NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 31 gennaio 2019

Io difendo la Monarchia - Cap VI - 5


Ed eccoci all’anno decisivo: 1938. La dittatura all'interno non offre più nulla di nuovo. Lo sviluppo della dottrina si è arrestato alla riforma corporativa che si è impigliata nella rete della dittatura la quale impone la scelta dall’alto per i dirigenti sindacali e impedisce ogni serio tentativo di critica e di controllo degli iscritti ai sindacati. I principi del nazionalsocialismo (il razzismo e il Lebensraum - spazio vitale) hanno superato e in sostanza negato, il fascismo. Con tali dottrine il pangermanesimo hitleriano respinge l’universalismo di Roma  e dell'Occidente per collocare il principio razziale alla sommità della scala dei valori  umani. Così facendo l’hitlerismo diverge radicalmente da quel fascismo che ostentava di seguire nei primi anni del potere.
La religione del sangue e del suolo (Blut und Boden) pone il germanesimo fuori dall’Occidente e contro l’Occidente cristiano tanto che il cardinale arcivescovo di Monaco è costretto a esclamare in quell'anno:  La Grazia di Dio non ci ha salvati dal paganesimo germanico ».
Il cardinale  arcivescovo di Vienna corre rischio nello stessi anno,  alcuni mesi dopo l’Anschluss, di essere gettato dalle finestre del palazzo arcivescovile da una muta di feroci nazisti.
Nonostante la guerra d’Etiopia, nonostante la guerra spagnola, nonostante l’Anschluss, Mussolini riuscì ancora  due volte a raggiungere la considerazione internazionale : come al tempo del patto a quattro e dell’accordo di Stresa. Il 16 aprile 1938 veniva firmato a Roma il patto italo-inglese. L’Inghilterra riconosceva la conquista italiana dell’Etiopia e fissava i suoi rapporti con il nuovo Impero italiano in tutti i punti di interesse comune: nel mar Rosso, nell’Africa Orientale, nel Mediterraneo. Londra dava insomma un colpo di spugna al passato e l’Italia prometteva di non turbare più lo status-quo nel Mediterraneo e in Africa.
Alla fine di settembre di quello stesso 1938 Mussolini otteneva il successo di Monaco. Molti credettero in Europa, persino un diplomatico esperto come François Poncet, dopo quella Conferenza, che la via della pace passasse per Roma e che Mussolini possedesse le chiavi del cuore di Hitler. Gli ultimi pacifisti si aggrapparono a questa illusione. L’omaggio reso ai Comuni e al parlamento francese, da Chamberlain e da Daladier, al contributo offerto da Mussolini alla causa della pace fu senza dubbio superiore all’opera effettiva del Capo del Governo italiano. Ma si volle probabilmente eccedere nella lode, nella speranza di poter dare all’Asse un indirizzo pacifico, lusingando la infinita, morbosa vanità del capo del governo italiano. Certo, i discorsi fervidissimi di Neville Chamberlain alla Camera dei Comuni e di Daladier a palazzo Borbone non erano meritati da Mussolini che ben presto, aggiogato all’altro istrione, Hitler, e da questi trascinato, doveva tradire le promesse, le speranze suscitate, gli impegni assunti.
Tutti ricordano le dimostrazioni per la pace al ritorno di Mussolini da Monaco ove sembrava che la pace fosse stata assicurata. Quelle dimostrazioni erano sincere: esse esprimevano l’intenso, profondo desiderio di pace degli italiani. Perfino d’Annunzio, nonostante la costante sua maldicenza verso Mussolini e il suo isolamento e il suo orgoglio di ex Reggente del Carnaro, si muoveva da Gardone per recarsi alla stazione di Verona per incontrare il capo del Governo. Mussolini aveva animo troppo rozzo e spirito troppo stoltamente ambizioso per comprendere che in quell'omaggio universale erano contenuti e una invocazione e un monito.
Uno scrittore francese scriveva ancora di lui, quattro mesi dopo il convegno di Monaco, pur dopo il discorso di Ciano (30 novembre 1938) alla Camera sulle naturali aspirazioni del popolo italiano e la grossolana chiassata dei deputati a Montecitorio in presenza dell’ambasciatore di Francia: «Nè gli ingiuriosi clamori di Montecitorio,  le assurde rivendicazioni italiane (la Francia unanime ha risposto come si doveva) potranno far disconoscere quel che vi ha di effettiva grandezza nell'opera di Mussolini ». E ancora: «L’esperienza mussoliniana ha provato, con la sua durata, che il fascismo non era una qualunque forma di autorità cesarea e di dittatura transitoria ma, al contrario, una forma nuova e durevole della evoluzione della società » (1).

Sono tutte -queste, senza dubbio, delle errate interpretazioni, delle esagerazioni retoriche, ma è importante notare che esse si ripetono in ogni paese e in ogni lingua per circa quindici anni. Come affermare, allora che il fascismo fu tutta una lunga serie di delitti resi possibili dalla complicità della Corona?   
Re Vittorio fu invece il primo e forse il solo a resistere al dittatore. Egli ha sempre chiamato Mussolini con il semplice e vecchio titolo di Presidente, mai Duce.
Il 30 marzo 1938 con una procedura bizzarra e sommamente irregolare la Camera acclamava Mussolini, Primo Maresciallo dell’Impero. La Presidenza della Camera con un corteo di deputati si recava al Senato e imponeva che la legge fosse approvata in pochi minuti. Il Re si sentì toccato nelle sue prerogative, dichiarò il decreto incostituzionale e si rifiutò per varie settimane di firmarlo. Si dovette domandare il parere del Consiglio di Stato e il Presidente di quell'alto consesso, sen. Santi Romano, si affrettò ad appoggiare la tesi governativa. Allora il Re firmò, pur sottolineando che i giuristi e i filosofi trovavano sempre argomenti per appoggiare gli atti dei potenti. Sarebbe stata quella un’ottima occasione per il Consiglio di Stato, di frenare gli arbitri, i colpi di testa del fascismo, ma fu naturalmente, anch'essa un’occasione perduta. Mai un corpo dello stato, mai una magistratura, mai un organo dell’amministrazione, mai un assembramento popolare ha agito contro la dittatura. Come poteva farlo il Sovrano? Appoggiandosi a quali forze? Sulla scorta di quali indici? Prendendo a pretesto quali motivi? Ma non è improbabile che il fervido cervello dell'on. Lussu avrebbe preteso che il Re inviasse degli emissari all'antifascismo fuoruscito e repubblicano (2).



Nel maggio 1938 Hitler venne a Roma per vedere — dice Mussolini — la Roma del duce. Ma a Roma il padrone di casa era il Re e non il Capo del Governo. Si vide allora Mussolini involarsi dalla stazione dopo l’arrivo di Hitler e andar via in automobile da solo per non partecipare al corteo in posizione subordinata. Gli italiani ignorarono il conflitto: l’antifascismo continua a

parlare di monarchia fascista. Ma cosa facevano in quel periodo all’estero i signori Sforza, Nenni, Togliatti? Lavoravano essi a vantaggio della loro nazione? E che cosa faceva l'antifascismo nostrano? Vi era, sì, prima della guerra, del malcontento nel paese, specie in alcuni ambienti borghesi e intellettuali (i più bersagliati da Mussolini il quale pronunciava alla fine di ottobre del 1938, in una adunata di « gerarchi » un pazzesco discorso contro la borghesia) che cominciava a vedere con chiarezza i pericoli della situazione. Ma tale malcontento non si manifestava apertamente, nè aveva la possibilità di raccogliersi attorno ad un uomo, a un’associazione, ad un gruppo. Il mito del duce non era ancora scosso nell’autunno del 1938 e il suo credito all’estero durò sino all’aggressione all’Albania e al patto di acciaio (maggio 1939). Ancora nel gennaio 1939 aveva avuto luogo il viaggio di Chamberlain e Halifax a Roma.



(1) Henri Massis: Chefs. Pion, Paris, pag. 5.
Agli epuratori antifascisti così accaniti contro gli autori italiani segnaliamo questo squarcio di prosa di un altro scrittore francese : R. Benjamin : « NI Tite Live, ni Tacite, qui ont peint des grands meneurs d’hommes, dans la même race, n’ont su donner l’idée des deux yeux pareils, dorés et sombres, flambant de toute la lumière qu’ils prennent et de toute la vie qu’ils portent, deux yeux qui voient, qui jugent, deux yeux qui parlent et disent: ’’D’abord, avant toute chose, ressentez-vous au vif ce qui est le plus noble dans la vie, ce qui vaut qu’on la vive? D’abord sommes-nous d’accord là dessus? ” ».


(2) Nel suo libro: Marcia su Roma e dintorni la serietà e obbiettività dell’informazione è tale che il gen. Pugliese un valoroso superdecorato che, per essere stato esonerato dal servizio dal fascismo per ragioni razziali, vive ora in un istituto di beneficenza, ha dovuto scrivere la seguente lettera a un giornale di Roma (agosto 1945): 
« Signor direttore, con riferimento all’articolo “ Il generale Pugliese dovrebbe essere fucilato", dichiara l’on Lussu, apparso sul Momento del 6 scorso, dichiaro, a mia volta quanto segue :
1) Come risulta dal verbale redatto e consegnatomi dai miei rappresentanti, generali Braida e Bronzuoli, in data 4 luglio 1945, verbale che lo ho trasmesso ierl’altro, all’avv. Lussu stesso, con lettera raccomandata espresso, l’avvocato Lussu si è rifiutato assolutamente di ricevere la lettera da me direttagli, tramite i miei rappresentanti.                  
Se l’avesse letta, avrebbe constatato:
a) che io non gli chiedevo soddisfazione, per l’affermazione mendace contenuta nel suo libro Marcia su Roma e dintorni, e cioè (pag. 64) : ” il generale Pugliese si dichiara pronto a morire per il Duce, in suo nome e in nome della sua Divisione affermazione questa, per cui, nella mia lettera suaccennata, dichiaravo intendere di ristabilire la verità dei fatti in diversa sede, ma bensì gli chiedevo spiegazioni o soddisfazione, ritenendomi io, superdecorato e superferito di guerra, offeso per
il successivo diffamatorio asserto (pagina 64 stessa: Essersi egli cioè stupito che ” il generale Pugliese il quale, nei parecchi combattimenti (a cui l’avv. Lussu dice, contrariamente al vero, di avere preso parte meco, nel 1915-16), gli era sembrato non avere avuta alcuna voglia di morire in tempo di guerra, fosse così deciso a morire in tempo di pace
b) che la domanda di spiegazioni, o soddisfazione, non può considerarsi una sfida a duello (art. 33 del Cod. cit.), come i miei rappresentanti gli hanno, a voce e nel verbale, detto e confermato; e che pertanto il volere attribuire alla presentazione della mia lettera il carattere del reato punito dall'art. 394 del Cod. Penale, costituisce affermazione inconsistente.
2) Per quanto concerne l’asserto seguente dell’avv. Lussu: «Il generale Pugliese fu il solo generale italiano che, dopo la Marcia su Roma, si recò da Mussolini all’Albergo Savoia, per dirgli: “ La mia divisione è a sua disposizione”» la verità dei
fatti risulta invece dal seguente stralcio del diario storico, relativo all’azione della Divisione di Roma, da me inviato al 
Ministro della guerra di allora, Diaz (in data 9 novembre 1922) insieme con altra ampia documentazione:
Giorno 30, ore 19. A seguito del fatto che, alle ore 0,30 del 28 ottobre 1922, io avevo assunto i poteri militari nel territorio della Divisione di Roma, mi reco all’Albergo Savoia, dietro invito fattomi dall’on. Mussolini, presidente del Consiglio dei Ministri, a mezzo dell’on. Bonardi. Ivi l’on. Mussolini presente anche il questore di Roma, mi comunica che, data la situazione delle ore 19 del giorno 30, la tutela dell’ordine pubblico è restituita all’autorità politica”.
Nessun altra comunicazione ebbe luogo fra me e Mussolini.
Pertanto le su accennate asserzioni dell’on. Lussu, a mio carico, di essere cioè, io pronto a morire per il « duce » e la mia Divisione essere a sua disposizione ”, sono false.
Quanto sopra risulterà da una mia prossima pubblicazione basata esclusivamente sulla documentazione suaccennata, che trovasi presso il Ministero della Guerra.
Tale documentazione testificherà per contro:
a) la mia lungimirante azione, secondo la quale, se le mie proposte ufficiali, inoltrate tempestivamente al Ministro della Guerra di allora, fossero state accolte, la marcia su Roma sarebbe stata stroncata al suo inizio, e non avrebbe avuto luogo;
b) che le interruzioni ferroviarie, da me attuate, nella notte sul 28 ottobre 1922, nelle stazioni di Civitavecchia, Orte, Avezzano, Segni, e che il libro dell’avv. Lussu neppure menziona, fermarono fino alla sera del 30 ottobre 1922, in cui ricevetti ordine dal Ministro della Guerra di riattivare tali interruzioni, fermarono, dico, incapaci di alcuna reazione, 20.000 fascisti colà giunti, cosicché, se l’ordine dello stato d’assedio fosse stato dato, con le numerose, sicure forze a mia disposizione, avrei, mediante la sola minaccia, stroncato ogni azione fascista;
c) la costante fermezza e coerenza della mia azione di comando.
Ringraziando vivamente, obbligatissimo 
Emanuele Pugliesegenerale di corpo d’armata della riserva ».


lunedì 28 gennaio 2019

Virtù e difetti dei Savoia in mille anni di dinastia riletti da Minola


Ancora oggi la dinastia dei Savoia esercita un fascino particolare ed unico, in grado di attrarre migliaia di visitatori ogni anno nei palazzi reali di Torino o del Piemonte. Al di là delle vicende e dei fatti storici, è giunto il momento di osservare i personaggi sabaudi sotto una diversa angolazione, scoprendo le numerose testimonianze che ci hanno lasciato. In questa direzione si muove l’ultima fatica letteraria dello storico e studioso di storia militare del Piemonte Mauro Minola. Nel suo ponderoso lavoro (720 pagine fitte, documentate anche da una ricca iconografia), dei personaggi evidenzia in particolare le qualità umane e sociali, le virtù, ma anche i difetti, andando ben oltre le semplificazioni aneddotiche di altre recenti biografie che hanno reso artificiale e ricca di stereotipi la ricostruzione storica.
[...]
Mauro Minola, Savoia. Storie, personaggi, curiosità e tradizioni della più antica dinastia europea, Editrice Il Punto – Piemonte in Bancarella, 720 pagine, 24 euro

domenica 27 gennaio 2019

CIRCOLO REX 71° CICLO DI MANIFESTAZIONI 2018-2019 - II PARTE


Seconda Parte

Sala delle Associazioni Regionali


27 gennaio
- Ing. Domenico GIGLIO
“Luci ed ombre della vittoria ”

17 febbraio
- Prof. Avv. Emmanuele EMANUELE
"L'intelligenza artificiale e la robotica.
Il nuovo mondo che ci aspetta ”

24 febbraio
- Prof. Avv. Salvatore SFRECOLA
"Riforma Costituzionale: come, quando e perché”

3 marzo
- Avv. Riccardo SCARPA
"Sovranità o sovranisMo ”

17 marzo
"Giornata dell'Unità Nazionale”

31 marzo
- Dr. Riccardo BALZAROTTi
"Le donne e la Grande Guerra ”

7 aprile
- Prof. Michele D’ELIA
"I dicembre 1918: nasce il Regno dei Serbi,
dei Croati e degli Sloveni”

27 gennaio1924: Fiume all'Italia


sabato 26 gennaio 2019

E' ancora viva nel Sannio la passione monarchica


L’attaccamento dei beneventani e dei sanniti in particolare per la Monarchia è stato sempre molto intenso e basta dare uno sguardo ai risultati del Referendum del 1946 tra Monarchia e Repubblica per capire ogni cosa.
A Benevento città si espressero per la Monarchia ben 15.023 elettori, mentre per la Repubblica solo 4.197.
In tutta la provincia 108.220 elettori votarono per la Monarchia e 42.541 per la Repubblica.
Ma non finisce qui perché già negli anni ’50, Benevento unica città d’Italia, ebbe ben due sindaci di dichiarata fede monarchica: il prof. Alfredo Zazo (1952) e il marchese avv. Antonio Rivellini (1954/1955), mentre il Sannio mandò al Parlamento nazionale il prof. Alfredo Covelli, monarchico inossidabile molto amato dal popolo del quale era espressione.
Ora essendo passati tanti anni fa un certo effetto sapere che nel Terzo Millennio quella fiamma è ancora viva e c’è persino un manipolo di persone che conservano intatto quel sentimento e sono persino pronti a misurarsi partecipando alle imminenti elezioni europee della prossima primavera.

[...]

http://www.realtasannita.it/articoli/politica/e-ancora-viva-nel-sannio-la-passione-monarchica.html

venerdì 25 gennaio 2019

Ricordiamo con affetto profondo ed infinita tristezza Marco Grandi



di Salvatore Sfrecola

Un tragico incidente stradale ieri ha privato gli amici e la comunità dei monarchici di Marco Grandi, avvocato, docente di storia contemporanea, allievo di Francesco Perfetti a Genova, componente della Consulta dei Senatori del Regno. Viveva a Corinaldo, una ridente cittadina marchigiana dalla quale proveniva la sua famiglia di illustri servitori dello Stato. Il nonno, Domenico, Generale, era stato Ministro della guerra nel Governo di Antonio Salandra, nel 1914. Il papà, Mario, aveva svolto le funzioni di Aiutante di campo del Principe di Piemonte Umberto.
Marco era una persona garbata, un grandissimo signore, un uomo di cultura, idealista ma concreto nelle prospettazioni politiche e nelle iniziative che assumeva nella sua cittadina ed ovunque fosse chiamato a svolgere una attività di diffusione e approfondimento di fatti di interesse storico e politico. A Corinaldo aveva organizzato importanti convegni storici e concorsi con premi per i giovani studenti delle scuole ai quali si rivolgeva per invitarli a considerare l’importanza delle proprie radici civili e nazionali, per risvegliare in loro il senso della nostra storia contro la narrazione faziosa, distorta e disonesta, che si accompagna da sempre al referendum del 2 giugno 1946 ed al "gesto rivoluzionario" del successivo 12 giugno che Re Umberto subì perché l’Italia non cadesse nella guerra civile alla quale i comunisti erano pronti nel caso avesse prevalso la Monarchia. Il Re, appartenente alla Casata che aveva unificato l’Italia, non poteva accettare che gli italiani si battessero gli uni contro gli altri, anche se era consapevole dell’ingiustizia che aveva subito per le condizioni nelle quali il referendum istituzionale era stato organizzato e gestito, in dispregio di una verifica autentica della volontà popolare.
E qui vale la pena di ricordare quel che Indro Montanelli, nel febbraio 2001, disse a Re Simeone II di Bulgaria, che era andato a trovarlo nella sua casa di Milano, in viale Piave, accompagnato proprio da Marco e dal nostro caro amico Camillo Zuccoli, oggi Ambasciatore del Sovrano Militare Ordine di Malta presso la Repubblica di Bulgaria: "Al mio amico Ciampi - affermò Montanelli - dico sempre che se alla catena della nostra Storia togli l'anello di Casa Savoia tutta la catena cade". E lo ha ripetuto più volte anche nel suo “L’Italia della Repubblica” (Rizzoli 1985) quando afferma che “di coloro che avevano votato Repubblica… Pochissimi si erano resi conto che, con la Monarchia, l’Italia rinnegava il Risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità. Era un mastice che non aveva mai operato a fondo e che aveva alimentato più una retorica che una coscienza nazionale. Ma scomparso anche quello, il Paese era in balia di forze centrifughe che ne facevano temere la decomposizione. Aizzata dai socialcomunisti, la lotta di classe deflagrava con una violenza proporzionale alla repressione cui per vent’anni l’aveva sottoposta il fascismo; mentre il regionalismo, fomentato soprattutto dai democristiani, assumeva, specialmente in Sicilia, gli estremi del separatismo”.
Scrive Giovanni Semerano in un commosso ricordo di Marco, dei suoi “tenerissimi affetti familiari, la sposa Paola e il figlio Domenico oggi increduli e disperati”, per la mancanza di questo uomo nobile e buono nel quale era “sempre presente, vivo e irriducibile l'amore per la Patria declinato nella fedeltà e nella devozione - non astratta perché più che meritata - al nostro grande e indimenticabile Re Umberto, che di Marco e di Paola fu testimone di nozze”.
Ricorda ancora che “in quel giorno felice, accanto al Re e agli sposi vi era anche un uomo al quale Marco, insieme al compianto Gian Nicola Amoretti, era legatissimo: Edgardo Sogno, l'eroe Medaglia d'oro della Guerra di Liberazione che, con il suo coraggio, ardimento, coerenza e fermezza, rappresentava un esempio e un simbolo altissimi di cosa significhi essere patrioti monarchici”.
Semerano nel suo ricordo non avrebbe potuto trascurare l’impegno politico di Marco Grandi nel Partito Liberale Italiano, insieme ad alcuni amici scomparsi e ricorda “tra i tanti valorosi parlamentari ed esponenti monarchici liberali: Augusto Premoli, Luigi Durand de la Penne, Roberto Cantalupo, Benedetto Cottone, Luigi Barzini jr., Umberto Bonaldi, Vittore Catella, Giuseppe Alpino, Emilio Pucci, Giuseppe Fassino,  Vittorio Badini Confalonieri, Giorgio Bergamasco, Umberto e Vittorio Emanuele Marzotto, Enzo Fedeli, Sam Quilleri, Alberto Giomo, Aldo Frumento”.
Ho visto Marco l’ultima volta l’8 dicembre 2018 a Castiglion Fibocchi in occasione di un incontro con il principe Amedeo di Savoia, quando il Presidente dell’Unione Monarchica Italiana, Avv. Alessandro Sacchi, gli ha conferito la medaglia d’argento della fedeltà monarchica, un riconoscimento voluto dal re Umberto II che aveva attribuito al Presidente dell’U.M.I. il compito di individuare chi lo meritasse. L’aveva accolto con profonda commozione. Ero accanto a lui in quel momento e ricordo il suo sorriso timido, le brevi parole con le quali ha ringraziato per questo riconoscimento per attività lungo decenni che aveva svolto sempre convinto di fare solo il suo dovere di italiano e monarchico.
Poche ore prima della tragedia aveva parlato con il Principe Aimone, che aveva accompagnato il 3 novembre 2018 a Roma quando nella Sala Umberto è stato ricordato il centenario della Vittoria. C’erano quel giorno anche i giovanissimi principi Umberto e Amedeo.
Esterrefatti “increduli e disperati” i lettori di Un Sogno Italiano si uniscono alla moglie Paola e al figlio Domenico nel dolore e nel ricordo.
Ciao Marco.
24 gennaio 2019

giovedì 24 gennaio 2019

In memoriam di Marco Grandi


Abbiamo ricevuto, e volentieri pubblichiamo, il ricordo dell'Avvocato Marco Grandi, monarchico e professionista di chiara fama improvvisamente e tragicamente mancato, da parte del Presidente Giovanni Semerano.

Marco era persona allo stesso tempo interamente idealista e realisticamente concreta.
L'Avvocato Grandi, in piedi, con Re Umberto, il Conte Edgardo Sogno e l'on. Marchese Luigi Durand De la Penne, di spalle,
Medaglie d'Oro al Valor Militare

Non un sognatore, non un nostalgico ma un uomo del suo tempo che ha fatto politica, sul terreno della vita associativa e di partito, per contribuire al bene dell'Italia.
Tutta la sua esistenza, da ragazzo fino all'ultimo respiro di ieri, ha avuto una "Stella Polare": la Patria e il Re, uniti e indissolubili perché questo era e resta, appunto, il bene dell'Italia.
Era figlio di Mario, Aiutante di Campo dell'allora Principe Ereditario Umberto di Savoia, e nipote del Generale Domenico, che fu anche Ministro della Guerra nel 1914 e al quale, nella natia Corinaldo, ha dedicato importanti convegni storici e concorsi con premi per i giovani studenti delle scuole, cresciuti dalla romitiana repubblica nella ignoranza delle proprie radici civili e nazionali e nella faziosità di una narrazione distorta e disonesta per tentare di colmare quel vuoto, generato dai brogli del 2 giugno 1946 e dal "gesto rivoluzionario del successivo 12 giugno, che è e resterà incolmabile.
Lo disse Indro Montanelli nel febbraio 2001 al Re Simeone II di Bulgaria che lo visitava nella sua casa di Milano, in viale Piave, accompagnato proprio da Marco e dal nostro caro amico Camillo Zuccoli: "Al mio amico Ciampi - affermò Montanelli - dico sempre che se alla catena della nostra Storia togli l'anello di Casa Savoia tutta la catena cade".
Accanto ai tenerissimi affetti familiari, alla sposa Paola e al figlio Domenico oggi increduli e disperati, sempre presente, vivo e irriducibile vi era l'amore per la Patria declinato nella fedeltà e nella devozione - non astratta perché più che meritata - al nostro grande e indimenticabile Re Umberto, che di Marco e di Paola fu testimone di nozze.
Quel giorno felice, accanto al Re e agli sposi vi era anche un uomo al quale Marco, insieme al compianto Gian Nicola Amoretti, era legatissimo: Edgardo Sogno, l'eroe Medaglia d'oro della Guerra di Liberazione che, con il suo coraggio, ardimento, coerenza e fermezza, rappresentava un esempio e un simbolo altissimi di cosa significhi essere patrioti monarchici.
In questi Ideali e Valori, che non mutano e non tramontano, Marco ha percorso il suo cammino, spezzato prematuramente ieri, impegnandosi in tutte le battaglie condotte nella nostra Unione Monarchica, nella Consulta del Senato del Regno e, quando esisteva, nel PLI insieme ad alcuni amici scomparsi che vorrei qui ricordare tra i tanti valorosi parlamentari ed esponenti monarchici liberali: Augusto Premoli, Luigi Durand de la Penne, Roberto Cantalupo, Luigi Barzini jr., Benedetto Cottone, Umberto Bonaldi, Vittore Catella, Giuseppe Alpino, Emilio Pucci, Giuseppe Fassino,  Vittorio Badini Confalonieri, Giorgio Bergamasco, Umberto e Vittorio Emanuele Marzotto, Enzo Fedeli, Sam Quilleri, Alberto Giomo, Armando Frumento.
Poche ore prima della tragedia aveva parlato con il Principe Aimone, al quale lui come noi tutti siamo legati sia per rispetto delle volontà di Re Umberto e delle norme vigenti in Casa Savoia da 44 Capi Famiglia e 29 Generazioni, sia per quel principio di meritata fiducia e fedeltà che in Re Umberto ha avuto il suo paradigma.
Uniti ai suoi cari nel dolore e nel ricordo, lo salutiamo con affetto fraterno, con profonda gratitudine e con infinita tristezza.
Ciao, Marco.
Giovanni Semerano
Presidente onorario dell'Unione Monarchica Italiana
Membro della Consulta del Senato del Regno

mercoledì 23 gennaio 2019

Il “Diciannovismo”: tutti contro tutti la sciagura dell’Italia

da "il Giornale del Piemonte 13/1/2019"
di Aldo A.mola


Le “ingerenze straniere" di cent'anni fa. Il presidente USA Wilson.
 Il 23 aprile 1919 il presidente degli Stati Uniti d’America, Thomas Woodrow Wilson, si rivolse direttamente agli italiani sulla questione che stava avvelenando il Congresso per la pace in corso a Parigi: la sorte di Fiume. Pubblicata in un quotidiano francese e subito rimbalzata in Italia, la dichiarazione passò alla storia come "messaggio" e/o persino “appello" Wilson arrivava da una famiglia di predicatori. Combattuta la dislessia con la stenografia e afflitto da gravi problemi di salute, come Franklin D. Roosevelt e altri presidenti degli USA (e non solo), appartenne alla serie dei "malati che governarono il mondo" Profeta all’estero più che in patria, ove venne sconfitto e sconfessato. In preda a un raptus imperialistico, il governo italiano pretendeva la città di Fiume in aggiunta all'applicazione integrale dell’accordo di Londra del 26 aprile 1915, cioè il confine dal Brennero al Quarnaro. Ma anche il neonato Stato serbo-croato-sloveno voleva Fiume con la Dalmazia  e il confine a ovest di Trieste e di Gorizia. A suo avviso l'Italia non meritava niente. Belgrado contava sul sostegno della Francia: non solo l’irruento Georges Clemenceau, "il tigre” ma anche il gran maestro onorario della Gran Loggia Paul Peigné, un generale che propugnò le "Revendications nationales" serbe, in linea con la autodeterminazione delle nazionalità "frantumate o oppresse" dagli Imperi Centrali (Germania e Austria- Ungheria) ormai sconfitti.
Il Messaggio di Wilson fu una ingerenza clamorosa negli affari interni dell’Italia, che aveva visitato suscitandovi l’entusiasmo delle solitamente stupide folle, orchestrate dA giornali e da élite che si credevano furbe. Ma egli era abituato a ben altre ''interferenze" Con le tempie circonfuse del Premio Nobel per la pace (Enrico Tiozzo documenta quante altre sciocchezze vennero deliberate tra Oslo e Stoccolma) aveva alle spalle micidiali missioni militari nel Messico e nell'America Centrale, mentre gli europei erano intenti ad annientarsi a vicenda. Per protesta contro il missionario d’oltre Atlantico la delegazione italiana abbandonò Parigi. Il 25 aprile l’anglofilo e anglofono Ernesto Nathan, gran maestro del Grande Oriente d’Italia e già sindaco di Roma, esecrò Wilson in un Manifesto agli italiani perché negava “il ricongiungimento all’Italia di Fiume e di quei territori sulla costa orientale dell’Adriatico (la Dalmazia) che le spettano per antiche imprescrittibili ragioni di diritto nazionale riconsacrato dal recente sacrificio di innumerevoli suoi figli e dalla inflessibile volontà di quelle popolazioni”. Retorica arcaica. Per certificarne la veridicità vi era un solo modo: indirvi referendum tra gli abitanti, ma a Roma non sarebbe convenuto affatto, perché le sue pretese sarebbero state sconfessate alle urne dalla popolazione delle terre pretese. Infatti anche l’annessione del Trentino e della Venezia Giulia avvenne per effetto del Trattato di pace di Saint-Germain, senza alcun plebiscito.
Wilson, invero, invocò l'amicizia tra statunitensi e italiani e persino la loro consanguineità, ma ribadì che, assegnata Trieste all’Italia, Fiume era e rimaneva il porto degli Stati gravitanti verso l’Adriatico: Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia. Alcuni chiacchieroni usi a confondere la Storia con le macchie sulle lenzuola, insinuarono che a convincersene fosse stato aiutato da fascinose dame jugoslave: argomento riecheggiante la Fiaba secondo la quale a promuovere l’alleanza tra Napoleone III e Vittorio Emanuele II contro l’impero d’Austria nel 1858-1859 sarebbe stata la usurata contessa di Castiglione anziché, come di fatto fu, la decisione dell’imperatore di mostrare all’Europa che la Francia non era più quella costretta all’armistizio di Fontainebleau e poi sconfitta a Waterloo nel 1814-1815 ma una grande potenza che, mentre vinceva gli asburgici a Magenta e a Solferino, entrava in Hanoi e protendeva le sue mire verso il Siam (non per caso oggi si chiede con forza la traslazione della sua salma dall’abbazia di Famborough, vicino a Londra, agli Invalidi o nella chiesa di Sant’Agostino, a Parigi).
Malgrado l’assenza dell’Italia, i congressisti proseguirono i lavori con l’approvazione dello statuto della Lega delle Nazioni (18 aprile), la spartizione dell’impero ottomano e la convocazione coatta dei tedeschi "ad audiendum verbum”. Il 7 maggio Orlando e Sonnino tornarono silenti sulle rive della Senna. Il 2 maggio nel lacunoso "Diario” Sonnino ammise: "non resta che rassegnarsi alle imposizioni di Wilson, attenuate in parte, se possibile, dalle proposte degli alleati”: i quali, invece, erano d’accordo con il presidente degli
USA, perché avevano sì accettato l’Italia come “associata” nella guerra ma non ne erano affatto amici.

Il gioco dei quattro cantoni in assenza di Europa
Quel precedente di cent’anni addietro aiuta a valutare la pochezza delle odierne scorribande di “capi" e "capitani" italiani in cerca di “alleati” in partiti e movimenti in altri Stati dell’Unione Europea. E' il gioco dei quattro cantoni. Ti cerco, ti tocco... E poi? Oltralpe incontrano accoglienze gelide e talvolta (è il caso dei Gilè gialli francesi a Luigi Di Maio) vengono considerate inammissibili interferenze in affari interni, perché il livello di integrazione politica rimane molto basso. Per molti aspetti, invero, gli affannosi Guerin Meschini d’oggi giorno non costituiscono nulla di nuovo rispetto a quanto praticato molto prima dell’assetto faticosamente raggiunto dall’Unione con il Trattato di Lisbona.

Al tempo del bipolarismo planetario, vale a dire dalla Guerra Fredda al crollo dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (1946-1990), era scontato che i partiti dei singoli Paesi cercassero legittimazione da parte dei rispettivi alleati preponderanti. Ma quelli erano partiti dalla lunga storia: anzi, come nel caso del Partito comunista italiano, a lungo erano stati sezione italiana della Terza Internazionale, un tentacolo di un polipo con la testa a Mosca. Anche dopo lo scioglimento del Komintern, i partiti comunisti “occidentali” partecipavano ai congressi della Magna Mater Frugorum, il Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS). I loro delegati vi pronunciavano discorsi, condividevano propositi e ne tornavano con direttive. Accanto al fiancheggiamento "alla luce del sole" ve n’era un altro, occulto, talvolta con un piede e mezzo nell’illegalità, a copertura di reati continuazione degli schieramenti operanti nella seconda guerra mondiale.
Gli Alleati (USA e Gran Bretagna) e URSS avevano lottato insieme contro Germania, Italia, Giappone e loro satelliti, ma con obiettivi ultimi del tutto divaricati. Il "sistema” sovietico aveva mutato l’abito ma non il il fine.
Negli stessi decenni postbellici i partiti "occidentali” non comunisti dei Paesi europei non furono altrettanto intrinseci dell’unico vero garante della loro libertà, cioè gli Stati Uniti d’America, perché gli USA non erano (come non sono) un regime di partito unico, volto all’asservimento ideologico e pratico delle dirigenze dei paesi amici o vassalli. Per rimanere al caso dell’Italia, socialdemocratici, repubblicani ispirati da Randolfo Pacciardi, liberali e democristiani non ebbero referenti diretti nei congressi dei Democratici e dei Repubblicani d’oltre Atlantico, le cui dinamiche spesso rimasero impenetrabili per chi le osservava con gli occhiali italocentrici. Il vero discrimine era costituito dall’invito ad assistere all’insediamento dei Presidenti che via via si susseguirono alla Casa Bianca. Rimane emblematico il caso di Lido Celli, invitato alla Casa Bianca sia da Carter che da Reagan. 

Il caos istituzionale: capipartito o ministri? Lo Stato dov'è?
Lo sconcerto della caccia al partito amico Oltralpe da parte di quelli italiani sta nella asimmetria fra le loro aspirazioni e la configurazione dei poteri istituzionali. È paradossale che un vicepresiderite del consiglio (Salvini) visiti un Capo di Stato, quasi ne fosse egli stesso presidente, a caccia di un’alleanza elettorale e che un altro vicepresidente (Di Maio) offra aiuto a un movimento che da mesi organizza manifestazioni caotiche contro il presidente di un Paese amico senza valutare le motivate ritorsioni non contro il suo movimento ma contro 10 stesso Stato italiano e i suoi cittadini. La condotta di Luigi Di Maio, del suo socio Davide Casaleggio e del ministro Toninelli al Quai d’Orsay offre occasione per rinfacciarci la pugnalata alle spalle del 10 giugno 1940.
Oltralpe ancora una volta gli italiani si mostrano inaffidabili, voltagabbana e persino aizzatori di rivolte di piazza, il cui retroterra molti italioti disconoscono per colpevole  ignoranza. I Gilè gialli sono i discendenti diretti dei francesi che ad Aigues Mortes ammazzarono a colpi di vanga decine di terrazzani italiani che lavoravano per un magro salario e che negli Anni Sessanta sabotavano l’esportazione di vini e agrumi dall’Italia. E’ la "Francia profonda” simile all'"Italia profonda" vogliosa di sprofondare nel baratro della decrescita felice: l’autoerotismo di un Paese per secoli succubo di dominazioni straniere.

L’Europa che ancora non c'è
Questo accade perché l’Europa odierna non si è ancora ripresa dalla fine della Guerra Fredda in cui si cullò per decenni. Ha assistito da spettatrice allo spostamento verso est del sistema
difensivo verso la Federazione russa e non ha varato alcuna politica davvero unitaria di Stato: estera, militare,
economica, nei confronti della decolonizzazione e delle guerre condotte di cui è stata essa stessa protagonista diretta o indiretta nel Vicino, nel Medio Oriente e nell’Africa settentrionale, con la promozione sconsiderata delle immaginarie “primavere arabe” nell’illusione che a cambiare il mondo bastassero un po’ di messaggi sui cellulari. Al
momento l’Europa ancora non c'è. È nelle sue smagliature che certi capitani di ventura paiono condottieri
e persino Statisti. Quando l'integrazione effettiva dei Paesi dell’Unione farà seri progressi sarà normale che tornino a esistere partiti continentali, al momento assenti: un grosso guaio proprio alla vigilia del rinnovo del Parlamento europeo con quell’elezione diretta che dovrebbe dargli forza decisoria ma potrebbe invece condannarlo alla paralisi.
Siamo a un nuovo "diciannovismo'! Cent’anni dopo, non esiste una accezione condivisa del termine.
Per alcuni esso indica la fase aurorale del movimento fascista, che si propose come 
un nuovo "sol dell’avvenire". Per altri esprime l’inquietudine dominante l’Europa in cerca di pace. A distanza di un secolo esso sintetizza l’incapacità delle Potenze vincitrici di voltar pagina con gli spiriti bellicosi dominanti sino al tardo autunno dell’anno precedente. Più che di vittorie militari gli armistizi del novembre 1918 erano stati frutto del collasso degli Imperi Centrali. La dissoluzione dell’Austria Ungheria e la deflagrazione dell’Impero di Germania sconvolsero tutti i piani di vittoria coltivati per anni dall’Intesa. Con l’uscita di scena dell’impero russo, risultò evidente l’assenza di un progetto politico-militare condiviso almeno da Francia e Gran Bretagna, le uniche due potenze dell’Intesa ancora in lotta, ed emerse la divaricazione tre queste e l’Italia, che non era propriamente "alleata” ma "associata" Perciò il governo di Roma non venne messo al corrente degli accordi via via elaborati da Parigi e da Londra sulle future sorti future dell’impero turco-ottomano.
Secondo il congresso massonico di Parigi del 28-30 giugno 1917 la pace andava fondata su quattro pilastri: la restituzione dell’Alsazia e della Lorena alla Francia, la ricostituzione della Boemia (scomparsa nel 1620 con la vittoria del Sacro romano imperatore sui Boemi nella battaglia della Montagna Bianca: una guerra politica e religiosa), la rinascita della Polonia (ove anche i tedeschi aveva ventilato la nascita di un "regno" vassallo) e i plebisciti delle popolazioni per definire i confini delle terre misti lingue. Non accadde allora, non esiste oggi. Né in Europa né altrove. Di lì la crema catalana...

E in Italia il caos
Mentre a Parigi le aspirazioni italiane al dominio sull’Adriatico cozzavano con ostacoli crescenti, il Paese era squassato da crisi sempre più gravi e incalzanti: anzitutto le ripercussioni dell’enorme indebitamento dello Stato (schizzato a 14 miliardi di lire dell’epoca), la svalutazione della moneta, il divario tra costo della vita e stagnazione di salari e stipendi, la carenza di rifornimenti alimentari mentre l’epidemia detta “spagnola" divampava, favorita anche dalla denutrizione, la conversione della produzione bellica in civile, la smobilitazione dell’esercito, a danno soprattutto di ufficiali, sottufficiali e corpi di élite, come gli Arditi, meno facili da restituire alla vita ordinaria...
Il governo Orlando venne messo in minoranza e si dimise pochi giorni prima della firma del Trattato di pace a Versailles (28 giugno). Il nuovo ministero fu presieduto da Francesco Saverio Nitti che, inviso a Inghilterra e Francia, annaspò. Mentre i giornali badavano ossessivamente al Congresso di Parigi, lo scenario politico in terno mutò profondamente. Il 18 gennaio don Luigi Sturzo fondò il Partito popolare italiano, primo partito "dei cattolici" Esso segnò la svolta. Dopo quindici anni di collaborazione tra moderati, i cattolici vennero schierati contro i liberali. In gran parte erano contro la Monarchia, contro lo Stato sorto dal Risorgimento.
Egemonizzati da Giacinto Menotti Serrati, al congresso di Bologna i socialisti si schierarono a favore della Terza internazionale varata a Mosca da Lenin, Trotzky e Stalin. A loro volta erano contro lo Stato, contro la Monarchia. Su quanto avveniva in Russia i socialisti avevano sempre avuto informazioni approssimative. Nel gustoso saggio "I fantastici 4 vs Lenin. Una missione della
massoneria italiana nella Russia del 1917” (ed. Odoya) Riccardo Mandelli ha narrato le comiche vicissitudini di Innocenzo Cappa, Arturo Labriola, Giovanni Lerda e Orazio Raimondo mandati dal governo Boselli-Sonnino in Russia, con la benedizione del ministro dell’Interno, Orlando, per accattivare all’Italia le simpatie dei rivoluzionari. Nessuno dei quattro capiva il russo. Tennero fluenti discorsi e furono applauditi come eseguissero romanze di opere liriche.
Raimondo venne soprannominato Titta Ruffo, il celebre cantante cognato di Giacomo Matteotti. Il massone Ferdinando Martini nel Diario annotò: "In che lingua hanno parlato al popolo? In italiano? E chi li ha capiti? E come, senza capire, applaudirono? Che se han parlato alla colonia italiana, tanto valeva che rimanessero a Roma..."
Nitti inconcludente e Mussolini inesistente Il 23 marzo Mussolini fondò a Milano i Fasci di combattimento. Nulla a che vedere con il fascismo del 1921, del 1922, del 1929... eccetera. Era un punto su una lavagna della storia. Nitti mise a segno due catastrofi in pochi mesi. In agosto pubblicò il 2° volume dell’"Inchiesta su Caporetto" l’opera più distruttiva dell’immagine dell’esercito mai pubblicata in Italia. I militari che avevano fermato l’avanzata austro-germanica nell'ottobre-dicembre del  1917 e avevano sconfitto l’Impero asburgico a Vittorio Veneto ne uscirono malissimo. Poi varò la nuova legge che ripartì i seggi alla Camera in proporzione ai voti ottenuti dai partiti nelle circoscrizioni elettorali, a tutto vantaggio dei partiti “di massa" popolari e socialisti e ai danni di costituzionali e democratici. Dalle lettere confidenziali consta che neppure Giolitti previde appieno le conseguenze nefaste di quella riforma. Il 12 ottobre pronunziò a Dronero il discorso che nel 1950 Palmiro Togliatti valutò come il più avanzato della borghesia, ma dalle elezioni uscì battuto.
E il Re? All’inaugurazione della legislatura i socialisti uscirono dall’Aula di Montecitorio, appena restaurata, cantando l’Internazionale e irridendo al Sovrano.
Era il diciannovismo. Il primo dei quattro anni di caos che il 31 ottobre 1922 vennero chiusi con il governo di unità costituzionale presieduto da Benito Mussolini. Il quale nelle elezioni del 16 novembre 1919 capeggio una lista comprendente il protonazionalista Filippo Tommaso Marinetti, il libero pensatore Guido Podrecca e Arturo Toscanini, maestro di musica (sic!) e ottenne un risultato miserabile: nessun seggio alla Camera. La Storia, però, era ancora tutta da scrivere. Anzi, da fare. Con la ricerca di alleanze all’estero e pesanti ingerenze straniere, come sempre accade quando i governi sono deboli. In quel momento Mussolini era solo un puntino sulla lavagna...