NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 30 settembre 2012

Per l'«antica bandiera!»



Le forze armate e la guerra di liberazione


di Paolo Nello

Il cosiddetto discorso della riscossa, pronunciato al Teatro Lirico di Milano il 16 dicembre 1944, il redivivo Mussolini, "Duce" ormai solo della Repubblica Sociale, chiese ai fascisti: "Chi ha tradito?" Si riferiva, ovviamente, all'armistizio dell'8 settembre 1943, è, magari anche alla propria destituzione a seguito del voto del Gran Consiglio nella notte fra il 24 e Il 25 luglio dello stesso anno. Primo accusato del "tradimento" fu naturalmente Vittorio Emanuele III, complici i vertici militari, la borghesia e quanti, in generale, "non credevano più nella vittoria". In vena di ritorni alle origini repubblicane e di esperimenti socializzatori, alle prese con un alleato che sarebbe eufemistico definire solo ingombrante, angustiato dalla prospettiva del crollo del fronte e di tutto il resto nella primavera successiva, il "Duce" si affidava alla retorica radicaleggiante ed esibiva un'immagine di sé ben diversa da quella dell'estate 1943.



Allora, infatti, Mussolini aveva nutrito propositi di altra natura, e lo aveva fatto in sostanziale sintonia col Sovrano. Sia il Re che il "Duce" erano, nel luglio 1943, dopo la riuscita invasione alleata della Sicilia, alla ricerca di una soluzione in grado di impedire la disfatta dell'Italia.  Era evidente a entrambi, ormai, che la guerra non poteva più essere vinta e che l'unica alternativa alla sconfitta doveva essere ricercata nel pareggio. Di qui l'insistenza con Hitler sulla necessità di un armistizio dell'Asse con l'Unione Sovietica, anche a costo di sgomberarne i territori occupati, incluso il granaio ucraino. L'obiettivo essendo quello di concentrare lo sforzo bellico sugli angloamericani, impedendo loro l'invasione del Vecchio Continente. L'assoluta sordità hitleriana nel confronti delle richieste, e delle necessità di sopravvivenza, italiane aveva convinto Re e "Duce" dell'urgenza dello sganciamento dall'alleato. Cosa facile a pensarsi, ma assai difficile a realizzarsi per la prevedibile reazione tedesca. E poi: sarebbero stati Roosevelt e Churchill disposti a recedere dalla formula di Casablanca della resa incondizionata? Sarebbero stati disposti, inglesi e americani, a negoziare una pace onorevole con l'Italia? I dubbi erano più che leciti, ma la pura e semplice continuazione a oltranza della guerra era da escludere sia per il Re, che per il "Duce".



Grandi, protagonista della seduta del Gran Consiglio, si poneva pure lui l'obiettivo dell'uscita dell'Italia dal conflitto senza essere a parte dei propositi di Mussolini approvati da Vittorio Emanuele III, che riteneva il "Duce" l'unico in grado di tentare l'impossibile: far digerire a Hitler il nostro sganciamento. In ogni caso il Re aveva già individuato in Badoglio l'eventuale successore di Mussolini, se questi avesse fallito. I vertici militari avevano anche approntato un piano di azione contro il fascismo, qualora il Sovrano avesse ordinato la rimozione del suo "Capo". Scopo di tutti era impedire la finis Italiae, credendo poco lo stesso Grandi all'affermazione di Churchill per cui il solo Mussolini avrebbe pagato per la sconfitta se fosse stato cacciato dalla Corona. Il conflitto fra l'Italia e l'Inghilterra non era infatti essenzialmente di natura ideologica, come quello fra noi e gli Stati Uniti, ma di potenza; e non sarebbe stato facile convincere i britannici di una loro convenienza a ridimensionare, non cancellare, il peso italiano nel Mediterraneo, per ragioni di equilibrio e di chiusura al comunismo (in materia Churchill era, a dire il vero, un po' più possibilista dell'intransigente e rancoroso Eden, titolare del Foreign Office). Alla soluzione del nostro caso guardavano da qualche tempo pure l'Ungheria, la Romania e la Bulgaria, atterrite dalla prospettiva dell'invasione sovietica, per le quali Roma doveva fungere da apripista, onde saggiare le possibilità effettive di una negoziazione armistiziale con gli angloamericani e di un'uscita dalla guerra senza essere schiacciati dal tedeschi. Grandi, invece, dando comunque per scontata una feroce reazione hitleriana, avrebbe voluto abbinare la defenestrazione del "Duce" col "Vespro" antigermanico, mettendo Churchill di fronte al fatto compiuto di un'Italia liberatasi di Mussolini e in conflitto con l'ex alleato già prima di negoziare con l'ex nemico. Sempre nella speranza di trovar così la via per cancellare Casablanca e per convincere gli angloamericani a considerarci amici.



Il voto del Gran Consiglio costrinse il Sovrano a congedare subito Mussolini. La mozione Grandi, infatti, approvata da 19 gerarchi su 28 presenti (29 se includiamo il "Duce", non votante): non menzionava né i tedeschi, né il "Capo", né il fascismo; individuava solo nel Re il punto di riferimento coesivo dell'intera nazione; chiamava tutti a raccolta per "difendere a ogni costo l'unità, l'indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l'avvenire del popolo italiano"; chiedeva al Sovrano di assumere il comando effettivo delle Forze Armate (Vittorio Emanuele III era stato costretto a delegarlo al "Duce" nel '40) e, più in generale, di ripristinare le prerogative e la "suprema iniziativa di decisione" assegnate alla Corona dallo statuto del Regno, ponendo fine alla dittatura di Mussolini e allo strapotere del Partito fascista'. Qualora Vittorio Emanuele III avesse confermato al "Duce" la propria fiducia dopo un voto del genere, si sarebbe precluso qualsiasi possibìlità di liberarsene successivamente. La tradizionale cautela del Re venne vinta dalla considerazione che , evidentemente, il "Presidente" - come il Sovrano si ostinava a chiamare Mussolini per fedeltà al protocollo statutario - non godeva più del sostegno incondizionato dello stesso fascismo. E tuttavia, per non dare all'evento le sembianze di una lotta intestina tra "camerati", per impedire qualsiasi reazione del Partito e della Milizia fasciste, per evitare uno scontro civile, l'intervento tedesco o addirittura il collasso, attribuì esclusivamente a se stesso la decisione di congedare Mussolini senza menzionare il voto del Gran Consiglio, incaricò Badoglio di formare un governo di soli militari e funzionari, dette il via libera al menzionato piano d'azione delle Forze Armate con l'arresto del "Duce" e l'affidamento all'Esercito dell'inflessibile controllo del paese, fece proclamare a Badoglio che la guerra continuava (gli italiani si illusero del contrario e inneggiarono ingenuamente alla pace nelle manifestazioni popolari di giubilo, osannanti il Sovrano e Badoglio, seguite all'annuncio via radio della defenestrazione del dittatore).


Il piano funzionò: tedeschi e fascisti non reagirono; il paese si mantenne disciplinato anche per le severissime misure repressive adottate dalle autorità militari dato lo stato di guerra; le Forze Armate rimasero salde e in linea (ricordo che diversi ufficiali avevano la tessera fascista e magari erano ancora filotedeschi; e che non era irragionevole temere contraccolpi sulla tenuta delle truppe originati dall'illusione che la caduta del "Duce" preludesse a una rapida cessazione delle ostilità). Lo stesso Mussolini adottò un atteggiamento lealista, bene evidenziato dalla lettera che scrisse a Badoglio nella caserma allievi ufficiali dei carabinieri di Roma, dove venne trattenuto fino alla sera del 27 luglio, quando iniziò il viaggio di trasferimento per Ponza. Nella lettera, l'ex capo del governo assicurava all'ex sottoposto di non intendere creare alcuna difficoltà, e anzi di garantire «ogni possibile collaborazione". Concludendo con l'augurio «che il successo coroni il grave compito al quale il maresciallo Badoglio si accinge per ordine e in nome di Sua Maestà il Re, dei quale durante ventuno anni sono stato leale servitore e tale rimango. Viva l'Italia!"'.

E vero che il "Duce" si dichiarava contento della decisione presa di continuare la guerra cogli alleati come l'onore e gli interessi della Patria in questo momento esigono", ma è di contro vero che da ben altre intenzioni era stato animato prima, durante e dopo il Gran Consiglio, pur non nascondendosi certo la difficoltà estrema dell'operazione di sganciamento dal tedeschi. Il 16 luglio, del resto, aveva autorizzato Bastianini, suo sottosegretario agli Esteri, a tentare discretamente un approccio con gli inglesi, magari tramite il Vaticano, ancorché a titolo puramente
personale. Finita la seduta dei Gran Consiglio, secondo la testimonianza dell'allibito segretario del PNF, Scorza, sostenitore della resistenza a oltranza, il "Duce" si sarebbe lasciato andare a riflessioni sulla possibilità che Churchill accettasse di trattare con lui (Grandi era ovviamente convinto di no) e sull'inevitabilità di una guerra iniziale su due fronti. Esclusa l'opzione di un atto di forza col sostegno tedesco, onde impedire il proprio allontanamento da parte del Re, Mussolini tentò poi la via di un rimpasto ministeriale, con la cessione del ministero degli Esteri a Grandi (l'ex ambasciatore a Londra non si fece trovare) e di Guerra, Marina e Aeronautica a militari graditi al Sovrano. Infine, la mattina del 25 luglio, egli riferì papale papale a Hidaka, ambasciatore nipponico, che "quando le armi non costituiscono più un mezzo sufficiente per fronteggiare una situazione, ci si deve rivolgere alla politica"; e chiese al Giappone di sostenere il passo energico che egli intendeva compiere presso il "Fúhrer" onde ottenere la sospensione delle ostilità sul fronte orientale. "Altrimenti - disse - l'Italia si sarebbe trovata presto nell'impossibilità di continuare la guerra e avrebbe dovuto prendere in considerazione una soluzione di carattere politico". Dato che anche nel convegno di Feltre tra i due dittatori, il 19 luglio, era apparsa chiara la non percorribilità della strada di un armistizio con l'Unione Sovietica per l'inalterata sordità hitleriana, risulta ovvio che il primo argomento serviva solo a giustificare e sostenere il secondo, addossando al tedeschi la responsabilità della decisione italiana di uscire dalla guerra.

Nel periodo successivo, le cui vicende sono ben note, i tedeschi fecero affluire in Italia i rinforzi fino a quel momento negati, raddoppiando la consistenza delle truppe germaniche nella penisola con l'intento di garantirsi comunque il controllo della Valle del Po. E ciò perché a Berlino non ci si fidava ormai più degli italiani, tanto da prendere seriamente in considerazione l'ipotesi di deporre con la forza il Re e il governo Badoglio. Ovunque ritenuto necessario, nel Nord Italia e nell'Europa occupata, i tedeschi operarono al fine di neutralizzare la minaccia di uno sfilamento italiano, imponendo la propria volontà e le proprie strutture di comando, "incapsulando" le nostre truppe nelle loro, contrastando le proposte di rimpatrio di unità italiane all'estero e preparandosi all'eventualità di dover disarmare gli alleati. Vane risultarono naturalmente le rimostranze di parte italiana e chiaro apparve subito l'intendimento tedesco di muoversi a propria assoluta discrezione anche nella penisola. [...]




Il resto di questo interessantissimo articolo si trova sulla rivista Nuova Storia contemporanea. Numero 4, Luglio-Agosto 2012

sabato 29 settembre 2012

Ravenna: I Savoia restaurati al Museo del Risorgimento


Dal museo ai laboratori di restauro a nuovi allestimenti,  un dialogo che da oltre trent' anni garantisce la conservazione e la valorizzazione dei capolavori cittadini



Con l'inaugurazione, avvenuta questa mattina al Museo del Risorgimento, del nuovo allestimento di tre opere del Mar, raffiguranti i Savoia, si è concluso il piano di restauro 2012 .

Dal 1971 ad oggi sono state restaurate oltre 150 opere su tela,  28 disegni, 7 acqueforti, 62 cornici, 22 cartoni danteschi preparatori dei mosaici oggi esposti a Tamo, 14 cartoni di mosaici contemporanei, 12 busti di marmo ottocenteschi e l'icona del museo Guidarello Guidarelli. 
Oltre 170mila euro sono stati spesi per i restauri, gran parte dei quali ottenuti tramite i piani museali provinciali e dell'Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna.

Il restauro di Guidarello è stato finanziato da una sponsorizzazione della ditta Maie. I restauri, compreso quelli che hanno riguardato le donazioni, sono stati documentati da pubblicazioni, da tesi di laurea e ricerche della Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali.
[...]

venerdì 28 settembre 2012

Il partito Nazionale Monarchico - III Parte


L'IMPOSTAZIONE DELLA BATTAGLIA

Per merito del Partito Nazionale Monarchico l'impostazione della battaglia per la Monarchia affermò il diritto e il dovere di collocarsi sul terreno morale, giuridico, costituzionale: perché la ragione morale, giuridica, costituzionale assistono ugualmente l'interpretazione storica e la speranza nazionale.
Proprio perché si avverti e ispirò la ragione morale il Partito Nazionale Monarchico non soltanto fece appello all'opera di quanti convennero nella rivendicazione e nella azione, ma a quanti riconoscevano la realtà e la lealtà di premesse che sembravano - perché erano, perché sono indubitabili, anche se essi non convenivano nelle conseguenze che dalle premesse il Partito Nazionale Monarchico credette sin dalle prime ore - come crede tuttora - di poter trarre.

Scrivevo, su Italia Monarchica del 20 ottobre 1949: « Il dato obiettivo deve essere riconosciuto nella sua esattezza anche quando l'interpretazione possa e debba divergere per l'inserirsi nella disputa di elementi vari di natura storica e politica ».

In cospetto al referendum del 2 giugno per la determinazione, per la preparazione, per la esecuzione di esso (come anche per la sua interpretazione) il materiale morale al giudizio è imponente. Né si irrida alla ragione morale nella interpretazione del fatto storico e politico non solo per una ragione costante: che vale per tutti quelli che credono nella coscienza e non proclamano nell'alto della bocca l'imperativo morale; ma soprattutto per quelli che nell'ultimo conflitto si affidarono - o più esattamente dissero di affidare le loro speranze - alla forza delle grandi idee universali che, come la libertà, per le ragioni dello spirito contrastano la libertà della forza: come tale, bruta.
Né potranno irridere alla ragione morale coloro i quali credettero di addebitare alla espressione personale e concreta della Monarchia---il Monarca proprio la colpa morale di asserita mancata fedeltà agli impegni della Tradizione. Chiaro è, infatti, che se fosse stata vera la impostazione contro la Monarchia derivata dagli errori di un Sovrano - a parte la manifesta ed inammissibile e assurda sproporzione tra la causa e l'effetto - sarebbe ancor più da esigersi la valutazione morale ispiratrice di una determinazione che soltanto dalla ragione morale traeva la sua pretesa giustificazione. Né soprattutto avrebbe potuto e dovuto sottrarsi all'imperativo morale, nella considerazione del fatto storico, quel complesso politico che deriva o che- afferma derivare la sua impostazione politica e sociale da una premessa religiosa evidente essendo che non può non tendete - sempre - ad osservanza morale chi viva religiosamente.

Se cosi è (e cosi deve essere), nessuno il quale creda al dovere morale nella interpretazione politica, potrà non avvertire la iniquità di decisioni imposte in eccezionalità di condizioni contingenti a decidere per lungo destino - attraverso l'inabissamento di tutta una Storia; nella tregenda del turpiloquio e della leggenda - assenti innumerevoli interessati - interessati e autorizzati all'esame e alla decisione; confuse le opposte ragioni e i diversi pretesti: incompatibili addendi per mostruoso totale.

Né il Partito Nazionale Monarchico ignorò la osservazione che l'a ragione morale, che accusò quanto era accaduto, era ad un tempo morale politica giuri
dica, ma subito osservò che mentre taluni rilievi contro il fondamento della pretesa decisione istituzionale erano, esclusivamente, alla radice, morali, altri furono ad un tempo - e rimangono - alla radice, morali e politici e le stesse ragioni giuridiche e costituzionali, squisitamente tali, avevano, ed hanno, il conforto di verità morali e di realtà politiche.

Assunse il Partito Nazionale Monarchico essere malagevole scrivere tutto sul punto delle sofferte imposizioni che condussero al referendum. V'hanno poteri che non possono mendicare giustificazioni dalla impotenza e v'ha radice di sovranità che non può affidarsi alle fronde.

Ma la Monarchia italiana - pensò il Partito Nazionale Monarchico - proprio per la sua storia, proprio per il suo atto di nascita - ha potuto consentire ad un esame, al quale si era sottoposta quando i plebisciti lo consacravano.

Nessuno che conosca la storia e, per averne inteso gli insegnamenti del passato, non abbandoni l'esercizio del diritto ad influirla senza piegare alle realtà che si assumono fatali, poteva non sentire il disagio di fronte a giudizi storici affrettati e caotici, dove il caos era anche contraddizione.

La rivoluzione è dato di fatto (i diritti di rivoluzione essendo generalmente rivoluzione contro il diritto); comunque rivoluzione è rivoluzione: ma non tale sicuramente era stato quello che si era verificato in Italia, anche se la « papalina » non aveva sdegnato la confusione col « berretto frigìo » ! Sul terreno istituzionale nella prima ora convulsa si era proclamata la tregua istituzionale: e i Ministri, se non avevano giurato fedeltà al Re, dal Re avevano ricevuta la investitura! Esperimento sicuramente abnorme sotto il profilo costituzionale, ma non certo rivoluzionario e con forme perché rivoluzionarie indeterminate i

Pubblicava il settimanale del Partito Nazionale Monarchico (1): « L, quindi, evidente il disagio anche di intellettuale di fronte alla pretesa storica di definire responsabilità anche di natura personale, nei confronti di elementi estremamente complessi e di eventi verificatisi non nel chiuso dei confini di una Nazione ma nei confini del Mondo! Ecco, invece, che in Italia si è preteso di sentenziare in rito direttissimo in materia che esigeva istruttoria formale... »

Peggio, non si è deciso in libertà: se libertà non sia soltanto disponibilità fisica per la conclusione del voto, ma incontrastata possibilità di libera discussione. Se si è potuto votare in cabina, non una voce poté rivendicare la tesi monarchica su molte piazze e nei . grandi centri degli stabilimenti operai. Né si dica che fu la viltà dovunque ad eleggere il silenzio: fu la protervia ad imporlo.

In asserita tregua istituzionale fu sarabanda di offese: nei confronti del Capo dello Stato non osservato un minimo - nemmeno un minimo - nonché di rispetto (che la legge voleva nei non abrogati articoli del non abrogato Codice Penale, oggi rivissuti e fiorenti non più per la persona del Re «sacra ed inviolabile » ma per il Successore repubblicano pur passibile delle ipotesi dell'articolo 90), ma di pudicizia che la morale dei puritani - pronubi al « libero amore » nelle coabitazioni, anzi nelle convivenze intimissime  - avrebbe dovuto esigere: parlarono in allora i muri d'Italia lungo tutte le strade della Penisola senza calce! Ne arrossirono i cittadini che avessero dignità civile e senso morale.

lunedì 24 settembre 2012

Salvo D'Acquisto, metà eroe metà santo


di Marcello Veneziani Dom, 23/09/2012


Il carabiniere si auto­accusò dell’attentato contro i tedeschi, facendo così liberare gli altri ventidue ostaggi che stavano già scavandosi la fossa sotto lo sguardo armato delle SS




Immerso nella fogna del presente, av­vilito da storie miserabili, desidera­vo storie gloriose, cielo e aria pura. E qualcuno mi ha ricordato che come og­gi, il 23 settembre del ’43,si sacrificò Sal­vo d’Acquisto, il carabiniere che a Pali­doro, nel Lazio, offrì la sua vita ai tede­schi evitando l’eccidio per rappresa­glia di 22 italiani.
Me lo ha ricordato Monsignor Ga­briele Teti che ha avviato, in veste di po­stulatore, la causa di beatificazione del giovane milite. Mi ha mandato copiosi documenti su d’Acquisto che si auto­accusò dell’attentato contro i tedeschi, facendo così liberare gli altri ventidue ostaggi che stavano già scavandosi la fossa sotto lo sguardo armato delle SS. Loro rimasero attoniti, ridevano e pian­gevano mentre venivano liberati e lui veniva ucciso, in camicia bianca e pan­taloni di carabiniere.
D’Acquisto era napoletano, aveva combattuto in Africa. Ricordo che negli infuocati diverbi tra neofascisti, antifa­scisti e afascisti, era l’unica figura che metteva d’accordo tutti. Salvo morì a occhi aperti, guardando il mare e il cie­lo, nel nome della fede e dell’amor pa­trio. Ebbe la medaglia d’oro alvalor mi­litare, ma forse il suo valore fu più civile e cristiano.
Non so se possa considerarsi più un eroe o più un santo, come pensano Monsignor Teti e l’Arcivescovo Vincen­zo Pelvi dell’Ordinariato Militare: sì, forse gli eroi muoiono combattendo, lui invece si sacrificò disarmato, come i martiri. Salvo - un nome un destino - se lo contendono i cieli. Tra tanti processi infami, finalmente uno di beatificazio­ne.

martedì 18 settembre 2012

Il partito Nazionale Monarchico - II Parte


SORGE IL PARTITO NAZIONALE MONARCHICO

Rimanevano in Italia i 10.719.284 monarchici, dei quali dava atto la Corte di Cassazione che, il 18 giugno 1946 decideva sui reclami presentati contro i risultati comunicati il 10 giugno dalla stessa Corte « nelle forme e nei termini dell'art. 17 del D.L.L. 23 aprile 1946 n. 219 ». Per tale comunicazione il Consiglio dei Ministri aveva ritenuto che, prima della decisione sui reclami, si fosse determinata automaticamente l'instaurazione di un regime transitorio durante il quale, fino a quando l'Assemblea Costituente non avesse nominato il Capo provvisorio dello Stato, « l'esercizio delle funzioni di Capo dello Stato medesimo sarebbe spettato ope legis al Presidente del Consiglio in carica ».

Tra i 10.719.284 monarchici sorse un gruppo di cittadini a considerare se storia e cronaca consentissero di tutto dimenticare, ammainando la bandiera e mortificando gli spiriti.

Sorse, cosi, il Partito Nazionale Monarchico: di cui intendiamo scrivere, riferendoci il meno possibile, soprattutto in quest'ora, a persone; ma a giustificarne le idealità e a documentarne la condotta. Proprio nel decennale della Costituzione che non è il decennale della Repubblica.

Subito tra i 10.719.284 cittadini che votarono Monarchia si avverti diversità di opinioni. E, forse, diversità di opinioni si determinò tra quanti monarchici, impediti di votare il 2 giugno nella mostruosa assurdità della condizione, che documenteremo, creata al Paese - non identificato né nei suoi confini né nei suoi cittadini (non tutti ritornati a normalità di vita in Italia, dalle sofferenze dei campi di concentramento, dalle depredate colonie, dalle persecuzioni politiche) non credettero, come non credono di rinnegare e nemmeno di tacere memorie e di rinunciare a speranze.

Cominciò, così, subito a circolare la serie dei «luoghi comuni». Il primo, il luogo comune del «ormai», servito dal rilievo che le « Monarchie » vanno spegnendosi nessuna riaccendendosi. A questo primo luogo comune, fu facile al Partito Nazionale Monarchico, come ad ogni monarchico, contrapporre l'altro argomento, anzi l'altra constatazione, che se questo rilievo - non ambiziosamente storico ma egoisticamente comodo valesse, la conclusione a trarsi sarebbe ben più vasta. Non una Repubblica - stile di vita (Mazzini) - si è affermata in alcuna parte del mondo; le Repubbliche - libertà politica sono sorte sulle rovine di altre Repubbliche e non soltanto pseudo-repubbliche; ma in Italia, proprio in Italia, la Monarchia - che non è un Re e tantomeno parte della vita di un Re - fu faro e consacrazione di coraggiosa libertà politica. Storicamente è esatto (e la dimostrazione, pur facile, esigerebbe una ben più vasta trattazione) che là dove caddero i Regni - e non si instaurarono i regimi proletari (le Repubbliche socialiste e comuniste) - si instaurarono le peggiori dittature, senza stile di vita, senza libertà politica, senza impostazione sociale.

Frantumata la Monarchia asburgica, ecco i tentativi di vita artificiosa, i deboli contrafforti in funzione di difesa sociale della vecchia società - là dove non sono le compagini, non più nazionali, satelliti del grande Impero comunista. La Germania di Guglielmo ha visto prima la Repubblica di Weimar, la dittatura anticomunista di Hitler e, oggi, le contrapposte Germanie per sistemazioni sociali opposte. Non i Re delle Patrie tradizionali; attraverso i Dittatori, negazioni di tutta la democrazia  politica e di tutte le libertà, l'avvento del Proletariato in dittatura.

Per concludere: si sono sottratti i Re - non si sono aggiunte né libertà né democrazia.

Se la rassegnazione, la politica dell'ormai, dovesse comandare spirito ed azione - è questione di tempo, forse di poco tempo - nessuna Repubblica, quale sognarono i « fissati » dell'anti-Dinastia (il piccolo, quando non grottesco, argomento contro il Re figlio di Re), reggerà ai grandi urti delle esperienze in cammino.

Ma ben altro - e ben più dannoso - in Italia l'altro luogo comune contro il quale insorse il Partito Nazionale Monarchico e che fa vittima il Partito Nazionale Monarchico: esso intenderebbe legittimare le «renitenze» che, sottraendo i quadri alla ideale battaglia rendono penosa la vita di quanti potrebbero prodigarla nella maggiore serenità degli studi e non nel convulso di fatiche senza requie dove e anche da soffrire per il meglio che non è consentito. per il troppo che viene imposto.

Mai il Partito Nazionale Monarchico ha pensato di istituire una simbolica riserva di «caccia e pesca > dell'ideale monarchico.

Mai il Partito Nazionale monarchico ha pensato di essere il Partito del Re (1). Ma a Re partito, non vale lo slogan: il Re non può essere capo di un Partito. Dei monarchici che considerassero il loro Re, il Re loro, negherebbero l'alta - che è storica e filosofica, civile e religiosa - giustificazione della Monarchia, soprattutto della Monarchia moderna: la espressione unitaria, mediatrice, moderatrice della Nazione.

La libertà, come la democrazia, sono pazienza ed apostolato.
Ciò ha inteso subito - al suo stesso sorgere - il Partito Nazionale Monarchico, il quale ha avvertito che, nel suo secondo aggettivo, poneva l'obiettivo finale della propria attività: mentre nel primo aggettivo indicava la lealtà del suo assunto nazionale e nel suo sostantivo allontanava dalla Monarchia le responsabilità dei suoi eventuali errori come Partito. Esso si proponeva, in vista del traguardo finale non dissimulato, di raggiungerlo attraverso gli adempimenti nazionali per la via che, in regime di libertà e di democrazia, è anche - se non soltanto - la via partitica. E sinanco nel simbolo che esso eleggeva era la prova dell'adempimento patriottico: per la Nazione, la Stella indicando e la Corona, associata alla Stella, dando, anche visibilmente al Paese, la indicazione rivendicatrice del bene indissolubile del Re e della Patria.

D'altro canto - la vecchia bandiera rimanendo nel cuore cosi come i suoi vecchi canti - il Partito, proprio per le responsabilità e la destinazione costituzionale dell'Istituto superiore ai Partiti, si assumeva di combattere, proclamando all'Italia che le sue vittorie sarebbero state le tappe verso il risorgere dell'Istituto, mentre le sue sconfitte sarebbero state le proprie sconfitte. Il mezzo, ove avesse significato errore, non avrebbe condannato il fine, affidato al di là del Partito alle giustizie della Storia.

Peraltro i Monarchici, che non abbandonavano soltanto ai capricci o alle fortune della Storia le loro speranze - come le loro memorie, ma soprattutto le loro speranze avvertivano la necessità che le più recenti ingiustizie non si cancellassero dai cuori e dalle menti e coglievano dalla cronaca recente le ragioni della loro tristezza civile per l'epilogo drammatico per due Re e per il Regno onde risalire a rivendicazioni di Storia, obliata e manomessa.

Pretendere oggi i riconoscimenti che pure sarebbero meritati è, forse, ingenuo: è, anzi, certamente ingenuo anche perché vie facili sono aperte ai facili non compromissivi successi; e le vie furono, negli anni del tolle tolle facilissime. Era bastato, infatti, offrire il sacrificio della Monarchia a taluni per ottenere la cittadinanza ciellenista e la parte - magari, nell'immediato, la più grossa - delle fortune del Potere: mentre per gli altri - dalla destinazione finale sovvertitrice del presente ordine (eufemisticamente cosi definito) sociale - il sacrificio della Monarchia rappresentava la prima tappa, comunque conclusivamente percorsa. Infatti, in ogni caso, per i « rivoluzionari » - quelli non da burla - la eliminazione della Monarchia, anche quando la Rivoluzione segni o segnasse il passo, rappresenta pur sempre un realizzato vantaggio in vista del « più a praticarsi! ».

Molto argutamente è stato scritto che il sacrificio della Monarchia per uomini e partiti - non nativamente repubblicani - parve espediente rallentatore della marcia che sembrava voler attingere la « palingenesi »; i più ottimisti tra questi partiti - e particolarmente il maggior Partito - si illudevano che, con il sacrificio della Monarchia, si potesse pretendere il saldo dai partiti rivoluzionari; essi, invece, il sacrificio dell'abdicazione e dell'esilio accolsero come acconto! L'alligatore ha inghiottito il piccolo corpo del Sovrano (che fu perlomeno anche il Sovrano di Vittorio Veneto), ma le fauci sono tuttora aperte. E chi vivrà vedrà.

Sta di fatto, comunque, che il Partito Nazionale Monarchico non omise di denunciare la ingiustizia storica nei confronti della Monarchia del Risorgimento, che, per le ragioni sia pure in sintesi predette, fu anche la ingiustizia del referendum: imposto prima, attuato poi, interpretato infine nei modi non tranquillanti le ostentate premesse democratiche, alle quali pure si sarebbe voluto, e dovuto, riferire l'Italia della Liberazione; divenuta patrimonio in monopolio di partiti che, se indubbiamente vi contribuirono e con durati incontestabili sacrifici (di destinazione prevalentemente rivoluzionaria), non avrebbero dovuto dimenticare gli apporti di due date - il 25 luglio e l'8 settembre 1943 - nonché quella del 13 ottobre, donde si determinò il piccolo prode Esercito dalla non ammainata bandiera.

(1) Acutamente e nobilmente Carlo Delcroix, deputato del PNM ha sempre sottolineato nei suoi scritti e discorsi che i successi del Partito sono vittorie per la causa monarchica mentre le sconfitte sono soltanto sconfitte del Partito.

sabato 15 settembre 2012

Il Partito Nazionale Monarchico - I parte



di Piero Operti e Cesare Dagli Occhi

IL « 13 GIUGNO »


Il 13 giugno 1946 Umberto 11, Re d'Italia, lasciava il Trono e la Patria per l'esilio.

Il 13 giugno Egli concludeva il Suo proclama agli Italiani con queste parole - che sono e rimarranno nella storia del più alto sacrificio - per il dovere verso la Patria comune, per l'impegno verso la Patria comune: « Con l'animo colmo di dolore ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia Patria. Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome d'Italia ed il mio saluto a tutti gli italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli. Viva l'Italia! ».

Questo proclama - che ebbe due stesure - consacrò il più alto sacrificio, il più alto dovere, il più alto impegno.
 Il più alto sacrificio: lasciare la Patria.
 Il più alto dovere: non creare per la Patria comune, insorgendo, l'irrimediabile: contro quella che pure si considerava una ingiustizia storica, nelle premesse lontane e recenti e nell'oscura risultanza del giugno.

Il più alto impegno: « Qualunque sorte attenda il Paese, esso potrà contare sul più devoto dei suoi figli ».

Il Sovrano lasciando il Regno e la Patria scioglieva dal « giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la Patria ». Ciò significava che doveva continuare lo Stato.

Esule il Re, rimanevano in Italia gli Italiani che conservavano fedeltà alla Monarchia e « tutti coloro il cui animo si ribella alla ingiustizia ».

A quelli ed a questi Umberto richiamava, nel Suo proclama, il Suo esempio - di sacrificio, di dovere, di impegno - aggiungendo l'esortazione a voler evitare l'acuirsi di dissensi che avrebbero minacciato l'unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri e avrebbero potuto rendere più gravi le condizioni del trattato di pace.

Ma se l'appello del 13 giugno imponeva l'accettazione di fatto per i doveri immediati, tutto quanto si era verificato dai drammatici eventi del 25 luglio 1943, dell'8 settembre, del Regno del Sud, lungo le tappe preparatrici della « Liberazione », traverso la cosiddetta (1) tregua istituzionale e la tregenda delle accuse a Vittorio Emanuele III, sino al 2 giugno e immediatamente di poi, non rimaneva senza eco e senza rilievo nel proclama di Umberto.

Egli, il 13 giugno, nell'atto di abbandonare la Patria e il Trono dei Suoi Avi, proclamava, dinanzi alla Storia, per gli Italiani, tenuti alle immediate osservanze civili: « Nell'assumere la Luogotenenza Generale del Regno prima e la Corona poi, io dichiarai che mi sarei inchinato al voto del popolo, liberamente espresso, sulla forma istituzionale dello Stato. Eguale affermazione ho fatto subito dopo il 2 giugno sicuro che tutti avrebbero atteso le decisioni della Corte Suprema di Cassazione, alla quale la legge ha affidato il controllo e la proclamazione dei risultati definitivi del referendum. Di fronte alla comunicazione dei dati provvisori e parziali fatta dalla Corte Suprema, di fronte alla sua riserva di pronunciare entro il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli; di fronte alla questione sollevata e non risoluta sul modo di calcolare la maggioranza, io, ancor ieri, ho ripetuto che era mio diritto e mio dovere di Re attendere che la Corte di Cassazione facesse conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta. Improvvisamente, questa notte, in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della Magistratura, il Governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo con atto unilaterale ed arbitrario poteri che non gli spettano e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza ».

Il 18 giugno 1946 - a cinque giorni dalla partenza del Re la Corte di Cassazione in Camera di Consiglio (Pagano primo Presidente,  Colagrosso estensore,Pilotti P.M.: conclusioni difformi) emetteva ordinanza, richiamando la competenza del Supremo Collegio a sensi del D.LIt. 23 aprile 1946 n. 219 art. 19 e interpretando « il computo della maggioranza « avuto riguardo alle schede bianche e nulle » in relazione al D.L.Lt. 16 marzo 1946 n. 98 art. 2.

L'ordinanza della Corte Suprema disattendeva la requisitoria del Procuratore Generale che aveva per oggetto i ricorsi circa il modo « di effettuare il computo della maggioranza degli elettori votanti in favore della Repubblica o della Monarchia », assumendo i ricorrenti che nei conteggi ufficiali per determinare la maggioranza (a favore della Repubblica) si era tenuto conto soltanto dei voti validi: « mentre, secondo la dizione dell'art. 2 del D. Legislativo Luogotenenziale 16 marzo 1946 n. 98, occorre riferirsi al numero dei votanti, ivi inclusi cioè anche coloro che hanno votato scheda bianca o nulla ». Disattesa la requisitoria del Procuratore Generale Massimo Pilotti la Corte di Cassazione « sentite le conclusioni del Procuratore Generale » (nemmeno si riconosceva espressamente che esse erano contrarie alla decisione adottata dalla Corte Suprema) « ha emesso giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste, i reclami concernenti lo svolgimento delle operazioni relative al referendum »... e « ritenuto che per maggioranza degli elettori votanti, di cui parla l'art. 2 del D. Legislativo Lt. 16 marzo 1946 deve intendersi maggioranza degli elettori che hanno espresso voti validi, dà atto che i voti validi complessivi a favore della Repubblica sono 12.717.923 e quelli a favore della Monarchia sono 10.719.284 e che pertanto la maggioranza degli elettori votanti si è pronunciata a favore della Repubblica; dà atto che i voti nulli sono complessivamente in numero di 1.498.136 ». La cronaca prendeva atto, a sua volta, del rito dimesso col quale la Corte Suprema aveva, a Re partito, comunicato le risultanze ed interpretazioni di cui sopra.

mercoledì 12 settembre 2012

LA CORONA DEL FERRO DETTA “FERREA”




di Gianluigi Chiaserotti



Nel 2011 è caduto un fondamentale anniversario per la storia d’Italia. Sono stati CL anni da quel 17 marzo 1861, giorno in cui, nella suggestiva aula del Parlamento Subalpino di Torino sita in Palazzo Carignano, fu proclamato il Regno d’Italia e la nostra Penisola divenne una ed indipendente.
Dopo secoli di divisioni, invasioni straniere, distinzioni di usi e tradizioni, popoli diversi, sotto la fulgida e lungimirante guida dell’antico Regno di Sardegna, si arrivò alla necessaria e non più procrastinabile unificazione.
Alla luce di questo importante anniversario, abbiamo pensato di dedicare un pensiero a quello  che fu, attraverso i secoli, il simbolo dei Re d’Italia e quindi dell’Italia: la Corona Ferrea.  
Quando si parla della “Corona del Ferro ” detta, comunemente, “Ferrea” si intende parlare di quel prezioso diadema, conservato nel Duomo di Monza, che molto simboleggiò la storia italica e,  in senso lato, quella europea.
Ma la stessa, prima di giungere ad essere conservata in Monza, ebbe delle vicissitudini che qui si cercherà di ricordare tenendo presenti le cronache, le pie tradizioni ed anche un po’ di storia.
Sant’Elena (ca. 255-ca. 335), madre dell’imperatore Costantino (285-337), trovò sul Calvario, insieme alla croce del martirio di Gesù Cristo, due chiodi che servirono per la crocifissione. Con un uno di essi, la Santa pensò di realizzare un diadema, ornato di gemme, e di mandarlo in ricordo al figlio.
Si chiamò “Corona Ferrea”, in quanto il marchio aureo, a metà della sua altezza, era legato da una striscia di ferro, larga circa un centimetro e molto rozzamente lavorata. Su detto ferro erano praticati, con una certa irregolarità, undici fori simbolici, che avrebbero dovuto ricordare gli undici veri Apostoli di Gesù. A conferma di ciò, Sant’Ambrogio (334 o 339/340-397), nel corso dell’orazione funebre dell’imperatore Teodosio I “il Grande” (347-395), disse che la corona fu fatta realizzare propriamente da Sant’Elena con un chiodo reperito sul Calvario e che Costantino se ne cinse per primo il capo.
La Corona, dopo oscure vicende, giunse nelle mani del papa San Gregorio Magno (discendente della nobile famiglia Anicia, 540-604) che la donò alla virtuosissima, ma cattolica regina longobarda Teodolinda (+ 628). Sembra che costei ordinò che con tale Corona si dovessero incoronare tutti i futuri re d’Italia e per di più Teodolinda ne cinse la fronte del coniuge Agilulfo (+ 615), duca di Torino. Morto quest’ultimo, la regina, quale reggente per il figlio, fece innalzare in Monza la Basilica di San Giovanni e, oltre a dotarla di ricchi tesori, la fece anche custode imperitura (come lo è attualmente) della “Corona del Ferro”.
Ma le sue vicende non finirono qui.
Ben due volte la Corona corse il rischio di andare perduta. Una prima volta (1273) quando i Torrigiani, Signori di Milano, ebbero la “bella idea” di dare in pegno il tesoro di Monza, ma (1319) Matteo Visconti (1250-1322) riscattò la Corona. Cinque anni più tardi il prestigioso monile, al fine di evitare che cadesse nelle mani delle fazioni in lotta, assieme al tesoro di Monza stesso, fu inviato in Avignone, ma successivamente restituito al papa Clemente VI (Pier Roger, 1291-1352) nel 1345.
Con la “Corona Ferrea” si incoronò (nel Duomo di Milano il 26 maggio 1805), re d’Italia Napoleone I (1769-1821), il quale diede la spada ad Eugêne Beauharnais (1781-1824), il futuro vicerè, e di sua mano si pose in testa detta corona, pronunciando le storiche parole: “Dio me l’ha data, guai a chi la toccherà!”.
L’imperatore dei francesi per perpetuare tale evento istituì l’Ordine della Corona di Ferro, il quale, caduto Napoleone, venne rinnovato, con nuovi statuti, dall’imperatore d’Austria Francesco II d’Absburgo (1768-1835), mentre il figlio, Ferdinando I (1793-1875), a sua volta fu incoronato con la storica corona il 6 settembre 1838 in Milano.
Nel 1849 la corona fu portata a Mantova, poi a Verona ed infine, nel 1859, fu tolta, ancora una volta, all’Italia in quanto il governo austriaco, prevedendo un disastro, ordinò il trasferimento in Vienna del tesoro di Monza. Però nel 1866 il generale Luigi Federico Menabrea (1809-1896), inviato a Vienna per trattare la pace, richiese, fra altri oggetti, la restituzione della corona.
E per questa occasione il re Vittorio Emanuele II (1820-1878), emulo di Napoleone, istituì il 22 aprile 1868 l’Ordine della Corona d’Italia nel quale la “Corona Ferrea”, simbolo dell’Italia (quella sabauda era con croce trifogliata), vi era rappresentata.
Nel corso della II Guerra Mondiale la Corona fu custodita in Vaticano, ma nel 1946 fu portata nuovamente e definitivamente a Monza.
Fin d’ora abbiamo, molto sommariamente, analizzato le vicende storiche della “Corona del Ferro”.
Vediamo qualcuna delle ipotesi di storiografi e cronografi.
Colui che la denominò per primo “ferrea”  fu il cronografo, nel 1262, Rolando Patavino nel suo “De Factis”: “(…) Burgum Modiciam attentavit, volens eam forsitam privare (…) coronae ferrae, (…) quandocumque fuit omano rum imperator electus (…)”.
Scrive lo storiografo Tristano Colco nella di lui “Historia Mediolani”: “(…) est autem circulus ferreus, quem corona aurea, gemmis margaritisque ornata, (…)”.
Si legge altresì  nel libro del Cerimoniale Romano del 1516: “(…) Quae quidem corona ideo appellatur ferrea, quod laminam quandam habet ferream in summitate, alioquin aurea et preciosissima”.
Sempre dalle cronache dei cronografi vediamo qualcuna delle incoronazioni. L’erudito Paolo Morigia (1525-1604) e lo storiografo Galvaneo Della Fiamma (Secolo XIV) ammisero le incoronazioni dei re longobardi. Lo storico Carlo Sigonio (Carolus Sigonius) (1520-1584) asserì che Carlo Magno (742-814) fu incoronato in Monza con la preziosa corona e così i di lui discendenti (Sigonius “De regno Italiae”, lib. IV), mentre ciò per il Della Fiamma è falso. Il francese, o meglio il gallico, Coint (Ann. Eccl. Franc. Tomo VI, pagg. 52-53 ad annum 774) dice: “Non sarai temerario se negherai che Carlo Magno sia stato incoronato con quella corona (leggi ferrea) non essendo alcuna memoria di questo fatto”.
E’, senza dubbio, un discorso molto lungo e molto articolato.
Concretamente sappiamo che la “Corona del Ferro” è conservata nel Duomo di Monza e rappresenta quella certa tradizione italica ed europea della monarchia, come istituzione.
E la “Corona del Ferro” è, senza dubbio, la Storia d’Italia.
Un’Italia, di già unita, attraverso i secoli, da codesto monile simbolico, ma che poteva benissimo essere concretamente tale prima di quel glorioso 17 marzo 1861, grazie alla lungimiranza del Conte di Cavour (1810-1861) ed alla Real Casa di Savoia nella persona del Re Vittorio Emanuele II.





La Monarchia Sabauda ed i problemi sociali - XII Parte


XII - PROSPETTIVE DI UNA MONARCHIA DEMOCRATICA:

UMBERTO II

Scrivevo all'inizio che questa trattazione mirava a porre in luce se la Monarchia sabauda, durante il millennio della sua vita e specialmente dalla proclamazione del Regno d'Italia, fosse stata, come troppi ancora oggi la ritengono, un istituto puramente simbolico, almeno da quando passò alle forme costituzionali, o, peggio, un coefficiente di conservazione e di arresto del progresso politico e sociale. Giunti alla conclusione, ben possiamo affermare che solo una polemica tanto falsa quanto dannosa agli interessi, della Patria, e un'ignoranza così assurda da sconfinare nella malafede possono ancora deporre a favore della tesi di una Monarchia inutile o reazionaria. A parte l'esempio di incessante progresso offertoci, proprio in questi tempi, dalle Monarchie democratiche straniere, Stati modello nel nostro mondo tentato quotidianamente dai mali terribili dell'autoritarismo e del totalitarismo, in cui -spesso degenerano le repubbliche democratiche, l'esame attento della nostra storia nazionale, delle nostre conquiste sociali, basterebbe da se a conferire sicuro fondamento alla tesi della Monarchia sabauda fattore di progresso politico e sociale (38).

L'attuale Sovrano. Umberto II, figlio del grande e sfortunato Vittorio Emanuele III. uomo di poche parole ma dal sentire profondamente umana, e di Elena di Savoia, che portò in Italia l'anima un po' rude ma tanto buona della sua gente, tanto da divenire, per unanime riconoscimento. la Regina della bontà e della carità, sembra impersonificare, con semplicità e chiarezza, quel desiderio di onestà e di lavoro, di solidarietà tra tutti gli italiani e specialmente verso i più umili, quell'amore della libertà e della giustizia sociale, che ispirarono l'azione e il pensiero dei migliori fra i nostri padri. Questi sentimenti egli ha espresso nei suoi messaggi ai monarchici e agli italiani; rileggiamone assieme alcuni brani.
« . . . libertà e giustizia sociale. A questi ideali ho ispirato e dedicato la mia azione di Luogotenente e di Re; a questi scopi ha spesso richiamato gli amici monarchici di ogni corrente politica, giacché nel felice equilibrio e contemperamento di queste due alte aspirazioni del nostro tempo io fermamente credo e ritengo che esse siano conciliabili e ancora oggi indichino il non superato cammino che deve percorrere l'umanità nella sua progressiva ascesa ... »

Nella tristezza dell'esilio mi è particolarmente gravosa la lontananza da voi, giovani tutti d'ogni partito e d'ogni ideale, primavera e speranza della Patria; da voi, giovani che soffrite l'umiliante vana ricerca d'una occupazione, d'un lavoro, che vi deve essere a qualunque costo e con qualsiasi sacrificio garantito » (39).

« . . . Ecco quel che manca oggi e che rende vani tanti sacrifici e tanti lodevoli tentativi entro e fuori del nostro Paese: la certezza.

Certezza che la Nazione non perderà le sue libere istituzioni e non sarà travolta da conati di dittature, sempre condannabili: è quella certezza soltanto che potrà far riprendere alle forze della produzione quel continuo cammino che porta il capitale a creare nuovo lavoro; lavoro ben rimunerato, garantito dalle leggi e inserito nell'organizzazione giuridica dello Stato, attraverso il riconoscimento dei sindacati . . .

Solo allora potranno essere risolti i problemi che più ci angosciano, prima che come Italiani e come Cristiani, addirittura come uomini; la casa per i senza tetto, il lavoro per i disoccupati e ogni più larga assistenza ai bisognosi » (40).

« In un paese libero la lotta politica è condizione naturale di vita: piena legittimità hanno dunque tutti i partiti. Ogni uomo giustamente aspira alla sicurezza del lavoro e ad una remunerazione eh,e consenta a lui e ai suoi un'esistenza migliore: piena legittimità hanno dunque le organizzazioni sindacali. Ma la lotta politica e la lotta sindacale non devono essere causa di odio di partito o di classe. E questo abbiano presente tanto coloro che le penose difficoltà della vita potrebbero spingere a credere nella violenza, quanto coloro che per egoismo potrebbero, valendosi di cultura e ricchezza, ostacolare l'ascesa dei meno fortunati. La giustizia sociale è insieme un dovere umano e condizione inderogabile per la salvezza delle stesse libertà politiche e civili.

Sono questi i principi ai quali si ispirarono gli uomini che sotto la guida dei miei Avi riunirono gli antichi Stati in un grande Regno libero e indipendente nei suoi naturali confini. Se gli Italiani in qualunque vicenda ne seguiranno l'esempio, non sarà lontana la realizzazione dell'ideale cui ho dedicato la mia vita: un'Italia forte e rispettata all'estero, libera, operosa e socialmente pacificata allo interno, fedele alle tradizioni del suo glorioso passato, protesa verso un sempre più luminoso avvenire » (41).

Amor patrio e interesse ai problemi più assillanti del nostro tempo ispirano il messaggio del Principe ereditario Vittorio Emanuele di Savoia, indirizzato il 16 marzo 1959 al Fronte Monarchico Giovanile dell'U.M.I.; eccome la parte centrale e quella conclusiva:

« So che intendete affrontare, con profondo senso di responsabilità, quei problemi determinanti per l'avvenire dei giovani che, nelle scuole e nelle officine, nei campi e nei cantieri, forgiano il loro futuro e quello del Paese, e sta a voi indicare come debbano risolverli, contemperando le opposte esigenze con spirito di comprensione e di solidarietà e anteponendo sempre ad ogni particolare interesse quello supremo della Nazione.

Non dimentichiamo però, come, ancor oggi, troppi sono coloro che all'incerto domani debbono guardare con viva inquietudine per la mancanza di una stabile occupazione e di sicure condizioni di vita e sia vostro il proposito di lavorare con operante solidarietà alla ricerca di un definitivo rimedio.

La vostra azione tenda infine a ravvivare nelle nuove generazioni il senso dello Stato ed il culto del dovere,  dell'abnegazione e del sacrificio giacché queste virtù, che permisero ai nostri maggiori di costruirci una Patria, sono le sole che, come ha più volte ricordato il mio amato Genitore, possono aiutarci a farla risorgere ».

Potranno un giorno, speriamo non lontano, Re Umberto II ed i suoi successori continuare, in Italia e per l'Italia, la tradizione di amore, di libertà e di progresso di Casa Savoia?

Noi, a differenza di altri italiani ancora immersi nella atmosfera dei rancori e del conformismo, abbiamo piena coscienza della funzione che potrebbe esercitare la Monarchia sabauda. A tale scopo, occorre aiutare al più presto la formazione di una vasta, vastissima corrente di opinione che veda nella Monarchia un rimedio sicuro ai mali attuali: la via della rinascita morale e civile d'Italia altra non può essere che quella di un Regno che concili alle tradizionali istituzioni libere del Paese, Corona e Parlamento, l'adesione degli strati popolari, che dia la garanzia di creare, dove ha fallito la repubblica, uno Stato democratico di tutti gli italiani. un'Italia « fedele alle tradizioni del suo glorioso passato, protesa verso un sempre più luminoso avvenire ».

(38) Dati precisi a favore della socialità della Monarchia  sabauda reca l"ultima pubblicazione di MARIO VIANA, con prefazione di Piero Operti: « Il Re costava meno», Casa Editrice Superga, Torino, 1960.

(39) « Messaggi di Umberto II dall'esilio - 1946-1956 a cura dell'Unione Monarchia Italiana: «Ai giovani dell'Unione Monarchica Italiana», pagine 33, 34.

(40) « Messaggi di Umberto II... »: « Ai Monarchici Italiani per la VI Assemblea nazionale dell'U.M.I. », pagg. 35, 36.

(41)  «Messaggi di Umberto II... » : « Agli italiani nel decimo anniversario dell’esilio », pag. 72.

domenica 9 settembre 2012

La Monarchia Sabauda ed i problemi sociali XI parte


XI - LA REPUBBLICA DEL 1946

Il 25 luglio 1943, nell'intento di salvare la Patria dalla rovina suprema, Vittorio Emanuele III, prendendo spunto da un voto del Gran Consiglio del fascismo, revocò Mussolini e lo fece arrestare: il governo Badoglio, nominato dal Re, si assunse il compito di abrogare, con decreti legge, l'organizzazione costituzionale fascista.

L'8 settembre 1943, mentre I'Italia legittima firmava l'inevitabile armistizio con gli alleati, i tedeschi si accingevano a completare l'occupazione militare di gran parte della penisola, operazione iniziata in modo subdolo da tempo; al governo legittimo del Re si contrappose presto, nel centro e nel nord, quello della repubblica sociale italiana alleata e succube del nazismo.

Con R. D. n. 140 del 5 giugno, 1944, Vittorio Emanuele III, avversato dalla maggioranza dei partiti antifascisti, nominò Luogotenente generale del  Regno il Principe ereditario Umberto.

Nell'aprile 194i5, gli alleati, con la collaborazione del Corpo italiano di liberazione, e dei partigiani, molti dei quali fedeli al giuramento al Re e alla Patria e quindi più propriamente definiti:  «patrioti », completarono la liberazione d'Italia, scacciandovi ì tedeschi e facendo in breve crollare la repubblica sociale italiana.

Il 9 maggio 1946, Vittorio Emanuele III abdicò a favore del Principe Umberto, che salì al trono, con il nome di Umberto Il.

Il 2 giugno 1946 si :svolse un referendum istituzionale i cui risultati « ufficiali » provocarono la partenza del Re, preoccupato di evitare la guerra civile, e l'avvento della repubblica.

Questi i fatti fondamentali del processo storico per cui, dopo la caduta del fascismo, evento che tante speranze destò in un ritorno all'Italia monarchica e democratica nata dal Risorgimento, si giunse alla repubblica tuttora vigente. La repubblica del '46 non sorse sotto il segno del conformismo e dell'indifferenza di fronte alle questioni sociali; anzi, essa sembrò voler proseguire la gloriosa tradizione sociale della Monarchia sabauda. Lo dimostra la sua Costituzione, entrata in vigore il l° gennaio 1948, che proclama, all'art. 1, essere il « lavoro » il fondamento della « Repubblica democratica ». E l'art. 3: « . . . E' compito della Repubblica, rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese ». L'art. 4 dichiara che « La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto . . . ». Il Titolo 11: « Rapporti etico-sociali », contiene principi altamente sociali a favore della famiglia, della scuola e dei meno fortunati. Il Titolo III: « Rapporti economici », proclama la tutela del lavoro (art. 35) ; riconosce ai lavoratori il diritto ad una retribrizione adeguata al lavoro e alla dignità della esistenza umana, al riposo settimanale e alle ferie (art. 36); garantisce parità di retribuzione, a parità di lavoro, alle donne e ai minori (art. 37): riconosce il diritto al mantenimento e all'assistenza nel caso di eventi che limitino o annullino la possibilità di lavorare (art. 38); proclama il principio della libertà sindacale, della personalità giuridica per i sindacati registrati e della partecipazione di questi, in proporzione dei propri iscritti, alla stipulazione di contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per gli appartenenti alla categoria alla quale il contratto si riferisce (art. 39); vincola la libera economia privata e quella pubblica a fini sociali (art. 41); -sostiene il principio dell'espropriazione di date imprese « a fini di utilità generale » (art. 43); autorizza l'imposizione di vincoli e obblighi della proprietà terriera (art. 44); riconosce la funzione sociale della cooperazione (art. 45); proclama che « la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende » (art. 46).

Questo, in sintesi, il grosso delle disposizioni a carattere sociale della Costituzione repubblicana: disposizioni però, è bene precisarlo a scanso di equivoci, a carattere programmatico e quindi praticamente inefficaci, se non sviluppate dalla legislazione ordinaria. E questa ben poco ha costruito di nuovo, perché scarsi sono stati i progressi nel campo delle assicurazioni sociali, non è stata ancora emanata la legge sindacale, né è stato regolato il diritto di sciopero. La stessa riforma agraria non ha affatto risolto il problema del pauperismo rurale, mentre si sa che gli enti di riforma hanno ingoiato molti miliardi per le loro esigenze di funzionamento.

La realtà sociale ed economica italiana ha avuto sostanziali miglioramenti, grazie soprattutto all'iniziativa e all'opera dei produttori e dei lavoratori, ma non è favola affermare che più accentuato s'è fatto il dislivello tra zona e zona, regione e regione, grossi e piccoli redditi.

Non mi dilungherò a descrivere la nostra situazione attuale; mi limito ad affermare che, se notevoli progressi economici ci sono stati, grazie al lavoro e alla disponibilità di beni strumentali più redditizi, il paternalismo, l'ingiustizia, la disonestà, la separazione sociale, la mortificazione dell'intelligenza e della buona volontà, la sete del facile guadagno, senza fatica, l'indifferenza verso i problemi della comunità e dell'individuo, etc., dominano oggi la realtà sociale italiana: essa è molto diversa da come prospetticamente la si immaginava, dopo la caduta del fascismo, dopo la fine della guerra, quando la grande maggioranza del popolo italiano respirava con gioia quell'atmosfera di libertà, sia pure ancora eccitata e polemica, che era mancata per troppi anni.

Ci, tornano alla mente le parole pronunciate dal senatore Merzagora, in una seduta che rimarrà a lungo, famosa nella storia del Parlamento italiano: « Onorevoli colleghi, così non si può andare avanti e, se il mondo politico italiano non ritrova rapidamente il piacere dell'onestà, tristi prospettive si aprono per il nostro avvenire »: parole che furono accolte, con le altre dette in tale circostanza, da alcuni malevolmente, ma dai più con entusiasmo presto spento nell'atmosfera dominante di conformismo e di rassegnazione.

In sintesi, la repubblica ha ormai dimostrato chiara incapacità a mantenere le promesse miracolistiche con le quali si era presentata al popolo, ingannandolo. Essa sta creando, tra se e l'Italia prefascista, monarchica e democratica, un solco che il ventennio dittatoriale non può da solo giustificare: il monito proveniente dalla vicina repubblica francese, degenerata dalle forme parlamentari, comuni a tanti 'Stati monarchici, ad un autoritarismo a questi estraneo, dovrebbe indurre ogni libero italiano a meditare, senza nulla concedere alla cecità delle passioni politiche.

(37) EMILIO FALDELLA: « Revisione di giudizi - L'Italia e la seconda guerra mondiale », Cappelli, 1960.