NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 11 agosto 2010

CAMILLO CAVOUR

Duecento anni fa nasceva uno dei protagonisti dell'unificazione italiana nel Risorgimento
Insospettabile gaudente, amava il buon vino, il cibo e le belle donne ma è stato soprattutto uno statista geniale e il miglior presidente del Consiglio che il nostro Paese abbia mai avuto nella sua storia

Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861) nel ritratto realizzato da Francesco Hayez
Torino 1823; godendosi uno dei rari momenti di svago loro concessi, gli allievi dell'Accademia militare mettono in scena la pièce teatrale I poeti ai Campi Elisi.
La parte del Genio d'Italia è affidata ad un giovanissimo cadetto che, appeso ad una fune, scende dall'alto in costume da puttino alato declamando le future grandezze e la gloria della patria. Quando si dice il destino; a quel ragazzetto di cui ricorre oggi il duecentesimo anniversario della nascita, proprio a lui, sarebbe toccato in sorte di divenire il principale artefice dell'unità nazionale e tenere a battesimo l'Italia. Il suo nome era Camillo, Camillo Benso, conte di Cavour.
EREDITÀ PERDUTA. Della trinità patriottica che unisce idealmente i padri della nostra nazione (in realtà, com'è noto, i loro rapporti furono assai poco idilliaci) la sorte meno felice è toccata senza dubbio a Cavour. Se infatti Mazzini sopravvive nella forma repubblicana dello Stato e Garibaldi nell'inossidabile fascino del più popolare tra gli eroi del Risorgimento, l'Italia moderna, con l'estinguersi del liberalismo e il suicidio della monarchia, non ha rappresentato l'ambiente più propizio per coltivare la memoria del liberale e sabaudo Cavour, personaggio tra l'altro che per la scarsa spettacolarità della sua infaticabile azione politico-diplomatica manca totalmente di quei tratti seduttivi tanto graditi all'immaginario collettivo.
Peccato, perché a voler andare oltre l'apparente grigiore di quella pingue ed occhialuta figura dall'improponibile barbetta ci si rende conto di come la vita e le opere del conte siano uno scrigno ricolmo di straordinari ed attualissimi spunti d'interesse.
«GALLO DA COMBATTIMENTO». C'è, sconosciuto ai più, l'uomo Cavour: carattere orgoglioso, insofferente alla disciplina, dotato di innata attitudine al comando, pronto ad accendersi in terribili sfuriate (memorabili e senza freni i litigi, rigorosamente in dialetto, con Vittorio Emanuele II) ma altrettanto pronto a superarle senza inutili rancori.
Intelletto vivacissimo versato alle scienze matematiche e agli studi socioeconomici, spirito innovatore affamato di modernità, talento imprenditoriale e finanziario così brillante da meritarsi l'appellativo di «gallo da combattimento» attribuitogli dal banchiere Rothschild; oratore dallo stile incisivo ed antiretorico ma in perenne ansia per il corretto uso di una lingua italiana che, da bravo nobile piemontese, non padroneggiava bene quanto il francese.
Insospettabile gaudente innamorato del buon vino, della buona tavola («Ebbene, signori, ora che abbiamo fatto la Storia, sarà pur ora che andiamo a pranzo!» esclamò dopo aver rifiutato l'ultimatum austriaco il 26 aprile 1859) e delle belle donne, finite in gran numero tra le sue braccia pur senza ricevere alcun ministero in cambio.
STATISTA GENIALE. Ma c'è anche e soprattutto il Cavour politico, uno statista geniale la cui levatura, osservata dalle mefitiche paludi del nostro oggi, appare a dir poco incommensurabile. Democratizzazione e svecchiamento delle istituzioni, centralità del Parlamento, capacità di interpretare la società e di identificare il flusso delle sue forze vive scavalcando il contrapporsi di vuoti schematismi ideologici, dinamismo economico, «libera Chiesa in libero Stato» ovvero, impresa finora incompiuta, la conquista di una piena laicità senza il penoso timore di anatemi vaticani: queste le parole d'ordine di un liberale vero e dall'onore immacolato che, pur non privo della scaltrezza e del cinismo propri di ogni grande leader, visse la politica solo ed esclusivamente come servizio, come naturale prosecuzione del proprio essere nella società, avendo la bussola del suo operato sempre fissa sulla crescita economica e civile della nazione, mai sul proprio interessato tornaconto.
LA COSTRUZIONE DELL'ITALIA. E poi l'Italia, naturalmente, quell'Italia che Cavour seppe costruire in anni di costante e paziente tessitura gestendo in prima persona un mostruoso intreccio di interessi diplomatici, contrapposti patriottismi, personalismi e campanilismi senza mai risparmiarsi né sottrarsi a frenetici ritmi di lavoro che gli sarebbero costati la vita ad appena cinquant'anni.
Sulla tecnica di questo fare l'Italia il giudizio più azzeccato l'aveva dato Alessandro Manzoni: «Lei, conte, ha le due qualità che servono all'uomo politico, la prudenza e l'imprudenza». Ed è appunto dosando queste qualità che Cavour saprà manovrare operando una sintesi virtuosa tra la fede nel destino unitario della nazione e il pragmatismo di una Realpolitik che doveva tener conto di delicatissimi equilibri internazionali, uno su tutti la protezione garantita dalla Francia al papato.
VERO POLITICO DEL «FARE». Questo pragmatismo è stato erroneamente scambiato per freddezza verso gli ideali patriottici così bene incarnati da Mazzini e Garibaldi; nulla di più lontano dalla verità.
Lo dimostrano lo slancio con cui Cavour gestì l'accelerazione degli eventi tra il '59 e il '61 ampliando di volta in volta gli obiettivi forzatamente limitati che aveva dovuto darsi in un primo tempo e la volontà di ricongiungere quanto prima al corpo dalla nazione Roma e le Venezie. Lo dimostrano le parole scritte nel 1848, quando di fronte ai timori di Carlo Alberto che esitava a correre in aiuto degli insorti milanesi Cavour, annunciando il suonare dell'«ora suprema della monarchia sarda», invocava la «guerra immediata senza indugi» per la vittoria della «causa italiana». E ancor più lo dimostrano le parole pronunciate alla vigilia della seconda guerra d'Indipendenza al termine di una storica seduta parlamentare: «Esco dalla tornata dell'ultima Camera piemontese; la prossima sarà quella del Regno d'Italia».
IL MIGLIOR CAPO DEL GOVERNO. Rievocare Cavour senza sentirne la mancanza è difficile, non c'è che dire, e questa nostalgia si fa ancora più forte nel constatare come il migliore presidente del consiglio della storia d'Italia, disgraziatamente, sia stato in carica solo per pochi mesi e tanti, troppi anni fa. Noi, nella speranza che possa ancora guardare con affettuosa indulgenza alla sua bella e sfortunata creatura, gli facciamo tanti auguri di buon duecentesimo compleanno.
Stefano Biguzzi

da www.ilgiornaledivicenza.it

martedì 10 agosto 2010

Nostalgia di Cavour

L’IDEA DELLA POLITICA CHE MANCA ALL’ITALIA


Sarebbe per primo Cavour—di cui oggi ricorre il duecentesimo anniversario della nascita — a non gradire di essere ricordato con elogi di maniera, con inutili apologie. A suo merito parlano a sufficienza i nudi fatti—naturalmente per chi pensa che sia un bene che esista un’Italia unita dalle Alpi alla Sicilia—essendo egli per l’appunto stato, di quest’Italia, l’artefice non unico ma certo massimo. Eppure in Italia Cavour non è per nulla popolare. Se è così (e lo testimonia la generale indifferenza che circonda l’odierno anniversario), ecco allora un modo forse appropriato per ricordare il Gran Conte e la sua opera: chiedersene il perché. Farlo fa probabilmente capire anche molte cose di che Paese siamo.



La scarsa popolarità di Cavour è innanzitutto l’esito naturale della scarsa conoscenza- popolarità che da noi ha il Risorgimento, cioè quella parte della nostra storia che riguarda la nascita della nazione. Basti pensare che negli ultimi trent’anni, e fino a pochissimo tempo fa, nei manuali scolastici non gli veniva assegnato nessun rilievo particolare, e che sono almeno altrettanti anni che a nessun regista italiano viene in mente di girare un film serio su quel periodo (del resto su Cavour, che io sappia, non ne è mai stato girato nessuno). Tutto ciò è d’altra parte più che naturale se si pensa che in pratica tutte le culture politiche dell’Italia del Novecento (dal fascismo all’azionismo, dal cattolicesimo al socialismo, al comunismo gramsciano, e fino al leghismo) sono nate da una critica più o meno radicale al Risorgimento, e in particolare proprio alla soluzione cavourriana di esso, sprezzantemente definita «moderata». Perpetuando l’equivoca confusione tra liberalismo e moderatismo che continua a pesare come un macigno sulla nostra vita pubblica. Si aggiunga la dissociazione da ogni dovere collettivo e il disprezzo qualunquistico- anarcoide verso lo Stato in quanto tale che nutre tanta parte del Paese, comprese le sue classi elevate. In misura significativa l’impopolarità di Cavour non è altro che l’impopolarità presso tanti italiani dello Stato italiano.



Ed è poi l’impopolarità della politica. O meglio: la radicale incomprensione — in Italia diffusissima — di che cosa essa sia, non possa non essere, e che l’azione di Cavour incarnò come poche altre. È incomprensione per l’intreccio di elementi nobili e poco nobili, di idealità alte e strumenti bassi, in cui la politica consiste; per la combinazione di dissimulazione e di coerenza, di ambizione personale e di devozione ad una causa, di opportunismo contingente e lungimiranza, che contraddistingue la politica; incomprensione infine per la drammatica serietà che deve esserci in chi si assume il peso di dominare la complessità, sempre difficile e spesso contraddittoria, di questo intreccio. Proprio ciò Cavour seppe fare in modo incomparabile. Ma proprio per questo egli non piace. Perché la sua azione non rientra nelle due categorie con le quali, invece, la più parte dei suoi connazionali è abituata a pensare alla politica: quella del vuoto moralismo da un lato, ovvero quella della scaltrezza da magliari dall’altro. Unite entrambe da un’invincibile propensione alla faziosità. Non basta.



Nell’impopolarità di Cavour c’è anche il peso ininterrotto delle interne divisioni della Penisola. C’è in generale il pregiudizio antinordista di una parte considerevole d’Italia e, in particolare, c’è l’«antipiemontesismo»: l’incomprensione— mischiata ai ricordi di un’unificazione vissuta da più parti come annessione —per certi tratti costitutivi dell’animo e della cultura del Piemonte percepiti come troppo diversi dal carattere nazionale. Il rifiuto della retorica e della presunzione di sé, l’obbedienza alle regole, un radicato senso del dovere, la tenacia, un certo abito pessimistico: tutti questi tratti della mentalità subalpina finiscono paradossalmente per riverberare una luce negativa sul grande primo ministro (che accanto ad alcuni di quei tratti in realtà ne aveva anche altri, assai diversi, a cominciare da una joie de vivre molto libertino-borghese), ratificando il suo destino di straniero in patria. Di italiano da 150 anni in qua eternamente inattuale.



Ma proprio perciò attualissimo. La consapevolezza della nostra storia, il senso della cosa pubblica, un’idea alta ma vera e realistica della politica, la rimessa in vigore di certe virtù civiche: non è forse di queste cose che nell’accavallarsi disordinato delle lotte dei partiti, dello scontro di tutti con tutti, ha bisogno oggi più che mai il Paese? Non ha forse bisogno l’Italia di ritrovare il senso originario della sua esistenza come Stato libero e moderno? Lo so bene: invocare un ritorno a Cavour suona solo patetico, prima ancora che vano. Almeno sia consentito, però, sentirne fino in fondo una disperata nostalgia e ripeterne con gratitudine il nome per trasmetterlo a chi in futuro si dirà ancora italiano.



Ernesto Galli della Loggia

10 agosto 2010


da www.corriere.it