NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 31 ottobre 2023

AURELIO SAFFI, REPUBBLICANO COL RE

 

di Aldo A. Mola

Un Triumviro a Civezza

«Triumviro della Repubblica Romana/ patriota, scrittore/ ansioso dell'avvenire d'Italia/ Aurelio Saffi/ 1819-1890/ dimorò in questa casa/ dei Goglioso/ prima d'intraprendere/ la via dell’esilio.»

   È il testo della lapide murata a Civezza nell'anno 2000 per ricordo della breve sosta di Saffi, scampato all'irruzione dei quarantamila soldati mandati da Luigi Napoleone, principe-presidente della Repubblica francese, a diroccare la Repubblica Romana, spazzare via il triumvirato che la guidava (Saffi, appunto, insieme a Carlo Armellini e Giuseppe Mazzini) e restituire Roma a papa Pio IX. Il primo a lasciare la Città Eterna il 2 luglio 1849 fu Giuseppe Garibaldi. Ai circa 2.000 volontari, che lo seguirono verso la lontana Venezia, che ancora resisteva al ritorno dell'Austria, promise “lacrime e sangue”. Dopo faticosa marcia, il Generale sciolse la Legione. Tra i suoi ultimi seguaci, Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio, i suoi figli Luigi e Lorenzo, ancora adolescenti, e il barnabita Ugo Bassi furono catturati dagli austriaci e fucilati. Morta la moglie Anita nella tenuta Guiccioli (4 agosto), Garibaldi venne guidato da una “trafila” di patrioti dal capanno nella pineta di Ravenna a Cala sul Tirreno. Raggiunse la Liguria, ma la sua presenza era troppo imbarazzante per il governo. Riprese la via dell'esilio, che aveva conosciuto dal lontano 1834, dopo il fallimento del primo moto mazziniano: Tangeri e poi New York...

   Il 1° ottobre 1848 Aurelio Saffi era stato eletto deputato alla Camera dei deputati del regno di Sardegna con il voto di 18 dei 63 aventi diritto nel collegio genovese di Cicagna.

   Sin dalla promulgazione dello Statuto albertino (4 marzo 1848), invero, nel regno di Sardegna – unico stato pre-unitario che conservò l'elettività alle cariche anche dopo la Restaurazione asburgo-borbonica del 1849 – il voto non era obbligatorio. L'elettore non incorreva in alcuna penalità se non si recava al seggio. Del pari si dette per scontato che i deputati, liberi da qualsiasi vincolo di mandato e rappresentanti “della nazione”, dovevano rappresentare non solo gli elettori e i votanti ma anche chi era privo del diritto di voto. Nel 1861 la legge elettorale del regno sardo, elaborata da politici lungimiranti quali Cesare Balbo, Luigi Francesco Des Ambrois di Nevache e Camillo Cavour, fu adottata da quello d’Italia. Suscitò qualche malcontento, sia perché azzerò alcune norme “più avanzate” vigenti nei domini asburgici, sia perché non ampliò il diritto di voto, come sollecitato dai seguaci di Mazzini e di Garibaldi e da quanti rimpiangevano la Costituzione della Repubblica Romana del 1849, fondata sulla “sovranità popolare”.

   A legge elettorale invariata e con un numero di elettori “politici” fermo a circa 600.000 su 22 milioni di abitanti (quelli dei consigli provinciali e comunali erano più del doppio rispetto a quanti eleggevano i deputati), la Camera eletta a inizio 1861 fu rinnovata nel 1865, dopo il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, nel 1867, dopo l'annessione del Veneto euganeo, e nel 1870, con la “presa” di Roma e del Lazio. I seggi salirono a 508 e tali rimasero sino alle elezioni del 1921, quando alle urne furono chiamati anche gli elettori del Trentino e della Venezia Giulia. Nel 1870 votò appena il 44,5% degli aventi diritto. In Toscana i votanti furono solo il 32%, con la punta minima a Livorno (16,3%). L'astensione era predicata dal clero su direttiva della Sacra Penitenzieria vaticana che nel 1866 aveva autorizzato il voto “salvis legibus divinis et ecclesiasticis”, dal 1868 aveva proclamato il “non expedit” (“non è opportuno”), precisando poi che quella formula significava “prohibitionem”. Tuttavia in molti collegi i cattolici andavano ai seggi per impedire l'elezione di candidati “pericolosi”: garibaldini, mazziniani e, pessimi tra tutti, massoni, in un'età nella quale Pio IX bollava le logge come “sinagoghe di Satana”.

 

Rivoluzionari alle urne

Sic stantibus rebus, la “sinistra” sentì l'urgenza di riflettere su quanto fosse opportuno e/o necessario fare per accelerare le riforme di cui tutti sentivano bisogno e per “guarire la gran piaga della miseria “ (parole di Garibaldi). Occorrevano convergenze tra pionieri del Risorgimento e liberali già militanti nella sinistra democratica dai tempi del connubio di “centro-sinistro” (sic) tra Cavour e Urbano Rattazzi. Proprio la prudenza dei governi della Destra Storica presieduti da Giovanni Lanza e Marco Minghetti spingevano i riformatori a passare dall'“astensione” alla “partecipazione”. L'intransigenza repubblicana ormai faceva il gioco dei reazionari. A dare l'esempio era appunto Garibaldi, via via rieletto deputato nei collegi di Corniglio, Nizza Marittima, Milano, Corleto, Napoli... “Rivoluzionario”, innalzava l'insegna “Italia e Vittorio Emanuele”. Insomma, bisognava passare il Rubicone e fare i conti con la “monarchia rappresentativa”. Come poi spiegò Giosue Carducci, erano stati i “patrioti” a costringere Vittorio Emanuele II a prendere sulle spalle il “brut fardèl” dell'unificazione nazionale, a invadere Legazioni, Umbria, Marche e, annesso il Mezzogiorno, a irrompere in Roma. “Monsù Savoia”aveva anche lasciato Torino per Firenze. E pagava il prezzo più alto: la “scomunica” e l'esclusione dai sacramenti fulminata da Pio IX contro il re, il governo, il parlamento, l'intera classe dirigente della Terza Italia. I democratici “adulti”, dunque, non potevano voltare le spalle alla monarchia rappresentativa.

 

Il Marco Aurelio della Terza Italia: dai ceppi...

Nell'estate del 1874 il governo del regno d'Italia era presieduto dal bolognese Marco Minghetti, con l'antico mazziniano Emilio Visconti-Venosta agli Esteri, Antonio Scialoja all'Istruzione, Silvio Spaventa ai Lavori Pubblici, Onorato Vigliani alla Giustizia: patrioti seri e intemerati. Garibaldini, mazziniani e radicali raccolti nella Consociazione romagnola decisero di discutere la linea da tenere nelle imminenti elezioni politiche. Il 1° agosto, da Caprera, Garibaldi scrisse a Celso Ceretti, ad Aurelio Saffi e al colonnello Cesare Valzania: «Ai fratelli nostri dei paesi che andate a percorrere, un saluto di cuore; e procurate di inculcare nell'animo loro che Massoni, Carbonari, Internazionali, ecc. devono schierarsi sotto il vessillo repubblicano, che, uniti, potrà condurci al compimento della nostra missione.» Era una dichiarazione di guerra contro la Corona? Niente affatto. Da anni l'Eroe esortava i “progressisti” a scendere nell'arena parlamentare. Bisognava stare in Parlamento per usare le leve del potere a beneficio degli esclusi dal voto, dei “dimenticati”.

   Il 2 agosto avvenne l'inverosimile. Ventotto “consociati romagnoli” si radunarono a Villa Ruffi, sul colle di Covignano, presso Rimini. A presiederli fu Aurelio Saffi. Il ministro dell'Interno, Gerolamo Cantelli di Rubbiano, li fece arrestare come pericolosissimi cospiratori. Furono tradotti in catene nel carcere-fortezza di Spoleto. In realtà stavano prendendo le distanze dai rivoluzionari veri, che diffondevano in Italia il programma della Commune soffocata nel sangue a Parigi. Lì gli internazionalisti (o comunardi) che non caddero durante l'espugnazione della città da parte delle truppe inviate dal governo, provvisoriamente insediato a Bordeaux, furono fucilati contro il muro del cimitero Père Lechaise o deportati nella Nuova Caledonia. Della loro utopia non doveva rimanere traccia. Quel dramma segnò la drastica divisione delle “sinistre” non solo in Francia ma in tutta l'Europa e oltre Atlantico. Lo spartiacque fu appunto la condotta sull'“emancipazione popolare”.

   Gli internazionalisti non avevano dubbi: in tutte le sue componenti la borghesia era complice della “reazione”, patto scellerato tra somma Corone e Altari. Quindi andava eliminata a costo di un bagno di sangue. Un'altra “internazionale”, però, quella ispirata dalla massoneria universale, riteneva invece che al “progresso” si arrivava attraverso l'educazione, persona per persona. Gli internazionalisti paleo-marxisti erano contrari a qualsiasi collaborazione con le “istituzioni”, dalle amministrazioni locali ai governi. All'opposto, i “democratici”miravano a valersene per accelerare il miglioramento delle moltitudini. Alla luce della storia diffidavano delle “masse” e delle “rivoluzioni”, che si traducevano in stragi e riportavano all'indietro le lancette dell'incivilimento.

   Quello, appunto, era il rovello di quanti si raccolsero a Villa Ruffi. Tra loro spiccavano due politici di lungo corso: Marco Aurelio Saffi (1819-1890) e Alessandro (Sandrino) Fortis (1841-1909). Entrambi nativi di Forlì, rappresentano due stagioni del “secolo lungo” che in Italia andò dalla Restaurazione del 1814-1815 alla nuova Guerra dei Trent'anni” (1914-1945).

 

...all'esilio.

Primo dei quattro figli del conte Girolamo, laureato in legge e filosofia a Ferrara, nel 1843 il ventiquattrenne Saffi si trasferì a Roma ove entrò nella cerchia del console degli Stati Uniti d'America G.M. Green. Eletto deputato alla Costituente istituita da Pio IX, dopo la fuga del papa da Roma a Gaeta, Saffi fu tra quanti tra l'8 e il 9 febbraio 1849 proclamarono l'abolizione della sovranità pontificia e l'avvento della Repubblica proposta da Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino, e da Garibaldi (Mazzini arrivò a cose fatte).

   Crollata la Repubblica, l'11 luglio Saffi partì con il medico Vincenzo Goglioso alla volta di Genova. In una lettera alla madre descrisse con toni lirici la vista dal mare della costa ligure e della Superba. Ai due fu negato l'approdo. Pochi mesi prima a Genova era divampata una rivolta repubblicana, schiacciata da Alfonso La Marmora con pugno di ferro perché il regno usciva dalla sconfitta di Novara, doveva scrollarsi di dosso le condizioni più grevi della pace con l'impero d'Austria e non poteva certo accogliere a braccia aperte esponenti della appena naufragata Repubblica Romana. Sbarcarono a Porto Maurizio e raggiunsero casa Goglioso a Civezza, borgo arroccato sopra San Lorenzo. Pochi giorni dopo carabinieri e gendarmi li arrestarono e li tradussero a Genova. Espulso dal regno di Sardegna (15 agosto), Saffi raggiunse Ginevra, poi Losanna. Su pressione dell'Austria, anche il governo elvetico gli intimò di andarsene. Raggiunse Mazzini a Londra. “Lettore” di italiano all'università di Oxford, conobbe e sposò Giorgina Crawford, nata a Firenze e mazziniana. Ne ebbe quattro figli dai nomi patriottici, come Attilio ed Emilio, in onore dei fratelli Bandiera, nel 1844 fatti fucilare da Ferdinando II di Borbone nel vallone del Rovito (Cosenza). Nel 1860 raggiunse Mazzini a Napoli. Il 7 aprile fu eletto deputato nel collegio di Acerenza (Basilicata). Si dimise con altri esponenti della sinistra democratica nel 1864 per protesta contro le misure repressive del “brigantaggio meridionale” che, ormai privo di sostegni dall'estero e dopo la truce stagione delle esecuzioni sommarie, chiusa grazie alla Legge Pica, andava affrontato con riforme socio-economiche anziché con le armi. Nel 1867, dopo una seconda stagione in Gran Bretagna, ove conobbe lord Palmerston, che lo apprezzò, Saffi tornò nella sua tenuta di San Varano, presso Forlì, nel cui collegio era stato eletto deputato. Dal 1873 assunse la guida dei mazziniani con Maurizio Quadrio, genero di Garibaldi, e Federico Campanella, gran maestro del Grande Oriente incardinato nel Mezzogiorno e forte di migliaia di affiliati, tra i quali parecchi ecclesiastici.

 

Il Magistero di Aurelio Saffi

Ammanettati, incatenati due a due e tradotti in treno a Spoleto, gli “arrestati di Villa Ruffi” (come Saffi, Fortis, Felice Dagnino… subito vennero detti) furono ammassati tutti insieme in uno stanzone, senza che neppure fosse stato spiccato nei loro confronti un ordine di cattura. Pura “bestialità” come deplorò Giosue Carducci. Per un attimo si temette il peggio. L'anarchico russo Michail Bakunin diramò il Manifesto del comitato italiano per la rivoluzione sociale che incitò: «Allo schiavo esser suo primo dovere quello di insorgere e ai soldati quello di disertare.»

   Seguirono altri arresti: il “fratello”Andrea Costa, allievo di Carducci e dal 1882 primo deputato socialista, e Alberto Mario (non massone), di cui molto e bene ha scritto Gianpaolo Romanato. Le elezioni dell'8-15 novembre 1874 segnarono l'avanzata delle sinistre, soprattutto nel Mezzogiorno. Saffi fu eletto deputato nel collegio di Rimini. Mentre Cantelli progettava di dichiarare fuori legge le opposizioni democratiche con la condanna al domicilio coatto da uno a cinque anni per gli avversari del governo, il primo a intuire la necessità di una svolta vera fu Vittorio Emanuele II, che nel 1875, affiancato dal generale Giuseppe Medici, antico garibaldino, ricevette Garibaldi al Quirinale. Sorreggendosi sulle grucce per i perenni postumi della ferita subita ad Aspromonte, il Generale illustrò al re il progetto per fare di Roma una città moderna: arginare il Tevere, aprire un porto commerciale a Ostia e collegarlo con un canale alla Città Eterna, dotata di area industriale. “Agricoltore”(come sin dal 1848 si era fatto registrare alla Camera dei deputati), Garibaldi parlava non solo per chi disertava le urne, ma soprattutto per chi, essendo privo del diritto di voto, si attendeva riforme vere dalle classi dirigenti.

   Il 18 marzo 1876 il governo Minghetti fu messo in minoranza. Il Re incaricò Agostino Depretis, massone, di formare il primo ministero nettamente di sinistra, con all'Interno Giovanni Nicotera, sopravvissuto di misura alla spedizione guidata da Carlo Pisacane nel Mezzogiorno, finita tragicamente presso Sapri. Vittorio Emanuele II precorse e “benedisse” la svolta con il conferimento del laticlavio senatoriale ad antichi cospiratori definitivamente alleati della Corona: Vincenzo Malenchini, Giovanni Battista Michelini, Mariano d'Ayala, Giovanni Garelli, Achille Rasponi, Vincenzo Sprovieri, Angelo Bargoni, Francesco Magni, Giuseppe Manfredi, Jacopo Moleschott...

   Eletto un'ultima volta dalla sua nativa Forlì nel 1887, alla testa dell’Associazione democratica bolognese e promotore dell'unificazione dei Supremi consigli del Rito scozzese antico e accettato, con i “fratelli” Carducci e Ceneri il 28 dicembre 1886 Saffi venne chiamato dal gran maestro Adriano Lemmi nella celebre loggia “Propaganda massonica”: un concentrato di personalità di spicco della Terza Italia, vera e propria “vetrina” di esperienze e di valori patriottici per far quadrato attorno alla Corona, pilastro del rinnovamento civile, come si vide con il nuovo codice penale (dovuto a Giuseppe Zanardelli iniziato trent'anni prima in una loggia di Torino) che abolì la pena di morte, ponendo l'Italia all'avanguardia della civiltà.

 

   Quel “mondo” va riscoperto e compreso oggi, quando le votazioni segnano la divaricazione tra eletti e delusi, tra mestieranti del potere e quanti s’interrogano sul futuro della democrazia parlamentare. Il dubbio è destinato a divenire più assillante col rinnovo del Parlamento europeo: un appuntamento che sta all’Italia odierna come gli eventi di un secolo e mezzo addietro stettero a quella appena nata, quando i “popoli d'Italia” nel volgere di pochi anni furono avviati all'unità e alle libertà grazie a leggi d'avanguardia e con le enormi, costose ma indispensabili infrastrutture che fecero da volano per il progresso civile ed economico-sociale.

   Quando il 10 aprile 1890, appena settantenne, si avviò all'Oriente Eterno, Marco Aurelio Saffi aveva motivo di ritenersi pago del ruolo svolto per l'Italia e per la Fratellanza Universale, nella cui Famiglia era entrato nel marzo 1862, quando fu iniziato massone nella loggia “Dante Alighieri” di Torino. Curatore delle opere di Mazzini, era del tutto contrario ai repubblicani “intransigenti” che gareggiavano con i socialisti nell'opposizione contro le Istituzioni, a tutto vantaggio dei reazionari e dei clericali, nemici giurati del Risorgimento e dello Stato d'Italia.

 

Aldo A. Mola

 

DIDASCALIA. Marco Aurelio Saffi (Forlì, 13 ottobre 1819-10 aprile 1890), Acquerello di  Angela Suozzo.

   La sua figura e i suoi “tempi” sono stati rievocati a Forlì nel Convegno “Aurelio Saffi: eroe dimenticato del Risorgimento” organizzato dall’Associazione Culturale Aurelio Saffi, con interventi di Roberto Slaviero, Presidente del Collegio circoscrizionale Emilia-Romagna del Grande Oriente d'Italia; Umberto Pasqui e Claudio Servadei. Nell'occasione Alberto Urizio Kovereck ha presentato il sontuoso volume, linguisticamente limpido e riccamente illustrato, “R(ispettabile) (Loggia) A. Saffi, Or(iente) di Forlì” (ed. Risguardi, pp. 192). Sulla scorta di innumerevoli documenti d'archivio (riprodotti in fotografia e, quando necessario, trascritti a beneficio del lettore), esso ripercorre la vita della massoneria in Forlì dalle origini al forzato scioglimento (1925) e dalla rinascita (1945) alle nuove persecuzioni subite dall'Ordine con la strumentalizzazione dell'“affare P2” e l'inchiesta avviata dal procuratore Agostino Cordova, durata dieci anni e finita nel nulla. Solo bolle di sapone? No, perché i massoni furono ripetutamente messi alla gogna, con gravi e spesso irreparabili danni. Il “caso Italia”, unico in Europa e nel mondo civile, merita di essere approfondito, anche per ricordare che la massoneria è vietata solo nei regimi fondamentalisti e dai partiti che continuano a giurare sulla veridicità dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”.

lunedì 30 ottobre 2023

Saggi storici sulla Tradizione Monarchica


 di Ernesto Frattini

Il problema monarchico in Italia è stato impostato su un duplice binario e tale impostazione, buona o cattiva che sia, per forza di cose o volontà di uomini, sembra destinata a durare a lungo. Esistono cioè due tipi di monarchici: quelli che pur restando istituzionalmente tali, militano in partiti agnostici e coloro che pongono la restaurazione alla base del proprio programma di partito aderendo conseguentemente ai movimenti dichiaratamente monarchici e lasciando in secondo piano le particolari preferenze sugli altri problemi politici, il che naturalmente significa che nell'interno dei partiti monarchici convivono persone di differenti opinioni economiche, morali e sociali.

Questo stato di fatto rende estremamente ardua una classificazione del pensiero monarchico contemporaneo fra le altre dottrine politiche, anche perché la Monarchia come istituto ha assunto varie forme e vario contenuto secondo le circostanze di tempo e di luogo e rappresenta quindi un fenomeno proteiforme e ribelle agli schemi prefabbricati.

Non è di oggi il tentativo di dare alle dottrine politiche una loro classificazione, giacché è questa un'esigenza che quasi spontaneamente nasce e si afferma nell'animo di chi desideri ricercare le premesse ideologiche e gli antecedenti storici del proprio ideale politico e non si può negare che questi tentativi abbiano se non altro recato un contributo alla chiarezza delle concezioni, provocando indagini approfondite e utili raffronti, anche se taluno ha osservato che voler costringere in schemi il mondo delle idee, versando il loro contenuto fluido in stampi, può talvolta provocare una fossilizzazione delle idee stesse private della loro freschezza e immediatezza, e dare all'osservatore una loro immagine incompleta o deformata.

 

Tuttavia oggi la dialettica politica si svolge attraverso delle clas­sificazioni precise e le dottrine politiche tentano non solo di inqua­drarsi, magari nella topografia parlamentare, ma di ricercare e di illu­strare i propri o veri presunti precedenti, consacrati nelle opere degli autori e nell'esperienza storica, per trarre da queste premesse dedu­zioni anche arbitrarie, da usare a scopo di propaganda e di proseli­tismo, senza parlare poi di una odierna degenerazione di questo costume che è rappresentata dall'abitudine, tutt'altro che infrequente di rivestire di un manto ideologico esigenze spicciole e atteggiamenti contingenti che non trovano altra giustificazione che interessi pri­vati o necessità di natura elettoralistica e propagandistica.

È dunque necessario, sia pure con determinate cautele, che al­meno la sostanza politica del problema monarchico possa classifi­carsi, come è opportuno che esista un quadro rapido, ma per quanto possibile completo, del significato che l'istituto monarchico ha avuto nella storia del nostro paese.

Da qui, l'idea di questo libro che a prima vista potrà forse sem­brare frammentario, ma che risponde ad una idea unica: dimostrare innanzi tutto lasciando parlare solo la nuda cronaca storica, come tutta la tradizione italiana sia monarchica; dare poi una visione panoramica dell'istituto monarchico nelle varie fasi del suo sviluppo nella storia umana.

La prima dimostrazione avrebbe potuto portare ad un lavoro di critica storica, praticamente ad un'altra delle già innumerevoli storie d'Italia esistenti; abbiamo preferito restare nella cronaca che se manca certo della completezza della storiografia propriamente detta, ha il vantaggio di far udire meglio, giacché la voce dell'autore tace, la voce dei fatti, esposti più che nella loro completezza, nella loro tipica essenzialità.

Quanto alla seconda parte, dedicata alle varie forme monar­chiche, essa non è che un tentativo di mostrare la necessità della Monarchia come istituto regolatore e coordinatore delle comunità umane, che cc5me ogni società si formano secondo il principio ordi­natore intrinseco che è il bene comune. I fatti dimostrano la pratica impotenza della società politica a progredire con perfetta coerenza giuridica senza un potere di supremazia esterno ed ancora oggi il rapporto di libertà fra le maggioranze e le minoranze abbisogna di una garanzia derivante da un potere superiore ed esterno; potere pubblico poiché ha per oggetto tutta la società, potere indipendente in quanto non soggiace ad alcuna altra autorità.

Non è quindi questo un lavoro politico nel senso che comunemente suole oggi darsi a questo termine, giacché non vuole certo tracciare o propugnare programmi di carattere contingente e neppure un ma­nuale che allinei semplicemente la dottrina monarchica ai program­mi di partito, giacché il principio monarchico è su un piano superiore ed ha una portata troppo vasta per soffrire inquadramenti occasionali.

Lo scopo è quello di mostrare come non esiste certo uno iato fra Monarchia e Italia, giacché asserire questo, significherebbe rinne­gare secoli di storia, e di dimostrare parimenti l'attualità di un Istituto che per millenni ha regolato la vita e l'attività dei popoli di tutto il mondo, con perfetto adeguamento alle situazioni contin­genti di ciascuna comunità.

Tali verità che oggi vengono impugnate e discusse, non hanno certo bisogno di una difesa, ma di essere conosciute; troppo spesso si dà alle parole un significato generico e troppo spesso i luoghi comuni prendono il posto dei ponderati giudizi ed è perciò necessario intervenire per precisare, specificare e dimostrare il valore perma­nente dille verità tradizionali.

Così, mentre all'attuale situazione politica mancano proprio gli scopi permanenti della società: la stabilità degli ordinamenti e l'ordlinata e pacifica produzione e distribuzione della ricchezza, invano si cerca la soluzione dei problemi perché ci si rifiuta di ricorrere all'autorità tradizionale preferendo rivolgersi agli idola fori cioè ai miti creati dalla fantasia della piazza, la cui fama cresce col crescere del pervertimento intellettuale del popolo.

Il nostro libro vuole dunque essere un richiamo ai valori perma­nenti mostrati nella loro applicazione storica e nelle elaborazioni del pensiero umano, attraverso i secoli, nella lusinga che dagli esempi si tragga indirizzo per un nuovo itinerario.

sabato 28 ottobre 2023

Appuntamento al Parco della Rimembranza di Roma



       DOMANI DOMENICA MATTINA ore 11

Invito a VILLA GLORI

Incontro occasionato dal Centenario dell’istituzione del Parco della Rimembranza
di Roma a Villa Glori, luogo simbolico dell’Italia Unita.
Il percorso museale dall’Albero alla Colonna, tra Arte e Natura,
attraverso letture di testi poetici, canti risorgimentali e discorsi inaugurali
metterà in luce una pagina eroica della Nostra Storia.
DOMANI DOMENICA MATTINA  29  OTTOBRE  2023  ORE 11
VIALE DEI SETTANTA (Ingresso  Arcone  Monumentale)  ROMA
La puntualità è cosa gradita   
   PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
In ALLEGATO ulteriori informazioni e le modalità di partecipazione.
Cordialmente.
         Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

lunedì 23 ottobre 2023

La scomparsa di Massimo Nardi


Con la scomparsa di Massimo Nardi, un uomo della Bassa, di quella Bassa di guareschiana memoria, sparisce un esponente, importante, del popolo monarchico: e qui il termine "popolo" é inteso nel senso proletario del termine. 

Era un uomo che a 13 anni  già lavorava, per vivere e contribuire al bilancio familiare. 

Poi, con intelligenza viva, volontà fortissima, si era fatto, da solo, strada nella vita. Sempre monarchico, senza dubbi e cedimenti, nonostante gli "schiaffi" presi da chi, o da coloro, che nella "battaglia monarchica", vedevano solo la possibilità di una medaglia o di un mantello. 

Lui era diverso: autodidatta, curioso, intelligente, conscio dei propri  limiti, privo di ipocrisia: per me, un esempio, un sostegno, un amico...che oggi non ho più. 

Ciao Massimo! 43 anni di amicizia, qualcosa vorranno pur dire...

martedì 17 ottobre 2023

 Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca

dedicato al Patrimonio Storico Italiano, 

con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.

      Invito al QUARTIERE COPPEDÈ

L’inoltrarsi in questo suggestivo Quartiere,
della Roma degli Anni Venti, permette di osservare
a livello simbolico il portato innovativo dello Stile Coppedè.

DOMENICA POMERIGGIO  22  OTTOBRE  2023  ORE 16
PIAZZA BUENOS AIRES (Lato CHIESA)   ROMA
La puntualità è cosa gradita
   PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA       
In ALLEGATO ulteriori informazioni e le modalità di partecipazione.
Cordialmente.
         Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro



lunedì 16 ottobre 2023

Grande Real Villa Italia Hotel & Spa...

... coniuga perfettamente il patrimonio artistico e nobiliare con la bellezza naturale del paesaggio circostante.



La frastagliata costa dell'Estoril, le colline dolci all’orizzonte, la forza dell’oceano davanti e i castelli di Sintra alle spalle. Non c’è da stupirsi se Cascais, a una trentina di chilometri da Lisbona, sia stata nel secolo scorso il buen retiro dei reali. In questa elegante cittadina marinara, baciata dal sole, si può dormire nella tenuta dell’ultimo re d'Italia, Umberto II di Savoia. Sorge qui, infatti, in posizione scenografica difronte al mare, il Grande Real Villa Italia Hotel & Spa, raffinato hotel membro di The Leading Hotels of the World, che mantiene l’esclusività della dimora nobiliare, ma in un contesto moderno e sofisticato.

"In questo luogo Umberto II re d'Italia trascorse parte della sua vita. In esilio dal 1946, si fece apprezzare per le sue profonde qualità umane, esempio di grande nobiltà e dedizione anche alla sua seconda Patria", si legge su una targa commemorativa nella lobby. L’ala dell’hotel più antica è Villa d’Este, realizzata in quegli ambienti dove, dal giugno 1946, il re Umberto II, in esilio riceveva l’aristocrazia di mezzo mondo. Di qui passarono ospiti illustri, artisti e celebrità. Tra le sale dell’hotel sono state prese decisioni politiche, siglati trattati storici, si sono riuniti i capi di stato. Ancora echeggiano i ricordi di feste iconiche e serate di gala tenute tra i suoi grandi saloni. Fu proprio a Cascais, che il principe Amedeo nel 1964 festeggiò le sue nozze - con testimoni re Umberto e re Juan Carlos – insieme a Claudia di Francia.

martedì 10 ottobre 2023

Luigi Cadorna Restaurato il mausoleo a Pallanza

Da Tripadvisor
di Aldo A. Mola

     L'Italia di Luigi Cadorna è raffigurata nell'altorilievo in bronzo di Davide Calandra sovrastante lo scranno del presidente della Camera dei deputati a Monte Citorio. Lo si può osservare più volte al giorno in televisione. Al centro domina la Monarchia costituzionale, fiancheggiata dalla Diplomazia e dalla Forza, il cui impiego, insegnò Carl von Clausewitz in “Della guerra” ne è la prosecuzione con altri strumenti. Luigi Cadorna, come suo padre Raffaele, suo zio Carlo e suo figlio Raffaele, fu militare nutrito di pensiero politico e istituzionale, con una visione ampia della storia dei popoli. Fu anche, e rimane, specchio dei nodi irrisolti dell'Italia nata dalla lunga preparazione risorgimentale ma infine sorta nel volgere di pochi mesi e, di seguito, impegnata a consolidare i muri portanti a scapito della armonia tra le sue componenti.

     Il Regno d'Italia che, mutata la forma istituzionale, continua nella Repubblica, nacque nel marzo 1861 dal concorso della diplomazia e della spada sotto le insegne dei sovrani sabaudi, sue fondamenta. Alla sua base esso ebbe lo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 dal re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia-Carignano. Quel cammino coronato da Vittorio Emanuele II, primo Re d'Italia, e, dopo gli anni di Umberto I (1878-1900), da Vittorio Emanuele III, durante il cui regno lo Stato raggiunse il massimo di espansione territoriale con il confine al Brennero e al Quarnaro e l'annessione di Fiume.

    La premessa del percorso che condusse alla proclamazione del Regno fu il regio editto del 27 novembre 1847, che rese elettivi i componenti dei consigli comunali, provinciali e divisionali, e lo Statuto che trasformò la monarchia amministrativa in monarchia rappresentativa e istituì il Senato di nomina regia e vitalizia e l'elezione della Camera dei deputati. Quelle riforme generarono l'avvento di una vastissima e partecipe classe dirigente, politica e amministrativa, formata dall'intreccio e dalla somma di nomine e di esiti delle leggi elettorali, prospettate dallo Statuto e via via deliberate dal Parlamento.

      Come ribadito dalla Costituzione della Repubblica, già lo Statuto precisò con chiarezza identità e prerogative del Capo dello Stato: “comanda tutte le forze di terra e di mare”. Non fu altrettanto preciso quando enunciò che il re “dichiara la guerra, fa i trattati di pace, di alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l'interesse e la sicurezza dello Stato il permettano...”. All'alba della monarchia rappresentativa non distinse con la differenza tra deliberare, dichiarare e proclamare la guerra, tre “momenti” separati per la diversità dei suoi “attori”.

      Lo Statuto tacque su corpo diplomatico e assetto delle forze armate, in specie sul comando dell'esercito: un interrogativo che si pose all'indomani della prima non fortunata fase della guerra del 1848. Il nodo Re-ministro della guerra-comandante dell'armata era e rimase ingarbugliato perché per Statuto il potere esecutivo apparteneva “al re solo”, però “responsabile” non era il sovrano; lo erano i ministri.

L’equivoco” (come scrisse l'insuperato Piero Pieri nella “Storia militare del Risorgimento”) venne temporaneamente risolto il 7 febbraio 1849 con la nomina del generale polacco Wojchiech Chrzanowski al comando dell'Armata “sotto la sua responsabilità, in nome del Re”, come “general maggiore dell'Esercito”, “con “comando effettivo”. L'ambiguità si ripresentò nel 1859 quando, aggredito dall'Austria, il regno di Sardegna entrò in guerra forte dell'alleanza con Napoleone III, e nel 1866, quando, i generali Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini ebbero il comando delle due armate schierate contro l'impero d'Austria e operarono senza l'indispensabile coordinamento.     

   La legge 29 giugno 1882, n.831 istituì il Capo di stato maggiore dell'esercito. Ne furono titolari Enrico Cosenz (1882-1893), Domenico Primerano (sino al 1896, dopo Adua), entrambi già allievi della borbonica Scuola Militare Nunziatella di Napoli, e il torinese Tancredi Saletta. Quando nel 1908 questi fu collocato a riposo il generale più anziano e quindi vocato alla successione (“l'anzianità fa grado” recitava un efficace brocardo) era il cinquantottenne Luigi Cadorna (Pallanza, 4 settembre 1850-Bordighera, 21 dicembre 1928) dal 1907 al comando della Divisione militare di Napoli. Come egli stesso scrisse in Pagine polemiche e venne ribadito nella biografia scrittane da Perluigi Romeo di Colloredo Valls (2021), con procedura inconsueta la “successione” fu subordinata ad “accertamento”.  Secondo il regio decreto 14 novembre 1901, n. 466 tra le questioni di ordine pubblico e di alta amministrazione da sottoporsi al Consiglio dei ministri vi erano “le nomine e destinazioni dei comandanti di corpi di armata e di divisioni militari; le nomine del capo di stato maggiore dell'esercito e del primo aiutante di campo di S.M. il Re”.

   In vista della sostituzione di Saletta, da tempo malato, l'8 marzo 1908 il generale Ugo Brusati, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, chiese a Cadorna di dichiarargli “schiettamente” se davvero, come pareva da voci in circolazione, subordinasse la nomina a capo di stato maggiore all'ampliamento per legge dei suoi poteri soprattutto in vista di una guerra. La risposta fu netta: “S(ua) M(aestà) che dallo Statuto è creato Comandante Supremo, è pur dallo stesso dichiarato irresponsabile. Ma il comando non può neppure esistere senza un responsabile il quale perciò non può essere che il capo di S(tato) M(aggiore). Ma la responsabilità ha per necessario correlativo: 1. La libertà d'azione nella condotta delle operazioni; 2. La libertà d'azione nella preparazione della guerra in ciò che ha rapporti colle operazioni; 3. La esclusione dagli alti comandi di coloro che non ispirano la necessaria fiducia”. Cadorna non intendeva mettere in discussione le prerogative statutarie del sovrano ma osservò che il decreto legge 4 marzo 1906 aveva definito i poteri del capo di stato maggiore in tempo di pace ma non in guerra. “A deliberare, concluse, dev'essere uno solo: il responsabile”.

    Il 1° luglio 1908 capo di stato maggiore venne nominato il casertano Alberto Pollio di due anni più giovane di Cadorna. Imperando Giolitti, che impose a Vittorio Emanuele III l'immediato collocamento a riposo di Vittorio Asinari di Bernezzo, per alcune sue parole di sapore irredentistico, Cadorna ritenne ormai improbabile l'ascesa al vertice dell'esercito. La sua esclusione da comandi operativi negli anni seguenti ne suscitò reazioni sdegnate. Il 23 agosto 1912 a proposito della ventilata nomina del generale Ragni a governatore civile e militare della Libia al figlio Raffaele scrisse: “Nominare un altro senza neppure dirmi crepa sarebbe un vero schiaffo datomi in piena guancia”. Avrebbe risposto con la richiesta ipso facto del collocamento a riposo.    

 
    La notte del 1° luglio 1914, quattro giorni dopo l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo a Sarajevo per mano di un terrorista serbo eterodiretto, Pollio morì improvvisamente a Torino. Sulle cause e le circostanze del suo decesso furono ricamate insinuazioni e leggende. Dal 20 marzo 1910 Cadorna era comandante della IV divisione militare (Genova-Piacenza). Ormai prossimo al congedo per motivi di età, stava progettando di prendere casa in Liguria. Il 10 luglio fu nominato capo di stato maggiore. Presidente del Consiglio da quattro mesi era Antonio Salandra, in successione a Giolitti; ministro degli Esteri era il catanese Antonino Parternò Castello, marchese di San Giuliano, il “politico” italiano più stimato da Vittorio Emanuele III. Nel volgere di poche settimane esplose la Conflagrazione europea: sequenza di mobilitazioni, ultimatum, dichiarazioni di guerra. Appena insediato, sulla scia del predecessore Cadorna approntò il piano di intervento a fianco di Vienna e Berlino, cui Roma era legata dal trattato difensivo del 20 maggio 1882. Il progetto, da Cadorna pubblicato nel 1925, rimase agli atti.

    Mese dopo mese divenne chiaro che la guerra sarebbe durata a lungo e che per l'Italia, vulnerabile su tutti i confini terrestri e marittimi e dipendente dall'estero per il proprio sistema produttivo e alimentare, sarebbe stato impossibile rimanerne fuori. Di lì la preparazione e, di seguito, la “mobilitazione occulta” orchestrata da Cadorna tra difficoltà e ritardi per portare lo strumento militare al livello necessario.     

    Senza informarlo, il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, dopo lunga segreta trattativa fecero sottoscrivere dall'ambasciatore d'Italia a Londra Guglielmo Imperiali l'“arrangement” del 26 aprile 1915. Solo il 6 maggio Cadorna fu sbrigativamente informato che l'Italia doveva intervenire entro due settimane. Ministro della guerra era il maggior generale Vittorio Zupelli. Il suo predecessore, Domenico Grandi, il 23 settembre 1914 aveva comunicato al governo le condizioni dell'esercito in vista di una mobilitazione generale concludendo che non si trovava nel complesso nelle condizioni desiderabili “per affrontare senza preoccupazione una campagna di guerra”. L'esercito avrebbe fatto “come sempre, il proprio dovere”, meglio se si fosse sentito “sospinto e accompagnato dal consenso del Paese” il cui miglior giudice però era il governo. Venne sostituito.

    Salandra e Sonnino compirono tre errori agli occhi della storia sconcertanti. Nel loro carteggio ammisero di essere andati oltre il consenso esplicito del re, del governo e senza maggioranza in parlamento. Impegnarono l'Italia a entrare in guerra entro 30 giorni dalla firma contro “tutte le potenze” dell'Intesa. A differenza di quanto aveva progettato San Giuliano, fautore di una Quadruplice Intesa, l'“accordo” (non vero e proprio Trattato) comportò l’“adesione” alla Triplice Intesa, non l'inclusione “alla pari”. Perciò l'Italia fu tenuta all'oscuro degli impegni assunti al suo interno dalla Triplice intesa. Il peso della guerra venne scaricato sul capo di stato maggiore, non consultato neppure sui “compensi” chiesti da Salandra e Sonnino, quasi la difesa dei futuri confini dell'Italia fosse una variabile esclusiva della “politica” anziché un pegno vincolante sotto il profilo militare per un Paese dal dominio coloniale già vasto, costoso e impegnativo: dall'Eritrea alla Somalia e alla Libia.

    Il precario equilibrio del governo Salandra-Sonnino fu sull'orlo di precipitare. Il 13 maggio 1915 il consiglio dei ministri verbalizzò: “considerando che intorno alle direttive del governo nella politica internazionale manca il concorde consenso dei partiti costituzionali che sarebbe richiesto dalla gravità della situazione, delibera di presentare a S.M. il Re le proprie dimissioni”. A mobilitazione ormai avviata, consultato per la seconda volta da Vittorio Emanuele III Giolitti, secondo il quale l’“accordo di Londra” non vincolava lo Stato ma solo il governo, declinò l'invito a formare un nuovo esecutivo. Nessun altro se ne fece carico. Al Re non rimase che inviare alle Camere il governo in carica. Il 17 maggio il consiglio dei ministri approvò “il disegno di legge da presentare alla Camera per delegazione di poteri legislativi in caso di guerra e per l'esercizio provvisorio”. Benché in larghissima maggioranza contraria all'intervento, il 20 maggio la Camera approvò la proposta con l'opposizione dei soli socialisti e molte assenze tra i costituzionali. L'indomani altrettanto fece il Senato, pressoché unanime.

  

   All'opposto di Giolitti, che prevedeva una guerra di molti anni, Salandra aveva lasciato intendere, e forse ne era persino convinto, che il conflitto sarebbe terminato entro l'autunno. Dal canto suo, perfettamente a giorno sulle condizioni effettive dello strumento militare, logorato dall'impresa di Libia e da decenni di investimenti inadeguati, Cadorna riteneva che l'Italia non potesse affrontare una guerra “grossa” (cioè di largo impiego di uomini e armi) belliche e “lunga”. Le condizioni effettive dell'esercito nella primavera del 1915 erano quelle pochi mesi prima descritte dal ministro Domenico Grandi e poi documentate nell'“Inchiesta sugli avvenimenti dall'Isonzo al Piave: 24 ottobre-9 novembre1917”. Disponeva di una mitragliatrice per ogni chilometro di fronte. Pressoché inesistente erano l'artiglieria pesante e l'aviazione. Si producevano 2500 fucili al mese, a fronte di un milione di uomini da mettere subito in campo. Occorrevano ufficiali e sottufficiali preparati.

   

    Eletta per la prima volta a suffragio maschile quasi universale nell'ottobre 1913, la Camera che nel maggio 1915 si era sentita ricattata da Salandra rimase in agguato.  Contro l'opinione (corrente non solo all'epoca) secondo la quale il Parlamento “non fa crisi” quando lo Stato è in guerra, nel giugno 1916, dopo la spedizione austro-ungarica di primavera, la Camera sfiduciò Salandra. Il nuovo esecutivo, presieduto dall'anziano Paolo Boselli, con sette ministri senza portafoglio e molti esponenti tiepidi nei confronti dell'intervento, ebbe all'Interno il siciliano Vittorio Emanuele Orlando che doveva garantire il sostegno del Mezzogiorno senza “provocare” le opposizioni. La “politica” risultò sempre più divaricata rispetto alle esigenze vitali dell'esercito illustrate da Cadorna a Boselli in quattro lettere del 6, 8 e 13 giugno e del 18 agosto 1917 mentre da mesi in Russia, dopo il rovesciamento dello zar, imperversava la rivoluzione. Con grado invariato, anche se correntemente detto “Comandante Supremo” e “Generalissimo”, Cadorna chiese ripetutamente quali misure il governo intendesse adottare per reprimere la propaganda socialista-pacifista e combattere “i nemici interni, altrettanto se non più temibili di quelli che abbiamo di fronte” (8 giugno) e così prevenire “il crescente spirito di rivolta tra le truppe” (13 giugno) anche a cospetto di gravi reati militari compreso il passaggio al nemico (18 agosto). Cosciente dei rischi cui erano esposti che il Paese e la Monarchia mentre dilagavano renitenza alla leva e diserzioni, a cominciare dalla Sicilia, Cadorna non esitò a deplorare: “il governo sta facendo una politica interna rovinosa per la disciplina e per il morale dell'Esercito, contro la quale è mio stretto dovere protestare con tutte le forze dell'animo”. Boselli (che aveva “paura fisica” di Cadorna) non rispose.

   Trattenendo l'irritazione, Orlando attese il suo momento. Questo venne con l'offensiva austro-germanica del 24 ottobre 1917. Secondo il piano predisposto anni prima da Cadorna, il fronte venne arretrato sulla linea dalla destra del Piave al Grappa, debitamente fortificato e ribaltò la sconfitta (non una “disfatta”) in battaglia d'arresto. Va ricordato che due mesi prima, a cospetto della decisione di Cadorna passare dallo schieramento offensivo al difensivo, inglesi e francesi ritirarono i cannoni avaramente “prestati” all'Italia.

   Lo stesso 24 ottobre, ancora ignara di quanto stesse avvenendo al fronte, la Camera sfiduciò il governo Boselli. All'emergenza militare si aggiunse quella politica. Mentre Cadorna orchestrava l'arretramento, in un colloquio con il Re Orlando subordinò l'accettazione dell'incarico di formare il governo alla sua sostituzione. Nuovo Comandante Supremo fu nominato Armando Diaz, che, a parte aspetti estrinseci, operò nel solco del predecessore, compresa l'applicazione del codice penale militare, consolidò l'Esercito grazie allo sforzo del sistema produttivo interno, sorretto dal lancio di nuovi prestiti nazionali e dall'assicurazione sulla vita dei combattenti per intervento dell'INA, e respinse le ingerenze del governo sul punto essenziale: il comando. Quando Orlando insisté per un'offensiva accampando che era meglio una nuova Caporetto che la stasi non rispose. A differenza del presidente del Consiglio era consapevole che una seconda sconfitta avrebbe rischiato la fine dell'Italia.

     Per alto senso del dovere verso la Patria Cadorna accettò di guidare la delegazione dell'Italia a Versailles, sede del comando interalleato. Era stato sempre il più coerente fautore della conduzione unitaria della guerra europea e, uomo del Risorgimento, contro i criteri di Sonnino (sino all'ultimo contrario alla dissoluzione dell'impero austro-ungarico), aveva propugnato l'offensiva dell'Italia su Lubiana e Zagabria per suscitare la rivolta dei “popoli senza Stato” che divampò nell'Europa orientale nell'ottobre 1918 e determinò il collasso degli Imperi centrali. A quel punto, però, Cadorna era già stato richiamato in Italia, “a disposizione” della Commissione d'Inchiesta sugli avvenimenti del 1917.

     Per giudizio unanime dei più illustri generali e storici militari dei diversi Stati in lotta, Luigi Cadorna fu il comandante più capace e lungimirante della Grande Guerra. 

  

Aldo A. Mola

       

DIDASCALIA. Il Mausoleo del conte Luigi Cadorna sul Lungolago di Pallanza. Il suo restauro viene festeggiato alle 10 di sabato 14 ottobre a Pallanza, con interventi del prefetto Michele Formiglio, del sindaco Silvia Marchionini e una Allocuzione del colonnello Carlo Cadorna. Su Luigi Cadorna v. Pierluigi Colloredo Valls, Luigi Cadorna. Una biografia militare, 2021, con ampia bibliografia; Luigi Cadorna-Carlo Cadorna, Caporetto? Risponde Luigi Cadorna, Roma, BastogiLibri, 2020; e Luigi Cadorna, La guerra alla fronte italiana fino all'arresto sulla linea della Piave e del Grappa, edizione anastatica, con introduzione di Aldo A. Mola, Roma, BastogiLibri, 2019.    

martedì 3 ottobre 2023

L'ESTATE DI VITTORIO EMANUELE III?


Convegno a Vicoforte con il Principe Ajmone

 

di Aldo A. Mola

 

Un innovativo convegno di studi...

  Sabato 7 ottobre 2023 il principe Aimone di Savoia presenzia in Vicoforte (Cuneo) a un convegno di studi sul “L'estate di Vittorio Emanuele III: 25 luglio-19 ottobre 1943”.

   In poche settimane l'Italia voltò pagina. La svolta fu decisa personalmente dal Re. Da tempo privo di sostegno di politici ante-fascisti e, meno ancora, di gerarchi come Galeazzo Ciano, invano sondati dal ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone per imprimere una piega diversa al corso della storia, confidando in militari fedelissimi, a cominciare dai Carabinieri, il 25 luglio Vittorio Emanuele III esercitò i poteri della Corona, mai intaccati. Sostituì al governo Benito Mussolini con il Maresciallo Pietro Badoglio, che, su sua direttiva, smantellò il regime fascista e puntò a portare l'Italia al di fuori della guerra. Con la “resa senza condizioni” (3 settembre), dettata dagli anglo-americani a nome delle Nazioni Unite, l'Italia perse la piena sovranità. Però con il trasferimento da Roma a Brindisi (9 settembre) il Re salvò la continuità dello Stato. In gran parte occupata dai tedeschi e per l'altra sottoposta agli anglo-americani, l'Italia rimase divisa tra Repubblica sociale italiana, proclamata da Benito Mussolini, policentrica e vassalla della Germania, e il Regno, unico potere riconosciuto legittimo dalle Nazioni Unite, ormai avviate alla vittoria.

Cobelligerante dal 13 ottobre, il governo di Vittorio Emanuele III riorganizzò le Forze armate, impegnate nella lotta di liberazione, e l'amministrazione pubblica, ma non ebbe la collaborazione dei partiti, in massima parte avversi al re e alla monarchia. Sottoposta a pesanti bombardamenti, invasa e bersaglio di rivalse estere antiche e nuove, l'Italia faticò a imboccare la via della riscossa ma risalì la china e, a parte la tragica amputazione sul versante orientale, mantenne quasi tutti i confini conseguiti con le guerre per l'indipendenza. Grazie all'iniziativa di Vittorio Emanuele III la sua sorte fu ben diversa da quella riservata dai vincitori alla Germania e ai suoi satelliti nell'Europa orientale, per decenni  sottoposti all'Unione sovietica, con il consenso dei partiti comunisti, a cominciare da quello italiano. 

Dal luglio 1943 al maggio 1945 il Paese visse i tempi più tragici dall'unità. 

 

Nel convegno del 7 ottobre (in programma dalle 10 alle 19 a Casa Regina Montis Regalis di Vicoforte, accesso libero) ne parlano, documenti alla mano, storici di diverso orientamento, uniti nella ricerca della verità dei fatti attraverso le carte d'archivio: Giuseppe Catenacci, presidente onorario dell'Associazione ex Allievi della Nunziatella, il col. Carlo Cadorna, figlio del generale Raffaele, comandante del Corpo Volontari della Libertà, i generali Tullio Del Sette, già comandante dei Carabinieri, e Antonio Zerrillo, Aldo Ricci, p. sovrintendente dell'Archivio Centrale dello Stato, i docenti Raffaella Canovi, GianPaolo Ferraioli, Rossana Mondoni con Daniele Comero, Massimo Nardini, Tito Lucrezio Rizzo, già Consigliere della Presidenza della Repubblica, Gianpaolo Romanato, Giorgio Sangiorgi. Con Gianni Rabbia presiedono Alessandro Mella e Gianni S. Cuttica.

Il convegno è promosso dall’Associazione di studi storici Giovanni Giolitti e dall'Associazione di studi sul Saluzzese, presieduta da Attilio Mola, con la adesione di enti e istituti.

La scelta di Vicoforte non è casuale. Nel suo Santuario dal 2017 riposano le spoglie di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena, traslate per iniziativa della principessa Maria Gabriella di Savoia, propiziata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

 

...e un volume sul lungo Regno di Vittorio Emanuele III...

 

 A margine del convegno viene presentato un volume sul lungo regno di Vittorio Emanuele III. Esso raccoglie gli Atti dei convegni di studi svolti a Vicoforte il 9 ottobre 2021 su “Il Re Soldato per il Milite Ignoto: la riscossa della monarchia statutaria (1919-1921)” e il 1° ottobre 2022 su “La crisi politica italiana del 1922”, a prosecuzione del percorso intrapreso con il convegno “Da Caporetto alla Vittoria” (Saluzzo, 2017-2018) e con quelli su “Il lungo regno di Vittorio Emanuele III”, scandito in “L'età vittorioemanuelina/giolittiana,1900-1921” (Vicoforte,28-29 settembre 2018),  “Corona e regime: gli anni del consenso, 1922-1937” (Vicoforte 8 ottobre 2019) e “Gli anni delle tempeste: meditazioni, ricordi e congedo, 1938-1946” (Vicoforte, 10 ottobre 2020).

   Nei loro contributi gli autori sintetizzano e innovano opere pubblicate in saggi e volumi. La serie dei convegni focalizza specifici “momenti” della prima metà del Novecento e, al tempo stesso, supera la segmentazione del lungo periodo in “eventi” che vanno collocati nella visione complessiva dello Stato. I “centenari” e/o i “periodi” via via individuati non sono tributo convenzionale a una data o a “episodi” ma fanno percepire la genesi e i capisaldi dello Stato (corona, parlamento, politica estera, forze armate,  movimenti e partiti politici, vita culturale, dinamica economica e sociale...).

   All'inizio del Novecento, aperto dal regicidio, il regno d'Italia contava appena quarant'anni dalla proclamazione e solo da trenta aveva annesso Roma, coronamento del progetto enunciato nel marzo 1861 da Camillo Cavour ma anche causa della sua drastica “condanna”, anzi “scomunica”, da parte di Pio IX. All'opposto di quanto recentemente affermato da Ernesto Galli della Loggia, non vi fu affatto una “conventio ad excludendum” dei cattolici dalla direzione dello Stato (“Corriere della Sera”, 21 settembre 2023, p.32). Contrariamente a quanto proposto da molti ecclesiastici di prestigio, come  Luigi Tosti, abate d Montecassino, e il teologo Carlo Passaglia, deputato di Montecchio e autore della “Petizione a Pio IX e ai Vescovi” sottoscritta da novemila sacerdoti fautori dell'immediata conciliazione tra la Chiesa e il Regno d'Italia il pontefice provocò la  secessione dei cattolici dalla vita politica nazionale. A quella lacerazione altre se ne aggiunsero. Mentre Giuseppe Garibaldi, “primo massone d'Italia” e da tanti democratici optarono per “Italia e Vittorio Emanuele”, la soluzione sabauda fu rifiutata dai repubblicani intransigenti, numericamente esigui e tuttavia influenti in ambenti settari, e dai socialisti che in tutte le loro componenti rifiutarono le sollecitazioni ad assumere responsabilità di governo più volte avanzate, anche dal liberal-democratico Giovanni Giolitti.

 

   L'ampio ventaglio di temi messi a fuoco nel volume evidenzia la centralità della monarchia statutaria nel regno d'Italia e, di conseguenza, della condotta del Re. Dopo il decennio di fine Ottocento, nel cui corso si susseguirono una decina di governi talora di brevissima durata (l'ultimo ministero presieduto dal marchese Antonio Starrabba di Rudinì resse solo quattro settimane), il regime parve trovare stabilità con la coalizione presieduta dal democratico bresciano Giuseppe Zanardelli, subentrato all'ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato. La “svolta liberale” di inizio secolo si sostanziò nella fiducia accordata al nuovo governo da parte della Camera eletta nel giugno 1900, mentre presidente del Consiglio era il generale Luigi Pelloux, già ministro della Guerra (1892-1893), e poi a quello dal novembre 1903 presieduto da Giolitti.

    Il regio decreto 14 novembre 1901, n. 466 sulle “materie da sottoporsi al Consiglio dei ministri” chiarì che il suo presidente rappresentava il gabinetto, manteneva l'unità d'indirizzo politico e amministrativo di tutti i ministeri e curava l'adempimento “degli impegni presi dal governo nel discorso della Corona, nelle sue relazioni con il Parlamento e nelle manifestazioni fatte al paese”. Precisò che il ministro degli Esteri conferiva col presidente del Consiglio su tutte le note e comunicazioni che impegnassero la politica del governo nei rapporti con quelli esteri. Dal 1892 al 1922 nessun presidente del Consiglio fu titolare degli Esteri, a differenza di quanto era accaduto con Camillo Cavour e Francesco Crispi (ma solo nel 1889-1891) e avvenne poi con Benito Mussolini che assunse Esteri e Interno. Il regio decreto del 1901 non rafforzò né la camera elettiva né il governo ma il presidente del Consiglio, interlocutore privilegiato del sovrano. Fu un passo avanti verso la futura legge istitutiva del “capo del governo” (24 dicembre 1925, n. 2263). A differenza di quanto solitamente viene detto, questa non intaccò affatto le prerogative statuarie del re. Essa infatti sancì: “Il Capo del governo è nominato e revocato dal Re ed è responsabile verso il Re dell'indirizzo generale politico del governo”.

   L'evoluzione del regime monarchico conferì maggior peso alla dirigenza politica. Erano gli anni delle riflessioni di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels sulle élites e sui partiti. Proprio per la preminenza delle “personalità” chiamate a reggere le sorti del Paese la storiografia parve chiamata a dedicare speciale attenzione ai profili politico-istituzionali del Re, dei suoi più stretti collaboratori (a cominciare dai ministri della Real Casa e dai suoi primi aiutanti di campo), dei presidenti del Consiglio e dei maggiorenti delle Camere. A lungo furono invece privilegiati altri temi, prevalentemente socio-economici. Le “dottrine politiche” prevalsero sull'azione di chi esercitò il potere, la rappresentazione travalicò i “fatti”. Alcuni dei dodici presidenti che si susseguirono alla guida dei venti ministeri alternatisi tra il 1900 e il 1922 ancora attendono biografie esaustive. Nell'ordine si alternarono, talora per brevi periodi, Saracco, Zanardelli, Giolitti, Alessandro (Sandrino) Fortis (due ministeri), Sidney Sonnino, Giolitti, Sonnino, Luigi Luzzatti, Giolitti, Salandra, Paolo Boselli, Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti (due governi consecutivi), Giolitti, Ivanoe Bonomi e Luigi Facta (due ministeri per un insieme di otto mesi): una ridda di ministri e sottosegretari che conduce a riflettere sulla centralità del Re nel regime statutario configurato quale “triangolo scaleno”, come documentato in saggi compresi nel volume. Mancano biografie scientifiche di personalità eminenti (inclusi ministri di vaste vedute ma al governo per breve periodo, Leone Wollemborg), volutamente rimaste al di fuori del governo (Ettore Ferrari) ma non delle istituzioni (è il caso di Ernesto Nathan, che tentò l'elezione alla Camera e fu sindaco di Roma con il sostegno personale del Re e del presidente Giolitti).  

   Al tempo stesso vi era e vi è motivo di porre al centro dell'attenzione forma e sostanza dei poteri apicali dello Stato, immutati dalla promulgazione della Carta Albertina al 1944. Essi furono esercitati dal Re come e quando ritenne di doverlo fare: in specie il 27-30 ottobre 1922 quando incaricò Mussolini di formare il governo, il 25 luglio 1943 quando lo revocò e il 3-8 settembre quando, in nome del governo da lui nominato, il generale Giuseppe Castellano sottoscrisse a Cassibile la resa incondizionata dell'Italia agli anglo-americani operanti in nome delle Nazioni Unite. Con quell'atto Vittorio Emanuele III garantì la continuità dello Stato d'Italia al di là della sconfitta militare.

 

...il Re isolato.

   Usciti da mezzo secolo di opposizione, gli esponenti di movimenti e partiti pregiudizialmente anti-statutari (ma anche molti “democratici”) non gli riconobbero alcun merito, rifiutarono di collaborare con il governo e posero imperiosamente la questione istituzionale. Il “lungo regno” di Vittorio Emanuele III formalmente si protrasse sino all'annuncio del trasferimento al figlio Umberto di Piemonte di tutte le prerogative regie, nessuna esclusa (12 aprile 1944), all'insediamento del principe a Luogotenente del regno (5 giugno), all'abdicazione del sovrano e alla sua partenza “per l'estero”, non “in esilio” (9 maggio 1946).

   Secondo la narrazione subito prevalsa e tuttora perdurante, sino al governo presieduto da Ferruccio Parri, già comandante delle formazioni partigiane “Giustizia e Libertà” (giugno 1945), l'Italia non aveva conosciuto alcuna vera democrazia. Tale affermazione fu confutata da Benedetto Croce, già stigmatizzato da Palmiro Togliatti al rientro dell'Unione sovietica di Stalin. A quel modo il filosofo si consegnò a sua volta all'emarginazione politica. La guida culturale ed “etica” dei decenni seguenti non furono più le sue opere ma i “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci, fortunosamente fatti pervenire a Togliatti da Piero Sraffa, figlio di un illustre docente universitario iniziato a una loggia del Grande Oriente d'Italia. 

   Senza pretesa di prevalere sui luoghi comuni stratificati nella narrazione mediatica e nella manualistica scolastica, gli atti dei convegni di studio raccolti in volume documentano, rettificano e offrono motivo di riflessione innovativa. L'Italia che ne emerge risulta quale venne ideata e realizzata dal Risorgimento: protagonista a pieno titolo di una storia dell'Europa che nel 1914 imboccò la discesa agl'inferi con l'inizio della nuova guerra dei trent'anni, conclusa nel 1945 con la sua lunga e tutt'oggi perdurante eclissi politico-diplomatico-militare. In tale ambito Vittorio Emanuele III emerge quale protagonista della grande storia. Rimane in attesa di essere pienamente compreso.