig?), sono poca cose le opere sul coevo e anzi molto più importante (e sicuramente meno rovinoso) Vittorio Emanuele III, tuttora in attesa di un profilo biografico onesto.
Ma se anche per la storia d'Italia venisse utilizzata la chiave di lettura usata per quella di Spagna quale mosaico ne uscirebbe? A parte l'ovvia constatazione che i sette secoli di Roma già sono  affollati di nomi memorabili, in massima parte nati nell'Urbe o nella sua “provincia”, la romanocentricità dell'età dei re, dei consoli e dei Cesari renderebbe non indicativo il luogo di nascita, perché, come scrisse Quinto Ennio “Nos sumus Romani qui fuimus ante Rudini”. Il luogo di nascita di storici quali Tito Livio e Publio Cornelio Tacito o di poeti come Publio Virgilio Marone è del tutto secondario rispetto alla missione che essi si dettero: fissare le tavole della Latinità.  
Nei secoli seguenti i nomi rappresentativi della storia d'Italia risultano al tempo stesso innumerevoli ma non solo “nazionali”, per l'intreccio indissolubile tra Impero e Papato, tra Roma e l'Occidente e i radi falliti tentativi di riunificazione dell'Impero, con gli Ottoni di Sassonia. Il re dei Franchi, Carlo, non era nativo di una provincia italiana, ma è inseparabile dalla storia d'Italia, al pari di Federico I Barbarossa e di suo nipote, Federico II (peraltro nato a Jesi e sepolto nel Duomo di Palermo).
Passando all'età dei Comuni e delle Signorie, le potenziali candidature a simboleggiare una “terra” divengono una pletora. A chi assegnare la rappresentatività di Firenze dal Trecento di Dante, Boccaccio e Petrarca al Quattro-Cinquecento di Lorenzo il Magnifico, Poliziano, Brunelleschi, papa Leone X, e quella dell'Otto-Novecento? Lo stesso vale per il Mezzogiorno dai Normanni agli Angiò e agli Aragonesi, per i Ducati padani, a tacere di Milano (il più citato nelle enciclopedie informatiche rimane Ludovico il Moro, anche se poco suffragato da memoria positiva), di Venezia (il suo personaggio di spicco è lo sfortunato Marcantonio Bragadin, martirizzato dai Turchi nel 1571 dopo la conquista di Famagosta: tanto più memorabile rispetto alla serie secolare di dogi), della Genova di Andrea Doria, sicuramente secondo rispetto a Cristoforo Colombo, sia o no davvero genovese.
Il “caso” del Piemonte Sabaudo
Un caso a parte è infine costituito dal “Piemonte” lentamente unificato dai conti, duchi e re Sabaudi: un percorso plurisecolare approdato all'Ottocento di Carlo Alberto di Savoia-Carignano e a suo figlio, Vittorio Emanuele II (Torino, 20 marzo 1820-Roma, 9 gennaio 1878), primo re d'Italia. Posto che il suo volto meriterebbe di suggellare l'intera Italia, se Torino dovesse essere sintetizzata in un unico nome la palma spetterebbe a Emanuele Filiberto, che nel 1562 decise di trasferirvi la capitale del Ducato da Chambéry e ne segnò il destino storico, o a Camillo Cavour? E che cosa fare di Giuseppe Garibaldi? È l'italiano più popolare in patria e all'estero, il più raffigurato in statue, altorilievi, lapidi, targhe, intitolazioni di vie, piazze,stazioni ferroviarie  ma… fu nativo di Nizza, francese dal 1860. L'altro protagonista del Risorgimentale, Giuseppe Mazzini, sarebbe invece oscurato da conterranei di gran lunga più rappresentativi dei secoli della Superba. E quale rappresentatività attribuire ad Arduino, Marchese di Ivrea, primo “re d'Italia”?
Se poi da Torino l'occhio si volge alle altre province liguro-piemontesi la gara tra personaggi che ne scandirono i secoli si fa serrata. Sicuramente il Cuneese verrebbe sintetizzato da Giovanni Giolitti; mentre l'Alessandrino (una congerie di circondari dalle storie molto diverse) potrebbe essere evocato da papa Alessandro, che ne volle la fondazione, dal martire risorgimentale Andrea Vochieri o, su tutti, da papa san Pio V, al secolo Antonio Ghislieri (1504-1572), nativo di Bosco Marengo, domenicano, inquisitore, implacabile persecutore di eretici, ugonotti, ebrei (chiusi nei ghetti), ma anche promotore della vittoria navale sui turchi a Lepanto nel 1572, donde la pratica del rosario.

Maria Gabriella di Savoia custode della Memoria d'Italia
Capitolo a parte è Aosta. La sua figura più rappresentativa è Sant'Anselmo (Aosta, 1033-Canterbury, 1109), teologo, filosofo, uomo di fede e di ragione, propugnatore della dimostrazione ontologica dell'esistenza di Dio: un gigante del pensiero in un'Europa appena uscita dal leggendario “Anno Mille”. Alla sua rievocazione il 1° marzo 1988 presenziò la Regina Maria José per la prima volta in Italia dopo il lungo esilio cui era stata condannata dalla Costituente il 1° gennaio 1948, Ebbe a fianco sua figlia, Maria Gabriella di Savoia. Custode della memoria storica dell'Italia europea con la Fondazione Umberto II e Maria José, la Principessa è nata il 24 febbraio 1940 a Napoli: la Città del mistico Castel dell'Ovo e del Maschio Angioino dal solenne Portale aragonese, del Palazzo Reale voluto da Carlo III di Borbone (la cui statua equestre troneggia in piazza del Plebiscito: quello dell'annessione all'Italia...) ornato dai Re susseguitisi in Napoli sino a Gioacchino Murat e a Vittorio Emanuele II, e della Reggia di Capodimonte. Napoli è Storia: spesso tragica ma infine rasserenante se si sa da dove si arriva e dove si voglia andare. Da lì salparono Vittorio Emanuele III il 9 maggio 1946 (cittadino italiano all'estero, restituito all'Italia il 17 dicembre 2017) e la Regina con i quattro principini il 6 giugno seguente. Di quel lungo passato è depositaria e cultrice la Principessa, “Testimone del Tempo” per oculata decisione del Premio Acqui Storia.  
   L'Italia è in cerca di simboli condivisi. Declassare le Residenze Sabaude a generiche Residenze Reali Piemonte non è certo un passo in avanti verso la ricomposizione della Memoria di una Terra, quale il Piemonte, che fu ed è Italia e crocevia d'Europa: proprio come il millenario “Stato dei Savoia”. 

Aldo A. Mola

DIDASCALIA PER LA FOTO

S.A.R. la Principessa Maria Gabriella di Savoia, nata a Napoli, 24 febbraio 1940, Presidente della Fondazione “Umberto II e Maria José”.

giovedì 20 febbraio 2020

Cancellare il nome "sabaudo"


Da: Tricolore Agenzia Stampa




Guido Curto è un rampante torinese di grande successo, figlio dell’egittologo Silvio, che da vice preside di Giovanni Ramella al liceo d’Azeglio diventò direttore dell'Accademia Albertina, per poi approdare a palazzo Madama e infine alla Reggia di Venaria. 
Una carriera sfolgorante per un professore liceale di storia dell’arte. 
Adesso Curto vuole cancellare dal circuito delle residenze sabaude il nome sabaudo. 
La notizia mi fa trasalire e mi domando chi sia Curto per poter decidere in modo autoreferenziale di cancellare il nome dei Savoia dalle residenze che appartennero alla Dinastia millenaria che si fonde con i destini del Piemonte e dell’Italia. 
Il cittadino Curto, proprio nel bicentenario della nascita del primo Re d’Italia e Padre della Patria Vittorio Emanuele II, si permette di ostracizzare un nome che non può essere cancellato. 
Ricordi, se ne ha memoria scolastica, Guido Curto il repubblicano Carducci che cantò i Savoia. 
Mi sembra l’erede dell’oscuro sindaco di Ceresole Reale che voleva togliere la parola Reale dal nome del suo comune. 
Piccola gente senza storia che non rispetta il passato perché priva di umiltà e di decenza. 
Il nome dei Savoia non si cancella con una riga in rosso dei maestri elementari che vogliono indottrinare gli allievi su una storia d’Italia che non c’è, se non nelle loro certezze ideologiche obsolete che risalgono all'epoca del ‘68 quando al liceo “d’Azeglio” sognavano di fare la rivoluzione che non venne. 

Bisogna ribellarsi al giacobinismo neo-grillino, del tutto fuori tempo del prof. Curto!

Pier Franco Quaglieni

martedì 18 febbraio 2020

Addio al professor Giovanni Vittorio Pallottino, luminare delle onde gravitazionali


Si è spento all’età di 82 anni il professor Giovanni Vittorio Pallottino, fisico italiano tra i massimi esperti di onde gravitazionali. Lo scienziato diede un contributo fondamentale alla progettazione dei primi interferometri per rilevare le increspature dello spaziotempo, come il Nautilus dell’INFN di Frascati.

SPAZIO E TEMPO 23 GENNAIO 2020  
di Andrea Centini

Martedì 21 gennaio si è spento a Roma all'età di 82 anni il professor Giovanni Vittorio Pallottino, tra i più brillanti fisici italiani. Autore di numerosi libri e articoli scientifici, Pallottino è stato uno dei massimi luminari nello studio delle onde gravitazionali. Ha infatti dato un contribuito fondamentale alla realizzazione di sofisticati rilevatori per le increspature dello spaziotempo: l'Explorer del CERN di Ginevra e il Nautilus installato nei laboratori dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) di Frascati. Quest'ultimo è rimasto in funzione tra il 1995 e il 2017, e benché facesse parte della prima generazione di rilevatori di onde gravitazionali, ha gettato le basi per la realizzazione dei più moderni interferometri. Fra essi vi sono il VIRGO (col cui gruppo ha collaborato anche Pallottino) e il LIGO, ai quali si deve il rilevamento delle prime onde gravitazionali della storia nel settembre del 2015.

Pallottino, nato a Roma il 16 dicembre del 1937, si laureò in Ingegneria Elettronica nel 1962 e fece un prestigioso percorso nel campo della ricerca. Prima presso il Cnen (oggi conosciuto come Enea) e poi al Cambridge Electron Accelerator (CEA) dell'Università di Harvard e del Massachusetts Institute of Technology, meglio noto con l'acronimo di MIT. In seguito divenne direttore presso l’Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario del Centro Nazionale delle Ricerche (CNR) di Frascati. Dato il suo pionieristico lavoro con i rilevatori di particelle, Pallottino è stato anche coordinatore di progetti nazionali di ricerca (PRIN) dedicati all'analisi dei dati raccolti da questi sofisticati strumenti.

Anche l'insegnamento ha rappresentato una componente fondamentale della sua carriera scientifica. Ordinario di Elettronica al Dipartimento di Fisica della Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali presso l'Università Sapienza di Roma, il professor Pallottino ha tenuto corsi di molteplici discipline, dall'Elettronica Applicata alla Cibernetica, passando per il Laboratorio di segnali e sistemi. Tra il 2000 e il 2003 è stato Presidente del Consiglio del corso di laurea in Fisica dell'ateneo romano, riformulando la didattica. Si è inoltre dedicato al Progetto lauree scientifiche del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca (MIUR). Durante il suo percorso accademico e di ricerca ha pubblicato poco meno di 200 lavori, sia su riviste scientifiche che in seno a congressi internazionali. Tra i suoi 13 libri vi sono manuali di Fisica e un trattato di Elettronica.

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lunedì 17 febbraio 2020

Il libro azzurro sul referendum - XVI cap - 4


Pubblichiamo questa schifezza solo per dovere di completezza 
Lo staff

Il radio discorso del Presidente del Consiglio On. De Gasperi

Intendo parlare da uomo a uomo e rivolgermi soprattutto agli avversari in buona fede e ai disorientati. Durante la campagna elettorale, folle di gente amica od avversaria mi hanno consentito di parlare serenamente su tutte le piazze d'Italia. Benché, pur tenendo fede alle direttive del mio Partito, le mie argomentazioni cercassero piuttosto di superare che di acuire la polemica istituzionale e di concentrare invece l'attenzione sul carattere della consultazione popolare, atto di sovranità del popolo italiano, atto definitivo in cui le parti, cittadini e principe, si sottomettevano al metodo democratico della maggioranza, indispensabile per ricomporre e conservare l'unità morale della Nazione andata perduta durante la guerra. La procedura era regolata dalla legge, approvata dalla Consulta Nazionale, deliberata all'unanimità dal Consiglio dei Ministri costituito di repubblicani e monarchici, promulgata dal Luogotenente e l'ufficio di tirare le somme e di controllare le operazioni elettorali veniva affidato alla Magistratura della Corte d'Appello e dei tribunali e in ultima istanza alla Corte di Cassazione. Tutte le precauzioni erano prese perché le elezioni si svolgessero nell'ordine e nella libertà. E così fu. Il popolo italiano ritrovando il senso più nobile della sua storia, diede spettacolo di autodisciplina e di educazione democratica. Per due giorni fece pazientemente la coda per votare e ciascuno poté votare come voleva senza pressione di poteri pubblici, anzi evitando perfino il controllo dei partiti giacché con la scheda di Stato in mano, entro gli stessi partiti, si poté liberamente dare il voto alla repubblica e alla monarchia. In ogni circoscrizione del nord o del sud ci fu una notevole minoranza, presunzione indiscutibile che le elezioni furono oneste e libere. Questa fu al primo momento l'impressione concorde di tutti i Partiti all'interno e l'ammirata conclusione dell'estero. Ora quindi la Cassazione fece secondo prevedeva la legge, la proclamazione dei risultati del referendum» con una notevole maggioranza per la repubblica, potevamo noi Governo mettere in dubbio che in forza della stessa legge entrava automaticamente in vigore il regime provvisorio previsto? Per quanto riguarda la mia coscienza i devo dire che non ho dubitato un solo momento, e fedele al metodo democratico che bisogna assolutamente osservare come l'unico mezzo libero di consolidare l'unità del Paese, dichiarai subito al Re e poi al Consiglio il mio pensiero. Ma si obietta che la Corte di Cassazione si è riservata di dare giudizio definitivo sulle contestazioni e sui ricorsi e sta bene, ciò è conforme alla legge, la quale prevede appunto queste due operazioni: prima la proclamazione dei risultati in base ai verbali e poi il giudizio sui ricorsi; ma l'entrata in vigore del regime provvisorio e della legge prevista sono appunto in dipendenza della proclamazione dei risultati perché c'era nei legislatori e c'è obiettivamente la presunzione che la Corte non li avrebbe proclamati e non li proclamerebbe, se allo stato degli atti potesse prevedere che essi non siano tali da costituire una maggioranza.
Io non sono un giurista, ma mi pare di ragionare secondo il buon senso. Del resto ha forse il Governo diminuito o contrastato le prerogative della Corte di Cassazione? La Corte rimane libera e nessuno di noi intende sovrapporsi ad essa. Ma il Governo aveva il dovere di prendere quella posizione netta che gli sembrava giusta, prevista dalla legge e atta a mantenere nel popolo la fede nel metodo democratico e nella sua sovranità. Facendo ciò abbiamo tuttavia evitato di venire meno all'esercizio del nostro diritto e, per spirito di conciliazione verso il Paese e verso la parte soccombente, abbiamo contato di
come si potesse almeno per pochi giorni ancora, evitare una rottura clamorosa. Perché i consiglieri del Re, all'ultimo momento, sono venuti meno a questo sforzo ed hanno consigliato di lanciare al Paese una parola così aspra? Mi ripugna di rinnovare la polemica, anche perché il Re in molte circostanze del passato l'ho sempre trovato conciliativo e ieri stesso nell'ultimo commiato coi suoi familiari, e in contradizione con il proclama, ebbe parole di disciplina e di concordia. So ben considerare umanamente la tragedia di quest'uomo che, erede di una disfatta e di funeste, fatali compromissioni con la dittatura, si è sforzato negli ultimi mesi di risalire la corrente a furia di pazienza e di buon volere. Ma quest'ultima vicenda di una millenaria dinastia ci appare come una parte della catastrofe nazionale; è una espiazione, ma tutti dobbiamo espiare, anche coloro che non hanno avuto o ereditato le colpe della dinastia.
Vorrei dire ai partiti; non impicchiamo, non accaniamoci, fra vinti e vincitori uno solo è l'artefice del proprio destino: il popolo italiano, che si meriterà la benedizione di Dio, creerà nella Costituente una repubblica di tutti, una repubblica che si difende sì, ma non perseguita; una democrazia equilibrata nei suoi poteri, fondata sul lavoro ma giusta verso tutte le classi sociali; riformatrice, ma non sopraffattrice e soprattutto rispettosa della libertà della persona, dei comuni, delle regioni.
Un immenso lavoro ricostruttivo abbiamo innanzi a noi. La salita è faticosa. Diamoci la mano, uomini di buona volontà; comunque sia stato il vostro o il nostro voto, perché altrimenti senza questo sforzo comune non riusciremo. Ma riusciremo: ho fede che il popolo italiano ha già nel cuore questo fermo proposito e che sente già l'aculeo delle immediate esigenze sociali ed econo¬. Bisogna mantenere l'ordine, bisogna lavorare, bisogna produrre. Coloro stessi che si sentivano legati ad un giuramento, sono stati prosciolti da ogni obbligo verso una persona e oggi l'impegno solenne vale per la Patria, e la Patria è il popolo. Voglio riconoscere che questo proscioglimento è stato un atto ricostruttivo in mezzo ad altri gesti polemici ed irritati dell'ultima ora.
Uniamoci, italiani, nel pensiero della Patria e dimostriamo la saldezza della nostra unità  - lavoratori, forze armate, organi dello Stato, ceti tutti - in con-fronto di chi insidia le nostre più care frontiere, speculando sui nostri disordini interni e confermiamo, in vista delle trattative di pace, che il popolo italiano è risoluto a difendere il proprio sacrosanto diritto al suo avvenire ».



domenica 16 febbraio 2020

Doveri di un Capo dello Stato



Doveri di un Capo dello Stato
Il Capo dello Stato, sia un Imperatore, un Re o una Regina, un Presidente di Repubblica, un Fuhrer, un Duce e via discorrendo, a prescindere anche dai loro poteri che possono essere più o meno ampi, ha un dovere di rappresentanza e di simbolo della Nazione, della sua Unità, nonché del vertice dello Stato e la sua mancanza, impedimento, scomparsa, defezione e simili interrompe proprio il funzionamento della “macchina dello Stato”. Ecco perché se Monarchia, il Sovrano e l’ Erede, in caso di spostamenti, anche in periodi tranquilli, è bene siano separati, lo stesso vale per un Presidente ed un suo Vice, oppure in altri casi nelle Monarchie sia previsto l’ istituto della Luogotenenza o della Reggenza, o in Repubbliche sia costituzionalmente prevista una scala di sostituti automatici. Se “morto il Re, viva il Re!”, così si può dire “morto il Presidente, viva il Vice Presidente” o “viva il Presidente del Senato” per affermare la continuità dello Stato. In caso di guerre la questione diviene ancor più delicata perché in molti casi il Capo dello Stato è anche il Capo delle Forze Armate, anche se oggi è sempre più rara una effettiva presenza ed un diretto comando. Pensare ad un Capo dello Stato in mano al nemico apre una prospettiva gravissima di crisi dello Stato. Lasciamo stare quindi Francesco I di Francia, prigioniero di Carlo V, dopo la sfortunata battaglia di Pavia del 1525, e guardiamo i casi nell’epoca moderna che sono perciò rari e l’esempio più clamoroso è quello di Napoleone III, preso prigioniero dai prussiani a Sedan, il che portò alla immediata dissoluzione dell’Impero ed anche la tragica vicenda di un Massimiliano d’Asburgo fucilato a Queretaro dai ribelli messicani di Benito Juarez ( in cui onore –sic - poi vennero tanti Benito anche in Europa, nome prima inesistente ) che assunsero il potere, cancellando anche in questo caso, l’impero. Preservare perciò la propria libertà, nell’interesse generale e non della salvezza della propria persona è quindi un dovere ineludibile. Ecco perché nel 1814 il Presidente degli USA, Madison, lascia precipitosamente la Casa Bianca, con la colazione già in tavola,per non essere preso prigioniero, dagli inglesi che ivi banchettarono, incendiando poi il palazzo presidenziale ! Qualcuno ha mai parlato del fuggiasco Madison ? E poi perché lo Zar Alessandro lascia ed incendia Mosca all’avvicinarsi di Napoleone, e Stalin fa lo stesso all’avvicinarsi delle armate tedesche, nel 1941 ? Ed il Presidente francese che, nel 1940, abbandona Parigi per andare a Bordeaux, e Churchill, il quale afferma in caso di sbarco tedesco che, con il Re, sarebbe andato, non fuggito, in Canada a continuare la guerra fino alla vittoria. Lasciamo poi stare la Regina d’Olanda, i Re di Norvegia, di Grecia e di Jugoslavia, il Presidente della repubblica polacca e cecoslovacca che abbandonano non solo la loro capitale, ma il territorio nazionale, mentre l’unico che rimane in patria, il Re del Belgio, poi divenuto prigioniero di Hitler in Germania, viene successivamente accusato proprio di questo e impedito a rientrare nel territorio nazionale dopo la fine della guerra, da una assurda legge nel 1945 aspettando il 1950 quando un referendum popolare dà la netta maggioranza del 57,68% per il suo rientro e riassunzione dei poteri regi!
Tutto ciò premesso, veniamo al caso italiano e cerchiamo di seguirne la storia passo per passo. E’ notoria l’avversione di Hitler nei confronti dei Savoia e la sua rabbia per l’esautorazione dell’amico Mussolini, la decisione di poterlo liberare ed averlo nuovamente al suo fianco, e contemporaneamente punire il Re d’Italia per il cosiddetto tradimento. Perciò è fuori da ogni realtà pensare che, specie dopo l’armistizio, Hitler non avrebbe tentato di impadronirsi di Vittorio Emanuele III, costasse quel che costasse ( l’anno dopo l’operazione tedesca, perfettamente riuscita, fu quella condotta contro il Reggente ungherese Horthy che aveva il 15 ottobre 1944 annunciato l’armistizio, e preso prigioniero dai tedeschi aveva dovuto smentirlo nello stesso giorno!). Di questa necessità che il Re non fosse preso prigioniero, erano convinti anche gli angloamericani, che avevano stipulato l’armistizio con il Governo del Re, tanto che era stata ventilata l’idea di un suo trasferimento in quel di Palermo, già da tempo nelle loro mani, ma che avrebbe tolto al Re ogni libertà e dignità. Quindi lasciare Roma capitale era una necessità storica, istituzionale e costituzionale, non potendo trasformare questa duplice capitale, pensiamo al Pontefice, in un campo di battaglia come Leningrado, e simili, per cui la sua difesa avrebbe potuto procurarle danni ancor maggiori di quelli procurati dai due sciagurati bombardamenti del 19 luglio e 13 agosto. Con ciò non possiamo non dare atto del nobile comportamento e del sacrificio dei nostri soldati che si batterono valorosamente contro i tedeschi a Porta San Paolo e dell’azione svolta a Roma da un tale generale Calvi di Bergolo, guarda caso genero del Re ! Sempre relativamente al trasferimento vi era stata una ipotesi descritta in un libro poco noto di Arturo Catalano Gonzaga “ Per l’onore dei Savoia”, edito da Mursia nel 1996, di un trasferimento del Re, Famiglia Reale e Governo, in Sardegna, con partenza il 12 settembre, da Civitavecchia, su un cacciatorpediniere, o il “Vivaldi” o il “Da Noli”, ed arrivo a La Maddalena, quando, appunto si pensava fosse quella la data dell’annuncio dell’armistizio. Perché, in questo balletto di date, tra l’effettivo 8 e l’ipotetico 12 settembre, sta la spiegazione degli eventi realmente accaduti. Quella del 12 settembre, anche se più logica, era stata una semplice supposizione del generale Castellano in quanto in sede di firma dell’armistizio, il 3 settembre, nulla di preciso al riguardo avevano detto gli americani. Dico più logica perché avrebbe giovato ad entrambe le parti, anche se in maggior misura per noi, specie per ulteriori istruzioni all’Esercito, a maggior chiarimento della famosa circolare segreta OP 44, inviata da giorni. La comunicazione della data dell’8, se, in ogni caso, fosse stata data con maggiore anticipo avrebbe consentito migliori disposizioni all’esercito ed una partenza da Roma meno turbinosa. Appresa invece la stessa mattina dell’8 con obbligo di comunicare l’avvenuto armistizio da parte del nostro Governo, nella stessa giornata, il che avvenne alle 19,45 con il messaggio radio del Maresciallo Badoglio, la scelta del trasferimento dovette essere presa in tempi brevissimi. Infatti la famosa colonna di automobili si mosse da Roma, Ministero della Guerra, in Via Venti Settembre, alle 5,10 del mattino del 9 settembre. Il fattore rapidità era essenziale perché tutti conoscevano le intenzioni hitleriane di bloccare il Re ed il tempo giuocava a nostro favore solo nel caso di una immediata decisione, presa dal capo del Governo ed accettata, se non subita, dal Re ed ancor di più dal Principe Umberto. Non dimentichiamo, mentre moltissimi o lo hanno dimenticato o forse lo ignorano, che nella stessa giornata dell’8 settembre l’aviazione americana aveva effettuato un massiccio bombardamento della cittadina di Frascati, a venti chilometri da Roma, in quanto sede del Comando germanico, che distrusse la città, ma non uccise Kesserling, comandante delle truppe tedesche. Kesserling non si trovava quel giorno a Frascati dovendosi occupare della difesa contro il contestuale sbarco americano a Salerno. Questa assenza di Kesserling è la migliore smentita della tesi sostenuta dallo Zangrandi di un accordo tra i due Marescialli, Badoglio e Kesserling, per facilitare partenza e viaggio del Re da Roma, verso Pescara sulla statale Tiburtina-Valeria. Quando e come sarebbe avvenuto l’accordo in quelle pochissime ore? chi i plenipotenziari che si sarebbero dovuti incontrare? Come e dove? Fu solo il fattore sorpresa che questa volta giocò a nostro favore a consentire il lungo viaggio senza blocchi su di una strada che specie fino ad Avezzano non permetteva alte velocità. Trasferimento perciò e non fuga, con lunga sosta dei Reali a Crecchio nel Castello dei Duchi di Bovino, la puntata di alcuni componenti il convoglio a Pescara per valutare una possibile partenza aerea, il loro ritorno a Crecchio e la decisione definitiva dell’imbarco su una nave della Regia Marina, la corvetta Baionetta, fatta venire ad Ortona dal Ministro della Marina, ammiraglio De Courten, e dell’incrociatore Scipione Africano, come scorta, con meta Brindisi, porto e città saldamente nelle mani del nostro esercito e della nostra marina, dove non erano né tedeschi né angloamericani, e sul palazzo del Comando, tenuto dall’ammiraglio Rubartelli, sventolava la nostra grande bandiera. Con quel trasferimento, come hanno poi riconosciuto storici seri, non monarchici, ed anche un presidente della repubblica, Ciampi, si era conservata la continuità dello stato e salvato Roma da altre distruzioni. La sciagurata frase della “fuga di Pescara”, (e non Ortona, errore che dimostrava la scarsa conoscenza dei fatti) venne tempo dopo e faceva parte della campagna denigratoria sul Re e Casa Savoia che la repubblica di Salò scatenò per diciotto mesi su giornali e sulla radio, campagna che contribuì notevolmente al voto repubblicano dell’Italia del Nord, nel referendum del 1946, sostituendo alla repubblica fascista, la repubblica antifascista (!) e coloro che inventarono la fuga, accusa ripresa successivamente dalla propaganda repubblicana e divenuta un luogo comune, non pensavano certo ad un altro ben triste viaggio lungo le rive del Lario. Concludendo, i doveri per lo più sono amari, ma vanno assolti e questo, con la partenza da Roma, dove, ipocritamente non gli fu consentito di far ritorno, dopo il 5 giugno 1944, fece, non per sé, ma per l’Italia, Vittorio Emanuele, come, dai microfoni di Radio Bari, purtroppo poco potente e poco conosciuta ed ascoltata, disse la sera dell’11 settembre: “ Per il supremo bene della Patria che è stato sempre il mio primo pensiero e lo scopo della mia vita, e nell’intento di evitarle più gravi sofferenze e maggiori sacrifici, ho autorizzato la richiesta di armistizio. Italiani, per la salvezza della Capitale e per poter pienamente assolvere i miei doveri di Re, col Governo e con le Autorità Militari, mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale. Italiani, faccio sicuro affidamento su di voi per ogni evento, come voi potete contare fino all’estremo sacrificio sul vostro Re. Che Dio assista l’Italia in quest’ora grave della sua storia.”.
Domenico Giglio

giovedì 13 febbraio 2020

Elena di Savoia: l’Umanità della “Regina del Popolo”


di Giovanna Francesconi

Jelena Petrovic-Njegos era nata a Cettigne l’8 gennaio 1873, sesta dei dodici figli del futuro Re Nicola e di Milena Vukotic. La corte del Montenegro non era certo sfarzosa, ma i figli furono tutti ben educati e studiarono all’estero, le ragazze studiarono al collegio Smolnyi a S. Pietroburgo frequentando la corte russa, e parlavano diverse lingue straniere, preparate sin da piccole a matrimoni importanti. Due sorelle di Elena, Milica e Anastasia, sposarono granduchi russi ed ebbero la loro parte, nefasta, nell’avvicinare Rasputin alla zarina Alexandra.
[...]
https://www.vanillamagazine.it/elena-di-savoia-l-umanita-della-regina-del-popolo-1/

mercoledì 12 febbraio 2020

Conferenza del Circolo Rex

CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA
REX



“il più antico Circolo Culturale della Capitale”
 72° Ciclo di Conferenze 2019- 2020 – Seconda Parte
***
“ Sovranismo, populismo, sono tematiche attuali ed anche di successo, ma la ipotesi per l’ Europa, di diventare il vaso di coccio tra i vasi di ferro degli USA, della Russia e della Cina può diventare realtà se non si approfondiranno i più veri, antichi e consistenti valori della nostra civiltà millenaria. Il Circolo REX come Circolo di Cultura vuole portare un contributo al necessario approfondimento affidando l’analisi di questi valori al

Professore Fabio TORRIERO

Domenica 16 febbraio alle ore 10,30

 “ Identità e libertà dei popoli:
 l’Italia, l’ Europa e le sue Monarchie”

 



Sala Italia presso Associazione “Famija Piemonteisa - Piemontesi a Roma”


Via Aldrovandi 16 ( ingresso su strada) e 16/B (ingresso con ascensore) raggiungibile con linee tramviarie “3” e “19” ed autobus “910”,”223”, e “52”   

Nota : in sala saranno disponibili copie del recente volume “La solitudine del RE”,- edizioni Helicon- presentato al REX, domenica 2 febbraio, contenente una selezione delle lettere scambiate tra Umberto II ed il Ministro della Real Csa,Falcone Lucifero, nei lunghi anni dell’esilio, e di “Dittatura e Monarchia- L’Italia tra le due guerre” - editore Pagine - fondamentale opera storica del professore Domenico Fisichella.                                                                                                                                                                                                                          




                                     

domenica 9 febbraio 2020

La bandiera del Regno d’Italia e il ritratto del Re salvati nella fuga dall’Istria


di Emilio Del Bel Belluz

Tanti  anni fa, per la precisione nel 1980, mentre frequentavo  l’università di Trieste, una sera in un’ osteria conobbi un vecchio, che beveva del vino.  Il suo volto era solcato da rughe come quello di un lupo di mare.
Aveva un cappello da marinaio, così logoro che non ne avevo mai visti. Mi sedetti a un tavolo, vicino al suo, ordinai qualcosa da mangiare, e nel frattempo mi misi a leggere i giornali.
L’uomo mi osservava, forse mi conosceva o mi aveva visto da qualche parte, non di rado passeggiavo per Trieste dopo aver assistito alle lezioni alla facoltà di Legge.  La solitudine di quel vecchio, lo spinse a rivolgermi la parola.
Dopo il primo approccio, incominciò a raccontarmi qualcosa della sua vita, in particolare mi narrò com’era fuggito dall’Istria. Il racconto si fece molto interessante per come visse quei momenti. Dalla casa dove abitava, dovette fuggire, recuperando solo qualche oggetto prezioso che possedeva, si trattava di monili d’oro dei suoi genitori.
Portò con sé anche la bandiera italiana, le foto del Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. Questo patrimonio spirituale non poteva lasciarlo in quella casa, che non avrebbe più rivisto. La bandiera la nascose avvolgendola attorno ai fianchi e v’indossò sopra un maglione, le foto dei sovrani dopo averle tolte dalla cornice le mise in una busta per salvarle. Con i preziosi in mano si recò da un suo amico slavo che conosceva da tanto tempo e gli chiese di aiutarlo per arrivare in Italia, via mare. 
Questo suo amico, con il quale aveva lavorato in un piccolo peschereccio, gli voleva bene. La situazione era molto difficile, la fuga di molti italiani era stata intercettata dagli slavi e molti erano spariti da casa. Il sistema era di prelevarli dalle proprie abitazioni e poi farli sparire nelle foibe.
Il suo amico all’inizio non volle accettare di aiutarlo, la cosa era troppo rischiosa, e temeva che lo ammazzassero. Il compenso per tale lavoro però era allettante, quell’oro lo avrebbe aiutato a vivere per qualche tempo senza problemi.  Una notte partirono con la barca e dopo, con la fortuna che sorride a chi la sposa, finalmente riuscirono ad arrivare in Italia.
Il vecchio che mi narrò questa storia, aveva gli occhi lucidi e mi commosse. Essendo uno studente non possedevo molto denaro, e quella sera non ebbi neppure la possibilità di offrirgli un quartino di vino, o qualcosa da mangiare. Dopo essere sbarcato in Italia, con molta difficoltà, raggiunse dei parenti che abitavano a Roma.
Mi piacque che la sua gioia fosse stata quella di essere riuscito a portare in salvo la bandiera del Regno d’Italia, quella del Re e dell’amata Regina Elena che definì una santa. Quando giunse in Italia, dovette arrangiarsi a vivere una vita difficile, gli esuli non erano molto amati dai comunisti che li consideravano dei fascisti, ma a lui questo non era mai importato. Il suo cuore d’italiano era fiero d’aver salvato quella bandiera a cui teneva moltissimo, e quelle foto.
Erano il suo patrimonio, che racchiudeva i suoi sentimenti monarchici. Quella sera, dopo essere usciti dall’osteria, c’incamminammo e lui era felice d’avermi raccontato quella sua avventura. In quelle terre che aveva lasciato, non era più voluto tornare. La malinconia nell’affrontare quel viaggio sarebbe stata tanta, seppe da un suo amico che la sua casa esisteva ancora ed era abitata da una famiglia slava.
Lo consolò che vicino alla sua casa ci fosse ancora un albero che aveva piantato suo padre e in questo modo gli pareva che qualcosa di suo fosse rimasto.
Non ebbe più notizie dell’amico che lo accompagnò in Italia.
Quella sera ci salutammo vicino al molo Audace, e non lo rividi più.