NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 6 aprile 2020

Io difendo la Monarchia Cap IX - 3


Dobbiamo riportare le statistiche dei crimini di quella repubblica prima della rivolta dell'esercito guidato da Franco? Gli stessi uomini che combatterono contro i legionari italiani in Spagna, oggi parteggiano per Molotov quando domanda un posto al sole nel Mediterraneo in quella Libia che è divenuta parte integrante dell'Italia in virtù di trentacinque anni di lavoro dei nostri coloni; parteggiano per Tito e i suoi partigiani quando deportano e uccidono i cittadini di Trieste, di Fiume e di Zara. Non v'è compianto per quegli italiani martoriati e gettati nelle foibe del Carso: non vi è pietà per la Patria se chi uccide saluta con il pugno levato e promette anche a Venezia, anche a Milano, anche a Roma i foschi giorni della lotta civile per la gloria della Russia. Sono questi uomini che, impotenti ad agire il 25 luglio 1943, quando il popolo riconoscendo nella liberazione dal fascismo l'iniziativa monarchica, gridava: viva il Re! si lanciano sulla duplice disfatta della Patria, sulla straordinaria sventura dell'8 -10 settembre, per sfo­gare l'antico livore, per abbattere l'ultimo ostacolo alla conquista della dittatura rossa.

L'otto settembre fu una sciagura per tutti: per la Mo­narchia come per il popolo; ma 'non una colpa della Monarchia. L'otto settembre fu la conseguenza logica e ine­vitabile di quel 25 luglio che era stato salutato legittima­mente con fuochi di gioia e con canti di libertà. Tra il 25 luglio e l'8 settembre lo Stato italiano, fascista quanto si vuole, ma bene o male un complesso di armi, di amministrazione, di difesa che aveva combattuto e tenuto per tre anni contro due Imperi di immense risorse come l'Inghilterra e gli Stati Uniti per non parlare della campagna di Russia, viene spogliato dei suoi attributi fa­scisti. Tutto questo era necessario per uscire dalla guer­ra. Ma appena giunti a questa ferma decisione bisognava non indebolire ulteriormente, ma rafforzare lo Stato. Il Governo del Re si trovò invece di fronte a una campagna moralistica di inaudita violenza. Bisognava buttar giù tutto; mettere tutti sotto inchiesta, scardinare lo Stato. Questo spirito di liquidazione e di dissoluzione pervase tutti i campi, non si arrestò dinnanzi a nessuna ragione superiore. Era il momento in cui occorreva uno Stato più saldo che mai perché bisognava trattare da una parte e prepararsi a lottare dall'altra Gli «alleati» intimavano: «resa senza condizione».. E non accettavano collabora­zione, non ammettevano alcun discorso sulla comune di­fesa contro il tedesco. Quando sarebbero venuti, in quanti e dove sarebbero sbarcati? 
Il generale Castellano ha rife­rito, nel suo recente libro, sulla sua fortunosa missione in Portogallo e in Tunisia ed è stata una amara lezione per tutti. Gli anglosassoni sanno separare la morale dalla politica: la propaganda dall'azione. Essi gridavano dalla loro radio parole di fratellanza, di soccorso, di libertà. Questo era il campo di attività della loro propaganda. Ma nelle conversazioni dei militari essi erano freddi, diffidenti, distanti. E questo era il campo dell'attività politica. Volevano via libera, la flotta, la marina mer­cantile, i campi d'aviazione, tutte le risorse esistenti per proseguire la loro lotta. Non si curavano di noi e del nostro eventuale contributo. AI nemico avrebbero ba­dato da soli. Volevano realizzare d'urgenza la loro prima grande vittoria; la rottura dell'Asse, la scomparsa del­l'Italia dalle nazioni belligeranti, l'occupazione, forse di Roma. Pensavano evidentemente che tutto il settore bal­canico ne sarebbe stato influenzato, che la Turchia sa­rebbe scesa in campo ad adoperare infine quelle armi che essi le fornivano da tre anni.

Noi non giudichiamo, constatiamo. Ci si accusa spes­so di essere figli di Machiavelli, ma siamo gli unici eu­ropei incapaci di seguirne l'insegnamento. Nella nostra amorosa e armoniosa natura, lo spirito è unitario e la separazione delle varie attività è impossibile. Perciò era­vamo scossi e, ancora dopo due anni, siamo sconvolti, da un furioso moralismo politico: quello, ad esempio, del partito d'azione. Vi sono per essi i reprobi e i puri e il mondo fascista è il mondo dei reprobi, il loro è il mondo dei puri. Si abbatta l'uno e si elevi l'altro per la salute universale. Non v'è nulla di più italiano come tra­dizione e come costume, ma anche nulla di più stupido. L'attività politica si compie in un campo diverso dal campo della morale così come ci insegnavano, senza sforzo alcuno, gli anglosassoni nel trattare con Castellano e nel parlare un così diverso linguaggio, negli stessi gior­ni, da Radio Londra. E, per non sbagliare, una terza versione del loro pensiero ci veniva in quelle settimane dall'aria. L'italiano, invece, in ogni sua faccenda, in ogni sua azione porta tutto se stesso; non la sola ragione, ma il sentimento, la vita sua personale e quella familiare; cuore, intelletto, sensi, relazioni. Avvenne così che lo Stato, già tarlato al momento della caduta del fascismo, fu interamente abbattuto nei 45 giorni. Un solo tentativo vi fu per arrestarne la caduta, con un promemoria del Sovrano al maresciallo Badoglio che fu trovato tra le carte del maresciallo il io settembre e fu pubblicato da Mussolini nel suo volume Storia di un anno a pag. III. 
Il promemoria porta la data del 16 agosto. Esso diceva in sostanza:
1) il Governo deve mantenere il suo carattere di Governo militare e tecnico; 2) devono evitarsi le recri­minazioni continue ed eccessive; 3) bisogna colpire gli indegni, non i fascisti come tali.
Era un tentativo per non scardinare totalmente l'am­ministrazione e l'Esercito nel momento così delicato che si attraversava e in previsione della prossima tempesta. L'atto di accusa dei partiti contro il fascismo, contro tutti i suoi uomini, capaci o incapaci, degni o indegni, distruggeva ogni resistenza dello Stato e lo rendeva in­capace di fronteggiare il prossimo urto. Naturalmente Mussolini e l'antifascismo cadevano d'accordo nel soste­nere che questo documento rivela l'interesse esclusivo del Sovrano alla conservazione della Dinastia come se proprio -non fosse nelle funzioni di una dinastia il con­servarsi per conservare lo Stato di cui essa è norma, equi­librio ed essenza. Ma in tempi così passionali e contur­bati tutti gli errori di giudizio sono possibili e tutte le contraddizioni e gli accostamenti più straordinari diven­gono normali.

Ora si comprende, invece, perché il Sovrano propen­deva per un ministero militare e tecnico e cioè per un ministero che si preoccupasse dei gravissimi problemi in corso e non del processo politico al passato : processo che si sarebbe fatto a suo tempo per l'ordine logico delle cose. Si è visto più tardi, tra il giugno 1944 e il settem­bre 1945, come una coalizione politica, pure a due anni di distanza dal fascismo, con i principali responsabili del disastro e migliaia di complici uccisi dalla furia po­polare, non riesca ad affrontare i problemi concreti della ricostruzione perché si diffonde e consuma e disperde nell'eloquenza tribunizia e nella polemica sui principi. Fu proprio un Ministro della coalizione e per di più esponente del partito più intransigente e più rigorosamente moralistico di essa, il De Ruggero, che confessava non essere riuscito in tutti i mesi del suo ufficio a far discutere in Consiglio dei Ministri, un solo provvedimento del suo Ministero. Non curava dunque il Sovrano con quel suo promemoria l'interesse dinastico, ma il bene dello Stato. Se avesse curato l'interesse dinastico avrebbe chiamato al potere i partiti e avrebbe compromesso nel governo dei 45 giorni i loro esponenti: li avrebbe impegnati nella decisione circa la difesa della Capitale e coinvolti nella catastrofe. Perché la catastrofe era fatale in quanto de­rivava dall'interna e inguaribile debolezza dello Stato e dalla dissoluzione dell'Esercito. Questa è l'unica tragica realtà. L'Esercito già battuto il 25 luglio (e perciò cadde il fascismo) dimise ogni volontà di continuare a combat­tere la guerra tedesca, ma non poteva intanto prepararsi a sostenere la guerra contro i tedeschi: le sue divisioni efficienti erano tutte in Francia e in Jugoslavia e il co­mando tedesco si opponeva — et pour cause — a farle - rientrare. Era stato quello l'ultimo tradimento di Mus­solini che, avendo forse compreso le intenzioni dello Stato Maggiore preferiva in Italia un equilibrio di forze più favorevole ai tedeschi che agli italiani: energicamente, alla richiesta di Ambrosio di far rien­trare in Patria le divisioni italiane dislocate fuori dei confini: diceva che era una questione di prestigio, ma dove sarebbe finito il nostro prestigio quando il territorio italiano fosse stato invaso?

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