NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 27 settembre 2020

Il libro azzurro sul referendum - XX cap - 2

Numero degli aventi diritto al voto e dei votanti

Il verbale del 10 giugno diceva all'ultimo capoverso: La Corte... in altra adunanza... indicherà il numero complessivo degli elettori votanti... Nel verbale del 18 giugno manca il numero co

mplessivo dei votanti e così l'unico possibile controllo, dovendo coincidere con la somma delle due cifre ufficialmente comunicate dalla Cassazione.

I verbali letti dal Presidente Pagano portano per legge cinque cifre : iscritti, votanti, monarchia, repubblica, nulli; i verbali danno atto di tre cifre e sono state sommate le due sole serie di monarchia e repubblica.

Moltissime schede, constatala la nullità, sono state distrutte in loco, nei centri più disparati (1), mentre la legge ne richiedeva il deposito presso preture e tribunali a disposizione dell'Autorità inquirente.

(1) da Storia segreta..- , pag. 253 (Dichiarazioni di un ministro la notte sul 13 giugno in un intervallo del Consiglio

 

 

Aggiungi didascalia

 

E' interessante il giudizio espresso sulla differenza tra una maggioranza di 1.998.639 e di 250.252. del prof. Costantino Mortari, della Università di Napoli: «Les polémiques qui furent alors alimentées par la question du mode de computation des voix ne pouvaient avoir aucune importance pratique, puisque de toute manière la majorité en faveur de la République n'était pas ébranlée méme si elle etait un peu ébranlée » (2).

(1)  Il numero dei voti annullati nel «referendum» supera quello dei voti annullati per la Costituente, scarto non spiegabile per la maggiore semplicità delle schede del « referendum ». Dalle dichiarazioni riportate nel capitolo «La parola alla legge » risulta che il numero sopra riportato è ampiamente incompleto.

La Constitution italienne, op. s. cit., pag. 12.


sabato 26 settembre 2020

Io difendo la Monarchia Cap X - 2

 

Sembra allora logico prevedere che le democrazie occidentali debbano rivedere la formula di Governo nei paesi da loro militarmente occupati. Esse non debbono far posto al partito comunista più di quel tanto che in Serbia, in Bulgaria, in Romania e in Polonia vien fatto posto, per esempio, ai liberali. Se il continente euro-asiatico dominato dal comunismo arriva ormai al centro della Germania, a Vienna, all'Adriatico e domanda di controllare gli Stretti, il Dodecanneso e di avere il pro­prio posto al sole in Africa, ci sembra un atto di legit­tima difesa provvedere negli Stati occidentali alla for­mazione di integrali governi democratici con esclusione di ogni totalitarismo sia fascista che comunista. Questo è in parte compito di Londra e di Washington, in parte compito dei paesi occidentali a mano a mano che essi riacquistano coscienza della loro funzione e delle loro fi­nalità. Meglio sarebbe stato senza dubbio raggiungere dopo le due guerre mondiali una forma federativa del Continente, ma le due guerre hanno seminato non solo tante rovine, ma .tanti odii e tanti rancori e hanno sca­tenato così fatte ambizioni da rendere impossibile  un ac­cordo generale. Già pesa sull'Europa il grande problema tedesco : questo vacuum germanico nel cuore del Con­tinente che impedisce ogni accordo proficuo; poi esiste l'ostilità sovietica a ogni intesa regionale occidentale con il pretesto di opporsi ad un ritorno all'antico cordone sanitario. I russi gradiscono però una unione dei piccoli slavi sotto il dominio di Mosca e dei suoi Tito. Perfino un modesto accenno di Léon Blum ad- una unione dei paesi occidentali è stato violentemente criticato dalla Prawda di Mosca. L'Europa deve quindi andare in rovina e deve divenire tutt'al più un'appendice dell'Asia. Se questo costituisce un interesse della Russia esso non è certamente, nè un interesse anglosassone, nè un interesse scandinavo, francese, italiano, spagnolo, portoghe­se, greco, turco, ecc.


E veniamo all'Italia. Cerchiamo di comprendere co­me e su quale base si può ricostituire una classe politica e una forma durevole e unitaria di governo. Il fascismo ha interrotto il processo di democrazia parlamentare nel paese. La logica e il buon senso suggerirebbero di ritor­nare al punto in cui quel processo nel 1922 o nel 1925, fu interrotto. Ma qualcuno osserverà che in venti anni troppi altri frutti sono venuti a maturazione, troppe altre esperienze e rivoluzioni sono accadute, sì che pare im­possibile il ritorno puro e semplice all'antico. Rifaccia­moci dunque a esaminare la formazione unitaria dai suoi inizi poiché nessuno, pensiamo, intende rinunciare al­l'unità della nazione e alla sua indipendenza. La storia d'Italia non comincia con il Risorgimento, ma la storia dell'unità italiana retta da una costituzione politica mo­derna coincide solo con il Risorgimento. Durante il Medioevo abbiamo certamente una nazione italiana ma non una storia unitaria dell'Italia. E così durante il Rinasci­mento e così nei secoli del predominio straniero. La na­zione non coincideva allora con lo Stato. Il Risorgimen­to inizia un'età nuova, compie una rivoluzione profonda nel sistema politico degli Stati italiani che si fondono o raccolgono in un solo Stato. La vita italiana che era stata in ascesa dal 1100 al 1300 con i Comuni, poi mantenutasi ad un alto livello sino al 1500, poi rapidamente declinata con la caduta di Firenze nel 153o, continua a cadere, specie in confronto dei grandi Stati d'Europa, sino alla metà del 700. Poi comincia lentamente a risa­lire sino a risplendere di nuova luce nel Risorgimento.

 

Cesare Balbo, fu, tra i maggiori autori del Risorgi­mento, quegli che più si preoccupò della introduzione presso di noi del sistema politico rappresentativo di tipo inglese. Nel suo Discorso. sulle Rivoluzioni il motivo della libertà é considerato il più importante. Prima del 1848 egli pensava che all'indipendenza si potesse sacrificare almeno in parte la libertà. Dopo l'infelice risultato della guerra del 1848 egli pensa che non si possa raggiungere l'indipendenza senza la libertà.

 

Particolarmente attuale appare oggi il secondo libro del Discorso. Egli vi distingue la libertà degli antichi da quella dei moderni. Gli antichi no conobbero che la libertà dello Stato, la stessa libertà che andavano in tempi recenti proclamando gli apologeti del fascismo e del na­zismo. Purché lo Stato sia libero tra le Potenze che lo circondano e lo insidiano, muoiano pure le libertà degli individui. Solo il principio rappresentativo, aveva per­messo di raggiungere negli Stati moderni una maggiore libertà dei singoli. Ora a noi pare più che saggio, dinnanzi ai miti della democrazia progressiva (l'unica no­vità di questo dopoguerra) ritornare con il Machiavelli al segno e cioè ai principi da cui nacque il nuovo Stato italiano. Il mondo antico dunque - secondo il Balbo - non conobbe la vera libertà. Gli antichi chiamarono li­bertà l'indipendenza, dello Stato; chiamarono libertà la uguaglianza, una 'uguaglianza così compiuta che ammet­teva la schiavitù; chiamarono libertà la repubblica e qualunque altro ordine si distinguesse, dal principato. Balbo cercava allora chi esprimere il senso moderno della parola, libertà, come facoltà in ogni cittadino di parte­cipare al governo politico dello Stato e di dispone delle sue azioni private. Sono qui due concetti distinti : quello della libertà politica e quello della libertà individuale. Ora presso gli antichi e così anche nella repubblica romana non erano molti coloro che partecipavano al go­verno, ma solo gli abitatori della città principale. Non si concepiva altra libertà politica da quella dell'esercizio diretto dei cittadini in piazza con il loro voto o la loro deliberazione. Non esisteva uso o diritto di rappresen­tanza indiretta. Alla libertà politica non faceva poi ri­scontro la libertà individuale. Sparta che fu l'esempio forse più ammirato delle antiche repubbliche non conob­be libertà per i suoi cittadini dalla nascita alla morte sottoposti alla città e alla Patria. La fortuna di Roma fu dovuta, secondo Balbo, a una migliore applicazione, rispetto agli Stati contemporanei, delle due libertà: la politica e l'individuale. Essa progredì quando le due libertà furono tenute in onore; decadde quando l'una e l'altra libertà si corruppero e si spensero nell'Impero.

 

Le libertà rinacquero dopo il 1100 con la rivoluzione dei Comuni che si sciolsero dall'obbedienza al principe straniero. Ne seguì la lega lombarda e il fiorire successivo delle arti e delle lettere e d'ogni lusso di civiltà, ma anche seguirono i tumulti, le rivoluzioni, la creazione e poi la caduta delle repubbliche e il loro mutarsi in tirannie. Furono i Comuni e le repubbliche italiane il primo esempio delle democrazie in Europa, ma anch'esse furono delle democrazie dirette. Si poteva allora affasci­nare un popolo nella piazza con l'eloquenza, scrive Bal­bo, « ingannare con le bugie, strascinare con le passioni, il che tutto si può anche dei popoli numerosi rappresen­tati; ma potevasi pur quello addormentare colle distribuzioni e con le feste, con il pane e i circensi, il che assolutamente non si può dal popolo rappresentato » (1)


 (1) Vale la pena — per la sua attualità — di riportare per intero questo brano del discorso di Cesare Balbo: «Prima della rappresentanza un grande di talento cui non bastasse essere uno tra parecchi ma volesse essere primo fra tutti, un Mario, un Silla, un Cesare, un Augusto poteva facilmente co' fascini della grandezza che tanto Possono sul popolo di una piazza, farsi seguire da lui, scagliarlo Contro gli altri, annientarli e spegnerli e farsi principe, signore, tiranno; come fecero, oltre quei romani tanti altri greci e italiani del medioevo, di tanti popoli quantunque gelosissimi di libertà, E se tutto è pur pos­sibile con i popoli rappresentati egli è per lo meno molto più difficile, più retro e principalmente poi meno durevole perché le rappresentanze avendo le radici in tutta la nazione, sono forse più difficili a distruggere che non quelle dell'assemblee di piazza e sono poi certamente più facili a risorgere come si vede nei due grandi esempi moderni di Cromwell e di Napoleone. Cesare, Cromwell e Napoleone sono tra i più noti e di che si possa discorrere scientemente, i tre più grandi usurpatori di libertà; ma Cesare, distruttore di una libertà di piazza fondò, quantunque trucidato, un'immane tirannia di cinque secoli in Roma, di undici a Costantinopoli, di diciotto nominalmente: e all'incontro Cromwell e Napoleone distruttori di due libertà rappresentative, quantunque ancora mal fondate, non ne di­strussero nemmeno quelle cattive fondamenta, non vi poterono edificare sopra se non brevi tirannie, precipitate le quali fu ricominciato l'edifizio della libertà ».

 

 

(           

venerdì 25 settembre 2020

I siciliani I dolci i Savoia

 


Sarà presentato, in occasione della seconda edizione di Etnabook – Festival Internazionale del Libro e della Cultura di Catania, venerdì 25 settembre alle 18:30 al Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi il libro di Franco Di Guardo “𝘐 𝘴𝘪𝘤𝘪𝘭𝘪𝘢𝘯𝘪 𝘐 𝘥𝘰𝘭𝘤𝘪 𝘐 𝘚𝘢𝘷𝘰𝘪𝘢”. 𝖣𝖺𝗂 𝖿𝖺𝗌𝗍𝗂 𝖽𝖾𝗅 𝖱𝖾𝗀𝗇𝗈 𝖽𝖨𝗍𝖺𝗅𝗂𝖺 𝖺𝗅𝗅𝖺𝗏𝗏𝖾𝗇𝗍𝗈 𝖽𝖾𝗅𝗅𝖺 𝖱𝖾𝗉𝗎𝖻𝖻𝗅𝗂𝖼𝖺: 𝗎𝗇𝖺 𝗍𝗋𝖺𝖽𝗂𝗓𝗂𝗈𝗇𝖾 𝖽𝗈𝗅𝖼𝗂𝖺𝗋𝗂𝖺 𝗏𝗂𝗏𝖺 𝖼𝗁𝖾 𝖺𝗇𝖼𝗈𝗋𝖺 𝗈𝗀𝗀𝗂 𝗉𝖾𝗋𝗆𝖺𝗇𝖾 (Casa editrice Algra editore).

Un libro/ricettario che ripercorre la tradizione dolciaria dedicata ai Savoia.

“Il libro inizia da una ricerca che parte da Agrigento con i biscotti Umberto di Palma Di Montechiaro. Svolgendo la mia ricerca in varie biblioteche mi sono accorto che nei ricettari non si parla dei dolci dedicati a casa Savoia, ma di dolci siciliani tipo la cassata, il cannolo, ecc… dopo aver constatato che solo Il libro d’oro della cucina e dei vini di Sicilia di Pino Correnti si parla dei savoiardi o di qualche altro dolce e che il resto è quasi sconosciuto, come ad esempio il misto impero, ho deciso di scrivere questo libro perché quello dedicato ai Savoia è un patrimonio dolciario storico che non poteva perdersi”, spiega Di Guardo.

[...]

https://www.giornaleibleo.it/2020/09/24/sara-presentato-a-etnabook-i-siciliani-i-dolci-i-savoia-il-libro-di-franco-di-guardo/

IL LUNGO REGNO DI VITTORIO EMANUELE III

 


L'ASSGG in concorso con il Gruppo Croce Bianca (Torino) e l'Associazione di Studi sul Saluzzese, e di concerto con il Comando Regionale Esercito Piemonte, l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (Napoli), l’Associazione Nazionale ex Allievi della Nunziatella, il Centro Studi Piemontesi, il Premio Acqui Storia !a e la Consulta dei Senatori del Regno, organizza il Terzo Convegno su:


IL LUNGO REGNO DI VITTORIO EMANUELE III

GLI ANNI DELLE TEMPESTE (1938-1946)

 Vicoforte

Casa di Spiritualità Regina Montis Regalis (attigua al Santuario) 10 ottobre 2020

diretto da Aldo A. Mola

Tra il 1938 e il 1946 l'Italia visse mutamenti convulsi: l'avvicinamento ideologico del regime di partito unico al nazionalsocialismo hitleriano, l'alleanza militare di Roma con Berlino, l'intervento del 10 giugno 1940 nel confitto europeo, dal 1941 mondiale, il collasso bellico nel 1942-1943, la revoca di Mussolini, l'avvento di Badoglio e la disintegrazione del regime fascista, l'armistizio del settembre 1943, l'occupazione del territorio nazionale da parte degli Stati in guerra, l'istituzione della Repubblica sociale italiana e la contrapposizione anche armata di italiani su diversi fronti, mentre imperversavano la persecuzione degli ebrei, l'internamento di militari italiani e la deportazione di politici in Germania, il trasferimento dei poteri della Corona da Vittorio Emanuele III al figlio Umberto, Luogotenente del Regno, la fine della guerra in Europa, l'indizione del referendum istituzionale e dell'elezione dell'Assemblea costituente, il cambio della forma dello Stato e la partenza del Re per l'estero.

Mentre incombeva il Trattato di pace, tra crisi economica e sociale senza precedenti presero corpo riscossa morale e nuovi assetti politici e civili. Attraverso approfondimenti critici il Convegno apre nuove prospettive di ricerca sugli anni più tragici del Novecento. A.A.M.

 

 

PROGRAMMA

h.11.00 Alessandro Mella, Apertura dei lavori.

Presiede Giuseppe Catenacci, Presidente Associazione Nazionale

ex Allievi della Nunziatella. Interventi delle Autorità.

h. 11.20 Tito Lucrezio Rizzo, Dall'Italia liberticida alla ritrovata libertà (1936-1945).

h. 11.45 Gian Paolo Ferraioli, Le relazioni tra Italia e USA durante la seconda guerra mondiale.

h. 12.10 Gianpaolo Romanato, Un masso erratico nell'agonia della monarchia concordataria: Ernesto Buona iuti.

h. 12. 35 Luca G. Manenti, Il trono e il regime: Vittorio Emanuele Ill nella stampa del fascismo repubblicano di Trieste.

h.13.00 Interventi

h.13.15 - 15.30 PAUSA

h. 15.00 (Facoltativa) Visita alle Tombe di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena nel Santuario- Basilica di Vicoforte.

h. 15. 25 Presiede Gianni Stefano Cuttica

h. 15.30 Carlo Cadorna, La strategia del Comando Supremo Italiano (1939-1943).

h. 16.00 Aldo G. Ricci, I provvedimenti economico-sociali della Repubblica Sociale italiana e la loro influenza nella legislazione del dopoguerra.

h. 16.30 Antonio Zerrillo, Il Maresciallo Giovanni Messe e la riscossa del Regio Esercito Italiano.

h. 17.00 Giorgio Sanglorgl, La cinematografia rimossa (e misconosciuta): le pellicole della Repubblica Sociale Italiana (con proiezione).

h. 17.40 Aldo A. Mola, Vittorio Emanuele III: il Re Isolato (1938-1946).

h. 18.00 Carlo Maria Braghero, Il Conte Alessandro Cremonte Pastorello di Cornour, Cittadino dell'Ordine, mecenate e filantropo.

h. 18.15 Cristina Vernizzi, Romano Ugolini, storico del Risorgimento

h. 18.30 Gianni Rabbia e Alessandro Mella, Presentazione del volume Il Regno di Vittorio Emanuele III- Parte Prima (1900-1937),

Atti dei convegni della ASSGG e del Gruppo Croce Bianca (2017-2019), ed. Roma, Bastogi Libri.

h. 18.50 interventi

h.19.15 Chiusura dei lavori.


Il Presidente della ASSGG Alessandro Mella   

Il Direttore  Aldo A. Mola

li Presidente Onorario Giovanna Giolitti

8 settembre 2020

N.B. Eventuali variazioni di programma verranno tempestivamente segnate nel sito della ASSGG: giovannigiolitticavour.it

PER CONSENTIRCI DI MEGLIO OTTEMPERARE ALLE MISURE ANTI-CONTAGIO VIGENTI QUANTI PREVEDONO DI PARTECIPARE SONO INVITATI A COMUNICARLO ENTRO LE H. 12 DI DOMENICA 4 OTTOBRE P.V. ALL'INDIRIZZO E.MAIL:

GIOVANNIGIOLITTICAVOUR@GMAILCOM

giovedì 24 settembre 2020

I nostri auguri a S.A.R. la Principessa Maria Pia!

 



Che ci piace ricordare insieme al Re suo padre.

Auguri, Altezza Reale!

150° DI PORTA PIA ROMA È L'ITALIA NEL MONDO



Dimenticare Porta Pia?

Il 150° dell'annessione di Roma all'Italia meritava, merita e meriterà di più. Roma non è un agglomerato di rioni e borgate. E' la Città Eterna e Universale. E' un'Idea. Il silenzio delle Istituzioni sul suo ricongiungimento alla Patria che essa stessa aveva generato nei secoli rimarrà documento della meschinità di chi governa, senza progetti seri perché senza memoria. Va confrontato con i festeggiamenti del 2011 per il 150° della proclamazione del Regno d'Italia, salutata dallo sventolio del tricolore, da una miriade di iniziative pubbliche e private e dall'entusiasmo dei cittadini. Il rinnovo di alcuni consigli regionali e il referendum sul “taglio dei parlamentari” proprio il 20 settembre, anziché una settimana prima o dopo, va imputato al governo. Esso appanna la già sbiadita coscienza nazionale. Motivo in più per votare “No” alla riduzione dei parlamentari in carica, non perché lo meritino gli attuali, in gran parte eterodiretti e “da dimenticare”, ma in omaggio ai 493 deputati eletti nel 1867 in rappresentanza di 22 milioni di abitanti, a conferma che non sono mai troppi se fanno il loro dovere.

Ben altro, infatti, seppe fare il governo italiano che nell'agosto-settembre 1870 in un'Europa nella tempesta della guerra franco-germanica si fece carico dell' impresa capitanata da Raffaele Cadorna, conclusa con poche ore di combattimento e con la liquidazione della “questione romana”.

Questo miope 150° concorre a rendere più penosa la condizione della Capitale, da decenni bersaglio di movimenti dagli orizzonti ristretti, come i 5S e i loro alleati dentro e fuori il governo. A chi lamenta i “ritardi” e il declino di Roma va ricordato che nel Novecento, poco dopo il cinquantenario del Regno, un primo ministro conterraneo di Giuseppe Conte, tale Salandra, spinse il Paese nel tunnel della Grande Guerra, dal quale uscì esso spossato. Vent'anni dopo il territorio nazionale per un biennio fu teatro di guerra. Nel 1943-1944 Roma non divenne campo di battaglia solo perché conteneva in sé lo Stato della Città del Vaticano e perché il sovrano se ne allontanò favorendone la condizione di “città aperta”. La ricostruzione fu lenta e difficile ma nel 1970, Centenario di Porta Pia, la Capitale si mostrò consapevole del proprio ruolo.

A quanti in questo Venti Settembre voltano le spalle alla Capitale (la cui amministrazione attuale è campione di litigiosità e inconcludenza) va ricordata l'eco che il nome di Roma suscita nel mondo. Su genesi, modi e conseguenze immediate e di lungo periodo dell'annessione di Roma al Regno d’Italia si possono avere opinioni discordi: è però impossibile non ammetterne la portata storica. Essa verrà approfondita nel convegno di studi “La Breccia di Porta Pia”, organizzato l'1-2 ottobre a Roma dal lungimirante Comitato pontificio di Scienze storiche e dall'Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito. Al riguardo va osservato che mentre il Vaticano è rappresentato da Segretario di Stato, S.E. Pietro Parolin, cioè al massimo livello,l'Italia non vi schiera alcun ministro. al massmo livello,

“Non da cnquistatri”: quel che nel 1861 Cavour non voleva....

Tra i molti temi di approfondimento sul Venti Settembre del 1870 spiccano le preoccupazioni più vere e profonde di Pio IX sulle ripercussioni della cancellazione del potere temporale dei papi.

La demolizione dello Stato Pontificio seguita alla “breccia” di Porta Pia significò solo l’eliminazione della sovranità dei pontefici e l’annessione di Roma al Regno d'Italia? Rispose esclusivamente o precipuamente al desiderio nazional-patriottico di completare l'unità o spianò la strada ad altri propositi?

Nei discorsi alla Camera e al Senato del Regno d'Italia del 25-27 marzo e del 9 aprile 1861 nei quali, appellandosi direttamente al Santo Padre propugnò il principio “libera Chiesa in libero Stato”, il presidente del Consiglio dei ministri Camillo Cavour escluse che la questione romana potesse essere risolta contro il placet della Francia, nei cui confronti l'Italia era debitrice della propria unificazione, sia pure nella dimensione conseguita nel 1859-1860 e sancita con la proclamazione del Regno (14/17 marzo 1861). Affermò inoltre che il potere temporale dei papi non andava abbattuto con le armi e che gli italiani non dovevano entrare nella Città Eterna “da conquistatori”. Infine il 25 marzo ribadì che andava assicurata l'“indipendenza vera del Pontefice” e il 27 aggiunse che bisognava “assicurare l'indipendenza, la dignità, il decoro del Pontefice”. Cavour non ne precisò i termini politici, militari e diplomatici; ma anche per il papa “indipendenza” non poteva suonare molto diversa da come la intendevano i patrioti che nel 1848-1859 l'avevano posta in vetta ai propri ideali nelle guerre contro l'impero d'Austria. Indipendenza significava, come significa, “sovranità”. Ristampati da Corrado Sforza Fogliani con postfazione di Antonio Patuelli nella collana “Libro Aperto” i Discosi di Cavour vanno riletti e meditati.

La condotta del governo Lanza-Visconti Venosta nell'agosto-settembre 1870 non è riconducibile al programma cavouriano del 1861. Lo scenario mutò completamente il 19 luglio con la deflagrazione della guerra franco-prussiano/germanica e, ancor più drasticamente, con la sconfitta militare di Napoleone III a Sedan il 2 settembre e la proclamazione della repubblica a Parigi il 4 seguente. In poche settimane, accantonati da tempo gli incitamenti a intervenire a fianco della Francia, il governo italiano passò da propositi di mediazione diplomatica tra i contendenti a non considerarsi più tenuto a rispettare gli accordi stipulati con l'imperatore né in sintonia con i “sentimenti” attestati nei confronti della Francia, quasi il mutamento della forma dello Stato avesse sciolto i vincoli a suo tempo contratti. Contrariamente alle attese del governo di Firenze (come poi di Roma), vere o accampate a propria giustificazione, Parigi non rinunciò a nessuna delle sue prerogative e pretensioni nei rapporti con la Santa Sede.

In assenza di una manifesta volizione dei suoi abitanti negli anni antecedenti la conquista da parte del Regio Esercito, l'occupazione di Roma ebbe il tacito placet della comunità internazionale dopo il plebiscito del 2 ottobre 1870 (appena dieci giorni dopo Porta Pia), che propiziò l'annessione (9 ottobre) e l'istituzione della Luogotenenza, e all'indomani degli atti formali che predisposero il trasferimento da Firenze a Roma del re, del governo e delle istituzioni rappresentative statutarie, senza che però venisse meno il riconoscimento al pontefice degli onori riservatigli quale Capo di Stato anche da parte di chi non lo considerava successore di Pietro né capo della cristianità.

 

Quando Napoleone (Osiride) conferì al figlio (Oro) il titolo di Re di Roma

Quali fossero i loro convincimenti e le rispettive pratiche devozionali, Vittorio Emanuele II, i componenti del governo e la generalità di deputati, senatori e dirigenza pubblica, sia statuale sia a livello locale, tennero una condotta ambigua, ricalcando quella dell'età franco-napoleonica e in specie di Napoleone I. Questi nel 1808-1811 aprì una breccia molto più ampia di quella italo-vaticana del 20 settembre 1870. Il différend tra l'imperatore e Pio VII non riguardò solo la sovranità su Roma e non è confrontabile con quello sorto tra la Repubblica romana del 1798 e papa Pio VI, contenuto nel recinto della politica. Napoleone mirò invece a sciogliere il potere imperiale da ogni dipendenza (o soggezione) dall'autorità spirituale del papa. Pio VII non poté opporsi alla proclamazione della fine della sua sovranità su Roma da parte del generale Sesto Alessandro Francesco di Miollis il 17 maggio 1809, ma rifiutò categoricamente di riconoscere la nullità del matrimonio di Napoleone con Giuseppina de la Pagérie, peraltro celebrato con rito religioso solo alla vigila della incoronazione del 2 dicembre 1804, né, di conseguenza, la validità delle sue seconde nozze con Maria Luisa d'Asburgo, contratte con il consenso del padre imperatore d'Austria. Pio VII resistette a ogni pressione, dalle lusinghe alla minaccia di renderne sempre più vessatoria la condizione di prigioniero. Napoleone rispose con il conferimento del titolo di Re di Roma al figlio Napoleone Francesco Giuseppe Carlo, nato il 20 marzo 1811 dalla nuova unione: esso non era di mera “cortesia” né rientrava solo nel disegno perseguito dall'imperatore dall’incoronazione a re d'Italia in Milano il 26 maggio 1805 e con le successive assunzioni della sovranità su altri domini sottratti a sovrani debellati. Andava molto oltre: mirava a desertificare l'humus sul quale era sorto e vissuto il triRegno pontificio. Il potere spirituale del Papa era irrilevante agli occhi di quello civile.

Attraverso quella stessa breccia passò l'avvento della concezione dello Stato non come potere separato da quello spirituale del pontefice e della Chiesa, qual era stato configurato dal Concordato del 1801, né come anticlericalismo militante, nel solco di alcune correnti della Rivoluzione dell'Ottantanove, bens’ quale affermazione del Potere totalmente nuovo e “altro” rispetto quello sino a quel momento invalso.

 

La sua concezione e i rituali che ne derivarono furono elaborati e sperimentati in seno alle logge massoniche rifiorenti dell'Impero sotto la guida dell'Arcicancelliere Cambacérés, in specie di Rito scozzese antico e accettato (Rsaa), di rito simbolico francese riformato e, successivamente, di Memphis-Misraim (allestito dai fratelli Bedarride nel 1813), con il benestare dell'imperatore celebrato come “Napoléon de tous les Rites”. Le premesse del riordinamento politico-culturale dell'Italia con riferimento al valore di Roma quale suo fulcro vennero poste con la costituzione a Parigi (16 marzo 1805) del Supremo Consiglio di Rito scozzese “en Italie” e l'insediamento, da parte sua, del Grande Oriente d'Italia a Milano (20-22 giugno 1805).

Anche prima della cesura segnata dai ricordati eventi del 1809-1811 le logge tracciarono una cosmologia che prescindeva totalmente dalla Rivelazione e dall'Antico Testamento. Il conferimento del titolo di Re di Roma al futuro Napoleone II sancì l'inclusione della Città Eterna in un orizzonte che, per semplicità, può essere configurato come neo-pagano con suggestioni dell'Antico Egitto.

Lo documenta il verbale dei “Lavori Massonici” dedicati alla nascita del Re di Roma svolti in Milano il 15 giugno 1811 con la partecipazione dei supremi dignitari del Regno d'Italia, quasi in tutto e per tutto coincidenti con i componenti delle sei logge rappresentate. Sotto l'insegna “Uomo, Natura, Dio” nella sala ornata con la raffigurazione delle nozze della Terra col Cielo, delle Orgie di Bacco, dei misteri di Cibele e altre bizzarie, fu celebrata la nascita di Oro (Napoleone II, il loweton), di Osiride, ovvero di Napoleone il Grande “nostro Fratello e protettore dell'Ordine massonico nell'Impero di Francia e nel Regno d'Italia”, e della consorte, Maria Luisa d'Asburgo (Iside). La “cantata” di Giacomo Luini (Varese, 1771-1845), direttore generale della polizia del Regno d'Italia, recitò: “Sorga altero il Campidoglio/ su l'ignobil Vaticano:/ Grande ancora, ancor romano/ torni il Tebro al suo splendor. //Dell'Error su l'empio soglio/ splenda omai del Ver la face;/E s'adori il Dio di pace,/ ove incensi ebbe il Terror”. Le opere di Lefranc, Agostino Barruel e altri avevano affermato che la massoneria era manovrata da arrières loges volte a consumare la vendetta dei templari e, più antica e determinata, di gnostici e manichei. Le logge franco-centriche (Grande Oriente d'Italia a Milano, quello di Napoli e le decine direttamente dipendenti dal Grande Oriente di Francia da Torino e Genova a Firenze a Roma) documentano il proposito di affermare l'Ordine come culto alternativo alla chiesa cattolica.

Considerata spuria e deviante rispetto all'originaria (dalla genesi oscura e disputata), quella massoneria fu comunque strumento di potere politico e veicolo di una cultura radicalmente alternativa al cattolicesimo.

Roma come la Fenice: Post fata resurgo...

Il crollo di Napoleone (1814-1815) e la Restaurazione determinarono in Italia (e non solo) il completo naufragio delle logge (giunte a contare non meno di 20.000 affiliati, in larga misura coincidenti con la casse dirigente). A Roma tornò sovrano Pio VII e nessuno lo rimise in discussione. Nel cosiddetto Proclama di Rimini (1815) Gioacchino Murat si appellò a tutti gli italiani tranne che ai romani (anche perché Re di Roma nominalmente rimaneva il figlio di Napoleone I, lo sfortunato “Aiglon”, da taluni supposto padre di Francesco Giuseppe e Massimiliano d'Asburgo). Fra il 1815 e il 1849 la Città Eterna venne proposta quale capitale d'Italia in Costituzioni abbozzate senza successo alcuno da società segrete. Non se ne trova traccia nel milanese “Il Conciliatore”, promosso e finanziato dal massone Federico Confalonieri, né nei propositi affacciati nei moti costituzionali del 1820-1821 e del 1831.

Regnante papa Gregorio XVI, la centralità di Roma in e per l'Italia fu promossa dai neoguelfi in subordine a quella del pontefice quale fulcro religioso ed etico della confederazione o lega degli Stati la cui identità fu tracciata nei Congressi degli scienziati italiani frequentati anche da ecclesiastici. Conscio che il giobertiano primato morale e civile degli italiani era sentito come tutt'uno con quello del pontefice, anche Giuseppe Mazzini si appellò al neoeletto Pio IX.

La storia dell'identità di Roma con l'Italia e dell'idea di Italia nel mondo merita dunque l'attenzione che non le è stata riservata dalle Istituzioni in questo penoso 150°.

 

L'annessione di Roma all'Italia coronò il sogno secolare di quanti vi avevano “lavorato” nel tempo, soprattutto da quando, sulla fine del Settecento il gesuita Saverio Bettinelli (che non mancò di incontrare Voltaire a Ginevra) coniò il termine di Risorgimento.

Oggi alcuni polemicamente declassano Roma a mito appassito e giudicano la Città Eterna priva di autentica forza morale e di rappresentatività. Vale la regola di Goethe: nessun grand'uomo è tale per il suo “servitore”, non perché non lo sia ma perché questi non è in grado di capirlo. La missione della Cttà Eerna prima e dopo Porta Pia fu e rimase Universale. Quali erano la statura e i progetti delle altre capitali europee dell'epoca? Che cos'era San Pietroburgo a soli dieci anni dalla abolizione della servitù della gleba? A Berlino si forgiavano idee e armi per la sottomissione militare dell'Europa. Parigi rispondeva preparando la riscossa. A Londra l'Imperatrice delle Indie badava alle colonie el rimato finanziario. Washington era appena uscita dalla Guerra di Secessione, ben altra cosa dalla repressione del brigantaggio nel Mezzogiorno. E che cosa rappresentavano in quegli anni Madrid, Lisbona, Bruxelles, l'Aja, Atene? L'Europa orientale era ancora “in fieri”. Lì la Romania andava fiera della sua lingua neolatina e dei suoi legami storici e civili con Roma e persino duplicò in calco la Colonna Traiana.

Anche allora, insomma, Roma era “caput mundi”. Peccato che l’attuale governo e i partiti che lo intasano l’abbiano dimenticato, trascurando e oscurando il 150° di Porta Pia.

 

Aldo A. Mola

Giornale del Piemonte e della Liguria di domenica 20 settembre

domenica 20 settembre 2020

Conferenza Virtuale dedicata al 150° Anniversario di Porta Pia.

 

Siamo lieti di invitarvi a una Nostra Conferenza Virtuale organizzata dall'Istituto Nazionale per la Guardia d'Onore alle Reali Tombe del Pantheon, dedicata al 150° Anniversario di Porta Pia.

Un primo Incontro di Studio e di Ricerca.

Obiettivo Attuale Conoscere la Storia del Regno d'Italia attraverso i Monumenti, libri di pietra e di bronzo, su cui è incisa la Nostra Storia.

 Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro


Si riportano di seguito gli estremi per l’accesso webinar:

lunedì, 21 set 2020 18:00 | 1 ora | (UTC+02:00) Bruxelles, Copenaghen, Madrid, Parigi

Numero riunione: 163 588 3222

Password: avantisavoia (28268472 da telefoni e sistemi video)

https://guardierealitombe.my.webex.com/guardierealitombe.my-it/j.php?MTID=mc36d963a21475a89a5fb1facd88fc3df

 

Accedi tramite sistema video

Chiama 1635883222@webex.com

È possibile anche chiamare 62.109.219.4 e immettere il numero della riunione.

venerdì 18 settembre 2020

Aspettando il 150° Anniversario di Porta Pia III


LO STATO PONTIFICIO E IL REGNO D'ITALIA

ASSEDIO, ASSALTO E ANNESSIONE DI ROMA 


Scritto da Massimo Fulvio Finucci e Clarissa Emilia Bafaro 


PARTE TERZA

Siamo ormai giunti alla meta, al 150° Anniversario dell'Annessione di Roma al Regno d'Italia. Abbiamo ripercorso, attraverso tre articoli, il succedersi degli eventi, che portarono alla fine dello Stato Pontificio e sollevarono Roma a Capitale d'Italia. Nella Prima Parte abbiamo messo in luce la situazione italiana in relazione al Contesto Europeo. Nella Seconda Parte abbiamo evidenziato i difficili giorni che seguirono alla sconfitta di Sedan, fino all'inizio delle operazioni militari, dal 2 Settembre all'il Settembre 1870. In questa Terza e Ultima Parte si affronterà l'assedio, l'assalto e l'Annessione della Città Eterna, che si ricongiungerà finalmente al Regno d'Italia il 20 Settembre 1870.

[...]

https://www.consulpress.eu/aspettando-il-150-anniversario-di-porta-pia-iii/

Conferenza 150° Breccia Porta Pia



INVITO CELEBRAZIONI 150° BRECCIA DI PORTA PIA

CONFERENZA ALLA UBRERIA HORAFEUX ROMA

La Conferenza metterà in luce, attraverso l'interpretazione simbolica del Monumentale, l'evento storico della Presa di Roma, verificatosi il 20 Settembre 1870. La data scelta, il 23 Settembre, si riferisce al giorno di nascita dell'Imperatore Augusto. Sul Campidoglio fu innalzato il Primo Tricolore Italiano, luogo scelto per l'erezione dell'Altare della Patria.

Sul Campidoglio nasceva la Roma Antica, rinasceva la Roma Cattolica e risorgeva la Terza Roma, Capitale d'Italia.

IL TRICOLORE SUL CAMPIDOGLIO

DA PORTA PIA ALL'ALTARE DELLA PATRIA

RELATORI

MASSIMO FULVIO FINUCCI 

CLARISSA EMILIA BAFARO

HORAFELIX LIBRERIA
VIA REGGIO EMILIA 89 ROMA
MERCOLEDI' 23 SETTEMBRE 2020 ORE 18
POSTI LIMITATI PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
0645618749

Massimo Fulvio Finucci e Clarissa Emilia Bafaro


mercoledì 16 settembre 2020

Il Re Buono Umberto II

 

di Emilio Del Bel Belluz

Il 15 settembre 1904 nacque a Racconigi il futuro Re d’Italia, il principe Umberto, figlio del Re Vittorio Emanuele III, e della Regina Elena di Montenegro. In questi giorni mi è capitato spesso di pensare a lui ed alla sua vita. 

Il Re Umberto II era un sovrano cattolico, lo fu per tutta la vita, dimostrando un grande attaccamento ai valori cristiani che anch’io condivido. Il primo pensiero della giornata era quello di iniziarla con la Santa Messa, e con la comunione. La sua integrità morale, la sua educazione gli avevano dato dei principi che non potevano essere diversi. Il 15 settembre non so quanti si recheranno a Racconigi, davanti al Castello dove è nato e vi porteranno un fiore, una preghiera, un pensiero. 

Qualcuno farà sventolare dal balcone la bandiera sabauda che rappresenta gli italiani che hanno voluto mantener fede a Casa Savoia che ha fatto l’Unità d’Italia. In questi tempi così difficili, dove tutto vacilla, il mantener fede agli ideali monarchici, credo sia ciò di più profondo si possa fare. La monarchia non potrà mai essere cancellata dalla storia d’Italia, come vorrebbero quelli che si dimenticano di ricordare il nostro percorso storico. La patria un tempo era amata, ora viene cancellata da quelli che vogliono la sua fine. Gli italiani provavano gratitudine verso quelli che avevano costruito questo stato, sacrificando la propria vita, donando il proprio sangue per la nostra cara Italia. Il 18 marzo 1983 gli italiani appresero della morte del sovrano in una clinica svizzera. La data entrò nel libro della storia, Re Umberto II, finalmente, aveva finito di soffrire. Il suo cuore forte aveva ceduto, anche se fino all’ultimo aveva dimostrato di accettare quello che il cristiano vede come la chiamata verso il paradiso. Avrebbe incontrato il padre, la madre Regina Elena del Montenegro e la sorella Mafalda che si era immolata per la sua famiglia. Il Re Umberto II amava la sorella ed era rimasto sconvolto dopo la sua terribile agonia patita in un lager, pagando colpe non sue. 

Questa vita che viviamo non è mai facile, recitando la Salve Regina, ad un certo punto, si dice che la vita è “ una valle di lacrime” , e questo il sovrano che visse in esilio quasi quaranta lunghi anni lo aveva capito, e la morte fu per lui come una liberazione. Lo scrittore Curzio Malaparte nel suo libro La pelle scrisse: “ Non so quale sia più difficile, se il mestiere del vinto o quello del vincitore. Ma una cosa so certamente, che il valore umano dei vinti è superiore a quello dei vincitori. Tutto il mio cristianesimo è in questa certezza, che ho tentato di comunicare agli altri nel mio libro”. Quello che accadde al Re non si può chiamare una sconfitta, il referendum tra monarchia e repubblica, non fu così trasparente. La vittoria della repubblica fu viziata da brogli elettorali e da un clima difficile, nessuno può dimenticare quello che disse Nenni : “ O la repubblica o il caos”. 

Il Re che amava il suo paese accettò di evitare una guerra civile, perché già troppi morti c’erano stati. Quello che non si sarebbe mai aspettato era di trascorrere tutta la sua vita in esilio, senza poter ritornare in Italia, per morirvi. La solitudine fu alleviata da quelli che non lo hanno mai dimenticato. Lo scrittore Jean Giono scriveva in un suo piccolo capolavoro, che meriterebbe esser letto da tutti, perché si parla della natura, degli alberi, di un uomo che visse tutta la sua vita in solitudine e riuscì a fare un miracolo, piantando migliaia di alberi e trasformando in foresta, una valle che era spoglia. 

Jean Giono scrisse delle parole che io credo possano essere dedicate al re d’Italia: “ Perché la personalità di un uomo riveli qualità veramente eccezionali, bisogna avere la fortuna di poter osservare la sua azione nel corso di lunghi anni. Se tale azione è priva di ogni egoismo, se l’idea che la dirige è di una generosità senza pari, se con assoluta certezza non ha mai ricercato alcuna ricompensa e per di più ha lasciato sul mondo tracce visibili, ci troviamo allora, senza rischio d’errore, di fronte a una personalità indimenticabile”. Re Umberto II fu un sovrano umile, che amava il suo popolo, che ha lasciato una profonda traccia nel suo cammino. 

Questa traccia la si vede ancora adesso, e la si vedrà sempre. Il 15 settembre qualcuno metterà una rosa sulla sua tomba in Francia, e vi sosterà, davanti, in preghiera. Nella solitudine della chiesa si udranno i canti degli umili frati, perché in quella stupenda abbazia è sepolto un grande italiano che da troppi anni attende giustizia, avendo sempre agito con correttezza e con il cuore..


Auguri al Senatore Fisichella

 

I nostri auguri, con un giorno di ritardo, al    Senatore Professore  Domenico  Fisichella, già Presidente del Senato,  che condivide con Re Umberto la data di nascita, 15  settembre, 85  anni (15-9- 1935).
Auguri da tutto lo Staff!

martedì 15 settembre 2020

Un'inedita medaglia del Re

Una rarissima immagine del medaglione in bronzo realizzato da Diomede Patroni nel 1933 e donato a Umberto di Savoia, principe di Piemonte

 

di Roberto Ganganelli

A seguito del nostro articolo dal titolo Umberto II, il re di maggio senza monete ci ha scritto il maestro Vincenzo Dino Patroni: “Caro direttore, le invio la foto e alcune notizie su una medaglia consegnata in presenza dello stesso autore, lo scultore Diomede Patroni, all’allora giovane Principe Umberto di Savoia, in occasione di una mostra da quest’ultimo inaugurata nel mese di agosto del 1933 nella città di Avellino.

L’opera, che fu eseguita in bronzo, è probabilmente conservata dagli eredi del ‘Re di maggio’ oppure si trova in qualche museo o collezione privata di cui, purtroppo, non ho notizia.

[…]

Nell’ambito della cerimonia di accoglienza dell’erede al trono avvenne la consegna della grande medaglia in bronzo di cui, purtroppo, oggi non si hanno più notizie ma che entra a pieno titolo fra i ritratti più belli e suggestivi di colui che, sebbene per breve tempo, cinse per ultimo la Corona d’Italia.

[...]

https://www.cronacanumismatica.com/uninedita-medaglia-firmata-diomede-patroni-e-donata-al-re-di-maggio/

15 Settembre


 

lunedì 14 settembre 2020

Umberto II, il Re senza monete

Umberto di Savoia, principe di Piemonte, in uniforme nei primi anni ’30
Fu studioso di medaglistica e donò all’Italia quattromila monete sabaude

Di lui ci restano medaglie celebrative, una banconota e le quattro prove Italia del 1946


di Roberto Saccarello | Dopo la nascita di Jolanda, nel 1901, e di Mafalda, nel 1902, un figlio maschio si faceva desiderare alla corte dei Savoia, dove vigeva la legge salica che escludeva le donne dalla corona. Finalmente, il 15 settembre 1904, mentre nel paese era in atto uno sciopero generale, giunse la notizia tanto attesa: le campane di Racconigi – un antico castello del Piemonte ceduto ai Carignano tre secoli prima dal ramo primogenito – avevano annunciato la nascita dell’erede al trono, avvenuta alle undici di sera. Ci fu gran festa nella cittadina illuminata con migliaia di lampadine e, per giorni, giunsero al castello sabaudo delegazioni di sudditi per rendere omaggio ai reali genitori Vittorio Emanuele ed Elena.

[...]

 https://www.cronacanumismatica.com/umberto-ii-il-re-di-maggio-senza-monete/

Racconigi si racconta: il matrimonio della Principessa Mafalda di Savoia e del Principe Filippo

 

 


In occasione del Settembre Racconigese, il 27 settembre verrà ricordato l'ultimo grande evento legato alla famiglia Reale

Racconigi si racconta: il matrimonio della Principessa Mafalda di Savoia e del Principe Filippo

Con settembre torna un calendario di proposte che l'Ufficio Turistico di Racconigi in collaborazione con le guide Conitours suggerisce per animare i fine settimana. Due sono gli appuntamenti dedicati alla scoperta del Castello Reale attraverso piccoli approfondimenti tematici. In ricordo dalle nascita del Principe di Piemonte Umberto di Savoia, ultimo Re d'Italia, il prossimo 13 settembre le visite puntano l'attenzione sul lieto evento e sui festeggiamenti legati ad esso. Dopo il successo della prima visita dedicata alle Nozze Reali, il 27 settembre verrà ricordato l'ultimo grande evento legato alla famiglia Savoia a Racconigi: il matrimonio della Principessa Mafalda di Savoia e del Principe Filippo d'Assia-Kassel.

[...]

Domenica 27 settembre – NOZZE REALI – MAFALDA DI SAVOIA - visite con guida turistica ore 11:15 – 14:15 – 16:15.


https://www.targatocn.it/2020/09/12/leggi-notizia/argomenti/eventi/articolo/racconigi-si-racconta-il-matrimonio-di-della-principessa-mafalda-di-savoia-e-del-principe-filippo.html

Okkupazioni in vista... di chi? Di che? Perché? L'importante è “okkupare”...

  

Settembre 1920: un centenario dimenticato

di Aldo A. Mola

Governo di “okkupazione”

Studenti che si dichiarano “di sinistra” annunciano manifestazioni contro il disastro della Scuola. Verosimilmente contro questo governo, che è il più “a sinistra” della storia d'Italia dal 1861 a oggi. Niente di nuovo sotto il sole. Lo scorso anno, quando a scuola il sabato andavano in pochi, ogni venerdì gli studenti marciavano per Greta. Ora accampano altri motivi. Ma contro chi? Okkuperanno aule a rischio di contagio? Comunque non sono né saranno i soli.

Qui tutti okkupano. L'esempio vien dall'alto. Anzitutto il governo, il sottogoverno, gli “esperti” e il corteo interminabile dei loro ben remunerati portavoce e fornitori, accucciati su tutti i divani, le poltrone, le sedie e gli stuoini possibili. Okkupano anche rimanendo in piedi, con e senza mascherine, generalmente nere in attesa di quelle viola per l'Avvento. Se del caso, si fanno incastonare rotelle sotto i calcagni (Azzolina e Arcuri sono specialisti) e così possono volteggiare su se stessi. Mentre dilaga la disoccupazione, i tre partiti e mezzo oggi al governo (l'estrema sinistra, il papocchio sedicente Democratico, Italia viva e il pasticciaccio brutto che di nome fa Cinque stelle) “okkupano” e dichiarano che continueranno a farlo alla faccia dei voti che tra una settimana gli italiani deporranno nelle urne per le regionali e il referendum. Sono gli Unti dell'Okkupazione e anche della sotto-occupazione ingigantita con oboli d'ogni genere: redditi di cittadinanza, di questo e di quello. Tanto chi paga sono gli italiani, a cominciare da quelli che sono così gonzi da continuare lavorare, a pagare le tasse e si concedono la debolezza di credere che ancora esista lo Stato di diritto.

La lunga gestazione del caos postbellico

Forse proprio perché l'attuale governo è il più “sinistro” della storia d'Italia, né Sua Emergenza Conte né i suoi sponsor, seguaci e segugi si sono prodotti (per ora) in inni e canti per ricordare l'Occupazione delle fabbriche del settembre 1920.

Eppure nel centenario quel fattaccio merita memoria: fu la sortita di estremisti di tutti i tipi e generò la catastrofe della “rivoluzione rossa”. Sino a pochi anni orsono motivo di cortei, fiaccolate e bandiere rosse al vento, l'occupazione delle fabbriche oggi è un ricordo scomodo, sbiadito.

Ma vediamo come andarono le cose. Fine agosto 1920. La trattativa tra imprenditori e Federazione Italiana Operai Metalmeccanici (Fiom) per il rinnovo del contratto nazionale dei salari si arenò. Gli industriali erano alle prese con la conversione dalla produzione di guerra a quella “di mercato”. Per anni il governo aveva elargito somme gigantesche per armare il Paese. Anziché pochi mesi, come avevano sognato il presidente del Consiglio Antonio Salandra (Troia, 1853 -Roma, 1928) e il ministro egli Esteri Sidney Sonnino, l'Italia rimase in guerra tre anni e mezzo. Le Emergenze si sa quando cominciano, non quando finiscono. Si vede subito chi le paga, meno chi ne approfitta. In un convegno a Padova il generale di corpo d’armata della Guardia di Finanza, Luciano Luciani, storico di vaglia, disse lapidariamente che a soffrirne furono soprattutto contadini, montanari e meno abbienti. Se ne giovarono i “pescecani”.

Dopo il disastro di Caporetto (ottobre-novembre 1917) il ministero presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, con il lucano Francesco Saverio Nitti al Tesoro, non badò più a spese. In breve il debito pubblico schizzò da 14 miliardi (quanti ne aveva accumulati dal 1861 al 1915) a oltre 90. Resistere sul Piave voleva dire rifare di sana pianta l'artiglieria e investire nell'aviazione, micidiale “cavalleria dell'aria”. Gli altri Stati in guerra fecero altrettanto. Infine, prevalse la regola di Londra: “Se non perdiamo la guerra, vinciamo”. L'Italia fu tra i vincitori; ma a prezzo altissimo. Non aveva la compattezza secolare di Gran Bretagna e Francia, né le risorse degli Stati Unti d'America. Tuttavia resse, a differenza degli Imperi che via via crollarono per consunzione interna, a cominciare da quello turco, colosso dai piedi d'argilla: una bolla di contraddizioni fra modernizzazione dell'apparato militare e oscurantismo islamico, ieri come oggi.

Tensioni, dunque, tra “padroni” e “proletariato”, come all'epoca si diceva. Dinnanzi all'ostruzionismo del sindacato operaio, il 30 agosto 1920 la “Romeo” di Milano decise la “serrata” dello stabilimento. Chiuse i battenti in attesa che i salariati scendessero a miti consigli. In risposta la Fiom ordinò l'occupazione di centinaia di fabbriche meccaniche e metallurgiche.Tra il 1° e il 4 settembre il moto dilagò in tutt'Italia. Si concentrò soprattutto nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova. Come documentò Piero Bairati, storico libero da paraocchi ideologici, gli industriali era ancora in fase ascendente. Gli scioperi erano aumentati del 120% in un anno, ma il padronato l'aveva messo nel conto. Durante la guerra migliaia di fabbriche e di imprese anche artigianali erano state dichiarate ausiliarie e la manodopera (in buona parte femminile) era stata “militarizzata”. Come negli altri Paesi, incluse Gran Bretagna e Francia, gli scioperi vennero puniti come sabotaggio. Era scontato che dopo la Vittoria i rapporti mutassero. Nell'ultimo anno il governo promise di assegnare ai contadini nullatenenti i latifondi incolti, quasi l'Italia centro-settentrionale non fosse da secoli un Paese di medie e piccole proprietà agricole, semmai troppo frazionate e sovrappopolate. Il mito però prevalse sulla realtà.

Nel novembre 1919 il rinnovo della Camera mostrò la profonda lacerazione tra partiti e istituzioni. Nel 1914-1915 i socialisti si erano arroccati sulla formula “né aderire (alla guerra) né sabotare”. Né sì, né no (un po' come oggi sul taglio dei parlamentari e sul MES). Nell'agosto 1917 però, come ricorda il colonnello Carlo Cadorna in “Caporetto? Risponde Luigi Cadorna” in stampa per BastogiLibri, il governo consentì a militanti bolscevichi russi di irrompere proprio nelle aree industriali (a Torino, in specie), liberi di propagandare la rivoluzione. Poi quattro “socialisti” italiani andarono in missione in Russia per vedere che cosa vi stesse effettivamente accadendo. Non conoscevano il russo e i russi non capivano l'italiano. Gesticolarono e furono applauditi. Al ritorno non dissero quel che avevano veduto. Ormai, del resto, parlavano i fatti: l'assalto dei leninisti al Palazzo d'Inverno, la pace con la Germania senza compensi territoriali “né riparazioni”, la liquidazione cruenta dello zar, della sua famiglia, dell’aristocrazia e dell’odiata borghesia. I “dieci giorni che sconvolsero il mondo” (John Reed) smentirono il “calendario trinitario” del marxismo austro-germanico: industrializzazione, formazione del proletariato, rivoluzione. In Russia Lenin balzò oltre la fase intermedia, sino a quel momento ritenuta indispensabile: dalla non remota abolizione della servitù della gleba a “comunismo+elettricità”. La storia aveva più fantasia degli storici, come osservò Leo Valiani. Ripartiva da Napoleone: “on s'engage, et puis on voit”. Dopo anni di guerre tra Armata Rossa e armate Bianche, grazie anche alla “distrazione” degli Stati Uniti d'America, il cui presidente, Woodrow Wilson, nei Quattordici punti del gennaio 1918 fece largo credito alla sua “normalizzazione”, la Russia di Lenin esercitò un enorme fascino sui socialisti italiani e a beneficio delle correnti anarco-sindacaliste che in ogni sommovimento intravvedevano uno spiraglio della società senza altari né classi, senza “ordini” né vincoli di sorta. Perciò Lenin ritenne che l'unico rivoluzionario italiano fosse Gabriele d'Annunzio, con una spruzzatina di Alceste De Ambris e della sua celebrata Carta del Carnaro.

Tentazioni ideologiche e immaginarie a parte, dopo il successo elettorale del novembre 1919 la sinistra italiana rimase divisa in Gruppo parlamentare socialista (frammentato e niente affatto univoco, antimonarchico, antimilitarista, quasi l'Italia avesse perso la guerra, e privo di un programma realistico), Partito parlamentare (suddiviso in correnti che si odiavano) e Confederazione generale del lavoro. In un paio d'anni gli iscritti ai sindacati crebbero da uno a quattro milioni di iscritti. La sua punta di diamante sempre più divenne la Fiom.

Consigli di fabbrica e “Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci

Dal 1920 conquistarono spazio crescente i Consigli di fabbrica (traduzione italiana di soviet) proposti in specie dal settimanale e poi quotidiano “Ordine Nuovo”. Nel suo centenario, il primo numero (1° maggio 1919) è stato ristampato in 250 esemplari dalle benemerite Edizioni Viglongo, fondate da Andrea Viglongo (1900-1986) che vi visse la sua “gran giornata” a fianco di Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti e Umberto Terracini. Il vero nemico degli ordinovisti non erano i governi Orlando-Sonnino, ormai allo stremo, o Nitti, condannato a vivere alla giornata, né il partito popolare di don Sturzo, i nazionalisti (vociferanti ma numericamente esigui) e, meno ancora, i neonati fasci di combattimento dell'ex socialmassimalista Mussolini. Il loro spauracchio era Giolitti, il pacato e pragmatico statista liberale che nel maggio 1920, settantottenne, era tornato per la quinta volta a capo del governo.

Nel marzo-aprile i Consigli di fabbrica ispirati da “Ordine Nuovo” occuparono il cotonificio Mazzonis di Pont Canavese, le Officine Miani-Silvestri a Napoli e  molti stabilimenti  “di bandiera” in Liguria: Ansaldo, Piaggio, Odero, Ilva... La CGL si sfilò. A Torino venne dichiarato il mitico “sciopero delle lancette” per reazione contro il licenziamento da parte della Fiat di tre operai che avevano protestato contro l'introduzione dell'ora legale, che per un giorno costrinse a un'ora di lavoro in più. Gli industriali risposero con la serrata. La protesta rientrò. Ma era solo la prova generale.

Nell'estate la guerra russo-polacca giunse alla partita finale: l'Armata Rossa di Lenin, comandata da Tukacevskij, avanzò sino alla Vistola ma venne fermata alle porte dei Varsavia e costretta dal generale Weygand a mortificante ritirata (15-16 agosto). Ancora una volta i polacchi salvarono l'Europa centro-occidentale. Ma le frange rivoluzionarie dei partiti socialisti di quei paesi furono mobilitate per impedire ogni aiuto ai polacchi e scatenare il caos all'interno dei rispettivi stati.

Fuori tempo massimo, in risposta a una nuova serrata degli industriali i Consigli di fabbrica ordinovisti deliberarono la già citata occupazione delle fabbriche, che non fu affatto irenica né priva di episodi truci, pudicamente cancellati dalla “memoria ufficiale”.

Il 5 settembre Gramsci scrisse: “Le gerarchie sociali sono spezzate, i valori storici sono invertiti, le classi strumentali sono diventate classi dirigenti, si sono poste a capo di se stesse, hanno trovato in se stesse gli uomini rappresentativi, gli uomini da investire del potere di governo, gli uomini che si assumono tutte le funzioni, che di un aggregato elementare e meccanico fanno una compagine organica, una creatura vivente”. Confondeva i sogni con la realtà.

Giolitti, il Grande Vecchio della democrazia liberale

Giolitti rimase impassibile. Quando Giovanni Agnelli gli chiese di cacciare gli operai dalle fabbriche, rispose che era pronto a farle bombardare: gli industriali capirono che proprio non era il caso.

Come previsto dallo Statista, l'occupazione si esaurì. Il 19 settembre la sala del Consiglio dei ministri al Viminale fu inaugurata da una seduta davvero singolare: da una parte i rappresentanti della Confindustria (Conti, Crespi, Falck, Ichino, Pirelli e Olivetti), dall'altra quelli della CGL (D'Aragona, Baldesi e Colombino) e della FIOM. Il 16 settembre la “base” dell'accordo era stata stilata dal massone Gino Olivetti per gli industriali, a contatto con sindacalisti “rossi”, e fatta propria dal ministro del Lavoro, Arturo Labriola, “fratello” pure lui, come Vittorio Valletta. Il 27 settembre, deposta l'illusione di esserne padroni, gli occupanti lasciarono le fabbriche per rientrarvi da operai. A parte miglioramenti salariali e altri benefici (ferie, indennità per licenziamenti, retribuzione delle giornate lavorate durante l'occupazione...), l'accordo previde una legge istitutiva di commissioni di controllo sindacale nella gestione delle fabbriche: ma sulle condizioni del lavoro, non sulla loro gestione. La proprietà non fu messa in discussione. Il disegno di legge si perse per strada, come le “terre ai contadini” e altre promesse dei tempi difficili.

Con il Trattato di Rapallo Giolitti chiuse la vertenza sul confine italo-jugoslavo e a tra dicembre e gennaio liquidò la Reggenza di d'Annunzio a Fiume. Dall'occupazione delle fabbriche la rivoluzione uscì sconfitta. Peggio. A chi gli chiedeva di motivare la condotta del governo, in Senato (formato da uomini dello Stato, alti gradi militari e roccaforte del potere economico, non da poetini venticinquenni) Giolitti spiegò che non poteva impedire l'occupazione di 600 fabbriche, talvolta con migliaia di operai, con altri 500.000 lavoratori pronti a muoversi in soccorso degli occupanti, se questi fossero stati attaccati dall'esercito. Sgomberare le fabbriche con la forza avrebbe comportato la “guerra civile”. Parole rotonde. Ma Luigi Albertini, già sicofante dell'intervento dell'Italia nella Grande Guerra, lo bollò quale “bolscevico dell'Annunziata”, ironizzando sul fatto che dal 1904 lo Statista era “cugino del Re”.

In effetti alcuni industriali cominciarono a ritenere che avevano ragione gli agrari a usare squadre di ex arditi per sconfiggere le Camere del lavoro e i “rossi”. Ma i più continuarono a ritenere che le tensioni erano fisiologiche, come lo erano stati i grandi scioperi d'inizio secolo, lo sciopero generale del settembre 1904, quelli contro la guerra in Libia (guidati da repubblicani e socialrivoluzionari come Nenni e Mussolini).

Il mito e i suoi frutti velenosi

La sconfitta dell'occupazione ebbe due frutti tossici. Il primo fu la scissione del PSI. Al congresso di Livorno (gennaio 1921) dal tentacolare Partito socialista si spiccò la frangia ordinovista, che dette vita al Partito comunista d'Italia, sezione locale della terza internazionale: leninista assai più che marxista, suggestionato da Louis Blanc e Georges Sorel e fascinato da Giovanni Gentile anziché da Antonio Labriola, il PC d'Italia nacque e rimase minoritario e settario, come mostra la vicenda di Angelo Tasca e degli altri suoi maggiorenti via via radiati (e a volte eliminati dalla faccia della terra).

L'altro frutto velenoso fu il mito dei Consigli di fabbrica e di cascina, rifiorito nel 1944-1946, anche per suggestioni affiorate tra le pieghe della Carta di Verona della Repubblica sociale italiana e dalla legislazione della RSI passata in rassegna nei due poderosi volumi curati da Francesca Romana Scardaccione per l'Archivio Centrale dello Stato (2002).

Rimasto sotto traccia per un ventennio, quel mito esplose nel 1968. Si cominciò con le okkupazioni delle scuole e delle Università, con tutti gli aspetti folkloristici di una piccola borghesia dedita alla rivoluzione amatoriale, cui seguirono Potere Operaio, Lotta Continua, la lunga scia di sangue dei “compagni che sbagliavano” e gli anni di piombo. L'ultimo ad agitare il mito dell'okkupazione fu Enrico Berlinguer dinnanzi ai cancelli della Fiat, malgrado già avesse proposto il compromesso storico, caldeggiato l'euro-comunismo e prese le debite distanze dall'oligarchia del Partito comunista sovietico.

Tornare alla normalità

Nel centenario del settembre 1920 il problema del Paese non è okkupare ma far ripartire la produzione, far funzionare davvero la Pubblica istruzione (nervo sensibile per chi ne fu ministro e ora osserva l'Italia dal Colle più alto), senza relegare milioni di bambini e ragazzi nel ghetto di chi vive in plaghe non collegate a internet da alcuna “banda”, né larga né stretta; restituire efficienza agli uffici e agli opifici che esigono la presenza fisica dei loro addetti, perché non basta un collegamento telematico per elevare un muro, sagomare un tondino, compattare un'autovettura..., né per mietere, raccogliere e immettere i prodotti agricoli sul mercato interno e internazionale.

Fra le tragedie incombenti sul Paese vi è il governo in carica, il più inetto, incoerente, sconclusionato, e quindi pericoloso, dal 1861 a oggi.

Motivo in più perché il 20-21 settembre prossimi i cittadini parlino con lo strumento a loro disposizione: il voto. A cominciare da un tondo “No” allo sconsiderato “taglio” dei parlamentari: apparentemente un capriccio pentastellato, in realtà un siluro contro le istituzioni, già pericolanti. Parrebbe davvero incredibile che certi “democratici” stiano al gioco, se non fosse che sono nipotini, forse inconsapevoli, del volontarismo ordinovista di un secolo fa.