NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 26 ottobre 2016

La Regina di Danimarca: "Vivere qui non rende danesi"

Margherita II di Danimarca contro i profeti dell'integrazione facile: "Non è per nulla un processo scontato.

La Regina di Danimarca ha le idee molto chiare in materia di immigrazione e di integrazione.E dice chiaro e tondo che "vivere in Danimarca non rende per questo danesi".

Nel libro "De Dybeste Rødder" ("Le radici più profonde, ndr) scritto con il giornalista Thomas Larsen, la sovrana del Paese scandinavo sottolinea i fallimenti di un processo di integrazione troppo spesso spacciato come facilissimo.

"Credevamo che questo genere di cose - ha spiegato Margherita II - si aggiustassero da sole. Che bastasse passeggiare per le strade di Copenhagen e bere l'acqua pubblica per diventare un danese. Per noi erano cose ovvie e abbiamo pensato che dovessero esserle anche per chi si è stabilito a vivere qui. Ma non lo era."

"Se non riesci ad esprimere i tuoi valori - prosegue la Regina - è difficile dire agli altri in che cosa consistano. È un argomento su cui lavorare".

Non è la prima volta che la sovrana esprime posizioni del genere. Parlando con la testata tedesca Der Spiegel, Margherita II aveva già spiegato di essere "La Regina di tutti quelli che hanno la cittadinanza della nazione danese", ma al tempo stesso di non ritenere che la Danimarca sia un Paese multiculturale.

Lungimiranza di una Regina che ha capito che la strada dell'integrazione non è né facile, né piana, né breve.




http://www.ilgiornale.it/news/mondo/regina-danimarca-vivere-qui-non-rende-danesi-1323468.html

martedì 25 ottobre 2016

Dai giardini del Quirinale a Lungotevere Arnaldo da Brescia

Giovanni Semerano il 15 Settembre 1984 al Pantheon
dopo l'elezione a segretario generale dell'UMI
di Giovanni Semerano, seconda parte

Tutte le domeniche di maggio del 1946 Umberto II, da poco Re d’Italia, riceveva nei giardini del Quirinale una moltitudine di famiglie, reduci di guerra, mutilati, orfani, persone di ogni idea e convinzione, e io mi trovavo nel servizio d’ordine di cui facevano parte giovani scelti dal Fronte Monarchico Giovanile di cui era Segretario Generale Mario Lucio Savarese.
In una di quelle domeniche la Contessa Vittorina Paoletti, dirigente nazionale dell’Unione Monarchica Italiana (fondata nel 1944), che collaborava nella segreteria del Ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, e sovrintendeva all’evento, mi disse che il Ministro voleva conoscermi.

Ci recammo nell’ufficio del Ministro che ci venne incontro col suo accogliente sorriso, baciò la mano della Contessa, strinse la mia e ci sedemmo davanti alla scrivania dove, sul lato destro, era posta una macchina da scrivere Olivetti (in seguito mi resi conto che il Ministro era solito scrivere personalmente lettere, articoli e dichiarazioni, e lo constatai, nei decenni successivi, quando quella stessa macchina da scrivere era al medesimo posto negli uffici di via Crescenzio e poi di Lungotevere Arnaldo da Brescia.
Il Ministro si ostinava a battere instancabilmente i tasti della sua macchina ma, qualche volta, mi diceva: “Semerano, continua tu.”).

L’incontro durò a lungo: il Ministro volle sapere tutto di me. Si congratulò per la mia posizione di studente in giurisprudenza ma la sua sorpresa più grande fu quando scoprì che mio nonno Giovanni Semerano, Prefetto di Bari, era stato, nel 1944, il suo successore in quella Regia Prefettura. Allora la conversazione divenne quasi familiare e il Ministro si lasciò andare ai ricordi di quando conobbe mio nonno.

Da quel colloquio dovevano passare diversi mesi prima di rivedere il Ministro. L’esito, infausto per l’Italia, del Referendum istituzionale - alterato dai brogli, nelle schede e nei verbali, e stravolto dal “gesto rivoluzionario” compiuto dal Governo l’11 giugno notte “…in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della Magistratura…” (dal messaggio del Re Umberto II agli italiani all’atto della partenza, il 13 giugno) – indusse il Re a lasciare l’Italia e cambiò il destino della nostra Patria. Devo ricordare che nessuno aveva mai parlato di esilio e nessuno poteva immaginare che esso sarebbe stato inserito nella Costituzione come pena perpetua approvata, nel dicembre 1947, con il voto favorevole del solo 38% dei membri dell’Assemblea Costituente! Una infamia indelebile nella storia d’Italia.

Ed ecco che un giorno mi telefonò la Contessa Paoletti per dirmi che il Ministro, ricordandomi al Quirinale, voleva vedermi. Mi recai un pomeriggio nella casa di Via Crescenzio n.25 dove abitava e aveva trasferito la sua segreteria di Ministro del Re. Gli chiesi se potevo essergli utile e mi disse subito se volevo riordinare il suo ufficio stampa. Sapeva che collaboravo al quotidiano romano “Il Tempo”, fondato e diretto da Renato Angiolillo (poi, per tanti anni, dal caro amico Gianni Letta), e della mia passione per tutto ciò che riguardasse la stampa.

Cominciò quel giorno la mia collaborazione con Falcone Lucifero che doveva durare per tutti gli anni dell’esilio di Umberto II, e anche dopo la morte del Re, quando egli volle che diventassi il Segretario Generale dell’Unione Monarchica Italiana.
A Via Crescenzio l’ufficio si presentava così: dall’ingresso si accedeva, attraverso un corridoio, a due stanze; la prima a destra era la segreteria; in fondo, da un salottino, si entrava nello studio del Ministro. Nella segreteria c’erano quattro scrivanie, la prima a sinistra era quella del Colonnello Mario Stampacchia, la seconda a destra quella della Contessa Paoletti, a fianco quella della signora Cristiana De Angelis e, infine, quella destinata a me. Il giovane Mario era l’usciere, fattorino e autista, anche se il Ministro la sua Millecento grigia, poi la 124 blu, la guidava lui stesso.

Il problema principale, rimasto insoluto negli anni, che si manifestò dopo la partenza del Re, era inerente alla unificazione dei vari movimenti monarchici in un solo organismo politico. Il Ministro fu sempre contrario all’idea del “partito” del Re e riteneva invece necessaria una formazione politica che raccogliesse tutti i monarchici, indipendentemente dalla loro appartenenza a partiti diversi. Si scelse dunque di potenziare, riorganizzandola, l’Unione Monarchica Italiana che già rispondeva a questa valida idea.

Ma l’UMI si presentava divisa: c’era quella di Via Sistina e c’era quella di Via dell’Umiltà. Il Ministro ritenne di dover sostenere quella più rappresentativa e diffusa sul territorio nazionale, che includeva tutti i movimenti monarchici che vi aderirono prima della campagna elettorale del Referendum istituzionale. Senza indugiare Lucifero incaricò Benedetto Siciliani, che era stato con lui, al Quirinale, addetto all’ufficio stampa e relazioni, di occuparsi della situazione organizzativa e rappresentativa dell’UMI. Il primo atto fu quello di trasferire l’UMI nella nuova sede in Via della Mercede e di indire il II Congresso Nazionale. A Via Sistina si trasferì la parte dell’UMI guidata dall’On. Luigi Filippo Benedettini. Cosi iniziò la vita del più importante movimento monarchico post- Referendum mentre, parallelamente, si preparava la formazione del Partito Nazionale Monarchico – Stella e Corona - dell’On. Alfredo Covelli e del Comandante Achille Lauro che lo definirono il Partito “per il Re”.
Cominciai dunque a riordinare il materiale relativo alla rassegna stampa del periodo dello sciagurato Referendum. Una mole imponente di articoli da sistemare in raccoglitori (che avevo acquistato a mie spese) e divisi in ordine alfabetico, ai quali si aggiungevano quelli della rassegna stampa quotidiana che, ogni settimana, veniva mandata al Re in Portogallo.

Iniziò allora la consuetudine dei messaggi dall’esilio del Re agli italiani, la cui bozza di testo veniva preparata dal Ministro e inviata a Cascais per la valutazione e l’approvazione del Re che la siglava in calce con la Sua U.. A volte era sufficiente una telefonata del Re al Ministro per dire che andava bene e ricordo, come fosse adesso, l’emozione di quando mi capitò di assistere a quelle conversazioni! I messaggi - tutti da rileggere e da meditare per la loro lucidità e chiaroveggenza – Falcone Lucifero li ha raccolti in due suoi libri “Il pensiero e l’azione del Re dall’Esilio” (Rizzoli, 1966) e “Il Re dall’Esilio” (S. Mursia, 1978).
Il primo di quei messaggi fu indirizzato ai giovani dell’Unione Monarchica Italiana tra i quali eravamo io e tanti cari amici i cui nomi porto tutti nel cuore.

Come ho detto, mentre procedeva la riorganizzazione dell’U.M.I., Alfredo Covelli fondò il Partito Nazionale Monarchico (PNM) e il Ministro manifestò subito la sua contrarietà all’iniziativa. Negli anni a venire i loro rapporti furono tesi, per riconciliarsi soltanto dopo la morte del Re, nel 1984, durante il X Congresso Nazionale dell’UMI al quale l’On. Covelli partecipò nella sua qualità di Presidente della Consulta dei Senatori del Regno. Il Ministro, infatti, fu sempre sostenitore dell’idea che non doveva esserci un “partito” monarchico, mentre bisognava dare forza ad un’associazione, l’UMI, per rappresentare i monarchici dei vari partiti. Ricordo che le situazioni più acute tra il Ministro Lucifero e l’On. Covelli si ebbero in occasione delle elezioni regionali sarde, nel 1949, e della nascita del centro-sinistra, nel 1963.

Devo anche dire che, morto il Re, il Ministro Lucifero, nei nostri quotidiani colloqui, più volte ripensò criticamente a quei contrasti e si rammaricò di non aver sostenuto il PNM dopo il successo ottenuto alle elezioni del 1953 che portarono in Parlamento 40 Deputati e 16 Senatori di Stella e Corona. In riferimento a quella vittoria, non va dimenticato che la brillante affermazione monarchica indusse il Presidente del Consiglio De Gasperi, il 28 luglio 1953, in Aula alla Camera dei Deputati, nel suo ultimo discorso da Capo del Governo, a chiedere esplicitamente l’appoggio del PNM al suo 8° Governo.

Appoggio che gli fu negato e che portò alla formazione del Governo presieduto da Giuseppe Pella, sostenuto dai monarchici. La richiesta di De Gasperi aveva, in effetti, una grande importanza politica e rappresentava una forte novità perché essa fu l’unica da lui fatta, in sei anni, al di fuori della formula del quadripartito centrista che il leader DC presiedeva dal 1947. E, se fosse stata accolta, forse avrebbe cambiato il corso degli eventi politici italiani.
Ritorno all’U.M.I. che, in via della Mercede, si riorganizzò alacremente. La Segreteria Siciliani rappresentò uno dei momenti politicamente più intensi dell’Unione Monarchica Italiana che era presente in Parlamento con numerosi eletti nelle diverse liste dei partiti democratici e alla quale aveva aderito il Fronte Monarchico Giovanile (FMG). Ma, nello stesso tempo, i rapporti tra il Ministro e il Segretario si incrinarono per via del fatto che Siciliani aveva stabilito un contatto diretto con il Re e si arrivò così alle sue dimissioni seguite da quelle del Presidente, il diplomatico Giuliano Capranica del Grillo.

Si chiuse così la sede di Via della Mercede trasferendola in quella nuova di Via Piemonte, dove si terrà il IV Congresso Nazionale per eleggere i rinnovati organi direttivi con, alla Presidenza, l’On. Raffaele Paolucci di Valmaggiore, Medaglia d’Oro della I Guerra Mondiale e celebre chirurgo. Poi, nella definitiva sede di Palazzo Tittoni, al V Congresso sarà eletto – succedendo al Sen. Raffaele Guariglia, Ambasciatore e già Ministro degli Esteri durante la Guerra di Liberazione - l’Ammiraglio Adalberto Mariano, valoroso esploratore del Polo Nord sopravvissuto alla tragedia del dirigibile “Italia”.


Intanto anche il Fronte Monarchico Giovanile si irrobustiva e a Mario Lucio Savarese era subentrato Nicola Torcia che portò il FMG ad entrare nell’UMI e a divenirne il suo movimento giovanile. Quando Torcia lasciò il FMG per aderire al PNM toccò a me assumere la carica di Segretario Generale, eletto al Congresso che si tenne in via della Mercede, assieme a Carmelo Lo Voi e a Marino Bon Valsassina miei Vice Segretari. Questo incarico mi costrinse ad allentare la mia collaborazione diretta nella segreteria del Ministro Lucifero al quale presentai il giovane e validissimo amico Ernesto Frattini per sostituirmi nel lavoro dedicato all’ufficio stampa. 

Il presidente dell Umi Sacchi a La 7 per il NO al referendum costituzionale dl 4 dicembre




Il programma è lungo: andare direttamente a 1.34.00 per vedere l'intervento del presidente Sacchi

Circolo Rex: inaugurazione del 69° ciclo di conferenze

CIRCOLO DI EDUCAZIONE E
CULTURA POLITICA 
REX

***
Inaugurazione del 69°
ciclo di conferenze
***
Domenica 30 ottobre ore 10,30
Sala uno – via Marsala 42 Roma

Il Sen. Prof. Domenico Fisichella

tratterà il tema

“Il Modello USA per l’Unità d’Europa ?”

***

La S.V. è invitata

sabato 22 ottobre 2016

Con Umberto, tutta una giornata





























Il titolo di questa bella intervista pubblicata su "Epoca" nel 1951. 
Ancora una volta traspare la grandezza di questo Re che è stato negato all'Italia. 
E il risultato è sotto gli occhi di tutti.

http://www.reumberto.it/

I monarchici a difesa della Repubblica: "Votiamo no alla riforma Boschi"

c.solimene@iltempo.it



«Al referendum Costituzionale voterò no. Dà troppo potere a un lato solo della politica». 
Giusto un mese fa era stato Amedeo di Aosta a spiazzare tutti. L’erede dell’ultima dinastia regnante in Italia che si schierava in difesa di quella stessa Costituzione che, all’articolo 139, rende di fatto impossibile il ritorno della monarchia. 
Alle dichiarazioni del Savoia che, stando alla Consulta del Regno incaricata da re Umberto II di dirimere le questioni dinastiche, sarebbe il re d’Italia se oggi ci fosse ancora la monarchia, seguirono diverse polemiche. 
Come se a un Savoia non fosse permesso esprimersi su una questione che ha visto schierarsi persino Barack Obama.
Fatto sta che, da quella pronuncia, dall’universo dei nostalgici del re non erano arrivati altri segnali. Fino ad oggi. 
Alessandro Sacchi, presidente dell’UMI (Unione Monarchica Italiana) annuncia infatti a Il Tempo la mobilitazione della sua associazione contro la riforma Boschi. Per difendere la Carta repubblicana, insomma, si smuovo anche i fan della Corona.

venerdì 21 ottobre 2016

La Sinistra Sociale Monarchica - X parte

Un Governo per la Nazione ed il nostro compito per prepararlo

A conclusione di questo esame di coscienza, di questa sintesi della situazione italiana, che dipende da una analisi approfondita della crisi della Nazione, la conclusione è una: perché si possa avere quel Governo che alla Nazione occorre è necessario che vi concorrano due circostanze. La prima è che la Democrazia Cristiana abbia il coraggio di rompere tutti quei legami che, così attraverso certi suoi uomini e circoli come attraverso i « partitini », la tengano, avvinta al giogo capitalistico, specie internazionale, e quindi abbia il coraggio di presentarsi al Parlamento con un Governo monocolore-tecnico che non abbia pregiudiziali politiche (questa era la felice formula del Gabinetto Pella), che per il programma, e soprattutto per la volontà ed il mordente nell'attuarlo, sia un Governo di vera e propria riconversione economico-sociale della politica della Comunità nazionale italiana dal piano capitalistico al piano popolare. La seconda circostanza è che tale Governo, così per avere una sufficiente base parlamentare, come per non perdere la propria qualificazione di equilibrio politico, possa chiedere e possa ottenere l'appoggio esterno - o positivo con il voto, o negativo con l'astensione, ma eguale dalle due parti - così dei socialisti come dei monarchici. Questo è il punto, e, sebbene la realizzazione di questa formula possa sembrare ancora lontana a chi guardi dal punto di vista della cristallizzata realtà odierna, ciascuno che vi sia impegnato ha il dovere di prepararvi se stesso, perché il momento di rottura della odierna cristallizzazione può presentarsi improvvisamente, e guai se per la seconda volta - come avvenne subito dopo le elezioni della primavera 1953 - tutti o qualcuno dei nuovi protagonisti fossero non preparati e pronti a realizzare la nuova formula.

Anche per questo bisogna superare - questo va detto a tutti i partiti, ma a noi compete dirlo oggi al nostro Partito e realizzarlo nella sua azione politica - le barriere ideologiche e le pregiudiziali che attengono alla filosofia, e quindi trascendono la Politica, o che dipendano da interessi materiali particolaristici, e quindi sono estranei al giudizio politico, e per loro natura devono essergli subordinati e non subordinarlo a se stessi. Bisogna tornare a quel costume democratico e civile che era comune alle generazioni che precedettero il fenomeno fascista, che attiene al realismo politico ed è intrinseco nella missione nazionale e nella tradizione italiana della Monarchia, costume per il quale gli avversari politici, tutti gli avversari politici, sono giustappunto avversarii e non nemici. Cioè: uomini e partiti dai quali si dissente per alcuni presupposti morali ed ideologici e per alcune visioni teleologiche, ma con i quali - tutti - si deve e si può collaborare allorché gli interessi della 'Nazione, o dei suoi singoli organi ed istituti, lo richiedono, e l'accordo può raggiungersi circa la soluzione da dare ai problemi concreti, pratici e contingenti tutti per loro natura, che appartengono nel momento all'arte della gestione politica.

Giacché si parla di democrazia e ci si proclama - a giusto titolo democratici, non bisogna dimenticare che è stata una caratteristica del fenomeno fascista non solo, ma una sua caratteristica direttamente dipendente dalla sua natura dittatoriale (cioè dalla identificazione del Partito con lo Stato con lo Stato e dello Stato con la Nazione), quella di iniziare l’aberrazione di distinguere i partecipanti alla Comunità nazionale in «antinazionali» ed in «nazionali» a seconda che fossero o non fossero suoi avversari politici. Ma questo ò stato uno dei punti fondamentali nei quali il periodo fascista si mantenne estraneo alla Tradizione monarchica nazionale, che noi dobbiamo oggi riprendere, reinterpretare e continuare. Si può esser sicuri che, immediatamente prima ed immediatamente dopo di quel periodo, la Maestà di Vittorio Emanuele Ill e di Umberto II, allorché ricevettero al Quirinale l’Uno l’on. Turati e l'Altro l'on. Nenni non stimarono di far cosa né scandalosa né essenzialmente diversa di quello che facevano ricevendovi l'Uno l’on. Giolitti e l'on. Salandra e l'on. Mussolini, e l'Altro l'on. Ruini, l'on. De Gasperi e l'on. Selvaggi.

E' a questo costume che noi dobbiamo, per primi e senza complessi né di inferiorità né di scandalo, ritornare, se vogliamo essere e nazionali e monarchici e democratici, se non vogliamo gravemente amputare e sterilizzare la nostra azione politica, se vogliamo tener pronto il PNM ai compiti cui l'interesse supremo della Nazione può, forse più presto che non si creda, chiamarlo.

Avversari con tutti, e nei punti programmatici che ci distinguono da ciascuno; nemici con nessuno. Esser sempre e rigorosamente noi stessi, approfondire e qualificare da noi la nostra azione, pronti a collaborare con chiunque quando sia necessario o conveniente, decisi a non confonderci con nessuno: è questa la formula, spregiudicata ma leale, che noi chiediamo al Congresso Nazionale di dare all'azione crescente e maturante del Partito Nazionale Monarchico.

giovedì 20 ottobre 2016

La Terza guerra d'indipendenza accelerò il declino dell'Europa

Nell'ottobre 1866 l'Austria dovette cedere parte dei domini nella Penisola.
Lo scontro destabilizzò tutto il continente

Francesco Perfetti
Giovedì 20 ottobre 2016
Quando, il 20 giugno 1866, il Re Vittorio Emanuele II annunciò che l'Italia con «il florido esercito e la formidabile marina» e con «la simpatia dell'Europa» sarebbe entrata in guerra contro l'Austria, il Paese fu percorso da una ondata di entusiasmo quale, forse, non si era mai registrato prima.
Scrisse Edmondo De Amicis: «Gran giorni sono questi per l'Italia! Gran guerra! È una crociata! Dovrebbero andarci tutti alla guerra, tutti, da esserci a milioni a milioni, che i nemici avessero paura, e smettessero persino l'idea di resistere e aprissero le porte delle fortezze». L'esito del conflitto, passato alla storia come Terza guerra d'indipendenza, fu tale da trasformarlo nel meno amato degli scontri militari del Risorgimento. Le due sconfitte, quella di terra, a Custoza, e quella in mare, a Lissa fecero passare in secondo piano il fatto che il Regno d'Italia, a operazioni concluse, avesse ottenuto il Veneto e avesse compiuto, così, un passo decisivo verso la conclusione del processo unitario.
In realtà la terza guerra d'indipendenza fu uno dei capitoli più importanti della storia non solo italiana, ma anche europea, come ben dimostra uno storico militare francese dell'Università di Montpellier, Hubert Heyriès, in un bel volume dal titolo Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta (Il Mulino, pagg. 352, Euro 25) che ne ricostruisce con finezza di analisi le premesse, le fasi e le conseguenze di lungo periodo in una ottica che non è soltanto quella della storia nazionale italiana. Del resto, già molti decenni or sono, un grande storico, Franco Valsecchi, cresciuto alla scuola di Gioacchino Volpe e di Benedetto Croce, esortava, con una apparente battuta, i suoi colleghi ad abbandonare la tradizione storiografica italocentrica e a studiare «Torino vista dall' Europa e non l'Europa vista da Torino».
Alla vigilia dello scontro militare che coinvolgerà la Prussia, il Regno d'Italia e l'Impero asburgico c'erano sul tappeto almeno tre «questioni». Sullo sfondo c'era, sì, la «questione italiana», che riguardava Roma ma anche, e soprattutto, Venezia: e, in quel momento, il «mito di Venezia», alimentato dagli esuli veneti in Piemonte e Lombardia che parlavano nostalgicamente dell'antica e gloriosa Repubblica di Venezia come del «bastione avanzato dell'Occidente», era particolarmente forte. Ma c'era anche una «questione tedesca» perché la Germania come Stato nazionale ancora non esisteva e la rivalità fra la Prussia di Bismarck e l'Austria di Francesco Giuseppe per il controllo dei Land tedeschi e dei ducati dell' Elba era ormai al limite di rottura. E, come se non bastasse, ancor più sullo sfondo, c'erano le pulsioni delle minoranze nell'Impero austriaco, multietnico, multiconfessionale e multiculturale. Quella che, per gli italiani, sarebbe stata la Terza guerra d'indipendenza fu, dunque, in realtà, una grande guerra europea che, all'inizio, prima che la parola passasse alle armi, si cercò di combattere nelle felpate stanze della diplomazia. Fu una guerra che si iscrive, a pieno titolo, nel fenomeno della cosiddetta «rivoluzione delle nazionalità» iniziata con la «primavera dei popoli» del 1848.
Anche le conseguenze furono notevoli, di portata europea, se non addirittura mondiale dal momento che la storia era, all'epoca, tutta eurocentrica. Quel conflitto, infatti, a parte la cessione del Veneto al Regno d'Italia, gettò le basi delle pretese egemoniche tedesche sancendo il potere della Prussia e suscitando preoccupazioni e inquietudini da parte francese: sotto un certo profilo nacque lì quell' antagonismo franco-tedesco esploso, poi, nel 1870 con la guerra franco-prussiana e destinato ad attraversare, come un sottile filo rosso, tutta la storia successiva almeno fino al 1945.
La guerra del 1866, però, segnò anche l'inizio del declino della potenza asburgica, costretta ad accettare, nel 1867, il «compromesso» che trasformò il vecchio Impero austriaco nella Monarchia austro-ungarica. Non solo: con l'abbandono dei territori italo-tedeschi, Vienna fu costretta a spostare la propria sfera di influenza verso i Balcani entrando in conflitto con la Russia da sempre protettrice degli Slavi. Insomma, a rifletterci bene, quella guerra austro-prussiana, per l'Italia terza guerra d'indipendenza, fece germinare alcuni dei conflitti-latenti che sarebbero stati all' origine della prima guerra mondiale.
Il Regno d'Italia era stato proclamato da pochi anni, il lunedì 17 marzo 1861, e quella del 1866 fu la prima prova militare che esso si trovò a dover affrontare. Il suo esercito era forte, numeroso e organizzato, ma scontava una serie di debolezze strutturali dovute, per un verso, alle modalità con le quali erano state incorporate le truppe dei vecchi Stati preunitari e, per altro verso, alla carenza di una unità di comando per tacere delle rivalità personali fra i generali. Fatto sta che l'esercito italiano non fece, pur essendo in una situazione di forte superiorità numerica, bella prova di sé.
A Custoza, per il mancato coordinamento fra le armate guidate da Alfonso La Marmora e da Enrico Cialdini, fu una vera tragedia. Alcune testimonianze raccontano che La Marmora, mentre le cose si mettevano male, fu visto aggirarsi disperato mormorando: «Che disastro! Che catastrofe! Nemmeno nel 1849!». A Lissa le cose non andarono meglio. La nostra marina, pur essa in situazione di superiorità rispetto a quella austriaca, subì una sconfitta umiliante con due corazzate affondate e centinaia di morti. Il ricordo di Lissa rimase inciso nella memoria degli italiani tant'è che, molti decenni dopo, Gabriele D'Annunzio nella Canzone della gesta d' Oltremare lo avrebbe evocato con alcuni versi divenuti popolari: «Emerge dalle sacre acque di Lissa/ un capo e dalla bocca esangue scaglia:/ Ricordati! Ricordati|! e s'abissa». L'unica significativa vittoria militare la riportò Garibaldi a Bezzecca con il suo Corpo Volontari Italiani.
Le sorti della guerra furono decise dal successo dei prussiani sugli austriaci a Sadowa, ma l'Italia ottenne comunque il Veneto sia pure con una procedura umiliante: l'Austria, infatti, non intendendo cedere territori a uno Stato da essa sconfitto in battaglia, lo cedette al neutrale Napoleone III il quale lo trasferì al Regno d'Italia.
Malgrado la pessima prova delle armi, le aspirazioni italiane furono così assecondate grazie, in primo luogo, al gioco politico internazionale. Sotto questo profilo, la Terza guerra d'indipendenza fu, in un certo senso, una guerra vinta. Ma non solo. Lo fu anche, e soprattutto, perché, come sostiene Heyriès, quella guerra contribuì a sviluppare il senso della «comunità nazionale» che si manifestò attraverso la riorganizzazione delle forze armate e lo sviluppo di un culto degli eroi e di una letteratura popolare destinata a favorire, pedagogicamente, la «solidarietà nazionale» o, se si preferisce, la «nazionalizzazione delle masse» del giovanissimo Stato.

Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta
Hubert Heyriès
Il Mulino, pagg. 352, Euro 25

sabato 15 ottobre 2016

Allestita la mostra "Piemonte, bonnes nouvelles" per i seicento anni del Ducato di Savoia

Nel sesto centenario del Ducato di Savoia il Consiglio regionale del Piemonte, in collaborazione con la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino e il Centro Studi Piemontesi, promuove - da giovedì 20 ottobre a sabato 31 dicembre la mostra "Piemonte, bonnes nouvelles" - Testimonianze di storia sabauda nei fondi della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino nel 600° anniversario del Ducato di Savoia.

Allestita presso la Biblioteca Nazionale Universitaria, in piazza Carlo Alberto 3, vede per la prima volta esposte oltre cento opere manoscritte e rare a stampa del patrimonio della Biblioteca, di norma non accessibili alla visione, ordinate secondo undici percorsi tematici che spaziano dalle origini della dinastia al culto dei santi e delle reliquie, dalla tradizione militare alle feste di corte.

Giovedì 20 alle 14.30 - inoltre - nell’Aula consiliare di Palazzo Lascaris, in via Alfieri 15, si svolge il convegno Savoie, bonnes nouvelles - Studi storici nel 600° anniversario del Ducato di Savoia, che si protrae venerdì 21 e sabato 22 all’Auditorium Vivaldi della Biblioteca.
Con il presidente del Consiglio regionale, il direttore della Biblioteca e il presidente del Centro Studi intervengono numerosi storici.

La mostra, che viene inaugurata giovedì 20 ottobre alle 18 è visitabile dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 18, il sabato dalle 10 alle 13 e la prima domenica di ogni mese dalle 15 alle 19.

Si segnala, infine, che nell’Archivio di Stato di piazza Castello sarà per la prima volta esposto al pubblico - da mercoledì 19 ottobre al 31 dicembre - il diploma imperiale originale con cui Sigismondo di Lussemburgo, re dei Romani, concesse al conte Amedeo VIII di Savoia e ai suoi successori il titolo di Duca: l’atto di nascita del Ducato di Savoia.

http://www.torinoggi.it/2016/10/14/leggi-notizia/argomenti/eventi-11/articolo/allestita-la-mostra-piemonte-bonnes-nouvelles-per-i-seicento-anni-del-ducato-di-savoia.html

L’ALBANIA CI INSEGNA QUALCOSA


Se le antichità ellenistiche e romane, da  Butrinto  a  Bylis  ed  Apollonia, i  ricordi  veneziani, le  basiliche  bizantine, ed  anche  alcune  moschee   sono  motivo  di  attrazione  per  un  turismo  culturalmente  qualificato, la  visita  a  Tirana, del  grande   articolato  Museo   Storico  Nazionale, situato  nella  grande  piazza  dedicata  all’eroe  nazionale  della  resistenza  all’invasione  ottomana, Giorgio Castriota, “Skanderberg”,  museo   che  documenta  la  storia  degli  albanesi  da  periodi  risalenti  a  diverse  migliaia  di  anni  avanti  Cristo, fino  ai  nostri  giorni  merita  una  attenta  visita.

Ed  in  questa  visita  nella  parte  finale  dalla  proclamazione  dell’indipendenza, nel  1912  ad  oggi, una  ampia  sala  è  dedicata  alla  figura  di  Ahmet  Zogu, prima  capo  del  governo, poi  presidente  dal  1925  e  poi  Re  dal  1928  al  1939, partendo  dall’albero  genealogico  della  famiglia  Zogu  fino  ad  Ahmet  ed  anche  di  quello  iniziato  da  Zogu, come sovrano, con  tutti  i  suoi  discendenti, il  che  è  particolarmente  importante  e  significativo. 

Il  tutto  corredato  da  ampio  materiale  fotografico  e  da  didascalie  esplicative  che  spieghino  ai  giovani  che  numerosissimi  visitano  il Museo, la  figura  di  questo  capo  dello  stato.

E  di  questa  rivalutazione  della  figura  del  Re  è  ulteriore  testimonianza  l’intitolazione di  un  importante  arteria  della  capitale, il  “Boulevard  Zogu  I” nonché  l’edificazione  di  una  statua   del  Re, al  termine  della  strada, inaugurata  recentemente…

Piccola  grande  giovane  Albania  che  cura  ed  onora  la  propria  storia, lezione  di  civiltà  per  nazioni  vecchie  e  stanche  che  invece  dimenticano  o  peggio  rinnegano  la  propria.

Domenico  Giglio

martedì 11 ottobre 2016

Tre momenti cruciali per l’Italia: «La storia passa da Torino»

L’intervento di Alessandro Barbero sull’assedio del 1706 e la personalità del principe Eugenio di Savoia, trionfatore di quella vicenda militare, è una sintesi della prima delle tre conferenze che lo storico piemontese terrà a Torino nell’ambito delle attività culturali organizzate da Intesa Sanpaolo presso l’Auditorium del suo Grattacielo.

Gli incontri, curati da Giulia Cogoli, toccheranno tre momenti cruciali nel passato della città: il ciclo s’intitola «La storia passa da Torino».

13 ottobre

«Eugenio, il Savoia austriaco che sconfisse l’esercito 
del Re Sole» 


 20 ottobre

 «Cavour e l’Unità d’Italia» 


27 ottobre

 «Monsù Cerutti: Mussolini, il fascismo e il Piemonte»

Chi desidera assistere agli incontri può prenotarsi attraverso il sito www.eventi.grattacielointesasanpaolo.com

alle 18.30 presso l’Auditorium del Grattacielo di Intesa Sanpaolo.


Eugenio, il Savoia austriaco che sconfisse l’esercito del Re Sole

di Alessandro Barbero

L’intervento di Alessandro Barbero a un incontro sull’assedio di Torino del 1706, che si terrà il 13 ottobre. I tanti segreti, molto ben custoditi, del grande condottiero.

L’identità di un Paese si regge anche sulla narrazione del passato. In Italia, dal Risorgimento fino all’ultimo dopoguerra, ha avuto un’eco importante il mito della dinastia guerriera dei Savoia e della vocazione bellicosa del Piemonte, dal cui piccolo esercito traeva la sua genealogia l’esercito italiano.

Un mito non è necessariamente inventato di sana pianta. Alla fine del Seicento l’ambasciatore veneziano a Torino scriveva: «Il signor Duca di Savoia si può gloriare di essere l’unico principe d’Italia che tiene vivo nei suoi popoli l’antico valore della nazione». Gli italiani impoveriti si ricordavano ancora che nel Rinascimento erano loro a dominare i campi di battaglia, e consideravano con malinconia la smilitarizzazione dei loro piccoli Stati, con un’unica eccezione, appunto: il Piemonte sabaudo. Ma perché su questa base si sviluppasse un mito dal potente impatto propagandistico occorreva un evento fondante: e quell’evento ebbe luogo quando nell’estate del 1706 gli eserciti del Re Sole, invaso e devastato il Piemonte, misero l’assedio a Torino.

La trasformazione dell’assedio in epopea cominciò quando il soldato Pietro Micca si sacrificò per far saltare in aria una galleria sotterranea invasa dai francesi. E pazienza se la verità è forse che il sergente furiere, per risparmiare, gli aveva dato una miccia troppo corta, come suggerì Umberto Eco in una memorabile Intervista impossibile. Pietro Micca è diventato un eroe di quella storia d’Italia che una volta si insegnava ai bambini, insieme a Pier Capponi, Francesco Ferrucci, Balilla e Enrico Toti. La scoperta che il duca ricompensò la vedova dell’eroe assegnandole come vitalizio una razione di pane al giorno ha poi autorizzato i soliti pettegolezzi sull’avarizia dei Savoia; ma i tempi erano duri, e il Paese povero.

[...]

lunedì 10 ottobre 2016

CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA “REX” LXIX CICLO DI CONFERENZE 2016-2017


PRIMA PARTE


30 ottobre 2016
Sen. Prof. Dott. Domenico FISICHELLA

Il  modello  USA  per   l’unità  d’ Europa?


13 novembre 2016
Prof. Avv. Salvatore SFRECOLA

La  Costituzione  va  riformata SI/ NO?


20 novembre 2016
Conte Vincenzo CAPASSO TORRE delle PASTENE

1914 - 1918: Gli  anni  della  Grande  Guerra


27 novembre 2016
Prof. Pier Franco QUAGLIENI

Benedetto Croce:  figlio  del  Risorgimento



 N. B. Ingresso ore 10,15, inizio conferenza ore 10,30. 



Roma Via Marsala 42

Casa Salesiana San Giovanni Bosco, Sala Uno nel

 Cortile 2

sabato 8 ottobre 2016

La Sinistra Sociale Monarchica - IX parte


La crisi nazionale nella crisi politica

Un discorso politico non può concludersi se non con un discorso sul Governo: sul Governo che occorre per la Nazione.

Ma, prima di fare il discorso sul Governo che occorrerebbe per la Nazione, bisogna per lo meno accennare - sia pure con la discrezione che occorre nel guardare in casa altrui - ad un discorso sul partito di maggioranza relativa. Per tale sua posizione parlamentare la Democrazia Cristiana è oggi l'arbitra nello scegliere e nel proporre al Parlamento la formula, il programma del Governo: ciò non significa che essa possa, in questo campo, fare ciò che voglia, ma che essa è la maggiore responsabile di qualsiasi cosa vi si faccia. La responsabilità di una scelta sociale e politica per trarre fuori la Nazione dalla crisi che la attanaglia se incombe su tutti, incombe massimamente sulla Democrazia Cristiana. E' lei che deve scegliere: tra Cristianesimo, ché di questo si tratta, e Capitalismo; tra Nazione, ché di questo si tratta, ed internazionalismo, e sia pure internazionalismo a striscie e stelle anziché internazionalismo dalla stella in campo rosso; tra una Democrazia politica la quale non può sussistere se non è sostenuta e vivificata dalla democrazia sociale, e Stato di polizia, ché di questo oggi si tratta.

Insomma, e per non citare che i due oggi più in vista - e forse non tra i più lontani - tra i suoi molti leaders contrardittori, la Democrazia Cristiana dove scegliere, almeno e senza altri ritardi, tra Scelba e Fanfani. Tra l'on. Amintore Fanfani (il quale di recente è stato per circa cinque mesi Ministro dell'Interno ed in quel periodo ha superato tre scioperi generali nazionali dei lavoratori dell'Industria e tutto il periodo acuto dello «affare Pignone» senza che gli Italiani quasi si accorgessero dell'esistenza della Polizia) e l'on. Mario Scelba (il quale nello stesso pomeriggio in cui andava al Quirinale per presentare al Presidente della Repubblica la lista del proprio Gabinetto sentiva il bisogno di mandare a spasso in parata per il centro di Roma le camionette della «Celere») vi è identità di partito, ma vi è opposizione di Politica, rivelata dalla realtà delle cose: opposizione ideologica; opposizione morale; opposizione sociale; opposizione estetica, financo, come l'episodio delle camionette denuncia. Vi è identità di partito, ma opposizione di Politica, tra Fanfani, Gronchi, Pella da una parte, e Gonella, Scelba, Togni dall'altra; malgrado la differenze tattiche e le questioni personali che possono distinguere questi uomini in ciascuno dei due campi, nell’uno domina la tendenza ad una Politica nazionale e cristiana, intesa questa parola alla cattolica, e nell'altro domina la tendenza ad una Politica reazionaria e democratica, intesa questa parola all'americana. Queste tendenze non sono né fungibili né aggIutinabili tra loro, malgrado le amicizie personali, i tentativi e le apparenze; ne può bastare l'identità di tessera e di partito a nascondere o a risolvere la crisi.

Questa è la scelta morale, politica e sociale che la Democrazia Cristiana deve fare; comunque la faccia, più presto la farà meglio sarà per lei e, quel che più conta, per la Nazione. Finirà lo immobilismo suo e del Governo, degli altri partiti e della Nazione, questa, in un modo o in un altro, a seconda che la scelta cada su l'una o sull'altra strada, potrà avviarsi a risolvere ed a superare la propria crisi.

Premesso questo discorso sintetico sul partito di maggioranza relativa e sulle gravi ed urgenti responsabilità che gli incombono, si può fare il più generale e più importante discorso sul Governo che occorrerebbe per la Nazione. Il quale, e le ragioni ne sono evidenti come ne è evidente il già accertato fallimento politico e sociale, non può essere il Governo quadripartito, comunque atteggiato, rimescolato o rimpastato; come non può essere l'auspicato da molti Governo di centro-destra, che altro non sarebbe se non il Governo della «operazione Togni», della schiavitù italiana sotto il Capitalismo internazionale, e fatalmente dello sviluppo di un Fronte Popolare ad inevitabile direzione comunista; come non può essere un Governo di centro-sinistra esclusiva, con saragatto-pacciardiani o meno, il quale in definitiva trascinerebbe la Democrazia Cristiana ad esser prigioniera della formula DC-PSI-PCI del « tripartito 1946-47 », già scontato allora, ed oggi non soltanto sconsigliabile, ma addirittura impossibile per le mutate condizioni storiche e interne e internazionali.


Se il Governo quadripartito è, comunque sia atteggiato, il governo dell'immobilismo, e della morte della Nazione per asfissia, queste altre due formule condurrebbero, prima o poi, ad un Governo da guerra civile.

domenica 2 ottobre 2016

Significativo cambiamento

Cari amici, 
i più assidui visitatori del blog si saranno sicuramente accorti che ne è cambiata la struttura.
Questo evento è assolutamente indipendente dalla nostra volontà e non ci fa piacere.
L'elenco dei blog a noi cari non è più in alto nella pagine ma in basso e non contiene più le immagini degli aggiornamenti.


Purtroppo non c'è, o almeno non conosciamo, qualcuno con cui interfacciarci per ripristinare il "layout" precedente.

Si accettano suggerimenti.
Per gli aggiornamenti degli altri blog consultare a pie' di pagina.