NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 29 aprile 2020

Io difendo la Monarchia Cap IX - 4


La catastrofe dell'8 settembre è una catastrofe militare determinata in un organismo già così debole come il nostro esercito, dal fatale ma inevitabile e improrogabile annuncio dell'armistizio. L'armistizio significò per ciascun soldato la fine della guerra. Via il fucile, via i panni della divisa, via dalle caserme, si ritorna a casa. Ecco il significato che ogni soldato si affrettò a dare all'armistizio. V'era sì, l'avvertimento finale a fronteggiare le aggressioni dell'altra parte, ma nella beata innocenza di quell'estate molti pensavano che anche i tedeschi erano stanchi e se ne sarebbero andati. E infatti molti tedeschi erano stanchi, ma non quanto noi e quando ebbero ordine di marciare lo fecero con l'innata ferocia e con l'antico addestramento ai più vili inganni.
Ecco come in un libro recente uno dei nostri scrittori più pensosi e più sensibili descrive nel suo diario, dal suo angolo di provincia, la dissoluzione dell'esercito (1): Domenica 12 settembre: «Non faccio che parlare con militari. Tutti la stessa storia: armi abbandonate, accampamenti e caserme abbandonate; spesso con centinaia di uomini dentro, davanti all'ingiunzione di un esiguo numero di tedeschi. Ho incontrato stasera una frotta di granatieri per il paese: sbandati, senza armi, con sacchi e valigie " borghesi " sulle spalle, schiamazzanti. Mi son voltato dall'altra parte per non vedere. Il nostro esercito si è dissolto come nebbia al sole». Il nostro autore non conosceva, quando scriveva, gli esempi di meraviglioso valore di alcuni reparti della difesa di Roma, ma essi furono purtroppo un'eccezione.
La cronaca di quei giorni è assai nota per pubblica­zioni numerose; alcune concordi, altre aspramente pole­miche. Ma la polemica verte sulle singole responsabilità, non sul corso generale degli avvenimenti. Ora la pole­mica si concentra su Roma, sulla responsabilità del ge­nerale Carboni o del gen. Roatta; sulla opportunità di difendere la capitale e sulla fallita missione, nella notte tra il sette e l'otto settembre, del generale Taylor. I più si domandano ancora: «Perché e come non fu diffuso il predisposto ordine op. 44 contro i tedeschi o perché fu trasmesso solo l'8 settembre?». La relazione ufficiale sugli avvenimenti non è stata pubblicata; ma in realtà tutti concordano nell'affermare che l'Esercito si dissolse come nebbia al sole, Questo non deve meravigliare. È avvenuto lo stesso fenomeno in Francia e in Jugoslavia dinnanzi all'urto tedesco e si trattava di eserciti freschi e bene armati. Il nostro Comando Superiore aveva compiuto il massimo sforzo attorno a Roma. E qui, infatti, una resistenza fu abbozzata e fu compiuta per due giorni. Invece, l'armata Vercellino in Francia si sciolse senza sparare un colpo e in Jugoslavia, nel Montenegro e in Grecia avvenne, presso a poco, pur con qualche lodevole eccezione, lo stesso fenomeno. Vi fu l'azione eroica di Cefalonia e combattimenti onorevoli nelle isole del Dodecanneso e in Jugoslavia, ma nulla più. I partiti della coalizione battono invece, sulla difesa, di Roma perché vogliono colpire in alto: vogliono infamare lo Stato Mag­giore e speculare sulla… fuga a Pescara. E questa è una ben triste speculazione. Il Capo del Governo era, alla data dell'otto settembre, il più autorevole dei nostri ma­rescialli, non paragonabile certo ai Graziani e ai Cavallero. L'Alto Comando dell'Esercito credeva in lui e godeva della sua fiducia,
Per giudicare della poca serenità con cui viene con­dotta tutta la polemica ricorderemo quel che scriveva il generale Carboni quando non ancora bollato dalla Com­missione d'inchiesta non aveva in animo di divenire una colonna dell'esercito repubblicano: (2)
«Una propaganda insistente e subdola, di probabile origine antinazionale ha diffuso ed alimenta la leggenda che, dopo l'armistizio dell'otto settembre, il corpo d'armata motocorazzato avesse il compito e la possibilità di difendere Roma da un attacco tedesco sferrato da terra e dall'aria. Questa propaganda snaturando grossolana­mente fatti e dati, noti nelle loro linee esatte soltanto in un ristrettissimo ambiente, tende a screditare determi­nate istituzioni o persone o episodi, allo scopo di ag­gravare le condizioni generali di angoscia, di scetticismo e di smarrimento morale del momento. È quindi bene precisare obiettivamente in quanto possibile e lecito la genesi e il decorso di alcuni avvenimenti. Né il Comando Supremo, né il Governo italiano, retto da un maresciallo, avrebbero mai potuto concepire l'assurdo piano di difen­dere una città grande quanto Roma e come Roma esposta all'offesa aerea, con un semplice corpo motocorazzato. Una difesa contro i tedeschi così puerilmente concepita avrebbe condannato alla rapidissima ed irrimediabile distruzione Roma, la sua popolazione, il suo patrimonio artistico travolgendo anche la Santa Sede nella rovina della città senza che da così tragici danni, sia pure considerati nel quadro delle dure necessità di guerra, potesse derivare qualche vantaggio al paese e alla nuova poli­tica nella quale esso era avviato».
Questo era, dopo l'otto settembre, il pensiero del ge­nerale Carboni, prima che su di lui si pronunciasse tanto duramente e meritamente il giudizio dell'opinione pubblica e della Commissione ministeriale d'inchiesta. In un libello successivo (3) quando questo disinvolto generale diviene collaboratore della Voce Repubblicana la sua prosa trova espressioni infuocate contro «le persone che fuggirono a Pescara»,
Noi pensiamo che Roma si poteva e si doveva difen­dere e il giuoco valeva certo la candela. Per questo at­torno a Roma erano state concentrate le nostre forze più efficienti.
Non vi è dubbio che sino alla mezzanotte del giorno otto l'Alto Comando pensò di difenderla. Ma per questo e per affrontare i gravi danni che sarebbero stati inferti alla città, ai suoi monumenti e alla sua popolazione, l'Alto Comandò pensava evidentemente che dovessero realizzarsi alcune ipotesi. Si sperava infatti che l'armistizio sarebbe stato annunciato tra il giorno 12 e il giorno 16, secondo aveva fatto sperare il gen. Castel­lano. Si attendevano in quei giorni altre due divisioni che erano in corso di trasferimento. Purtroppo nella notte precedente il gen. Carboni aveva sconsigliato la immediata discesa negli aeroporti per partecipare alla battaglia di Roma di una divisione aviotrasportata ame­ricana del generale Taylor. Il maresciallo Badoglio ave­va motivo di pensare che il generale Eisenhower rin­viasse di qualche giorno l'annuncio dell'armistizio e che gli fosse, così, consentito di portare a termine le misure predisposte.
Gli angloamericani non mandarono la divisione, non solo, ma non rinviarono neppure di un minuto il pre­detto annuncio, né mandarono i promessi cento pezzi di artiglieria sulla spiaggia di Ostia, né fecero sbarcare le quindici divisioni fatte intravedere a Castellano, ma solo quattro che stavano, per essere ricacciate in mare dalla spiaggia di Salerno; né fecero sbarchi contemporanei nell'Adriatico e a nord di Roma. Avevano promesso a Castellano un contributo sostanziale e sufficiente alla azione italiana; non mandarono neppure un aereo a colpire le forze corazzate tedesche che scendevano dalla via Aurelia su Roma. Quando quelle forze sfilarono il giorno 10 o 11 in Roma conquistata per proseguire verso la battaglia della Campania tutti compresero che la difesa di Roma avrebbe potuto dar luogo a qualche bell'episodio di valore, ma sarebbe stata fatalmente perduta dalle truppe italiane.
Questa interpretazione degli avvenimenti si è fatta già strada nell'opinione anglosassone. Lo stesso generale Smith in una lettera al gen. Castellano pur lamentando la mancata decisione del Carboni (i) ha confessato la mancata coordinazione tra l'azione alleata e quella italiana. Gli alleati avevano fissato i loro piani e per nulla al mondo intendevano modificarli. L'Italia non doveva fare altro che dire sì o no. Quando, nel presentarsi per la seconda volta a loro, il gen. Castellano precisò che egli intendeva parlare della collaborazione militare e non della resa, gli fu risposto che egli faceva un monkey wrench (uno sgambetto da scimmia).
Il giornalista David Brown della Reuter per quanto assai poco benevolo verso di noi, riconosce che il Co­mando di Eisenhower lanciò una psychological offen­sive un gigantic bluff (2): «Gli italiani non si resero conto quanto fosse imminente l'invasione: le magre forze con cui gli alleati fecero lo sbarco li avrebbero atterriti se le avessero conosciute prima... Il gen. Eisenhower fece un bluff gigantesco che riuscì perfettamente.

1) Bonaventura Tecchi: Un'estate in campagna. Sanami. Firenze, pag. 66.
2) Generale Giacomo Carboni: Agguato a Roma, pag. 27 Documenta n. 1.
3) Generale Giacomo Carboni: L'armistizio e la difesa di Roma. Universale De Luigi, Roma, 1945.
4) Vedi Giuseppe Castellano: Come firmai l'armistizio di Cassi bile. Mondadori. Milano, 1945.

martedì 28 aprile 2020

L’antifascismo è anche di destra

Interessantissima lettura trovata per caso in rete

I fratelli Di Dio
L’antifascismo non è un’ideologia politica, non risiede in questa o quella parte e non ha depositari privilegiati. Fin dalle origini l’antifascismo e lotta di Resistenza hanno rappresentato una pluralità di posizioni che andava dai liberali ai socialisti, dagli azionisti ai cattolici, dai conservatori ai comunisti. Persino i monarchici, fin quando sono esistiti, vi facevano parte.
La Resistenza di destra
Il contributo della destra alla lotta di liberazione è stato rilevante. Alcune delle pagine più epiche della Resistenza italiana, fissate sulla carta dalla nostra letteratura – che conserva fresca e intatta la memoria di quell’esperienza – si devono a gruppi armati orientati a destra. La celebre presa delle città di Alba – raccontata da Beppe Fenoglio in un altrettanto celebre racconto – fu guidata da Enrico Martini e dalle sue divisioni ‘azzurre‘, ovvero badogliani, monarchici, cattolici, ex-ufficiali del Regio esercito e giovani, come Beppe Fenoglio appunto.
La meno celebre, ma altrettanto grandiosa, liberazione di Domodossola e successiva costituzione della Repubblica partigiana dell’Ossola, avvenne ad opera dei ‘verdi‘, partigiani cattolici, guidati da Alfredo Di Dio, militare palermitano. In generale, l’apporto dei liberali, dei cattolici conservatori, dei monarchici, dei militari è stato, in alcune aree dell’Italia settentrionale, prevalente rispetto a quello comunista.
Se è vero che il liberalismo giolittiamo ebbe gravi responsabilità nell’ascesa del fascismo, è anche vero che intellettuali come Giovanni Amendola, Calamadrei, Albertini, Einaudi, si raccolsero attorno al liberale Benedetto Croce firmando, già nel 1925, il noto Manifesto degli intellettuali antifascisti. Una figura come Piero Gobetti, teorico della Rivoluzione liberale, testimonia anche la presenza di una cultura liberale, marcatamente antifascista, capace di avvicinarsi alle istanze del socialismo e del mondo operaio.
Infine, se guardiamo all’Europa – essendo la Resistenza un fenomeno europeo – ci accorgiamo quanto importante sia stato l’antifascismo di destra in Francia e in Germania, e quanto sia coinciso con ideali nazionalisti nell’Europa orientale, arrivando a scontrarsi con i comunisti sovietici, presto passati da liberatori a occupanti.

La Resistenza liberale dimenticata

Interessante recensione  del Professore Sfrecola al libro "Una vita Tranquilla


I partigiani non furono solo comunisti, ma anche cattolici e monarchici. Che per primi si armarono. Un libro di Rossella Pace ci restituisce una pagina strappata dalla storia.







domenica 26 aprile 2020

Il 25 aprile dei monarchici

Volutamente quest'anno abbiamo tralasciato di soffermarci su questa data che sempre di più invece di unire sembra scatenare furibonde lotte ideologiche. Con la mente sgombra dalle polemiche ci piace riportare un breve ricordo tratto dal giornale "Monarchia Oggi", glorioso periodico dell'Unione Monarchica Italiana, dell'Aprile 1977. Le poche parole sintetizzano felicemente l'atteggiamento sereno del Re e dei monarchici a guerra, civile, finita.

Atteggiamento che avrebbe consentito una rinascita democratica dell'intera nazione invece che una guerra civile strisciante con picchi elevatissimi, che si perpetua nelle coscienze dopo 75 anni. 




Brandelli di verità riportati senza volerlo dal Corriere


La fine di Mussolini in Piazzale Loreto: la «macelleria messicana» che indignò anche i partigiani

La definizione «macelleria messicana» fu coniata da Ferruccio Parri, allora vice comandante del Cln Alta Italia, osservando i fronte ai corpi del Duce, di Claretta Petacci e dei gerarchi appesi al distributore di benzina, esposti all’odio popolare

di Dino Messina

La definizione di «macelleria messicana» non fu coniata da un pubblicista di destra, ma da uno dei capi più rispettati della Resistenza, Ferruccio Parri, vice comandante del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia. 
Certo, quel che era avvenuto a piazzale Loreto dall’alba al tardo pomeriggio del 29 aprile 1945 aveva indignato un po’ tutti. 
Persino l’incendiario socialista Sandro Pertini, l’uomo che voleva uccidere Mussolini e che durante la campagna per il referendum istituzionale non esitò a sparare una sventagliata di mitra contro l’abitazione che ospitava Umberto II, esclamò: «L’insurrezione è disonorata». E Indro Montanelli, che di quello spettacolo fu testimone, scrisse di aver capito «cos’è la piazza quando si ubriaca di qualche passione».


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E’ morto Nicola Caracciolo, intervistò Umberto II nell’esilio di Cascais






Fratello di Marella Agnelli, fu l’unico ad intervistare Umberto di Savoia dal suo esilio in Portogallo. 

di Andrea Cianferoni


Addio al giornalista Nicola Caracciolo, fratello di Marella Agnelli, moglie dell'Avvocato. Ambientalista e amante della Maremma, era sopprannominato "Principe di Capalbio"

Della partenza da Roma, e di come si svolse in maniera quasi rocambolesca, Umberto di Savoia, dal suo esilio a Villa Italia a Cascais, ne parlò durante un'intervista filmata con il giornalista Nicola Caracciolo nel 1979, poi trasmessa dalla Rai nel documentario "Il piccolo Re", la storia di Vittorio Emanuele III. «Aver lasciato Roma in quel modo può essere stato uno sbaglio […] In quel modo, senza avvisare i ministri. E ancor adesso sono convinto che i ministri non abbiano avuto modo di raggiungere - non so - il Re, oppure non aver potuto prendere le disposizioni. Si sarebbero svegliati la mattina […] e avrebbero potuto trovarsi i tedeschi in casa e rischiare veramente molto. Cosa che […] non accadde. Ma l'impressione che loro diedero fu molto sfavorevole, soprattutto al maresciallo Badoglio. L'impressione di essere stati dimenticati. Nella stessa intervista, alla domanda sul perché il governo avesse deciso di lasciare la capitale senza organizzare alcuna resistenza militare, disse: « Non c'era il mezzo di poter difendere Roma. E poi, se anche uno avesse potuto farlo, avrebbe dato ragione e agli alleati e ai tedeschi di reagire. E sappiamo in che modo avrebbero reagito. […] Avrebbero avuto ragione per bombardare. Se i tedeschi avessero fatto qualcosa su Roma, sarebbe stata la fine di Roma […] e poi era stata anche dichiarata città aperta. E poi c'era la questione della presenza del Papa. 

Il giornalista Nicola Caracciolo, fondatore e presidente del Premio Internazionale Capalbio Piazza Magenta e presidente Onorario di Italia Nostra, morto oggi a Roma all'età di 88 anni, era molto legato alla Maremma, tanto da scendere in piazza nel 2017 insieme all’attuale sindaco di Grosseto Antonfrancesco Vivarelli Colonna contro il progetto dell'autostrada Tirrenica, che doveva collegare Roma alla Liguria passando dalla costa Maremmana.
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https://www.affaritaliani.it

venerdì 24 aprile 2020

Lo storico Calogero Ingrillì delegato della provincia di Messina del movimento politico “Italia Reale-Stella e Corona”.




 
Capo d’Orlando. Lo storico Calogero Ingrillì è il delegato della provincia di Messina del movimento politico “Italia Reale-Stella e Corona” che si rifà alla Casa Savoia.

Il movimento “Italia Reale - Stella e Corona”, come aggiunge l’avvocato Calogero Ingrillì “ è il legittimo detentore dei valori morali e politici del PDIUM dell’indimenticabile on. Alfredo Covelli.
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giovedì 23 aprile 2020

Su youtube un breve stralcio del I congresso del Partito Nazionale Monarchico

Anna Maria d’Orléans, prima Regina Di Sardegna

Di Maria Teresa Reineri

La principessa francese Anna Maria d’Orléans, divenuta per matrimonio duchessa sabauda nell’aprile 1684 e incoronata, il 24 dicembre 1713, prima regina di casa Savoia, ha recentemente acquisito una sua visibilità dopo anni di oblio anche presso i cultori di memorie sabaude. Avevano giocato a suo sfavore le figure delle duchesse che l’avevano preceduta, Cristina di Francia e Giovanna Battista di Savoia Nemours, che, vedove, avevano retto per lunghi anni il ducato in nome dei figli minori.
La presenza al fianco di Anna di una personalità forte e determinata come fu quella di Vittorio Amedeo II non le lasciò altro spazio che quello della maternità in cui, però, trionfò: fu adorata dalle figlie, l’una delfina di Francia e l’altra regina di Spagna, che dovettero il loro successo nelle rispettive corti proprio all’educazione ricevuta.
Luigi XIV, madame de Maintenon, Filippo V di Spagna si complimentarono con Anna in più di un’occasione. I due principi, l’erede Vittorio Amedeo e Carlin, il futuro Carlo Emanuele III, ci lasciarono testimonianza scritta del loro attaccamento alla madre nella corrispondenza scambiata con lei negli anni 1713-14.
Il primogenito, già nei saluti della prima missiva scriveva, infantile commistione di italiano e piemontese, ma testimonianza di profondo legame affettivo: “Mi simiglia cento anni che non lo [sic] veduta”, e Carlin non era da meno: “io mi vorrei potermi mettere dentro una lettera per poterla vedere”.
In questi nostri giorni di disagio (in cui anche le semplici passeggiate sono limitate se non proibite) c’è un altro aspetto di questa Regina che è motivo di meraviglia: la sua moderna concezione del moto come mezzo irrinunciabile per mantenersi in salute. Ne scrisse dalla Sicilia ai figli fin dal dicembre 1713: “le beau tems quil a fait jusque hier nous a donné lieu de nous bien promener, je voudrais fort quil revint car l’exercise est necesaire pour la santé …. Quand la digestion se fait dificilmens … quand on marche cela aide …”

Le principesse testimoniarono in mille occasioni il ricordo delle loro salite a piedi con la madre alla Vigna (oggi Villa della Regina), allorché bambine nelle giornate di sole attraversavano a piedi il ponte di Po per raggiungerla. “Forse, avrebbe poi ammesso la primogenita, ci saremmo divertite di più a giocare a colin-maillard con la nonna nella galleria, ma la mamma era inflessibile”, trattandosi del loro benessere. E infine Maria Adelaide da Versailles il 31 dicembre 1708, scrivendo alla nonna che ne era restata sbalordita, la rassicurava: “Je ne suis point étonnée que ma mère soit revenue a pied de la Vénerie, car elle a de très-bonnes Jambes … “.

Per approfondire la figura di Anna Maria d’Orléans vedi:

MARIA TERESA REINERI

Anna Maria d’Orléans. Regina di Sardegna, Duchessa di Savoia (Saint-Cloud 27 agosto 1699-Torino 26 agosto 1728), Premesse di Gianni Oliva e Maria Gabriella di Savoia, Postfazione di Gustavo Mola di Nomaglio, Torino, Centro Studi Piemontesi, (2006), 2a ed. 2017, Pagg. 698, ill. a colori e in b. e n.

martedì 21 aprile 2020

Tra culto e storia: i 37 santi, beati e servi di Dio di Casa Savoia

TORINO. Sappiamo che la dinastia sabauda (il cui capostipite è considerato il Conte di Biancamano e le cui origini risalgono più o meno all’anno 980) viene universalmente considerata la più longeva d’Europa. È parimenti noto come dopo il referendum del 1946, la monarchia dei Savoia ha ceduto il posto alla Repubblica italiana. In tutto, ben 966 anni di potere. Ciò che forse non tutti sanno è che la dinastia sabauda vanta una folta schiera di santi e beati da Guinness dei primati.
San Girolamo Carmelo di Savoia visse nel XVI secolo
Lo scrittore e giornalista torinese Lorenzo Bortolin, cultore di Storia della Chiesa, in una sua recente pubblicazione su questo tema, ricorda come – tra santi, beati, venerabili, servi e serve di Dio – il proprium sanctorum sabaudo comprenda una schiera di ben 37 personaggi. Certo: molto dipenderà pure dalla durata quasi millenaria dei Savoia, alternatisi per secoli sul trono, come conti, duchi, principi, e infine come sovrani, ma resta comunque un fatto sorprendente come questa dinastia annoveri una milizia davvero insolita e straordinaria di anime “benedette” dalla Chiesa, che nessun altro Casato può vantare.
Non tutti propriamente “santi” per la verità: ma comunque un folto stuolo di nobili anime sabaude che godono di una postazione d’onore in paradiso. In realtà, alcuni riconoscimenti di santità, ai vari livelli – diciamo così – di intensità e grado, più che per meriti di concreta carità cristiana, o per la pratica di una vita umile e pia, potrebbero essere stati talvolta concessi soprattutto per pura opportunità politica.  Non mancano tuttavia, per la maggior parte dei personaggi, documenti, testimonianze storiche e dettagliate agiografie che confermano e attestano episodi di autentica vita cristiana e di pratica del Vangelo, e persino miracoli, che hanno fatto loro meritare sul campo la “benedizione” della Chiesa.
I veri e propri “Santi” di Casa Savoia, cioè le anime trapassate che godono del più alto grado di venerazione della Chiesa sono due: Santa Giovanna di Savoia e San Girolamo Carmelo. La prima, nata nel 1306, unitasi in matrimonio con il basileus Andronico III, divenne imperatrice di Bisanzio acquisendo il nome di Anna Paleogina: fu impegnatissima nell’inane tentativo di ricucire lo scisma tra la Chiesa Cattolica e quella Ortodossa. La Chiesa la ricorda, appunto, con il nome di sant’Anna Paleogina, imperatrice bizantina, ma era una Savoia.

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http://www.piemontetopnews.it/tra-culto-e-storia-i-37-santi-beati-e-servi-di-dio-di-casa-savoia/

Quel maledetto 29 luglio 1900, quando Re Umberto I fu assassinato


17 Aprile 2020

Non doveva aver dormito la notte del 28 luglio 1900 il signor Gaetano nella sua stanza affittata a due passi dalla stazione di Monza. Si era momentaneamente trasferito in Brianza dagli Stati Uniti dove viveva, perché in città stava accadendo qualcosa.
Siamo in un’Italia unificata da pochi decenni e la massima autorità dello stato è rappresentata dal re: il monarca Umberto I di Savoia.
Monza ha la fortuna di annoverare tra le proprie bellezze anche l’alloggio scelto dalla RealCasa per trascorrervi il periodo estivo; eredità asburgica da tenere in considerazione per la sua vicinanza con Milano pur essendo immersa nel verde. La Villa Reale rappresentava per Re Umberto una seconda dimora, ed è appunto qui che si trova nella giornata del 29 luglio 1900.
Anzi, quel giorno non è proprio in Villa, ma qualche centinaio di metri più avanti. Si svolge infatti, lungo l’attuale Viale Cesare Battisti, un evento sportivo organizzato dalla società ‘’Forti e Liberi’’, e l’ospite d’onore è proprio sua maestà il re. Lo sa bene il signor Gaetano che vorrebbe incontrarlo, ma non per semplice adorazione istituzionale.
Il signor Gaetano ha un pensiero fisso nella testa e una pistola nella tasca. Soprattutto ha un cognome celebre tra le fila degli anarchici: si chiama Bresci. I suoi ideali erano contro ogni forma di governo, e il fatto che in Italia ci fosse la monarchia, rendeva più semplice individuare un obiettivo, un solo capro espiatorio verso cui rivolgersi. Per giunta Umberto si era da poco reso protagonista di un gesto che aveva fatto ribollire ulteriormente gli animi già infuocati degli anarchici: aveva decorato con medaglie e titoli onorifici il generale Fiorenzo Bava Beccaris per aver represso con il fuoco una rivolta popolare a Milano.
Così Gaetano Bresci si era ‘’immolato’’ alla causa antimonarchica, e la sera di quel 29 Luglio intendeva colpire.
La giornata era trascorsa liscia con le prove ginniche dei ragazzi che avevano saputo sorprendere il Re, il quale si rivolse agli atleti dichiarandosi ”lieto di essere tra italiani” nonostante fossero presenti anche i rappresentanti di Trento e Trieste, territori austroungarici. Sarebbe stata questa la notizia del giorno. Ma quel giorno era destinato ad essere consegnato ai posteri per un’altra ragione; perché appena salito sulla carrozza per tornarsene alla vicina Villa Reale, Re Umberto fu avvicinato da Gaetano Bresci che gli sparò addosso tre colpi di pistola (qualcuno dice quattro).
Lo sfortunato Savoia ebbe appena il tempo di rendersi conto dell’agguato subito. Umberto I morì poco dopo a causa delle ferite riportate al cuore e a un polmone. Erano le 22,30 del 29 Luglio 1900.
A perenne ricordo di quel fatto, sul luogo esatto del regicidio, svetta ancora oggi un grande monumento a forma di croce chiamato Cappella Espiatoria.

Pare che alla sua inaugurazione nel 1910 un ragazzo si mise a incidere sulla cancellata la frase ‘’monumento a Bresci’’. Quel ragazzo aveva un animo turbolento che si sarebbe manifestato nella sua interezza qualche anno dopo. Si chiamava Benito Mussolini.




lunedì 20 aprile 2020

Nel baratro della scuola l’Italia sprofonda


di Aldo A. Mola

I tre dell'Ave Maria...: Azzolina, Ascani, De Cristofaro
Crolla la Scuola, pilastro portante della nazione. In Italia non si era mai fermata. Accade ora, senza alcuna giustificazione attendibile, se non la sua pluridecennale fatiscenza e la pochezza del governo, mentre funziona a pieno ritmo in Germania. Dagli Anni Settanta del Novecento la Scuola è stata lo specchio di un Paese sempre in affanno, quasi brodo primordiale dell'emergenza nazionale. Ha tirato avanti come ha potuto. La salveranno la ministra Azzolina Lucia e i suoi due sottosegretari? Che parte giocheranno Conte Giuseppe e i suoi “esperti”?
Azzolina passerà alla storia per vari motivi. Ministra dimidiata, si trovò tra capo e collo l'epidemia del Covid-19 e si mise sulla scia dei Decreti-legge e dei Decreti presidenziali senza alcuna idea originale. Classe 1982, laureata in storia della filosofia a Catania e in giurisprudenza a Pavia, docente tra Sarzana e Biella, al concorso per dirigente scolastico risultò al 2542° posto su 2900 vincitori. Il presidente della Commissione d'esame, Massimo Arcangeli, ricordò che aveva ottenuto risultati modesti: 0 in informatica e molto indietro in inglese, secondo un quotidiano. Era lontana insomma dalle tre “I”: inglese, informatica, impresa. Del resto il movimento dei Cinque Stelle, al quale appartiene, predica che “uno vale uno”, invoca la “decrescita felice” e quindi va bene un mondo senza scuola, come si vociferava a metà Anni Sessanta. La fiancheggiano due sottosegretari: la 33enne del Partito democratico, Ascani Anna, laureata in filosofia teoretica e dottoranda in Political Theory, e Giuseppe De Cristofaro, a giudizio del quale la scuola italiana era e rimane “di classe”, come mezzo secolo fa si leggeva in “Proletari senza rivoluzione”.
Il crollo verticale della scuola comporta quello del Paese in ogni sua componente, poiché spalanca una voragine al cui confronto l'eruzione del Vesuvio, da tempo paventata, sarà uno scherzo.

Decretite, commissionite e Trenta Tiranni
L'Italia, 60 milioni di abitanti, terzo paese manifatturiero d'Europa, da anni non ha un governo all'altezza della sua storia e delle sue esigenze. Travolto dal Covid-19, l'attuale risulta pessimo.  Perciò l'elenco dei delusi, impazienti e indignati cresce di giorno in giorno. Ormai prossima al livello di guardia monta l'onda degli arcistufi di un esecutivo che da inizio marzo ha reiterato e indurito tre volte la reclusione dei cittadini nelle loro case (anche con assurde ordinanze da “stato di guerra” ed episodi grotteschi di caccia al “vagante”) senza vero coordinamento Stato/Regioni e, ciò che più conta, senza un progetto chiaro e credibile. Nessuno scommette sulle prossime mosse del Conte. Davvero dal 3 maggio i cittadini potranno uscire dai confini comunali e lasciarsi alle spalle i gabellieri che da settimane li vessano con pretesti spesso insulsi?
Il neo-presidente della Confindustria, Carlo Bonomi, appena eletto ha esordito bollando come “smarrita” la “classe politica”. Ha errato. Il migliaio di parlamentari, infatti, non sono “classe politica” ma in larga parte personcine passate da professioni casuali o dal nulla a rappresentanti dei cittadini in forza di una legge elettorale sciagurata che lascia la scelta dei candidati ai vertici di “partiti” che, come noto, non rendono conto a nessuno né della loro democrazia interna, né dell'impiego del fiume di danaro che ricevono dallo Stato, cioè dalle tasche dei cittadini. Certi partiti che hanno raccolto valanghe di consensi promettendo di far nuove tutte le cose (come il Mostro dell'Apocalisse) sono poi i primi a occultare il proprio funzionamento effettivo.
Indeciso a tutto, il governo è affetto da due malattie di gran lunga peggiori della polmonite da Covid-19: la commissionite e la decretite, come è stato più volte autorevolmente osservato anche da costituzionalisti di buon cuore, come Sabino Cassese e Michele Ainis. Dati alla mano, l'Esecutivo conta un presidente del Consiglio, 21 ministri e ben 42 sottosegretari, in barba alla legge Bassanini sulla composizione del governo. A Palazzo Chigi Conte si vale di una tribù di circa 270 dirigenti e 2100 dipendenti. Per fronteggiare la lotta contro la diffusione del contagio, sin dalla dichiarazione dello stato di emergenza del 31 gennaio scorso il presidente si è coperto il fianco con il capo della Protezione Civile (un arcipelago sterminato), nonché con il Consiglio Superiore della Sanità (30 membri) e l'Istituto Superiore della Sanità (2000 aggregati). A sua volta, al di là della pletora di impiegati, funzionari e dirigenti, ogni ministro ha la sua brava dose di consulenti e non rinuncia a valersi di almeno una commissione di fedelissimi, scelti “ad nutum principis”.
L'assetto del potere istituzionale italiano odierno rievoca i “Tyranni triginta” descritti da Trebellio Pollione nella “Historia Augusta”: Postumo, Postumo il Giovane, Lolliano, Vittorino Quieto, Erode e un paio di tiranni dai nomi profetici: Ingenuo e Ballista. Alla fine arrivarono Zenobia (“siamo veramente alla fine della vergogna” ne scrisse il biografo) e Vitruvia o Vittoria...: dopodiché il diluvio.
Chi volga lo sguardo al passato, agli organigrammi ministeriali della Ricostruzione, del “famigerato regime” e dell'età liberale (da Depretis e Crispi a Giolitti) coglie l'immane differenza. Ogni politico (se bravo rieletto più e più volte, perché governare bene richiede lunga esperienza sul campo) disponeva di una manciata di funzionari capaci e devoti allo Stato. Se oggi Roberto Garofoli e altri contrappongono ai “politici” il primato della “grande burocrazia” lo si deve proprio al decadimento della “politica”, improvvisata, priva di formazione culturale e professionale e quindi succuba dei suoi stessi consigliori.
La retorica sulla “lotta contro il contagio” e il “distanziamento sociale” (neologismo risibile e infelice) ha le ore contate. Urge un governo all'altezza dell'emergenza vera: rianimare la Scuola e produrre, due volti di una stessa medaglia. Si trova invece sotto il confuso “ombrellone” di un esecutivo litigioso sugli obiettivi primari e di ministri che appaiono e scompaiono secondo la scena di giornata (Interno, Difesa, Sanità, Giustizia...). I due antichi pilastri dello Stato, politica estera e difesa, ricordano sempre di più quelli dei viadotti che mostrano a nudo i tondini di ferro corrosi, ormai privi di guaine e di cemento, inesorabilmente condannati al crollo, come da vent'anni ammonisce, tra altri, la genovese Donatella Mascia, docente di ingegneria: dati i materiali di composizione, sin dalla costruzione essi  hanno una durata prevedibile e presto o tardi crolleranno tutti, uno via l'altro, lasciando l'Italia in pezzi, come dopo anni di bombardamenti aerei.
Esteri e Difesa, tuttavia, sono meno periclitanti di quanto si possa temere, poiché l'Italia, privata di indipendenza effettiva dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale, vive sotto tutela: essa non può quindi ripetere errori catastrofici come quelli che, nella prima metà del secolo scorso, ne annientarono il patrimonio coloniale e ne misero a rischio la stessa unità politica, poi rabberciata con l'istituzione delle regioni a statuto speciale, fonte di privilegi ormai ingiustificabili.
Però l'Italia ha, o potrebbe avere, pieno autogoverno almeno su un “mondo” tutto suo e al tempo stesso universale: la Scuola di ogni ordine e grado. All'indomani degli armistizi del 1943 un’apposita Commissione anglo-americana, integrata da “esperti” nostrani, provvide alla defascistizzazione del sistema scolastico, intrecciandola con l'epurazione, cioè con l'allontanamento dal servizio di quanti erano bollati quali manutengoli delle due fasi del “fascismo”: quello in auge sino al 25 luglio 1943 e la Repubblica sociale italiana. La pretesa era palesemente assurda. Sin dal 1931 per rimanere in funzione insegnanti e professori avevano dovuto giurare di essere fedeli non solo al re e ai suoi successori ma anche al duce. Tranne una dozzina di professori universitari, gli altri si prosternarono. E che cosa avrebbero potuto fare gli impiegati in servizio nell'Italia centro-settentrionale all'indomani dell'8 settembre se non rimanere ai loro posti? Le scuole, dagli asili alle Università, continuarono a funzionare anche sotto i bombardamenti e malgrado la guerra civile. La defascistizzazione riguardò persino i libri di testo e le biblioteche scolastiche, civiche, pubbliche.  Dal 1938 erano state tolte dagli scaffali le opere di autori ebrei considerati incompatibili con le leggi “per la difesa della razza” (per coerenza avrebbero dovuto gettare dalle finestre anche l'Enciclopedia Italiana, detta Treccani, la cui dottissima voce “Ebrei” è scritta da israeliti insigni, come Giorgio Levi della Vida). Dopo il 1945 fu il turno degli autori “fascisti”, additati al pubblico disprezzo e condannati all'oblio, anche se a volte erano stati perseguitati o poco apprezzati dal regime.
Dopo una prima stagione di esagerazioni, che confuse il nazionalismo (ala destra del liberalismo) con il totalitarismo liberticida e il filonazismo, il malato si riprese e trovò equilibrio con la Costituzione. Il suo articolo 34 recita: “La scuola è aperta a tutti”. La Scuola è stata tra i più potenti volani della Ricostruzione, del miracolo economico e della dinamica sociale, con fasi di accelerazione straordinaria, quali l'istituzione della scuola media unica (non era scritto da nessuna parte che vi si dovesse abolire lo studio del latino) e la liberalizzazione degli accessi alle Facoltà universitarie dapprima senza alcuna filtro, poi con talora discusse forme di selezione.

La ministra abolisce il valore sostanziale dei titoli di studio
Qual è lo “stato dell'arte” della Scuola italiana in tempi di coronavirus? Non potrebbe stare peggio. Il decreto-legge 8 aprile 2020, n. 22, emanato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che fu anche ministro della Pubblica Istruzione, e firmato dal presidente Conte e dai ministri Azzolina, Manfredi (Università e Ricerca), Di Maio (Esteri), Bonafede (Giustizia), Gualtieri (Economia e Finanza) e Dadone (Pubblica Amministrazione), delinea le “misure urgenti sulla regolare conclusione dell'anno scolastico e sullo svolgimento degli esami di Stato”, previsti dall'articolo 33 comma 5 della Carta, e demanda al ministro l’emanazione di “ordinanze” che, per non essere impugnate e annullate, dovranno conformarsi alle fonti superiori del diritto.
Con buona pace dei suoi illustri firmatari, quel decreto-legge è un cumulo di affermazioni campate in aria. In primo luogo, quando già era chiaro che a scuola non si potrà rientrare né il 18 maggio (come tuttavia vi si ipotizza) né ai primi di giugno, esso abbozza le forme di valutazione degli studenti (terza media e maturità) e indica il ritorno a scuola generalizzato al 1° settembre 2020. Luigi Einaudi, liberale autentico e niente affatto reazionario, propugnava l'abolizione del valore legale del titolo di studio. Azzolina ha fatto di più: ne ha abolito il valore sostanziale. Tutti gli studenti passeranno all'anno successivo, anche se insufficienti gravi: “todos caballeros...”. 
Col decreto-legge (che dovrà essere convertito in legge entro il 7 giugno, a pena di decadenza) l'esecutivo ha mancato di chiarire, ora per allora, la reale prospettiva dell'estate e dell’autunno prossimi. Sulla Scuola, come del resto su ogni altro aspetto della vita dei cittadini, esso ha giocato e gioca a rimpiattino. La dilazione è ormai la sua regola aurea, ma dopo ormai due mesi nessuno più  se ne fida. Il governo, infatti, nasconde la verità. Nel caso della scuola essa è una sola: né a maggio né a giugno la “macchina scolastica” sarà in grado di reggere l'impatto di 9 milioni di presenze, tra allievi e docenti, in condizioni minime tali da escludere il rischio di contagio. Questo non significa però che essa debba rimanere “chiusa” nei tre mesi estivi. Come tutti gli impiegati pubblici, i docenti hanno diritto a 32 giorni di ferie. Essi possono quindi essere chiamati in servizio anche a luglio e ad agosto. È questione di organizzazione del loro calendario e di volontà/capacità di ministro, “provveditori” e  “dirigenti scolastici”, se davvero preoccupati di recuperare gli allievi.
Sulla “macchina scolastica” ai cittadini va detta tutta la verità: essa era molto malmessa prima della diffusione del contagio ma reggeva su silenzi e finzioni, sull'inclinazione a non vedere, a rinviare e a sperare che nulla accada di clamoroso, salvo insabbiare i disastri in qualche fascicolo processuale, nelle relazioni di ispettori e nel chiacchiericcio di commissioni d'inchiesta. L'amministrazione pubblica strizza l'occhio al cittadino. Ne invoca la connivenza e la complicità, ma talora gli fa “la faccia feroce”.

Ma le scuole sono “a norma”?
Stiamo ai fatti. Adesso tanti strepitano perché il sistema sanitario ha mostrato molte gracilità e perché le case di riposo si sono rivelate per quel che sono: affollati veicoli di epidemie da anni previste. Per capirlo i loro amministratori e i medici che a vario titolo vi si affacciavano dovevano proprio attendere che vi infuriasse il morbo? Altrettanto, e molto più grave, è stata la distrazione di massa nei confronti della macchina scolastica italiana, sia a gestione pubblica sia privata. Molto prima che il Covid-19 si affacciasse, i dati statistici ufficiali, reperibili nei vari siti istituzionali ma oggi curiosamente trascurati, dicevano  e ripetono che il 54% degli edifici scolastici del Paese è privo del certificato di agibilità e quasi il 60% non ha quello di prevenzione incendi. La Scuola campa alla giornata, tra giaculatorie e gesti scaramantici, mentre regioni, province (evanescenti ma a loro volta impiccione) e comuni  vessano i cittadini. Per decenni abbiamo assistito al rimpallo della Scuola fra Stato ed enti territoriali. Altrettanto, del resto, è accaduto per il personale, sia docente sia amministrativo, e per i “bidelli”. Nei licei scientifici presidi e professori erano “statali”, il personale ausiliario provinciale, i bidelli  comunali.  Quando un classico (tutto statale) e uno scientifico erano in uno stesso edificio non avveniva come a Betlemme, ove i sacerdoti cristiani di diverse confessioni si prendono a colpi di scopa. Semplicemente interrompevano la pulizia del corridoio mezzo metro prima del confine di competenza.
Vedute le norme vigenti sugli edifici scolastici, già anche troppo soffocanti per classi normali (risalgono al 1975, un'era “zoologica” fa),  ce la faranno la ministra Azzolina e le varie amministrazioni a mettere a norma gli edifici e le loro adiacenze entro l'imminente 1° settembre 2020? Perché non adattare alla svelta a sedi scolastiche i molti edifici pubblici inspiegabilmente inutilizzati? Tra le storielle su Cuneo, Beozia d'Italia (chi ci è nato ne va orgoglioso), una narra che quando Vittorio Emanuele II vi andò in visita il sindaco e i consiglieri comunali si avvidero all'ultimo che il  salone comunale non era abbastanza capiente. Allora, per allargarlo, sedettero a terra e tutti insieme spinsero la schiena contro le pareti. Per incitarli le signore presenti sporsero persino le labbra tumide sino a farle divenire paonazze. Neppure oggi basta un po' più di rossetto ministeriale per moltiplicare e ampliare aule, palestre, spazi di ricreazione, parcheggi e quel “verde” che la normativa impone ma è l'ultimo dei pensieri delle amministrazioni tenute a fornire le basi materiali dell'istruzione.

La dis-unità d'Italia
Un'ultima considerazione si impone. Da mesi le forze dell’ordine vigilano sui cittadini, sanzionando, talora arbitrariamente, chi circola in violazione di decreti e ordinanze di dubbia legittimità. Ma quegli stessi “tutori della legge” sono mai stati mandati a constatare se gli edifici scolastici siano o no “a norma”? A verificare se davvero “la scuola è aperta a tutti” e se “i più capaci e meritevoli hanno diritto di raggiungere i gradi più elevati degli studi”?
Nel Regno d'Italia la Scuola funse da ascensore sociale. Ne furono campioni insigni anche ministri della Pubblica istruzione, come l'albese Michele Coppino, figlio di un ciabattino e di una cucitrice, asceso ai vertici della cultura nazionale. Era anche massone, come il fossanese Balbino Giuliano, primo titolare del Ministero dell'Educazione Nazionale.
Mentre la ministra Azzolina gonfia le gote dichiarando che nessuno sarà lasciato indietro, in realtà oggi la Scuola trascura metà dei bambini e dei ragazzi, privi dei costosi strumenti per seguire le lezioni “da remoto”. Andavano e andranno alfabetizzati ai nuovi linguaggi. Occorrono investimenti adeguati, corsi accelerati e un impegno civile colossale, ancor più che finanziario. Nel frattempo la massa di quanti né studiano né lavorano (almeno un quarto dei giovani fra i 15 e i 29 anni) è condannata a ingrossarsi. E l'Italia diviene paese del quarto mondo. La sua dis-unione è alle porte per la voragine esistente tra chi ha o non ha possibilità di connettersi a internet in modo efficiente; tra chi ha o non ha accesso a strumenti di studio efficaci. La divisione tra Nord e Sud non è più geografica, ma si ritrova all'interno di ciascuna regione e provincia, nel cuore di ogni città.
Mancano solo quattro mesi al 1° settembre. Senza lavoro, senza vacanze, senza un reddito qualunque, dall'elemosina di Stato a quello in nero, il prossimo non sarà un “autunno caldo” bensì rovente, per colpa di un governo riluttante a mettere la Scuola al centro della “questione nazionale”. Basti constatare che nella cosiddetta task force capitanata da Vittorio Colao non vi è alcun esperto del mondo scolastico, a riprova del fatto che, nonostante i proclami di Conte e di Azzolina, l'Istruzione è proprio l'ultima ruota del carro della vociferata “ripartenza”.
Mala tempora currunt...

Aldo A. Mola

domenica 19 aprile 2020

Il libro azzurro sul referendum - XIX cap - 1


Dopo la partenza del Re
1) Ordinanza della Camera di Consiglio della Corte di Cassazione.
2) Il verbale 18 giugno 1946 della Corte di Cassazione.
3) La requisitoria del Procuratore Generale Massimo Pilotti.
4) S.E. il Presidente Pagano vota contro la deliberazione della Corte.
5) Ordine del giorno del 18 giugno.
6) Passaggio dei poteri.
7) Commento de «La Voce della Giustizia».
Ordinanza (Camera di Consiglio della Corte di Cassazione)
Ordinanza (Camera di Consiglio), 18 giugno 1946 - Pagano P. Presidente - Colagrosso estensore - Pilotti P. M. (concl. diff. «Presidente sezione monarchica di Linguaglossa ed altri ricorrenti »).
Elezioni - Referendum istituzionale - Computo della maggioranza - Re­clami - Competenza del Supremo Collegio (D.L. Lt. 23 aprile 1946 n. 219, art. 19).
Elezioni - Referendum istituzionale - Computo della maggioranza - Schede bianche e schede nulle (D.L. Lt. 16 rnarzo,1946, n. 98, art. 2).

La Suprema Corte, costituita a norma dell'art. 17 del decreto legislativo 23 aprile 1946, n. 219, è competente a conoscere sui reclami attinenti alla que­stione del modo di effettuare il computo della maggioranza degli elettori votanti nel referendum istituzionale.
Il termine «votanti» contempla non tutti coloro che abbiano esercitato il diritto di voto, deponendo materialmente una scheda, ma quelli soltanto che ab­biano compiuto una positiva manifestazione di volontà e che tale manifestazione abbiano esteriorizzata col rispetto delle rigorose garanzie di procedura che circondano la votazione, con esclusione quindi di coloro che abbiano deposto sche­da bianca o scheda nulla.
La Corte, ecc. — Considerato che i proposti reclami, col richiamare la giuridica portata dell'art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98, là dove si parla della «maggioranza degli elettori votanti» vengono a sottoporre al giudizio di questa Corte suprema di Cassazione, la disamina e la risoluzione di due problemi fondamentali relativo l'uno alla competenza, relativo l'altro alla giuridica accezione della espressione «elettori votanti»
Quanto al primo obietto, devesi affermare la competenza di questa Corte, sia perché tale tema di discussione viene dedotto a traverso la proposizione di reclamo, la cui cognizione appartiene al potere decisorio, conferito dall'art. 19 del decreto legislativo luogotenenziale 23 aprile 1946, n. 219, sia perché tutto il meccanismo dell'art. 2 del citato decreto, avente come oggetto specifici) il re­golamento del regime provvisorio quanto al Capo dello Stato, nell'una e nell'altra ipotesi della instaurazione della monarchia o della repubblica, ha come suo presupposto essenziale l'avvenuto accertamento da parte della Corte di Cassa­zione, a traverso l'attività amministrativa e giurisdizionale, di cui agli art. 16 e 19 del decreto 23 aprile 1946, n. 219, della maggioranza circa la scelta popo­lare sulla forma istituzionale.
L'art. 2 postula, come sua esigenza imprescindibile, che Governo prima e Assemblea costituente poi conoscano i risultati del referendum istituzionale perchè soltanto con tali risultati, già accertati e proclamati, è possibile la disciplina di quella situazione provvisoria che forma il contenuto specifico della norma.
D'altra parte, se tutto il complesso procedimento tracciato dagli art. 17 e
e   19 del richiamato decreto n. 219, mira a conferire alla Corte di Cassazione un potere amministrativo e giurisdizionale, volto all'accertamento della volontà popolare circa la scelta della forma istituzionale, manca qualsiasi motivo logico
e   giuridico per sottrarre alla Corte di Cassazione la competenza a conoscere quel coefficiente, essenziale-per la proclamazione dei risultati del referendum, che è costituito precisamente dalla giuridica portata da attribuirsi alla espressione «maggioranza degli elettori votanti ».
Quanto al secondo obietto, si osserva che il termine « votanti a, nel suo si­gnificato tecnico-giuridico, contempla non tutti coloro che abbiano esercitato il diritto di voto, deponendo materialmente una scheda, ma quelli soltanto che abbiano compiuta una positiva manifestazione di volontà e che tale manife­stazione abbiano esteriorizzata col rispetto delle rigorose garanzie di proce­dura che circondano la votazione.
Il voto è un atto giuridico e perciò esso sta ad esprimere non solo una manifestazione di volontà, ma una manifestazione resa nei modi di legge.
Le schede bianche rappresentano forme di astensione dal voto (art. II de­creto 219); ed è manifesta la giuridica equivalenza tra l'inerzia di chi si astiene completamente dal presentarsi all'urna e la posizione di chi non esercita il suo diritto di voto, non manifestando volontà alcuna nella scheda presentata.
Non diverso è il caso delle schede nulle (art. 15 decreto 219) le quali rap­presentano un atto irrilevante, dato il principio quod nullum est, nullum producit efleetum.
In tutt'e due i casi non si è in presenza di quel soggetto (elettore) che l'art. 2 del decreto n. 98 esige per determinare la maggioranza efficace per la scelta della forma istituzionale; maggioranza che in tanto può dirsi raggiunta, in quanto l'elettore, col suo voto, abbia scelta, abbia eletta la forma istituzionale.
L'obiezione che, data l'obbligatorietà del voto e la totalitarietà della votazione, maggioranza degli elettori votanti debba intendersi come maggioranza degli elettori che hanno l'obbligo di votare, non ha giuridica rilevanza, sia perché l'art. 2 del decreto n. 98 ha una sua propria sfera di applicazione che è estranea al carattere obbligatorio del voto, sia perché l'art. 2 si riferisce espres­samente non agli elettori iscritti, ma soltanto a quelli che abbiano effettivamente votato.
Ma a prescindere da tali rilievi di ordine generale, si osserva che i decreti legislativi luogotenenziali n. 98 e 219 offrono argomenti specifici per ritenere che elettori votanti siano soltanto quelli che validamente espressero il loro voto.
Tali argomenti sono posti in rilievo dal fatto essenziale che i due decreti, per il collegamento che deriva dall'art. 8 di quello n. 98 e per il richiamo espli­cito che il decreto n. 219 fa dell'altro, costituiscono un unum corpus, agli effetti della determinazione dei risultati del referendum.
Ciò comporta che, per l'accertamento di tali risultati, debbasi far capo unicamente al decreto n. 219, che contiene le norme specifiche per calcolare la mag­gioranza degli elettori votanti, e che costituiscono la fonte esclusiva per tale computo.
La espressione «elettori votanti » usata dal decreto n. 98, ripete perciò la sua efficacia di contenuto dalle norme del decreto n. 19, avente la stessa forma giuridica dell'altro, e respinge, ogni elemento di chiarificazione che possa de­dursi da altre norme legislative emanate per altri effetti ed aventi una propria sfera di applicazione. Dato tale essenziale presupposto, la maggioranza degli elettori votanti non può essere che esclusivamente quella conclamata dagli art. II, 16 e 17 del decreto n. 219; i quali sanzionano che la proclamazione debba es­sere fatta sulla base dei voti validi e che la registrazione dei risultati del refe­rendum debba avvenire soltanto in rapporto a tali voti.
Il contenuto, perciò, del decreto n. 219, che costituisce lo statuto unico ed essenziale per l'accertamento dei risultati del referendum, respinge ogni com­puto delle schede bianche e di quelle nulle, che l'art. 15 del decreto n. 219 pre­vede e disciplina, nella unilateralità del trattamento giuridico al fine esclusivo dei criteri per la loro individuazione. Si osserva, infine, che la espressione «mag­gioranza degli elettori votanti» si riferisce alla maggioranza relativa e cioè alla prevalenza numerica dell'una e dell'altra volontà di scelta della forma istituzio­nale, mentre respinge ogni esigenza di maggioranza assoluta, od anche qualifi­cata, in rapporto al numero dei votanti.
A tale risultato si perviene, considerando, da una parte, che la legge non condiziona, né espressamente, né implicitamente, l'efficacia della deliberazione collegiale a tale esigenza: e considerando, dall'altra, che il referendum non verte su un'unica domanda, ma pone un'alternativa, la quale logicamente e giuridica­mente inerisce non ad una maggioranza assoluta o qualificata, ma ad una mag­gioranza di voti validamente espressi. Tale verità è confermata da tutto lo svi­luppo del procedimento tracciato dal decreto n. 219, il quale esclude la pos­sibilità di un risultato negativo per difetto di maggioranza assoluta ed esclude quindi un procedimento di rinnovazione del referendum, che è incompatibile con la struttura e il funzionamento di tutto il sistema di attività amministra­tiva e giurisdizionale della Corte di Cassazione e del regime provvisorio, siste­ma che è organicamente prestabilito per la scelta della forma istituzionale, alla quale venne chiamato il popolo italiano (art. I decreto n. 98).
Per questi motivi, rigetta, ecc.