Dobbiamo
riportare le statistiche dei crimini di quella repubblica prima della rivolta
dell'esercito guidato da Franco? Gli stessi uomini che combatterono contro i
legionari italiani in Spagna, oggi parteggiano per Molotov quando domanda un
posto al sole nel Mediterraneo in quella Libia che è divenuta parte integrante
dell'Italia in virtù di trentacinque anni di lavoro dei nostri coloni;
parteggiano per Tito e i suoi partigiani quando deportano e uccidono i
cittadini di Trieste, di Fiume e di Zara. Non v'è compianto per quegli italiani
martoriati e gettati nelle foibe del Carso: non vi è pietà per la Patria se chi
uccide saluta con il pugno levato e promette anche a Venezia, anche a Milano,
anche a Roma i foschi giorni della lotta civile per
la gloria della Russia. Sono questi uomini che, impotenti ad agire il 25 luglio
1943, quando il popolo riconoscendo nella liberazione dal fascismo l'iniziativa monarchica, gridava: viva il Re! si
lanciano sulla duplice disfatta della Patria, sulla straordinaria sventura
dell'8 -10 settembre, per sfogare l'antico livore, per abbattere l'ultimo
ostacolo alla conquista della dittatura rossa.
L'otto settembre fu una sciagura
per tutti: per la Monarchia come per il popolo; ma 'non una colpa della Monarchia. L'otto settembre fu la conseguenza logica
e inevitabile di quel 25 luglio che era stato salutato legittimamente con
fuochi di gioia e con canti di libertà. Tra il 25 luglio e l'8 settembre lo
Stato italiano, fascista quanto si vuole, ma bene o male un complesso di armi,
di amministrazione, di difesa che aveva combattuto e tenuto per tre anni contro
due Imperi di immense risorse come l'Inghilterra e gli Stati Uniti per non
parlare della campagna di Russia, viene spogliato dei suoi attributi fascisti.
Tutto questo era necessario per uscire dalla guerra. Ma appena giunti a questa
ferma decisione bisognava non indebolire ulteriormente, ma rafforzare lo Stato.
Il Governo del Re si trovò invece di fronte a una campagna moralistica di
inaudita violenza. Bisognava buttar giù tutto; mettere tutti sotto inchiesta,
scardinare lo Stato. Questo spirito di liquidazione e di dissoluzione pervase
tutti i campi, non si arrestò dinnanzi a nessuna ragione superiore. Era il
momento in cui occorreva uno Stato più saldo che mai perché bisognava
trattare da una parte e prepararsi a lottare dall'altra Gli «alleati»
intimavano: «resa senza condizione».. E non accettavano collaborazione, non
ammettevano alcun discorso sulla comune difesa contro il tedesco. Quando
sarebbero venuti, in quanti e dove sarebbero sbarcati?
Il generale Castellano
ha riferito, nel suo recente libro, sulla sua fortunosa missione in Portogallo e in Tunisia ed è stata una
amara lezione per tutti. Gli anglosassoni sanno separare la morale dalla
politica: la propaganda dall'azione. Essi gridavano dalla loro radio parole di
fratellanza, di soccorso, di libertà. Questo era il campo di attività della
loro propaganda. Ma nelle conversazioni dei militari essi erano freddi,
diffidenti, distanti. E questo era il campo dell'attività politica. Volevano
via libera, la flotta, la marina mercantile, i campi d'aviazione, tutte le
risorse esistenti per proseguire la loro lotta. Non si curavano di noi e del
nostro eventuale contributo. AI nemico avrebbero badato da soli. Volevano
realizzare d'urgenza la loro prima grande vittoria; la rottura dell'Asse, la
scomparsa dell'Italia dalle nazioni belligeranti, l'occupazione, forse di
Roma. Pensavano evidentemente che tutto il settore balcanico ne sarebbe stato
influenzato, che la Turchia sarebbe scesa in campo ad adoperare infine quelle
armi che essi le fornivano da tre anni.
Noi non giudichiamo, constatiamo. Ci si
accusa spesso di essere figli di Machiavelli, ma siamo gli unici europei
incapaci di seguirne l'insegnamento. Nella nostra amorosa e armoniosa natura,
lo spirito è unitario e la separazione delle varie attività è impossibile.
Perciò eravamo scossi e, ancora dopo due anni, siamo sconvolti, da un furioso
moralismo politico: quello, ad esempio, del partito d'azione. Vi sono per essi
i reprobi e i puri e il mondo fascista è il mondo dei reprobi, il loro è il
mondo dei puri. Si abbatta l'uno e si elevi l'altro per la salute universale.
Non v'è nulla di più italiano come tradizione e come costume, ma anche nulla
di più stupido. L'attività politica si compie in un campo diverso dal campo
della morale così come ci insegnavano, senza sforzo alcuno, gli anglosassoni
nel trattare con Castellano e nel parlare un così diverso linguaggio, negli
stessi giorni, da Radio Londra. E, per non sbagliare, una terza versione del loro pensiero ci veniva in
quelle settimane dall'aria. L'italiano, invece, in ogni sua faccenda, in ogni
sua azione porta tutto se stesso; non la sola ragione, ma il sentimento, la
vita sua personale e quella familiare; cuore, intelletto, sensi, relazioni.
Avvenne così che lo Stato, già tarlato al momento della caduta del fascismo, fu
interamente abbattuto nei 45 giorni. Un solo tentativo vi fu per arrestarne la
caduta, con un promemoria del Sovrano al maresciallo Badoglio che fu trovato
tra le carte del maresciallo il io settembre e fu pubblicato da Mussolini nel
suo volume Storia di un anno a pag. III.
Il promemoria porta la data del
16 agosto. Esso diceva in sostanza:
1) il Governo deve mantenere
il suo carattere di Governo militare e tecnico; 2) devono evitarsi le recriminazioni
continue ed eccessive; 3) bisogna colpire gli indegni, non i fascisti come
tali.
Era un
tentativo per non scardinare totalmente l'amministrazione e l'Esercito nel
momento così delicato che si attraversava e in previsione della prossima
tempesta. L'atto di accusa dei partiti contro il fascismo, contro tutti i suoi
uomini, capaci o incapaci, degni o indegni, distruggeva ogni resistenza dello
Stato e lo rendeva incapace di fronteggiare il prossimo urto. Naturalmente
Mussolini e l'antifascismo cadevano d'accordo nel sostenere che questo
documento rivela l'interesse esclusivo del Sovrano alla conservazione della
Dinastia come se proprio -non fosse nelle funzioni di una dinastia
il conservarsi per conservare lo Stato di cui essa è norma, equilibrio ed essenza.
Ma in tempi così passionali e conturbati tutti gli errori di giudizio sono
possibili e tutte le contraddizioni e gli accostamenti più straordinari divengono
normali.
Ora si comprende, invece, perché il Sovrano propendeva per un
ministero militare e tecnico e cioè per un ministero che si preoccupasse dei gravissimi problemi in corso e non del
processo politico al passato : processo che si sarebbe fatto a suo tempo per
l'ordine logico delle cose. Si è visto più tardi, tra il giugno 1944 e il
settembre 1945, come una coalizione politica, pure a due anni di distanza dal
fascismo, con i principali responsabili del disastro e migliaia di complici
uccisi dalla furia popolare, non riesca ad affrontare i problemi concreti
della ricostruzione perché si diffonde e consuma e disperde nell'eloquenza
tribunizia e nella polemica sui principi. Fu proprio un Ministro della
coalizione e per di più esponente del partito più intransigente e più
rigorosamente moralistico di essa, il De Ruggero, che confessava non essere
riuscito in tutti i mesi del suo ufficio a far discutere in Consiglio dei
Ministri, un solo provvedimento del suo Ministero. Non curava dunque il Sovrano
con quel suo promemoria l'interesse dinastico, ma il bene dello Stato. Se
avesse curato l'interesse dinastico avrebbe chiamato al potere i partiti e
avrebbe compromesso nel governo dei 45 giorni i loro esponenti: li avrebbe
impegnati nella decisione circa la difesa della Capitale e coinvolti nella
catastrofe. Perché la catastrofe era fatale in quanto derivava dall'interna e
inguaribile debolezza dello Stato e dalla dissoluzione dell'Esercito. Questa è
l'unica tragica realtà. L'Esercito già battuto il 25 luglio (e perciò cadde il
fascismo) dimise ogni volontà di continuare a combattere la guerra tedesca, ma
non poteva intanto prepararsi a sostenere la guerra contro i tedeschi: le sue
divisioni efficienti erano tutte in Francia e in Jugoslavia e il comando
tedesco si opponeva — et pour cause — a
farle - rientrare. Era stato quello l'ultimo tradimento
di Mussolini che, avendo forse compreso le intenzioni dello Stato Maggiore
preferiva in Italia un equilibrio di forze più favorevole ai tedeschi che agli
italiani: energicamente, alla richiesta di Ambrosio di
far rientrare in Patria le divisioni italiane dislocate fuori dei confini:
diceva che era una questione di prestigio, ma dove sarebbe finito il nostro
prestigio quando il territorio italiano fosse stato invaso?
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