NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 24 settembre 2020

150° DI PORTA PIA ROMA È L'ITALIA NEL MONDO



Dimenticare Porta Pia?

Il 150° dell'annessione di Roma all'Italia meritava, merita e meriterà di più. Roma non è un agglomerato di rioni e borgate. E' la Città Eterna e Universale. E' un'Idea. Il silenzio delle Istituzioni sul suo ricongiungimento alla Patria che essa stessa aveva generato nei secoli rimarrà documento della meschinità di chi governa, senza progetti seri perché senza memoria. Va confrontato con i festeggiamenti del 2011 per il 150° della proclamazione del Regno d'Italia, salutata dallo sventolio del tricolore, da una miriade di iniziative pubbliche e private e dall'entusiasmo dei cittadini. Il rinnovo di alcuni consigli regionali e il referendum sul “taglio dei parlamentari” proprio il 20 settembre, anziché una settimana prima o dopo, va imputato al governo. Esso appanna la già sbiadita coscienza nazionale. Motivo in più per votare “No” alla riduzione dei parlamentari in carica, non perché lo meritino gli attuali, in gran parte eterodiretti e “da dimenticare”, ma in omaggio ai 493 deputati eletti nel 1867 in rappresentanza di 22 milioni di abitanti, a conferma che non sono mai troppi se fanno il loro dovere.

Ben altro, infatti, seppe fare il governo italiano che nell'agosto-settembre 1870 in un'Europa nella tempesta della guerra franco-germanica si fece carico dell' impresa capitanata da Raffaele Cadorna, conclusa con poche ore di combattimento e con la liquidazione della “questione romana”.

Questo miope 150° concorre a rendere più penosa la condizione della Capitale, da decenni bersaglio di movimenti dagli orizzonti ristretti, come i 5S e i loro alleati dentro e fuori il governo. A chi lamenta i “ritardi” e il declino di Roma va ricordato che nel Novecento, poco dopo il cinquantenario del Regno, un primo ministro conterraneo di Giuseppe Conte, tale Salandra, spinse il Paese nel tunnel della Grande Guerra, dal quale uscì esso spossato. Vent'anni dopo il territorio nazionale per un biennio fu teatro di guerra. Nel 1943-1944 Roma non divenne campo di battaglia solo perché conteneva in sé lo Stato della Città del Vaticano e perché il sovrano se ne allontanò favorendone la condizione di “città aperta”. La ricostruzione fu lenta e difficile ma nel 1970, Centenario di Porta Pia, la Capitale si mostrò consapevole del proprio ruolo.

A quanti in questo Venti Settembre voltano le spalle alla Capitale (la cui amministrazione attuale è campione di litigiosità e inconcludenza) va ricordata l'eco che il nome di Roma suscita nel mondo. Su genesi, modi e conseguenze immediate e di lungo periodo dell'annessione di Roma al Regno d’Italia si possono avere opinioni discordi: è però impossibile non ammetterne la portata storica. Essa verrà approfondita nel convegno di studi “La Breccia di Porta Pia”, organizzato l'1-2 ottobre a Roma dal lungimirante Comitato pontificio di Scienze storiche e dall'Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito. Al riguardo va osservato che mentre il Vaticano è rappresentato da Segretario di Stato, S.E. Pietro Parolin, cioè al massimo livello,l'Italia non vi schiera alcun ministro. al massmo livello,

“Non da cnquistatri”: quel che nel 1861 Cavour non voleva....

Tra i molti temi di approfondimento sul Venti Settembre del 1870 spiccano le preoccupazioni più vere e profonde di Pio IX sulle ripercussioni della cancellazione del potere temporale dei papi.

La demolizione dello Stato Pontificio seguita alla “breccia” di Porta Pia significò solo l’eliminazione della sovranità dei pontefici e l’annessione di Roma al Regno d'Italia? Rispose esclusivamente o precipuamente al desiderio nazional-patriottico di completare l'unità o spianò la strada ad altri propositi?

Nei discorsi alla Camera e al Senato del Regno d'Italia del 25-27 marzo e del 9 aprile 1861 nei quali, appellandosi direttamente al Santo Padre propugnò il principio “libera Chiesa in libero Stato”, il presidente del Consiglio dei ministri Camillo Cavour escluse che la questione romana potesse essere risolta contro il placet della Francia, nei cui confronti l'Italia era debitrice della propria unificazione, sia pure nella dimensione conseguita nel 1859-1860 e sancita con la proclamazione del Regno (14/17 marzo 1861). Affermò inoltre che il potere temporale dei papi non andava abbattuto con le armi e che gli italiani non dovevano entrare nella Città Eterna “da conquistatori”. Infine il 25 marzo ribadì che andava assicurata l'“indipendenza vera del Pontefice” e il 27 aggiunse che bisognava “assicurare l'indipendenza, la dignità, il decoro del Pontefice”. Cavour non ne precisò i termini politici, militari e diplomatici; ma anche per il papa “indipendenza” non poteva suonare molto diversa da come la intendevano i patrioti che nel 1848-1859 l'avevano posta in vetta ai propri ideali nelle guerre contro l'impero d'Austria. Indipendenza significava, come significa, “sovranità”. Ristampati da Corrado Sforza Fogliani con postfazione di Antonio Patuelli nella collana “Libro Aperto” i Discosi di Cavour vanno riletti e meditati.

La condotta del governo Lanza-Visconti Venosta nell'agosto-settembre 1870 non è riconducibile al programma cavouriano del 1861. Lo scenario mutò completamente il 19 luglio con la deflagrazione della guerra franco-prussiano/germanica e, ancor più drasticamente, con la sconfitta militare di Napoleone III a Sedan il 2 settembre e la proclamazione della repubblica a Parigi il 4 seguente. In poche settimane, accantonati da tempo gli incitamenti a intervenire a fianco della Francia, il governo italiano passò da propositi di mediazione diplomatica tra i contendenti a non considerarsi più tenuto a rispettare gli accordi stipulati con l'imperatore né in sintonia con i “sentimenti” attestati nei confronti della Francia, quasi il mutamento della forma dello Stato avesse sciolto i vincoli a suo tempo contratti. Contrariamente alle attese del governo di Firenze (come poi di Roma), vere o accampate a propria giustificazione, Parigi non rinunciò a nessuna delle sue prerogative e pretensioni nei rapporti con la Santa Sede.

In assenza di una manifesta volizione dei suoi abitanti negli anni antecedenti la conquista da parte del Regio Esercito, l'occupazione di Roma ebbe il tacito placet della comunità internazionale dopo il plebiscito del 2 ottobre 1870 (appena dieci giorni dopo Porta Pia), che propiziò l'annessione (9 ottobre) e l'istituzione della Luogotenenza, e all'indomani degli atti formali che predisposero il trasferimento da Firenze a Roma del re, del governo e delle istituzioni rappresentative statutarie, senza che però venisse meno il riconoscimento al pontefice degli onori riservatigli quale Capo di Stato anche da parte di chi non lo considerava successore di Pietro né capo della cristianità.

 

Quando Napoleone (Osiride) conferì al figlio (Oro) il titolo di Re di Roma

Quali fossero i loro convincimenti e le rispettive pratiche devozionali, Vittorio Emanuele II, i componenti del governo e la generalità di deputati, senatori e dirigenza pubblica, sia statuale sia a livello locale, tennero una condotta ambigua, ricalcando quella dell'età franco-napoleonica e in specie di Napoleone I. Questi nel 1808-1811 aprì una breccia molto più ampia di quella italo-vaticana del 20 settembre 1870. Il différend tra l'imperatore e Pio VII non riguardò solo la sovranità su Roma e non è confrontabile con quello sorto tra la Repubblica romana del 1798 e papa Pio VI, contenuto nel recinto della politica. Napoleone mirò invece a sciogliere il potere imperiale da ogni dipendenza (o soggezione) dall'autorità spirituale del papa. Pio VII non poté opporsi alla proclamazione della fine della sua sovranità su Roma da parte del generale Sesto Alessandro Francesco di Miollis il 17 maggio 1809, ma rifiutò categoricamente di riconoscere la nullità del matrimonio di Napoleone con Giuseppina de la Pagérie, peraltro celebrato con rito religioso solo alla vigila della incoronazione del 2 dicembre 1804, né, di conseguenza, la validità delle sue seconde nozze con Maria Luisa d'Asburgo, contratte con il consenso del padre imperatore d'Austria. Pio VII resistette a ogni pressione, dalle lusinghe alla minaccia di renderne sempre più vessatoria la condizione di prigioniero. Napoleone rispose con il conferimento del titolo di Re di Roma al figlio Napoleone Francesco Giuseppe Carlo, nato il 20 marzo 1811 dalla nuova unione: esso non era di mera “cortesia” né rientrava solo nel disegno perseguito dall'imperatore dall’incoronazione a re d'Italia in Milano il 26 maggio 1805 e con le successive assunzioni della sovranità su altri domini sottratti a sovrani debellati. Andava molto oltre: mirava a desertificare l'humus sul quale era sorto e vissuto il triRegno pontificio. Il potere spirituale del Papa era irrilevante agli occhi di quello civile.

Attraverso quella stessa breccia passò l'avvento della concezione dello Stato non come potere separato da quello spirituale del pontefice e della Chiesa, qual era stato configurato dal Concordato del 1801, né come anticlericalismo militante, nel solco di alcune correnti della Rivoluzione dell'Ottantanove, bens’ quale affermazione del Potere totalmente nuovo e “altro” rispetto quello sino a quel momento invalso.

 

La sua concezione e i rituali che ne derivarono furono elaborati e sperimentati in seno alle logge massoniche rifiorenti dell'Impero sotto la guida dell'Arcicancelliere Cambacérés, in specie di Rito scozzese antico e accettato (Rsaa), di rito simbolico francese riformato e, successivamente, di Memphis-Misraim (allestito dai fratelli Bedarride nel 1813), con il benestare dell'imperatore celebrato come “Napoléon de tous les Rites”. Le premesse del riordinamento politico-culturale dell'Italia con riferimento al valore di Roma quale suo fulcro vennero poste con la costituzione a Parigi (16 marzo 1805) del Supremo Consiglio di Rito scozzese “en Italie” e l'insediamento, da parte sua, del Grande Oriente d'Italia a Milano (20-22 giugno 1805).

Anche prima della cesura segnata dai ricordati eventi del 1809-1811 le logge tracciarono una cosmologia che prescindeva totalmente dalla Rivelazione e dall'Antico Testamento. Il conferimento del titolo di Re di Roma al futuro Napoleone II sancì l'inclusione della Città Eterna in un orizzonte che, per semplicità, può essere configurato come neo-pagano con suggestioni dell'Antico Egitto.

Lo documenta il verbale dei “Lavori Massonici” dedicati alla nascita del Re di Roma svolti in Milano il 15 giugno 1811 con la partecipazione dei supremi dignitari del Regno d'Italia, quasi in tutto e per tutto coincidenti con i componenti delle sei logge rappresentate. Sotto l'insegna “Uomo, Natura, Dio” nella sala ornata con la raffigurazione delle nozze della Terra col Cielo, delle Orgie di Bacco, dei misteri di Cibele e altre bizzarie, fu celebrata la nascita di Oro (Napoleone II, il loweton), di Osiride, ovvero di Napoleone il Grande “nostro Fratello e protettore dell'Ordine massonico nell'Impero di Francia e nel Regno d'Italia”, e della consorte, Maria Luisa d'Asburgo (Iside). La “cantata” di Giacomo Luini (Varese, 1771-1845), direttore generale della polizia del Regno d'Italia, recitò: “Sorga altero il Campidoglio/ su l'ignobil Vaticano:/ Grande ancora, ancor romano/ torni il Tebro al suo splendor. //Dell'Error su l'empio soglio/ splenda omai del Ver la face;/E s'adori il Dio di pace,/ ove incensi ebbe il Terror”. Le opere di Lefranc, Agostino Barruel e altri avevano affermato che la massoneria era manovrata da arrières loges volte a consumare la vendetta dei templari e, più antica e determinata, di gnostici e manichei. Le logge franco-centriche (Grande Oriente d'Italia a Milano, quello di Napoli e le decine direttamente dipendenti dal Grande Oriente di Francia da Torino e Genova a Firenze a Roma) documentano il proposito di affermare l'Ordine come culto alternativo alla chiesa cattolica.

Considerata spuria e deviante rispetto all'originaria (dalla genesi oscura e disputata), quella massoneria fu comunque strumento di potere politico e veicolo di una cultura radicalmente alternativa al cattolicesimo.

Roma come la Fenice: Post fata resurgo...

Il crollo di Napoleone (1814-1815) e la Restaurazione determinarono in Italia (e non solo) il completo naufragio delle logge (giunte a contare non meno di 20.000 affiliati, in larga misura coincidenti con la casse dirigente). A Roma tornò sovrano Pio VII e nessuno lo rimise in discussione. Nel cosiddetto Proclama di Rimini (1815) Gioacchino Murat si appellò a tutti gli italiani tranne che ai romani (anche perché Re di Roma nominalmente rimaneva il figlio di Napoleone I, lo sfortunato “Aiglon”, da taluni supposto padre di Francesco Giuseppe e Massimiliano d'Asburgo). Fra il 1815 e il 1849 la Città Eterna venne proposta quale capitale d'Italia in Costituzioni abbozzate senza successo alcuno da società segrete. Non se ne trova traccia nel milanese “Il Conciliatore”, promosso e finanziato dal massone Federico Confalonieri, né nei propositi affacciati nei moti costituzionali del 1820-1821 e del 1831.

Regnante papa Gregorio XVI, la centralità di Roma in e per l'Italia fu promossa dai neoguelfi in subordine a quella del pontefice quale fulcro religioso ed etico della confederazione o lega degli Stati la cui identità fu tracciata nei Congressi degli scienziati italiani frequentati anche da ecclesiastici. Conscio che il giobertiano primato morale e civile degli italiani era sentito come tutt'uno con quello del pontefice, anche Giuseppe Mazzini si appellò al neoeletto Pio IX.

La storia dell'identità di Roma con l'Italia e dell'idea di Italia nel mondo merita dunque l'attenzione che non le è stata riservata dalle Istituzioni in questo penoso 150°.

 

L'annessione di Roma all'Italia coronò il sogno secolare di quanti vi avevano “lavorato” nel tempo, soprattutto da quando, sulla fine del Settecento il gesuita Saverio Bettinelli (che non mancò di incontrare Voltaire a Ginevra) coniò il termine di Risorgimento.

Oggi alcuni polemicamente declassano Roma a mito appassito e giudicano la Città Eterna priva di autentica forza morale e di rappresentatività. Vale la regola di Goethe: nessun grand'uomo è tale per il suo “servitore”, non perché non lo sia ma perché questi non è in grado di capirlo. La missione della Cttà Eerna prima e dopo Porta Pia fu e rimase Universale. Quali erano la statura e i progetti delle altre capitali europee dell'epoca? Che cos'era San Pietroburgo a soli dieci anni dalla abolizione della servitù della gleba? A Berlino si forgiavano idee e armi per la sottomissione militare dell'Europa. Parigi rispondeva preparando la riscossa. A Londra l'Imperatrice delle Indie badava alle colonie el rimato finanziario. Washington era appena uscita dalla Guerra di Secessione, ben altra cosa dalla repressione del brigantaggio nel Mezzogiorno. E che cosa rappresentavano in quegli anni Madrid, Lisbona, Bruxelles, l'Aja, Atene? L'Europa orientale era ancora “in fieri”. Lì la Romania andava fiera della sua lingua neolatina e dei suoi legami storici e civili con Roma e persino duplicò in calco la Colonna Traiana.

Anche allora, insomma, Roma era “caput mundi”. Peccato che l’attuale governo e i partiti che lo intasano l’abbiano dimenticato, trascurando e oscurando il 150° di Porta Pia.

 

Aldo A. Mola

Giornale del Piemonte e della Liguria di domenica 20 settembre

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