NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 30 novembre 2020

Puntualizzazioni opportune e necessarie

Pubblicato  il 27  novembre  su  "Un sogno  italiano" diretto  da Salvatore Sfrecola


Superando il disgusto per le vergognose dichiarazioni di ministri e sottosegretari in merito alle chiusure sciistiche ed al coprifuoco anche per il Santo Natale, da veri “sepolcri imbiancati” quali sono, cerchiamo di diffondere alcune importanti statistiche, di cui non vi è traccia nella stampa di “regime”. Cominciamo dal dato più importante e cioè che i 1.509.875 colpiti, rappresentano poco più del 2,50% rispetto alla popolazione “ufficiale” di 60 milioni, per cui, anche ulteriori incrementi, prima della vaccinazione della popolazione ben difficilmente potranno portare il dato dei colpiti dal virus a percentuali più preoccupanti. Il secondo dato, altrettanto importante è il numero dei decessi di 52.250 cioè il 3,46% rispetto al totale delle persone colpite, mentre imponente è il numero dei guariti di cui la maggioranza è guarita rimanendo in casa, curandosi normalmente, con sistemi che avrebbero dovuto essere maggiormente segnalati nei famosi giornali, evidenziandone le modalità ed i medicinali adeguati, alleggerendo così il carico ospedaliero, che è la maggiore preoccupazione governativa. 

Tornando al numero dei decessi allo stesso è stato dato grande rilievo, ( un giornalista del grande Corriere lo ha definito “strage”, forse non conoscendo il significato di questo termine ) per cui vediamo qual è il numero dei decessi in Italia, ante Covid :nel 2015 sono stati 653.000, poi nel 2016, furono 613.000, nel 2017 risalirono a 650.614, nel 2018 calarono lievemente a 636.000 e nel 2019 ritornarono a 647.000. Come si nota il numero è sempre intorno ai 650.000 tranne il 2016, per cui l’aumento di quest’anno rappresenta meno del 10%, rispetto al passato, dato non trascurabile, ma neanche tragico, come è invece il tono catastrofista del governo. 

E di questi decessi qual è la loto composizione ? Il dato disaggregato ( tutti i dati citati sono ufficiali ISTAT ), più recente si riferisce al 2017 e vede il 35,8% dei decessi per malattie cardiocircolatorie,l’8,20% per malattie respiratorie, ed il 27,7% per cause tumorali, in cifra 180.081, cioè più di tre volte le attuali vittime del corona virus. E’ quindi il caso di farne una tragedia, con gravissime conseguenze economiche e sociali alle quali le formule assistenziali, oltre al loro costo non indifferente, non danno che risposte temporanee ed assistere alla ulteriore diminuzione delle nascite, ( gravissimo problema per il nostro futuro di italiani), all’aumento degli squilibri mentali, degli atti autolesivi e suicidari dei giovani e giovanissimi, con possibili future conseguenze, alle violenze contro le donne. 

Tutto questo per aver seguito gli estremisti del rigore, dimenticando che sempre ed ovunque l’estremismo, anche ispirato alle migliori intenzioni, è anch’esso una malattia, il cui rimedio è nella moderazione dei toni, nell’enunciare le precauzioni da adottare ed i pochi e chiari obblighi, e farli eseguire dando il tempo ragionevole per verificarne i risultati senza il ridicolo balletto, “oggi sì, e domani chissà”.

Domenico Giglio



domenica 29 novembre 2020

La Regina Elena: “ Iddio non ci abbandonerà”


di Emilio Del Bel Belluz

In questi giorni penso alla figura di San Leopoldo Mandic’ e alla Regina d’Italia, Elena, entrambi nati nel Montenegro. Tutti e due questi grandi personaggi hanno contribuito a scrivere la storia del nostro Paese. Quello che univa queste due grandi persone era la fede nel buon Dio. 

Il padre Leopoldo é sempre stato un servo devoto che sacrificò tutta la sua vita al buon Dio. La Regina Elena aveva conosciuto la povertà del Montenegro, aveva respirato l’aria della sua terra che aveva dovuto lasciare per sposare il principe Vittorio Emanuele III, ma non dimenticò mai le sue origini. Lo stesso dicasi per San Leopoldo Mandic’, che pur venendo a vivere in Italia, non volle mai rinunciare alla sua nazionalità. 

La Regina Elena era una donna molto legata alla famiglia, ma nello stesso tempo si prodigò moltissimo verso i poveri, a cui dedicò parte della sua vita. Nella Grande Guerra fu anche crocerossina e madre di tutti i soldati che avevano bisogno del conforto di una mano amorevole. Nella mia mente ho immaginato che la Regina e San Leopoldo si fossero incontrati a Padova, dove la Madre degli italiani si fosse recata per andare a salutare Sant’ Antonio e, saputo che vicino c’era il convento dove viveva San Leopoldo, aveva deciso di andarlo a trovare. 

La Regina era una donna che amava essere vicina agli umili, e il buon frate lo era. Quando arrivò al convento i frati rimasero sorpresi, il padre guardiano venne subito chiamato. Era l’ora del pranzo, una fila di poveri stava aspettando. Questi la riconobbero e si inchinarono, altri seguirono il loro esempio. La Sovrana si avvicinò ai poveri, chiedendo da dove venissero, e si intrattenne con loro. Quello che accadde dopo fu curioso. La sovrana era molto capace in cucina e chiese di vedere dove facevano da mangiare. Il padre cuciniere, intanto, era stato chiamato d’urgenza, e le volle parlare di cosa si sarebbe mangiato in quel giorno. La cesta del pane traboccava di pagnotte appena sfornate, e il loro profumo si diffondeva ovunque. 

La Regina chiese un pezzettino di pane, non troppo, per non togliere il pane ai poveri, e mangiando quel piccolo frammento chiese scusa. Il pane è il re della tavola, e i poveri ne conoscevano molto bene il profumo e la fragranza. Il frate che lo sfornava ne era felice. La Regina d’Italia aveva assaggiato il suo pane, ora lo si poteva chiamare il pane della Regina Elena. Nel frattempo giunse San Leopoldo che non aveva finito di confessare, ma non poteva non accogliere la Regina, e per questo si scusò con la gente che aspettava per la confessione. Al convento era giunta la notizia che la Regina era presente e molti volevano vederla, incontrarla. Quando il piccolo frate giunse, la Regina lo salutò nella loro lingua, e furono poche parole, ma capaci di risvegliare la nostalgia della loro terra. Il frate disse che aveva conosciuto il Re del Montenegro, lo aveva visto qualche volta. Il sovrano era morto da qualche anno. 

La Regina si commosse, e continuò ancora un po’ a conversare con il frate. Volle andare a vedere la sua celletta, dove passava le ore a confessare, e ne rimase felice, perché il frate le consegnò una piccola immagine della Madonna. La sovrana lasciò il convento con il cuore pieno d’amore verso la Madonna e non poteva essere più felice di così, avendo conosciuto il piccolo San Leopoldo del Montenegro. Aveva pensato molte volte a lui, alla sua fama di buon servo di Dio. Gli piaceva anche il fatto che il frate non avesse dimenticato la sua terra, quel mondo dal quale anche lei proveniva.

Alla Sovrana sarebbe piaciuto rimanere di più al piccolo convento, ma non ne ebbe il tempo. In questi anni qualcuno ha messo assieme queste due straordinarie persone, per l’amore immenso che avevano per i più deboli e i sofferenti. 


La Regina aveva un cuore grande e traboccante di bontà. In questi giorni verrà proiettato il film sulla figura di S. Leopoldo e
mi piacerebbe che il regista avesse messo la scena dell’incontro di questi due grandi, pur nella loro umiltà.

venerdì 27 novembre 2020

Il libro azzurro sul referendum - XXI cap - 2

 


Il. - Critica dei metodi di indagine statistica

Nell'accingermi al mio lavoro, mi è sembrato più logico partire dai dati, certi del censimento 1936, che la stessa Legge aveva adottati, agli effetti elettorali, per stabilire la «popolazione legale», anziché riferirmi ad uno qualsiasi dei dati successivamente «calcolati» dall'Istituto Centrale di Statistica, anche i più vicini possibile al 1946, perché suscettibili, per varie cause, di più rilevanti errori; in ogni modo, se li avessi adottati per i miei calcoli, sarei partito da un dato «calcolato», e quindi incerto. Il problema che il mio modesto studio doveva affrontare era complesso, perché anzitutto si proponeva di determinare la più probabile popolazione reale alla data del 31 dicembre 1945; quindi determinare la più probabile cifra di popolazione elettorale a quella data. Ma a questo ultimo fine soccorrevano ancor meno «elementi certi a su cui operare, tanto più che, dagli «Annuari Statistici» del Regno, si rileva che per «calcolare» la distribuzione della popolazione «per sesso e per classi di età» erano stati, nel tempo adottati criteri non del tutto uniformi.

Partendo, in ogni modo, dai dati del censimento 21 aprile 1936, per calcolare la popolazione «probabile a al 31 dicembre 1945 potevano seguirsi vari metodi. Più agevole, in un certo senso, fra questi, il calcolare il numero dei sopravviventi, per classi di età, dei «nati negli anni precedenti al 1925 e censiti nel 1936», e depurarlo del numero dei morti dal 1936 in poi, usando a tale fine delle «statistiche» della mortalità per classi di età. Poiché però tali statistiche non sono pubblicate al completo, poteva farsi ricorso alle a tavole di mortalità».

Senonché l'uso delle «tavole di mortalità», che pongono in rilievo una tendenza «ottimistica» alla longevità, inducono ad errori a per eccesso», i quali si vanno sommando — con identico «segno» e quindi senza compensi né variazioni in meno — anno per anno, e fanno correre il rischio di scoprire di aver calcolato una cifra di popolazione notevolmente più elevata della reale.

Mi soccorreva un altro metodo — e l'ho preferito ritenendolo suscettibile di errori meno rilevanti — e cioè calcolare l'accrescimento probabile della popolazione dal 1936 al 1945, valendosi degli «indici di accrescimento naturale », e rettificando poi il risultato con l'applicazione degli a indici di diminuzione naturale a per il periodo bellico 1941-1945, determinata questa dalla diminuzione delle nascite, e dei matrimoni, e dall'aumento più sensibile delle morti, esclusi i morti in zona di operazioni, per cause dovute alla guerra.

Per calcolare poi la probabile «popolazione elettorale», ho ritenuto più attendibile l'applicazione dell'«indice di maggiore età», che indica la proporzione percentuale rappresentata dai cittadini di ambo i sessi che hanno compiuta «l'età elettorale» di anni 21.

Qui pure, un solo dato certo, — anzi, un solo dato, perché i successivi mancavano — fornito dal censimento 21 aprile 1936: il 60,30%. In compenso, esistono, o sono comunque facilmente calcolabili, i dati correlativi per gli anni antecedenti al 1936.

Applicare anche per questo problema le «tavole di mortalità», avrebbe fatto correre il rischio — dì fronte alla accertata tendenza della popolazione italiana alla longevità — di determinare per il 1946 un «indice» pari al 63,70%, e per il 195° al 66-67%. L'Istituto Centrale di Statistica, evidentemente tenendo conto dei risultati provvisori del censimento 4 novembre 1951, ha determinato tale «indice», per il 195o, nel 63,30%.

Teoricamente, con l'accrescimento della longevità, aumenta di pari passo «l’invecchiamento» della popolazione — fenomeno tipico dei periodi che presentano una «diminuzione proporzionale, costante a nel numero delle nascite e nel numero delle morti — e quindi diviene più alta la cifra dell'indice di maggiore età».

Nella realtà, la natura, e le guerre, provvedono a correggere la corsa degli uomini all'a invecchiamento » della popolazione, a causa del quale a un dato momento i a giovani a si ridurrebbero ad una percentuale « insufficiente alla vita dell'umanità », posto che, se le nascite diminuiscano e in pari tempo gli uomini vivano sempre più a lungo — come starebbero a indicare le «tavole di mortalità» — questa sarebbe « la morte dell'umanità».

Per calcolare dunque, l'indice di maggiore età — lungi logicamente dal presupposto di un «indice costante» — ho ritenuto metodo efficace di raffrontare fra loro, analizzandone le variazioni annuali, gli indici di maggiore età rilevabili dai dati pubblicati negli Annuari dell'Istituto Centrale di Statistica, per gli anni dal 1910 al 194o, e quindi raffrontar particolarmente fra loro le variazioni dei periodi bellici 1915-1920, e 1941-1945, determinate dalla diminuzione delle nascite e dall'aumento contemporaneo delle morti.

Tali raffronti, mentre consentivano di seguire agevolmente l'andamento dell'«invecchiamento costante» - e quindi del graduale elevarsi dell'indice di maggiore età - ponevano in rilievo l'incidenza della « diminuzione naturale della popolazione nei periodi bellici», che determina una forte flessione del fenomeno dell'« invecchiamento » inducendo ad un « ringio­vanimento » ed al contemporaneo « abbassamento dell'indice di maggiore età », riferibile al periodo bellico, fino a riportarlo al livello in cui era all'inizio del quinquennio precedente.

Cosicché, di fatto, come si verificò per il periodo bellico 1915-1920 -che riportò l'indice ad un livello ancora inferiore a quello del 1911 - così doveva avvenire, e necessariamente avvenne, che l'aumento nell'indice di maggiore età verificatosi nel quinquennio 1936-1940, si annullasse, per le stesse cause determinanti la «flessione» di cui si è accennato, nel pe­riodo bellico 1941-1945.

A tranquillizzare tuttavia chi paventi, per le vie della statistica, la fine dell'umanità, resta fermo il presupposto dell’«aumento costante della popolazione», determinato dalla «eccedenza costante delle nascite sulle morti». L'andamento delle nascite e delle morti, solo «apparentemente» può porre in evidenza «momentanee» diminuzioni annuali, se vengano conteggiati, e riferiti all'anno rispettivo, i morti in zona di operazioni. Ma poiché questi geni, normalmente, conteggiati negli elaborati statistici soltanto successivamente alla guerra, e quindi sono «riassorbiti» nel nu­mero dei morti considerati nel periodo successivo, avviene che, conside­rando «per quinquenni» il movimento della popolazione, se ne riscontra la costanza dell'aumento.

domenica 22 novembre 2020

Capitolo VI : L’ Incontro con l’uomo del circo


di Emilio Del  Bel Belluz

Il circo lo aveva sempre attratto, come gli piacevano le giostre che arrivavano a Sequals, ma grande e grosso com’ era, non aveva mai potuto gareggiare. La giostra che girava non aveva un seggiolino adatto alla sua misura. Allora si era abituato a guardare gli altri che giravano, cercando di buttare giù il premio che era attaccato al palo.   C’era un gioco dove era imbattibile, si trattava dei tiri con il guantone, vi metteva tutta la sua potenza ed era capace di fargli fare alcuni giri senza difficoltà. Raccontava queste cose a Rosalba con le poche parole che aveva imparato e con i gesti: la faceva sorridere. La vita presentava anche dei momenti giocosi e bisogna approfittarne. Carnera portò Rosalba al circo e non essendo alta come lui, aveva scelto un posto tra le prime fila, da cui sarebbe riuscita  a vedere tutto. L’uomo che uscì per primo era il padrone del circo, un ometto piccolo e grasso, che parlava troppo veloce perché lo si capisse. Carnera si accorse che l’uomo lo stava osservando, e se ne stupì. Lo spettacolo comprendeva delle esibizioni con dei leoni e degli elefanti; a Primo e Rosalba piacquero molto gli acrobati che sembravano che volassero nel cielo come uccelli. Le rappresentazioni li aveva soddisfatti. Quando uscirono, il proprietario, quell’uomo piccoletto che aveva presenziato allo spettacolo, si avvicinò a Primo e gli parlò con la sua solita velocità. Carnera in quei mesi aveva incominciato a parlare il francese, ma non era in grado di comprenderlo se qualcuno parlava troppo velocemente. Rosalba disse che l’uomo aveva proposto a Carnera di lavorare nel circo, come lottatore.  Avrebbe fatto la parte di chi è dotato di una forza erculea e diventa per cui imbattibile. Quelli che volevano sfidarlo, in caso di vittoria, si sarebbero guadagnati mille franchi.  Rosalba aveva detto che il suo amico era un italiano di Sequals, che lavorava nella falegnameria dello zio. L’uomo chiese a Carnera di pensarci su, avrebbe avuto alcuni giorni prima di decidere. Per lavorare al circo avrebbe avuto un compenso con vitto e alloggio gratis. Quella sera mentre andava a casa con Rosalba le disse che forse non sarebbe stato male se avesse accettato il nuovo lavoro, dallo zio guadagnava poco e non era sufficiente per mandare dei soldi a casa. Rosalba non disse nulla, ma in cuor suo le sarebbe dispiaciuto se Primo fosse andato via, ma nello stesso tempo, gli voleva troppo bene per fargli rinunciare a una possibilità di guadagno. La vita in quei tempi era troppo difficile per tutti. L’indomani mattina Primo si recò da solo a parlare con il proprietario del circo, avrebbe accettato di lavorare a condizione che potesse mangiare fino a sazietà. La fame non lo abbandonava mai, dalla zia si mangiava bene ma non era sufficiente per un giovane tutto muscoli che pesava 120 chili. L’uomo accettò le sue condizioni e poi chiamò il nano, Antonio che lavorava con lui, e che era d’origine italiana. Nello spettacolo aveva il ruolo di clown e faceva sorridere gli spettatori. Antonio fraternizzò subito con Carnera. Da alcuni anni si trovava in Francia, era scappato da casa per unirsi al circo. In quel mondo aveva trovato una sua dimensione dignitosa, non gli importava se la natura lo aveva creato in questo modo, lui era fatto per essere felice e con il circo ci era riuscito. In questo mondo, Primo avrebbe lavorato con il suo numero che lo rappresentava come un lottatore. Al di fuori delle esibizioni avrebbe dovuto provvedere alla manutenzione del circo e ad altre incombenze; non sarebbe stata una vita facile. Gli sarebbe stata data una carovana dove dormire, con un letto più grande, e avrebbe mangiato in compagnia degli altri circensi.  L’uomo del circo era stato molto chiaro, non voleva che ci fossero, in seguito, delle incomprensioni. C’erano altri italiani, oltre ad Antonio, che l’avrebbero fatto sentire meno lontano dalla sua patria.  La vita che lo aspettava non sarebbe stata facile, ma lavorando sodo, i risultati si sarebbe visti. Primo sarebbe diventato l’attrazione principale del circo, perché la gente amava assistere alle sfide tra due colossi. La stessa sera ne parlò con lo zio, dicendogli che aveva trovato un posto di lavoro che gli avrebbe permesso di guadagnare qualcosa di più, perché i suoi familiari avevano bisogno di denaro. La mamma glielo aveva scritto in una lettera che aveva ricevuto in quei giorni. Lo zio non disse nulla, perché aveva compreso che non sarebbe riuscito a fargli cambiare idea. L’indomani mattina partì con il circo, aveva salutato Rosalba che era dispiaciuta della sua scelta, perché avrebbe posto fine al loro amore appena nato.  La ragazza aveva sognato di farsi una vita con lui, lo amava perché le dava fiducia e la faceva sentire protetta. Aveva immaginato di sposarsi e d’avere dei figli che sarebbero diventati forti come il padre, ma, talvolta, i sogni muoiono all’alba. Davanti alla casa dove abitava si abbracciarono, non si sarebbero più rivisti, questo era certo, un bacio fu l’ultimo sigillo del loro amore. La sua casa ora diventava il circo, incominciava una nuova avventura e una nuova vita. Partì lo stesso giorno, e Primo lavorò sodo con gli altri per smontarne le strutture. Successivamente i suoi compagni di spettacolo incominciarono a conoscerlo e a capire che possedeva un cuore d’oro.  Una delle prime cose che fece, fu quella di allenarsi come lottatore: ad insegnargli la tecnica e i trucchi del mestiere fu un vecchio atleta nella stessa disciplina che ora non si esibiva più, ma dava una mano al circo. Seppur vecchio aveva deciso che non avrebbe mai abbandonato il mondo dello spettacolo. Bastarono poche lezioni e Primo fu pronto per la prima sfida. La sarta del circo  gli fece dei vestiti, che avrebbe dovuto indossare in scena. La donna non era molto alta, e chiese, pertanto, a Primo di sedersi per prendergli le misure, e dovette lavorare alacremente affinché tutto fosse pronto in tempo. Il direttore del circo aveva chiamato un fotografo, che immortalò il gigante in molte pose, e vennero stampati dei manifesti che propagandavano il numero del lottatore chiamato, Juan lo spagnolo. La sera dell’esordio il direttore era felice, da tanto tempo non erano presenti così tante persone. La gente voleva vedere la montagna di muscoli. Primo era diventato imbattibile, nonostante arrivassero sfidanti sempre più forti, da vari paesi della Francia. Nel paese di Béziers dovette fare due esibizioni aggiuntive, perché le persone non si stancavano mai nel vedere all’opera questo italiano. Un giornalista locale pubblicò una foto, mentre stava combattendo. Nonostante la sua abilità, anche a Carnera succedeva d’ incassare qualche colpo che faceva male. Alla sera le persone del circo mangiavano davanti a un fuoco, era bello stare insieme. Primo aveva migliorato la conoscenza del suo francese e, così, si sentiva meno isolato. Divenne amico inseparabile del nano Antonio, nelle loro chiacchierate condividevano i lori sogni per il futuro e si soffermavano a parlare della loro cara Italia. Aveva conosciuto delle ragazze del circo, ma nel suo cuore era rimasta Rosalba, lasciandola gli pareva d’essersi comportato male, ma la sua scelta era stata determinata dalle necessità. Con il circo Primo si doveva spostare di paese in paese, e dopo un anno rivedeva le persone conosciute l’anno prima ed era sempre una festa il ritrovarsi. Quando arrivava in un nuovo posto, cercava sempre la chiesa, perché era abituato ad assistere alla S. messa. La gente lo osservava, perché era alto e grosso, e lo riconosceva dai manifesti che erano stati affissi. Gli capitò pure una ragazza che amava disegnare e gli chiese di posare per lei. Primo era sempre stato una persona timida, però questa volta le domandò che gli fosse fatto dei ritratti anche per lui.  La giovane accettò di buon grado, aveva la passione del disegno con la quale si guadagnava da vivere: si può dire che fosse nata con la matita in mano. Questo lo dimostrò subito, volle fare alcuni ritratti per sé stessa, e poi  in un quaderno li fece per Carnera, che li avrebbe mandati alla sua famiglia. Il quadernetto nero aveva 20 pagine e le volle riempire tutte.  La giovane si sentiva felice di poter fare qualcosa per un gigante che lavorava duramente per la famiglia. La disegnatrice era orfana di padre, caduto durante la Grande Guerra, e aveva ereditato da lui la passione della pittura. Le sembrava che dedicandosi a quest’arte, potesse in qualche modo far rivivere suo padre. Il papà era un pittore, aveva dipinto molti ritratti di personaggi francesi e tante delle sue opere erano esposte nei musei.  Un giorno questa pittrice mostrò una tela di suo padre: si trattava di un ritratto di un generale francese, e Carnera lo apprezzò molto. La sera stessa la ragazza volle assistere ad una esibizione del gigante buono, e con la sua matita approfittò per fare ulteriori disegni, uno dei quali  arrivò nelle mani del direttore del circo che lo volle acquistare, per inserirlo nei manifesti. Nei giorni che seguirono, Carnera volle scrivere una lettera a casa e nella busta vi mise il quadernetto con i disegni, sperando che arrivassero presto. La sua famiglia era la cosa più importante della vita, spesso pensava alla mamma e ai tanti sacrifici che stava facendo, per allevare i figli. Ogni tanto, alla sera, non riusciva a prendere sonno, non perché avesse fame, ma perché pensava a casa, e si domandava se la maestra era ancora viva. Il paese natio rimane sempre dentro al cuore, ogni piccolo avvenimento fa parte della propria vita e i momenti passati hanno il sapore di ciò che non tornerà, e potranno vivere solo nei nostri ricordi. Non aveva portato in Francia alcun libro e spesso riviveva i momenti belli della lettura in classe del libro Cuore. Apprezzava moltissimo la figura di Garrone, il gigante, figlio di un ferroviere, che aiutava gli altri, un paladino delle ingiustizie, fino a dimenticare sé stesso. In Francia, Primo si sentiva come Garrone. Il libro Cuore era stato il suo primo libro di lettura. Quella sera ricordò le pagine imparate a memoria, dedicate alla patria.  Io amo l’Italia perché mia madre è italiana, perché il sangue che mi scorre nelle vene è italiano, perché è italiana la terra dove sono sepolti i morti che mia madre piange e che mio padre venera, perché la città dove sono nato, la lingua che parlo, i libri che m’educano, perché mio fratello, mia sorella, i miei compagni, e il grande popolo in mezzo a cui vivo, e la bella natura che mi circonda, e tutto ciò che vedo, che amo, che studio, che ammiro, è italiano. Oh tu non puoi ancora sentirlo intero quest’affetto! Lo sentirai quando sarai un uomo, quando ritornando da un viaggio lungo, dopo una lunga assenza, e affacciandoti una mattina al parapetto del bastimento, vedrai all’orizzonte le grandi montagne azzurre del tuo paese; lo sentirai allora nell’onda impetuosa di tenerezza che t’empirà gli occhi di lacrime e ti strapperà un grido dal cuore. Lo sentirai in qualche grande città lontana, nell’impulso dell’anima che ti spingerà tra la folla sconosciuta verso un operaio sconosciuto, dal quale avrai inteso, passandogli accanto, una parola della tua lingua. Lo sentirai nello sdegno doloroso e superbo che ti getterà il sangue alla fronte, quando udrai ingiuriare il tuo paese dalla bocca di uno straniero. Lo sentirai più violento e più altero il giorno in cui la minaccia d’un popolo nemico solleverà una tempesta di fuoco sulla tua patria, e vedrai fremere armi da ogni parte, i giovani a correre a legioni, i padri baciare i figli, dicendo: – Coraggio ! – e le madri dire addio ai giovanetti, gridando : – Vincete! – Lo sentirai come una gioia divina se avrai la fortuna di veder rientrare nella tua città i reggimenti diradati, stanchi, cenciosi, terribili, con lo splendore della vittoria negli occhi e le bandiere lacerate dalle palle, seguiti da un convoglio sterminato di valorosi che leveranno in alto le teste bendate e i moncherini, in mezzo a una folla pazza che li coprirà di fiori, di benedizioni e di baci. Tu comprenderai allora l’amor di patria, sentirai la patria allora, Enrico. Ella è una così grande e sacra cosa, che se un giorno io vedessi te tornar salvo da una battaglia combattuta per essa, salvo te, che sei la carne e l’anima mia, e sapessi che hai conservato la vita perché ti sei nascosto alla morte, io tuo padre, che t’accolgo con un grido di gioia quando torni dalla scuola, io t’accoglierei con un singhiozzo d’angoscia, e non potrei amarti mai più e morirei con quel pugnale nel cuore”. (Tuo padre)

sabato 21 novembre 2020

Re Vittorio Emanuele III, prolusione del Ministro Lucifero

 


PROLUSIONE

del Cavaliere Falcone Lucifero Ministro della Real Casa

Sono altamente onorato di portare a questa solenne riu­nione il saluto cordiale, affettuoso, memore di Sua Maestà il Re.

Il saluto va al nostro caro Presidente avv. Carlo d'Amelio, il quale ha saputo portare a questo Circolo quell'attività rea­lizzatrice che lo distingue nel campo professionale e nella vita civile.

Egli ha così seguito l'esempio dei suoi predecessori, ai quali pure va il saluto memore e riconoscente di Sua Maestà il Re. Vorrei ricordare in modo particolare il caro prof. Mancuso, che non vedo qui presente perché ammalato. A lui vada l'augurio più fervido di Sua Maestà il Re e di tutti noi.

Il saluto va al Consiglio Direttivo del Circolo; a tutti i suoi assidui frequentatori, che hanno così dimostrato, con la loro presenza in questi anni, l'interesse e l'utilità dell'istituzione.

Il saluto del Re va a tutti i presenti che hanno voluto ren­dere oggi più solenne e più significativa questa rievocazione del Suo Augusto Genitore.

Un saluto alle gentili signore che nel Parlamento, nell'Unio­ne Monarchica Italiana, nei partiti, nella vita civile, nell'assi­stenza, hanno ognora dimostrato la fedeltà al Re e la certezza nei destini della Patria.

Il saluto va agli onorevoli componenti della Consulta dei Senatori del Regno, qui degnamente rappresentati dal suo illu­stre Presidente, il Magnifico Prof. Giuseppe Ugo Papi, dal nostro amatissimo, illustre prof. Gioacchino Volpe e da tutti gli altri degni colleghi.

Il saluto del Re va in modo particolare alle Medaglie d'oro, che rappresentano la continuità meravigliosa del valore militare dell'esercito italiano in tutte le guerre; va ai mutilati ed invalidi, qui degnamente rappresentati dal nostro Carlo Delcroix, il quale, se ha saputo dare in guerra l'olocausto della sua vista e, quel che è ancora più duro, l'olocausto delle sue mani, ha fatto del suo sacrificio e della sua mutilazione un altare.

Il saluto del Re va a tutti gli eminenti uomini politici, dal carissimo onorevole Alfredo Covelli, agli altri parlamentari del suo e di altri partiti, i quali hanno affrontato in questi anni la dura battaglia politica al servizio del Re e della Patria; va a tutti i dirigenti dell'Unione Monarchica Italiana e del Partito Monarchico, i quali, anch'essi, hanno dato sicura prova di quello che può significare nelle situazioni più difficili la ferma deter­minazione e la certezza che riusciremo a vincere ogni ostacolo e a riportare l'Italia ai suoi anni più belli.

Il saluto del Re va a tutti i monarchici d'Italia, i quali sono qui oggi presenti o di persona o in ispirito, e va a voi, giovani, che rappresentate l'avvenire dell'Italia, che giustamente oggi perseguite ideali e mete forse diverse da quelle nostre, ma le basate ugualmente sugli alti valori dello spirito, della morale, del­la Patria, senza i quali nulla di duraturo si costruisce.

L'altissimo onore che Sua Maestà ha voluto concedermi con l'Ordine della Santissima Annunziata, e che io so bene di non meritare, vuole essere riconoscimento per tutti i monarchici che, da alte o da modeste posizioni, in questi lunghissimi venticinque anni, si sono prodigati nella democratica lotta al servizio della Patria e del Re.

L'amico d'Amelio mi ha invitato a dire anche io qualche cosa sulla figura del Re Soldato, di cui ho avuto l'onore d'essere prima Prefetto del Regno e poi Ministro dell'Agricoltura e Alto Commissario per l'alimentazione, in tempi assai duri. Ma penso che attarderei la vostra ansia di ascoltare l'oratore e all'oratore designato toglierei materia del suo dire.

Ho molti ricordi dei rapporti che ebbi col Re in quelle tri­stissime giornate di Salerno, in cui vedere la Patria divisa in due, vedere tante sventure che si erano su di essa addensate non ci toglieva quell'ansia di volerla al più presto uscire da quelle ambascie e da quelle sventure in cui immeritatamente era preci­pitata e di volerla ricostruire più bella e più prospera di prima.

Il nostro Re era lì, anch'Egli affranto, anche Egli addolorato e triste, ma sempre animatore di queste nostre energie e di questo nostro proposito.

Ricordo che, quando ebbi l'onore di andare a giurare come Ministro dell'Agricoltura, solo, perché giunto in ritardo dalla pro­vincia in cui ero Prefetto, Egli mi disse parole gentili e gene­rose e io, sommesso, mi permisi di ricordarGli — antico ricordo scolastico — un verso di Orazio che Gli piacque tanto. Quel verso di Orazio, su Roma dopo Canne: «Merses profundo, pulchrior evenit!», (« precipitata nella più dura delle disfatte, risorse più grande e più bella di prima »), doveva essere la nostra insegna, di noi modesti uomini politici di quel gabinetto Badoglio, che cercò di gettare allora le basi dell'Italia del domani: una mo­narchia costituzionale, saldamente democratica, al riparo da nuo­ve insidie e pericoli.

Questa era l'ansia di ognuno di noi dopo le tristi esperienze del fascismo e la disfatta.

E dei ricordi che nel mio animo in questo momento rivivono di fronte all'immagine del Re Soldato, dirò solo questo.

Egli ascese al trono, dopo il regicidio, e portò l'anelito pro­fondo di creare un'Italia libera e evoluta, in cui le classi più umili, che allora veramente soffrivano, potessero elevarsi con una legislazione avanzata che consentisse a tutti il miglioramen­to delle condizioni sociali ed economiche, senza far correre peri­coli agli istituti democratici.

Quale fu invece il fato di questo Re?

Egli tentò, soprattutto coi ministeri Zanardelli e Giolitti, sif­fatta politica e il cammino fu avviato e conquiste si raggiunsero. Ma costantemente il massimalismo e l'estremismo irresponsabili scesero nelle piazze, crearono disordini, spesso seminarono morti e feriti, ostacolarono il cammino, danneggiarono la Patria e ritar­darono il progresso stesso dei lavoratori.

Vorrei che i nostri avversari, di fronte a quello che sta avve­nendo, riconoscessero negli eventi di oggi la difesa obiettiva e veritiera del Re Vittorio Emanuele III.

Se essi, in buona fede, hanno il proposito di creare un regime sicuramente democratico e socialmente avanzato, vedono quel che oggi anche a loro accade e quali ostacoli vengono frapposti dallo stesso estremismo e massimalismo irresponsabili che prendono il sopravvento nelle agitazioni sindacali, o falsamente sin­dacali, in atto.

E non aggiungo altro, giacché, seguendo l'esempio e l'ammonimento del nostro attuale Sovrano, non voglio dire nulla che possa rendere più difficile il compito di quegli uomini che si sono assunti la responsabilità di reggere il paese in un regime contrario alle tradizioni nazionali, nato in un momento di gene­rale disorientamento degli animi, con la più esigua delle mag­gioranze — neppure duecentocinquantamila voti — mentre al­cuni milioni di italiani non poterono partecipare al referendum istituzionale.

Ora, amici, vi leggerò il messaggio di S.M. il Re Umberto II, non senza dire alto e forte, che avrei il diritto di leggerlo a quella Rai e a quella Televisione che ci sono antidemocratica­mente precluse, perché i dirigenti considerano questo ente di Stato, pagato da tutti i cittadini, come organo del regime in atto, e perché non amano ricordare quel che or ora dicevo e cioè che la Repubblica è stata creata dalla più esigua delle maggioranze, anche se si accettano, — noi mai li abbiamo accettati, né mai li accetteremo, — i dati del ministro dell'Interno dell'epoca, Giu­seppe Romita.

Ed ora vi leggo, amici, il messaggio del Re, che ho già letto il 4 novembre a Torino, nella magnifica manifestazione ivi orga­nizzata, al teatro Carignano, dal Fronte Monarchico Giovanile dell'Unione Monarchica Italiana. E vi farà piacere di apprendere che, subito dopo, abbiamo attraversato in corteo alcune delle vie principali della città, con centinaia di bandiere tricolori e sabaude, tra il delirante entusiasmo dei partecipanti e il più largo consenso della cittadinanza.

Le benemerite Forze dell'Ordine e le Forze Armate, di cui si faceva sfoggio, ed alle quali va sempre il nostro saluto, possono essere utilmente utilizzate altrove, giacché nulla vi è da temere da noi monarchici; anzi su di noi si può sempre contare per la difesa della Patria e della libertà.

Ecco dunque il messaggio del Re:

ITALIANI!

Siete oggi riuniti a Torino, così legata alla storia della mia Casa e vostra, per rinnovare il giuramento di fedeltà alla Patria, nel ricordo del la più splendida delle nostre vittorie, che segnò, sotto la guida del mio Augusto Genitore, la conclusione del nostro risorgimento.

E siete anche riuniti per celebrare il centenario della nascita di quel Re che combattenti e popolo chiamarono il Re Soldato.

Divenuto Re all'inizio del secolo che vedeva i lavoratori aprirsi faticosamente la strada per la conquista di maggiori diritti, Egli seppe essere l'interprete ansioso di tali aneliti, sì che il nuovo regno portò grandi pro­gressi sociali ed economici.

Nella presente crisi dello Stato, deplorevoli violenze da parte di ele­menti che rifiutano il sistema democratico mettono in pericolo anche giuste rivendicazioni, consentite dall'incremento del reddito nazionale e della produttività, e paralizzano l'attività economica della Nazione con danno indistintamente per tutti.

Nella figura del Re Soldato si ritrovi l'immagine di una Italia sana e unita e si condanni apertamente ogni estremismo, da qualunque parte esso venga. I giovani soprattutto, ai quali vanno ognora le nostre attese per il domani della Patria, si ispirino a quella esperienza per vincere le presenti suggestioni e insidie.

Italiani di ogni idea e di ogni parte!

Mentre vi ripeto l'augurio che è sempre vivo nel mio animo per cia­scuno di voi, vi ripeto del pari l'esortazione più solenne e più attenta alla difesa della libertà, che è legittima, doverosa e irrinunciabile tanto più quando è saldamente fondata sulla giustizia.

Ricordate quello che tante volte vi ho detto in questi anni e che voglio ripetervi oggi a voce più alta: con la libertà tutto è possibile, senza libertà tutto è perduto.

Cascais, 4 novembre 1969

UMBERTO

Il discorso, frequentemente interrotto da applausi, è stato alla fine accolto da una prolungata ovazione all'indirizzo di S.M. il Re.

mercoledì 18 novembre 2020

Le Residenze Reali dei Savoia: alla scoperta delle dimore storiche di Torino e Piemonte


Le Residenze della Casa Reale di Savoia, patrimonio UNESCO dal 1997

Le Residenze Reali del Piemonte è un sistema di grande valore per diversi motivi.

Un polo culturale per il suo patrimonio storico ed estetico capace di attrarre turismo e dall’importante impatto economico sul territorio.

Rappresentano un unicum volute dalla famiglia sabauda per circondarsi di sfarzose maisons de plaisance nate tra Cinquecento e Seicento intorno alla città di Torino, per celebrare il ruolo e l’importanza del casato. 

Cuore, per secoli, del Regno dei Savoia, Torino è stata teatro e centro propulsore dell’Unità nazionale, oltreché prima Capitale del Regno d’Italia. 

L’affascinante architettura delle Residenze Reali hanno fatto loro guadagnare l’iscrizione nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO dal 1997.

[...]


 https://mole24.it/2020/11/17/le-residenze-reali-dei-savoia/

martedì 17 novembre 2020

Io difendo la Monarchia Cap X - 4

 


Ai fini del nostro studio è inutile ricercare se la rivo­luzione del Risorgimento italiano sia anteriore o poste­riore alla rivoluzione francese. E’ ormai nozione comune che la rivoluzione italiana abbia inizio dal pensiero del Vico e si accentui nella seconda metà del settecento, do­po il trattato di Aquisgrana, e tragga vive fonti di ener­gia e incitamento ed esempio all'azione, dai principi della Rivoluzione e dalle armi e dalle guerre, di Napo­leone. Allo stesso modo non può esservi dubbio che essa entri nella fase conclusiva e si attui quando si incontrano il sentimento popolare italiano e l'iniziativa sabauda nel 1848. Si usa ricordare all'opposto, e perfino da Croce, l'esempio della repubblica partenopea e quello della repubblica romana. Ma la repubblica partenopea, cara al Croce, fu movimento assai più aristocratico e intellet­tuale che popolare. Il popolo anzi la soffocò. La repub­blica romana non visse e non poteva vivere se non risolvendo drasticamente l'antitesi con la Chiesa di Roma. Monarchia sabauda e Papato hanno invece potuto tro­vare e stabilire guarentigie reciproche o pattuire una stabile conciliazione. Una repubblica popolare in Roma, con il contorno folcloristico e rituale dei suoi duci e dei suoi demagoghi, con i suoi moti e la sua inevitabile re­torica, con le sue aride fonti culturali e il suo rituale massonico, contradice al magistero universale e inviola­bile della Chiesa: radice, oggi, e anima della civiltà cri­stiana e occidentale: la quale ha nel Nuovo mondo il suo più forte presidio e le sue più copiose fonti. Si è avuta una piccola anticipazione di quel che sarebbero i rapporti tra la repubblica e la Chiesa, nel mancato ufficio religioso in occasione della proclamazione della pace. Si può immaginare quel che avverrebbe quando la nuova Repubblica assumesse i suoi veraci connotati so­cialisti e popolareschi e la cultura e l'educazione morale dei Togliatti, dei Nenni, dei Lussu e. dei Pacciardi avesse modo di manifestarsi compiutamente in tutto il suo con­tenuto ateo e nelle viete rimasticature razionalistiche tratte da enciclopedie di piccolo formato. Ne nascerebbe un complesso poco più interessante di Piedigrotta : un misto di garibaldinismo, di mazzinianesimo, di cafone­ria e di truculento ateismo da museo antireligioso di Mo­sca, che farebbe rimpiangere le declamazioni massoniche delle varie associazioni «Giordano Bruno» di fine otto­cento : insomma quel che v'è di più deteriore, di più plebeo, di più provinciale, di più miserevole, di più scia­gurato nella vita, nel costume e nella politica italiana. È anche logico che una così tremenda disfatta conduca a simili passi, ma ognuno che abbia mente e coscienza integri e liberi, ha il dovere di avvertirne e segnalarne il pericolo e il danno.

Si incontrarono, dunque, nel 1848-49 con alquanta difficoltà, ma in modo risolutivo e fecondo, l'iniziativa popolare secondo lo spirito europeo delle rivoluzioni na­zionali e l'iniziativa sabauda. Bisogna cogliere l'inizio di questo felice congiungimento subito dopo le Riflessioni del D'Azeglio sugli Ultimi casi di Romagna.

Scriveva il D'Azeglio: «Lo scopo degli italiani in tutti i loro moti dal 1820 in qua, se ne togliamo i fatti del 1821, è stato il sottrarsi ad abusi e patimenti locali e ciò isolatamente, senza molto pensiero dei loro vicini parimenti italiani; e se in alcuni di codesti moti traspa­riva il desiderio di riordinare meglio l'intera nazione, di spingere a scopo comune le forze comuni, questo desi­derio si è sempre mostrato, per dir così, in seconda fila e si è poi fatto tacere del tutto appena si è temuto po­tesse far pericolare l'impresa che più premeva, tutta a vantaggio locale. E gli italiani hanno avuto quello che meritavano pel loro egoismo e per la miseria dei loro disegni». Consigliava opportunamente il D'Azeglio «a mettere in prima fila la causa della nazione; in seconda quella delle singole parti di essa». Con ciò non si faceva che «indicare un calcolo di puro interesse, indicare la sola via che possa, presto o tardi, condurci ad ottenere prima il bene di tutti, poi per necessaria conseguenza il bene di ognuno».

Esaminava il D'Azeglio i mali della Romagna, il cat­tivo governo, il disordine nell'amministrazione della giu­stizia, la corruzione - nella amministrazione, ma anche scriveva: « E’ in Romagna una generazione di uomini vile, oscura, di rotta e scellerata vita, usa all'ozio e al ba­gordo, alla risse da taverne, che si grida devota al Papa, al suo governo, alla fede, alla religione e con questo vanto si tiene sciolta d'ogni freno, di ogni legge, stima lecita ogni violenza (forse la stima meritoria) purché sia contro uomini che professano altre opinioni dalle sue: lo che, come ognun vede, è lo stesso dire contro chiunque le sia odioso e nemico. Questa mala razza profittando del continuo terrore che è nei governanti, si combina in conventicole oscure e vi prepara supposte congiure, de­lazioni e peggio, vendette e assassini».

Si chiamava questa mala razza, nel 1845, dei Sanfe­disti e avrà poi altre denominazioni e altro colore, ma sempre continuerà nella congiura e nell'assassinio (1).

Scriveva ancora il D'Azeglio: «La città e il borgo di Faenza sono divisi da miserabile e inveterato odio cittadinesco, avanzo probabilmente d'antico parteggiare. Ai disusati e vecchi nomi di parte sono sottentrati oggidì quelli di liberali per la città, di papalini pel borgo. Po­polato questo d'uomini di bestiale ferocia, pronti alla rissa e al sangue, è il luogo che può dirsi principal offi­cina di violenze, principal nido di quella scellerata genia che quivi ed a sua imitazione nell'altre città di Romagna, provoca, batte, feriste, talvolta uccide e sempre a man salva, coloro ch'ella dice liberali o frammassoni o carbonari » (2).

Questa faziosità all'ombra dello Stato e sotto la pro­tezione della polizia e dei tiranni è il carattere, distintivo purtroppo delle plebi italiane. Durante il fascismo essa si è esercitata in pieno. Deriva da ciò la intolleranza, la difficoltà di tenere in piedi degli ordinamenti liberali già denunciate dal Machiavelli.

A proposito delle Istorie fiorentine è stato già osser­vato dalla critica romantica che nobiltà, borghesia, po­polo divengono personaggi di quel racconto. «Chi voglia conoscere la legge generale della libertà democratica, i pericoli che la minacciano dentro e fuori, come essa si liberi dalla nobiltà del sangue per ricadere sotto il do­minio della nobiltà del danaro, come a questa succeda poi la borghesia, alla borghesia il proletariato, al prole­tariato il principe, al principe lo straniero ».

Se il carattere distintivo delle repubbliche italiane è stato sempre il terrore e se il terrore rimane pur sempre

la norma più propria delle tirannie, segno è che in Italia vi fu sempre difetto di libertà dall'età di Roma alla for­tunata convergenza, già segnalata, dei moti popolari con la iniziativa costituzionale della dinastia sabauda. Dopo il libretto sui casi di Romagna il. D'Azeglio si pose a stringere questo rapporto tra Carlo. Alberto e la Rivolu­zione e nonostante la cattiva prova del 1848-49, quel rapporto fu mantenuto, fu anzi rinsaldato e portato, con il Cavour, al suo massimo splendore. Cavour ne fece un elemento fondamentale della più vasta trasformazione europea; inserì la rivoluzione italiana nel quadro della diplomazia e delle guerre del tempo. Così si giunse alla proclamazione del nuovo Regno a consacrazione del­l'unità della Penisola. E ci pare inutile discutere qui se l'unità fu compiuta o incompiuta; perfetta o imperfetta. Certo i federalisti e i repubblicani la trovarono incom­piuta, così come, i borbonici e i papalini la trovarono de­magogica e satanica. Rimane pur sempre vero, nono­stante le critiche di quelle correnti avanzate o retrograde, che l'Italia si mise al passo con le altre nazioni europee e progredì visibilmente con esse in ogni settore della vita nazionale; nella cultura e nelle opere, nell'elevazione del proletariato come nell'affermarsi di una fiorente indu­stria e di una progredita agricoltura. L'Italia liberale e parlamentare, tra il 1861 e il 1915, si presenta agli occhi dello studioso del nostro passato; come un'oasi di sereni­tà, di pace, di civile progresso e di ordinata libertà che tutti vorrebbero veder rifiorire. Su questo giudizio non vi colo perché era allora troppo visibile il beneficio della libertà.

 

 

(1) Si vedano a un secolo di distanza, in questa estate del 1945, l'assassinio dei Conti Manzoni e dei familiari con centi­naia di altri proprietari e rurali. E la stampa libera dei C.L.N. nasconde e tace.

 

(2) Da questa gente vennero fuori i Mussolini padre e figlio a sfogare i loro tristi istinti. Riuscì il figlio Benito ad appal­tare prima l'opinione socialista, poi l'opinione nazionale e pa­triottica. E arrivato, in sella ridusse tutta la nazione sotto il suo dominio. Gli italiani dovrebbero diffidare di uomini rozzi ed elementari che mettono le idee generali a servizio delle pro­prie ambizioni e del proprio torbido istinto ed ecco invece, dopo la caduta di Mussolini, il partito che potrebbe legittimamente aspirare al potere, scegliere a capo un mediocre seguace del predappiese, il romagnolo Nenia', nato proprio nella Faenza de­scritta dal D'Azeglio.

domenica 15 novembre 2020

La biografia di Carlo Cadorna (1809-1891)

 


Un'opera innovativa di Franco Ressico 

di Aldo A. Mola

  Carlo Cadorna (Pallanza, 1809-Roma, 1891) è stato tra i massimi protagonisti del Risorgimento e dell'unificazione d'Italia. 

  Già vicino a Vincenzo Gioberti (forzatamente esule dal 1833), nel 1848 fu eletto deputato alla Camera del Regno di Sardegna dal collegio di Pallanza, che lo confermò sino al 1857. Ministro della Pubblica istruzione nel governo Gioberti e inviato del governo “al campo” alla ripresa della guerra per l'indipendenza, assisté all'abdicazione di Re Carlo Alberto (Novara, 23 marzo 1849). 

  Apprezzato da Camillo Cavour e da Urbano Rattazzi, eletto vicepresidente e presidente della Camera dei deputati, nel 1858 fu nominato senatore. Ministro della Pubblica istruzione (9 novembre 1859) nel governo Cavour sino alle dimissioni del Gran Conte per protesta contro l'armistizio di Villafranca e Consigliere di Stato dal 1859, Cadorna ricoprì incarichi delicati e prestigiosi. 

  Vicepresidente del Senato nel 1865 e prefetto di Torino dopo il trasferimento della capitale a Firenze, ministro per l'Interno nel governo presieduto da Luigi Federico Menabrea (1868) e vicepresidente del Consiglio del contenzioso diplomatico, dall'aprile Cadorna 1869 fu ambasciatore a Londra. Lo rimase sino al 1875, quando venne nominato presidente del Consiglio di Stato. 

  Presidente della Commissione per l'applicazione della legge delle Guarentigie Pontificie e di altre Commissioni di alto rilievo, Cadorna intervenne nella vita pubblica con discorsi in Senato, articoli, saggi e volumi, sino a Religione e politica nei partiti (1890) e a Religione, Diritto, Libertà, vera summa del suo pensiero, pubblicata postuma dal fratello, Raffaele, generale, senatore a sua volta, già comandante del Corpo d'Esercito che il 20 settembre 1870 mise fine al potere temporale pontificio.

   Sinceramente cattolico nella vita privata e liberale in politica, Cadorna fu tra i massimi artefici della politica ecclesiastica dell'Italia liberale, nel solco della formula di Cavour “libera Chiesa in libero Stato”.   

   A 130 anni dalla sua morte e nel 150° di Porta Pia esce la sua prima biografia: Carlo Cadorna. La vita e l'attività politica (Roma, Bastogi Libri, novembre 2020, pp.290), scritta dal novantenne prof. Franco Ressico: un volume rigoroso, documentato, denso di inediti.   

   In linea con i suoi compiti, la Consulta dei Senatori del Regno concorre alla promozione di un'opera che evoca la Famiglia Cadorna, tra i cui componenti si contano tre senatori del Regno (Carlo, suo fratello Raffaele e il nipote  Luigi, Capo di stato maggiore dell'Esercito e Comandante Supremo nella Grande Guerra sino al 9 novembre 1917) e un senatore della Repubblica (Raffaele, figlio di Luigi, comandante del Corpo Volontari della Libertà nel 1944-1945).  

   La figura di Carlo Cadorna, magistralmente esaminata dal prof. Ressico, illumina la complessità del Risorgimento e della costruzione dello Stato, che, grazie a personalità quale la sua, riuscì a superare la difficoltà maggiore: l'astensione politica dei cattolici dall'unità al “Patto Gentiloni” del 1913, approdo della “conciliazione silenziosa”.


Capitolo V: Primo Carnera parte per la Francia.

 di Emilio Del Bel Belluz 

Primo Carnera, un giorno del 1922, andò a trovare la maestra, e le confidò che era costretto ad andare in Francia a lavorare presso uno zio materno che era falegname. Costui abbisognava di un aiutante e per questo aveva scritto al papà di Primo che se voleva, poteva mandargli il primogenito. Dalle lettere che la sorella gli aveva inviato, aveva saputo che aveva un fisico imponente e che con la sua forza sarebbe riuscito a lavorare agevolmente. Lo zio gli avrebbe offerto l’alloggio e il sostentamento, oltre a un piccolo stipendio da garzone. La maestra aveva fatto sedere Primo sulla sedia più robusta. L’allievo la osservava, e la vedeva ancora più vecchia e stanca. La maestra lo ascoltò, nella stanza c’era anche Lucia, che alla morte della mamma si era trasferita a vivere con lei. L’insegnante gli prese la mano, per lei era sempre il personaggio di Cuore, Garrone, quello che aiutava i deboli, e che non permetteva che qualcuno approfittasse di chi era più povero, e di chi era meno forte. 


La maestra gli accarezzò le mani. Anna fece un sospiro come fanno i vecchi, lo guardò e gli disse:” Caro Primo, mi dispiace che tu parta, mi ero abituata a vederti a scuola, ti ho visto crescere, hai un cuore buono, e non perdere mai questa tua dote. La vita non è facile per te a Sequals, e questo mi dispiace, come pure, di non poterti aiutare come avrei voluto. Quei pochi soldi che ho mi basteranno per il funerale, sento la vecchiaia che si sta impossessando di me, e la stanchezza si fa sentire sempre di più. Lucia mi aiuterà per quello che mi resta da vivere, credimi non è molto. La Francia è un paese lontano, sono sicura che ti troverai bene, ricordati però che sei italiano, dimostra d’esserne fiero”. La maestra volle fargli un regalo, e chiese a Lucia di prendere un pacchetto che aveva preparato da tempo. La scatola era sigillato da un cordoncino azzurro. Lucia lo consegnò alla maestra che lo passò a Primo, in questo pacchetto c’è la bandiera italiana, quella con lo stemma sabaudo. La ebbe in dono quando venne in quella scuola. La nuova maestra, le ha detto che porterà quella sua, che apparteneva a suo padre, morto in guerra. Allora l’insegnante pensò di donargli la sua che l’aveva fatto compagnia in questi anni e che Carnera spesso aveva portato in qualche ricorrenza. L’insegnante disse: “Ricordati che è la bandiera del Re d’Italia Vittorio Emanuele III, perché quando sarai in Francia non puoi dimenticarti che sei italiano e che ami la tua patria”. Disse a Primo di ricordare quello che aveva dettato, quando parlò del Pascoli: “ Quando si parla di Patria, viene in mente la Madre. Voi certo amate vostra madre, ma non sarebbe giusto per questo che voi disprezzaste le madri degli altri fanciulli, perché anch’esse lavorano e si affaticano per i loro figli. Così voi dovete amare la Patria vostra più delle altre Nazioni; ma non dovete disprezzare queste ultime… ” La maestra continuò a parlargli con parole molto commoventi, che assomigliavano a quelle di una madre che sta per salutare il figlio che parte per la guerra. La sua vita non è stata facile, ma la sua esistenza non si è mai discostata dai veri valori , quelli che ha cercato di donare ai suoi allievi. 

Quando Primo tornerà, la maestra non ci sarà più. Disse:” Sono vecchia e malandata, quel che mi resta della vita lo voglio vivere ancora tra i giovani, finché anche la mia mente perderà di lucidità”. Primo aveva gli occhi pieni di lacrime, sentiva il distacco da qualcuno che non avrebbe più ritrovato, la vita è fatta di persone che si incontrano e poi non si vedono più. Abbracciò la maestra e sentì il suo cuore che batteva più forte, la donna gli fece un’ultima carezza come quando era a scuola e poi se ne andò. La maestra l’osservò dalla finestra e gli fece un cenno con la mano, quella fu l’ultima immagine che ebbe di lei e che non dimenticò mai. Mille pensieri si impossessarono della sua mente, la maestra gli aveva sempre dato dei buoni insegnamenti. Quando giunse a casa trovò la mamma che stava preparandogli la valigia, non aveva molte cose da metterci, le consegnò la bandiera e le raccontò che era dono della maestra. Il giorno dopo partì, la mamma tratteneva le lacrime, perché non voleva farsi vedere che piangeva, suo padre gli diede la mano e gli consegnò del denaro. Un suo amico lo portò alla stazione ferroviaria di Udine e pensò che stava per fare qualcosa che avrebbe cambiato la sua vita. 

La Francia era un Paese che non aveva mai visto, possedeva solo una cartolina di Parigi che suo zio gli aveva spedito e che osservò più volte durante il viaggio. Quando si parte si viene presi dalla malinconia, ma lasciare il proprio paese era diventato inevitabile. La situazione lavorativa a Sequals non permetteva a Primo di guadagnare qualcosa per aiutare la sua famiglia. Dal finestrino del treno osservava le case, e i contadini che lavoravano sui campi. Vide anche un gregge di pecore con il pastore. Erano immagini che passavano veloci, e gli accrescevano la malinconia. Avrebbe voluto in quel momento tornare indietro, e dire a tutti che non si può resistere lontani dal proprio paese, neanche per una sola ora. Nonostante fosse il mese di giugno 1922, sentiva un grande freddo nel proprio cuore. Scorse anche una donna che stava assieme ai figli. E per un attimo pensò al suo futuro. Un domani anche lui avrebbe voluto una famiglia, una donna che lo aspettava a casa, e dei figli. La felicità, come diceva un poeta, era rappresentata da una donna con la quale condividere la vita in una casa circondata dagli alberi e il frutto del matrimonio che erano i figli. In fondo, lui era stato abituato in questo modo. 

Il viaggio fu lungo e pesante, non riuscì mai a dormire, chiudeva gli occhi e pensava a quello che avrebbe fatto in Francia. In treno aveva scambiato qualche parola con dei giovani, pure loro andavano in Francia a cercare fortuna. Le persone che aveva incontrato avevano una cosa in comune con lui, la tristezza di dover abbandonare il paese dove erano nate, e lasciare quelle persone che avevano amato. Primo Carnera si era messo a mangiare quello che la madre gli aveva preparato, e aveva offerto del cibo a un povero che non aveva nulla e che accettò di buon grado e soprattutto gli piacque il vino che gli fu offerto. Alla fine dopo aver mangiato, disse che quel cibo era stato preparato da mani sante, come quelle di una mamma. L’uomo si accese la pipa con del tabacco che ricavò dai mozziconi di alcune sigarette, l’odore che si sprigionò era acre, ma Primo spesso lo aveva sentito dai vecchi che fumavano. L’uomo disse che doveva recarsi da un parente che possedeva una stalla, e aveva bisogno di un aiutante; aggiunse che finita la guerra, che lo aveva tenuto lontano per tanti anni, sperava in tempi migliori. Invece, al paese non trovò lavoro, dovette abbandonare la sua vecchia casa per recarsi in Francia. Carnera si era scritto l’indirizzo dello zio su un foglio di carta e con difficoltà arrivò a destinazione. Quando vide i parenti si sentì per un attimo come se fosse a casa. 

Lo zio materno l’aveva già visto qualche volta in Italia. In Francia, a Le Mans, aveva fatto fortuna con una segheria. Primo arrivò con molta fame, perché durante il viaggio aveva finito pure i soldi. La zia gli aveva preparato una sostanziosa cena che finalmente riuscì a placare la sua fame. Quella prima notte in terra francese fu la più importante, dall’emozione faticò a prendere sonno, gli venivano in mente la famiglia, la vecchia maestra che lo aveva amato e Lucia che si occupava di lei. L’indomani mattina, all’alba, incominciò a lavorate nella segheria dello zio. Per lui era come il primo giorno di scuola, i suoi compagni di lavoro erano solo italiani, con i quali poteva parlare liberamente, ma per comunicare al di fuori, doveva imparare il francese. I primi giorni di lavoro furono i più duri, ma non gli mancava la forza e la determinazione: la sua meta era quella di mandare a casa qualche soldo. 

Lo zio non aveva un carattere docile, e al lavoro si dimostrava molto severo con i suoi operai. L’unico problema di Primo era la fame, alla mattina faceva una abbondante colazione, con pane e latte, e ogni tanto della marmellata, il caffè francese non gli piaceva, ma era necessario berlo. Ogni tanto con lo zio andava a fare dei lavori in qualche casa e incominciò ad esprimersi con qualche parola in francese. La zia gli preparava per mezzogiorno del cibo, ma non era sufficiente per uno come lui che era alto quasi due metri. Non era possibile che alla fine del pasto, avesse ancora fame, e questo preoccupava la zia. Alla sera stanco per il lavoro si buttava sul letto e il sonno lo raggiungeva subito. Il suo problema era quello d’imparare la lingua francese, una ragazza si era resa disponibile alla domenica d’insegnargliela. Questa giovane lavorava in una panetteria, e, spesso, Primo si era recato a comprare del pane per integrare il pranzo. La ragazza era anche piuttosto carina, e gli dimostrò una certa simpatia. Alla domenica Primo andava alla messa con lo zio, e quello era il momento più bello, per la calda l’accoglienza che il prete riservava alle persone che l’assistevano. La gente del luogo era francese, ma vi erano molti italiani che assiduamente partecipavano alla S. messa. 

Lo zio presentò a Primo un po’ di persone, e tutte lo osservavano con stupore perché sembrava essere più alto del campanile della chiesa. Alla fine della messa lo zio lo portava a bere qualcosa al bistrot vicino alla chiesa, dove la gente vi andava per fare due chiacchiere e bere del vino: erano contadini, muratori, e falegnami. Quando entrò nel locale con Primo, lo zio si accorse subito che lo osservavano per la grande stazza. Un pescatore gli rivolse della parole, ma non comprendendo la lingua dovette intervenire lo zio. Questo pescatore voleva sfidare il giovane a braccio di ferro, e disse che ci avrebbe scommesso una bottiglia del buon vino della Borgogna. Primo, dal canto suo, non aveva denari, e non poteva scommettere. L’uomo abituato alla vita dura del fiume gli disse che non avrebbe voluto niente, in caso di vincita. La sfida quindi si poteva fare subito e l’oste lasciò fare. La gente, che pochi minuti prima aveva assistito alla santa messa, ora non aveva di meglio per svagarsi che scommettere su chi avrebbe vinto. Lo zio di Primo non aveva nessuna voglia di scommettere, non approvava alcun gioco. Primo si sedette, il pescatore pure e davanti a una trentina di persone iniziò la sfida. Un silenzio religioso si fece nel locale, credo che anche le mosche si fossero fermate per assistere alla sfida. Primo era tranquillo, l’unica cosa che fece fu quella di togliersi la camicia, evidenziando dei possenti muscoli. 

Molti avevano scommesso sulla vittoria del pescatore e pochi su quella dell’italiano. In quella mattina, con un freddo che avrebbe imbalsamato un albero, in quel locale fumoso Primo Carnera batté a braccio di ferro il pescatore per ben tre volte. Costui umiliato disse che con quella forza avrebbe potuto fare del pugilato. L’uomo sconfitto, per la prima volta, riconobbe il valore dell’avversario, e prontamente volle pagare la bottiglia di vino che era stata messa in palio. In paese la figura di Carnera era piaciuta a molti, e ne avevano parlato di quello che era accaduto. Lo zio si sentiva orgoglioso del nipote, cui gli voleva bene. Quella domenica Primo uscì con la ragazza della bottega del pane. Passeggiarono lungo il fiume, e lei si era portata un quaderno delle elementari e un abbecedario, con una matita rossa. La gente che li incontrava era incuriosita dall’altezza di Primo che era davvero un gigante e la giovinetta gli arrivava poco sopra la cintura. Si chiamava Rosalba, aveva vent’anni e amava la natura, aveva un carattere mite, in bottega con il padre non si arrabbiava mai, in lei vi era una cortesia contagiosa. 

Rosalba era felice di stare con Primo, il loro linguaggio erano i gesti e il sorriso. Camminando lungo il fiume, giunsero vicino ad una piccola chiesetta abbandonata, il tetto era sfondato, e si sedettero vicino ad una quercia. Faceva freddo e Primo diede a Rosalba la sua sciarpa: un gesto d’affetto. Il sole di gennaio non scaldava molto, ma non c’era altro posto dove andare. Rosalba tirò fuori il piccolo abbecedario e incominciò a pronunciare le parole che erano contrassegnate da un disegno. Per Primo era come ritornare a scuola. Passarono un’oretta a ripetere quelle parole, usando anche la penna, la mano di Primo la copriva interamente. Rosalba lo guardava ammirata, si sentiva una maestra. Alla fine si alzarono e presero la via di casa. La giornata domenicale aveva spinto alcuni uomini ad usare la barca, per calare le reti. Per lo più erano pescatori della domenica, lungo l’argine qualcuno passeggiava, un uomo osservava il fiume, ammirando il colore delle acque. Rosalba, in modo istintivo, prese la mano di Primo per scaldarsi, che la strinse con dolcezza. Primo sentì una tenerezza a cui non era abituato. Inutile negare a se stesso, quella ragazza a cui non aveva detto neanche una parola, gli piaceva molto. 

Quando giunsero vicino a casa, Rosalba gli prese ancora la mano, si sarebbero rivisti la domenica successiva a Messa, e poi la giovane gli avrebbe impartito una nuova lezione. Prima di salutarsi gli aveva lasciato il piccolo abbecedario, affinché lo potesse studiare. A passo veloce Primo arrivò dagli zii, la tavola era imbandita e aveva una fame indescrivibile, e, per fortuna, alla domenica di solito il cibo era più abbondante. La zia si complimentò con lui per la sfida che aveva vinto. Era un modo per far capire che gli italiani erano un popolo molto forte e particolarmente fiero. I francesi non trattavano molto bene gli italiani. A Primo lo zio aveva insegnato d’essere rispettoso delle tradizioni del popolo che lo ospitava. La domenica fu allietata dalla compagnia di Rosalba, il cibo fu ottimo, finalmente aveva mangiato come si deve, la zia aveva fatto pure un dolce che non ne rimase sul piatto. Il giorno dopo lo aspettava un duro lavoro, lontano dalla falegnameria. Primo metteva tutta la sua forza e la sua buona volontà nel lavoro e ciò soddisfaceva lo zio. In quella settimana lavorarono vicino al fiume, in una cascina dove c’era da sistemate un pavimento in legno. Quando suonava mezzogiorno, lo zio lo portava in una trattoria frequentata da pescatori e da quelli che lavoravano con i barconi. Il locale era molto semplice, e lo zio lo conosceva bene. Primo che non disdegnava mai il cibo si mise a mangiare un cestino di pane. Una cameriera venne a portare del vino, era una donna attempata, che doveva essere sempre vissuta in quel locale. Il cibo era ottimo, la donna aveva portato un piatto in più di pesce che era la specialità del posto e altri due cestini di pane che avrebbero aggravato il conto. 

Lo zio sorrise, battendo la spalla di Primo, gli disse che era proprio un Carnera, una razza forte e massiccia . Queste piccole attenzioni avevano messo di buon umore il nipote, usciti da quel locale lavorarono fino a sera, senza mai parlarsi, e la fatica aveva conquistato il loro corpo. I giorni che seguirono furono uguali, gli piaceva leggere il libro che Rosalba gli aveva dato e ripeteva qualche parola in francese, chiedendo allo zio come si pronunciava. La domenica successiva andarono alla messa e questa volta venne anche la zia che voleva conoscere Rosalba. La chiesa era affollata e il prete vestiva dei paramenti nuovi, una festa nella festa. Primo andava a messa anche a Sequals e una volta la sua maestra gli aveva detto che in qualsiasi posto dove si trovasse, se entrava in una chiesa e vedeva un crocefisso, avrebbe sentito Dio vicino e non avrebbe avuto più paura. La vita per quanto difficile riserva sempre una speranza, nessuna tristezza rimane tale se hai Dio nel cuore. Alla fine della messa si ritrovarono al bistrot, il pescatore chiese a Carnera se era disposto ad affrontare, nella sfida a braccio di ferro, un giovane che era giunto da Parigi perché voleva conoscere quell’italiano che aveva battuto il suo amico vigoroso. Sembrava che tutti attendessero quel momento. La sfida si fece e venne messo in palio una forma di formaggio e un salame. In quel momento al bistrot era entrata Rosalba e quando vide Primo gli fece cenno con la mano. La sfida iniziò e l’uomo che aveva davanti non sarebbe stato facile da battere, ma nella vita ci vuole anche un pizzico di fortuna. Carnera aveva davanti a sé Rosalba e si sentiva fiero che lo osservasse. La gente aveva scommesso contro di lui, a tutti era bastata la fama che proveniva da Parigi. 

Quello che accadde, lo ricorderanno per anni. All’inizio l’italiano fece una smorfia di dolore, aveva avuto un crampo alla mano. In quel momento fissò il volto di Rosalba, e con uno sforzo durissimo riuscì a piegare l’avversario, e istintivamente alzò le braccia al cielo in segno di giubilo. Rosalba gli si avvicinò e gli toccò le muscolose braccia. Il bottino di quella domenica era davvero importante. La zia fu felice di arricchire la sua dispensa che, da quando era arrivato in Francia il nipote, era spesso vuota. Quel giorno lo zio aveva dato qualche soldo al nipote, che assieme a Rosalba andarono a mangiare in un posto vicino a quella chiesetta diroccata. Durante il ritorno Rosalba aveva preso la mano di Primo e non l’aveva più lasciata. Faceva freddo quel giorno, non c’era il sole, una nebbiolina si alzava dal fiume, una grossa chiatta si era attraccata alla riva; due marinai stavano discutendo in modo animato. Davano l’impressione che ci fosse stata una lite per denaro, ma non era nulla di grave, perché poco dopo entrarono pure loro a mangiare nel locale affollato di clienti, tra cui delle famiglie con figli. Uomini con il berretto da marinaio stavano giocando a carte. Quella domenica fu una delle più belle, passeggiarono per il centro del paese, ma anche se faceva freddo il cuore di Primo era riscaldato dalla tenerezza di Rosalba. 

Quando si lasciarono era giunta la sera, la nebbia era diventata più fitta. Carnera, percorrendo l’ultimo tratto di strada che lo conduceva a casa degli zii, fu colto dalla nostalgia della sua famiglia, a cui non aveva scritto neanche una cartolina per informarla sulle sue condizioni di salute. Qualche volta aveva pensato di ritornare in paese, era anche andato alla stazione dei treni, ma poi aveva deciso che era meglio non partire: era lì per lavorare ed inviare del denaro a casa. I mesi passavano e il suo corpo s’ingigantiva sempre di più, anche grazie alla fatica ed al duro lavoro. Qualche volta con Rosalba, la domenica, andava al cinematografo. Dei film che vedeva capiva poco o nulla, ma gli piaceva osservare i personaggi e in qualche modo cercare di imparare la pronuncia. Rosalba era una cara ragazza, gli dava delle ripetizioni di francese, e in qualche modo contribuiva a mitigare la solitudine e la nostalgia della sua terra. Una domenica di marzo arrivò un circo al paese. I manifesti pubblicitari facevano presagire che si trattasse di un circo di modesta entità. 

A Sequals ricordava d’aver visto solo un piccolo circo, con pochi animali che non riscosse molto successo, ma a lui era piaciuto comunque. Anzi, aveva conosciuto alcuni circensi e li aveva aiutati in piccoli lavori, guadagnandosi, così, un biglietto per lo spettacolo. Primo chiese a Rosalba di andare con lui alla rappresentazione della domenica.