NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 30 aprile 2017

La scomparsa del Senatore Toth




Il Circolo REX che ebbe tra i suoi conferenzieri il sen. Toth  si unisce al rimpianto per questa nobile figura di patriota.

Rimpianto condiviso anche da tutto lo staff di Monarchici in Rete.
Le nostre condoglianze alla famiglia dell'illustre Senatore ed a tutta la comunità giuliano dalmata in esilio.

Lucio Toth, la coscienza e il coraggio di un italiano

Ottenne la legge istitutiva del Giorno del Ricordo

di ilTorinese pubblicato venerdì 28 aprile 2017

di Pier Franco Quaglieni

La numerosa comunità giuliano, dalmata, istriana e fiumana di Torino e del Piemonte è in lutto, ma in lutto sono tutti gli Italiani che ritengono che le terre dell’Adriatico orientale fossero italiane e che l’infoibamento di 15 mila italiani e la cacciata di altri 350 mila dopo il trattato di pace del 1947,fossero iniquità feroci da denunciare e condannare come infamie: è morto a Roma il senatore della Repubblica Lucio Toth, magistrato di Cassazione a riposo ,presidente dell’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia dal 1992 al 2012.Seppe guidare la riscossa degli esuli della diaspora adriatica, ottenendo la legge istitutiva del Giorno del Ricordo che ancora dopo molti anni non sempre viene rispettata ogni 10 febbraio, come si dovrebbe fare. A Torino viene sempre ricordata, ma non nelle scuole che ignorano la ricorrenza, anche nel 70° della cessione alla Jugoslavia delle  regioni orientali. Ho condiviso con lui passione civile e patriottica, ho partecipato a suoi convegni e lui ha partecipato ad eventi in cui ha portato la sua straordinaria esperienza di giurista e di storico. E’ stata la poetessa zaratina Liana de Luca ad avvicinarmi al dramma delle foibe e dell’esodo:la scuola non mi aveva detto mai nulla e fu Liana ad offrirmi l’opportunità di capire una pagina di storia ignorata per decenni che solo Gianni Oliva ha svelato con i suoi libri coraggiosi. Lucio era un gentiluomo di antico stampo, uno dei rarissimi esempi dove l’essere stato magistrato indipendente non configgeva con l’essere stato parlamentare.

[...]

giovedì 27 aprile 2017

Monarchia Sociale e Comunità Nazionale

LEGISLAZIONE SINDACALE

Pertanto:

A) Occorre che il popolo italiano riceva al più presto il proprio statuto sociale attraverso. una organica legislazione sindacale che riconosca in pieno le funzioni, le responsabilità ed i diritti che sono proprii, nella Comunità nazionale, di chiunque partecipi, in qualsiasi funzione, al comune dovere della produzione e del lavoro. Tale legislazione deve assicurare alle Organizzazioni Sindacali - così a quelle dei datori di lavoro come a quelle dei tecnici ed a quelle dei lavoratori - la personalità giuridico-pubblica, la democrazia interna, la libertà del lavoratore nell'aderirvi e quindi la possibile pluralità delle Organizzazioni anche per la stessa categoria. Ma essa legislazione deve, in pari tempo, prevedere e regolare la costituzione di organi comuni, eletti con il sistema della rappresentanza proporzionale, tra le Organizzazioni di una stessa categoria per tutti quelli che sono compiti comuni alla categoria e capaci di impegnare erga omnes tutti i partecipanti alla stessa, siano o no iscritti individualmente alle organizzazioni sindacali. Tra tali compiti sono preminenti la stipulazione dei contratti collettivi, la nomina degli arbitri per le vertenze sindacali da deferirsi ad arbitrato, la nomina dei rappresentanti sindacali da immettere come assistenti del Giudice togato in ogni istanza della Magistratura del Lavoro, la elezione degli organi cui deferire la gestione dei contributi sindacali derivanti dalla legge da rendere obbligatori quale garanzia di diritto dell'indipendenza delle singole organizzazioni. Sino a che tale sistema legislativo non sarà operante è impossibile, tra l'altro, qualsiasi regolamento legislativo dell'esercizio del diritto di sciopero, che, nelle attuali condizioni, si risolverebbe comunque in una prepotenza reazionaria contro le Organizzazioni dei lavoratori. In un secondo tempo lo statuto sociale del popolo italiano dovrà essere costituzionalmente completato mercé la immissione dei rappresentanti sindacali, - così dei datori di lavoro come dei tecnici e dei lavoratori - nei Consigli Comunali, Provinciali e Regionali accanto ai membri eletti a suffragio universale, e mercé la trasformazione del Senato in Assemblea di rappresentanti delle Organizzazioni Sindacali come delle altre organizzazioni rappresentanti interessi reali della Nazione. Soltanto per questa via, tra l'altro, potrà essere spezzata la assurda e dannosa sudditanza delle Organizzazioni Sindacali verso i partiti politici, resa oggi necessaria dalla mancanza di qualsiasi statuto sociale.

RIFORME DI STRUTTURA NELL'INDUSTRIA


B) Occorre riformare al più presto il sistema salariale e la struttura stessa dell’azienda industriale muovendo dal principio che il Lavoro è, con la Tecnica e non meno del Capitale, componente, compartecipe e corresponsabile della vita e della attività della azienda, e quindi corresponsabile anche dei suoi destini e comproprietario dei frutti della sua produzione. A tale fine è indispensabile una completa riforma della struttura interna dell'azienda - da promuoversi ed attuarsi gradualmente a partire dalle grandi aziende, nei modi e nelle forme che le diverse dimensioni aziendali ed i diversi tipi di produzione consiglieranno - la quale si incentri: a) sulla trasformazione degli organi direttivi ed amministratori responsabili dell'azienda, attraverso una congrua immissione in questi organi, con pari poteri dei rappresentanti del Capitale, di rappresentanti della Tecnica e del Lavoro nell'azienda (Consiglio di gestione, o partecipazione proporzionale dei rappresentanti degli Operai e degli Impiegati ai Consigli di Amministrazione); b) sulla effettiva controllabile pubblicità del bilancio aziendale e sulla modificazione della sua struttura, onde il profitto annuale netto venga in equa proporzione ripartito fra il Lavoro, la Tecnica ed il Capitale; c) sul superamento del concetto economico, giuridico e morale di salario, giacché nella nuova strutturazione aziendale stipendio e salario altro non devono essere che una quota irripetibile a carico del comune bilancio aziendale data all'impiegato ed all' operaio quale anticipo mensile o settimanale del profitto dovutogli, per provvedere, a seconda del suo grado e delle sue funzioni dell'azienda, ad un minimo rispettabile dei bisogni vitali propri e della propria famiglia. Tale riforma della struttura aziendale - inconfondibile con superati espedienti paternalistici poiché fondata non sulla concessione o sul calcolo egoistico del Capitale, ma sull'imprescrittibile diritto del Lavoro così manuale come intellettuale - dovrà essere completata dalla nazionalizzazione delle imprese il cui tipo di produzione non può svolgersi se non in regime di monopolio e corrisponde ad esigenze che, nell'attuale grado del progresso civile e sociale, sono da considerarsi servizi pubblici il cui esercizio è indispensabile alla Comunità. Tipiche tra codeste industrie - per le quali, essendo necessario il regime di monopolio, l'esercizio statale è sempre preferibile all'esercizio privato - sono le industrie produttrici e distributrici di energia elettrica.

mercoledì 26 aprile 2017

l leader dei giovani monarchici: “Solo un Re potrebbe salvare la politica italiana”

Simone Balestrini propone la sua idea di monarchia 2.0. “Non siamo fascisti come dice l’Anpi“, dice. “Il nostro modello sono le monarchie attuali europee. Siamo monarchici come può essere oggi un giovane olandese o norvegese”

di Lidia Baratta

Classe 1993, studente di giurisprudenza, monarchico. Simone Balestrini, 24 anni tra qualche giorno, è il segretario nazionale della sezione giovanile dell’Umi, Unione monarchica italiana. Tra una sessione d’esami e l’altra all’Università Cattolica di Milano, da due anni gira l’Italia per diffondere tra i giovani la sua nuova idea di “monarchia 2.0”. «Non siamo nostalgici», dice, «non guardiamo a un ritorno della monarchia italiana. Il nostro punto di riferimento sono le Monarchie europee attuali. Siamo monarchici come può esserlo oggi un giovane danese, inglese, olandese o norvegese».

La sua palestra politica Simone l’ha fatta nel centrodestra, ed è stato candidato anche alle comunali di Milano nel 2016 nella lista di Nicolò Mardegan, senza essere eletto. Dal 2015, è alla guida dei giovani dell’Umi, presentandosi come il rottamatore della vecchia guardia dei monarchici italiani. Sneakers ai piedi, solo negli incontri ufficiali indossa lo smoking. E il tight quando va ad assistere al Royal Ascot («le corse dei cavalli sono la mia unica passione sui generis», ammette). «Per noi nati negli anni Novanta parlare di Umberto II ormai è come parlare di Napoleone», spiega. «C’è stato un cambiamento generazionale. Oggi l’associazione è composta da persone che sono monarchiche non per motivi storici ma per convinzione personale». La convinzione che «la Monarchia sia la migliore forma di governo per il mondo moderno».
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martedì 25 aprile 2017

Più azzurri che rossi i fazzoletti delle resistenza

Pubblichiamo questo articolo dell'11 aprile 1948 senza condividerne ogni passo. E' un articolo che risente del clima di una periodo di fuoco, quello immediatamente precedente alle elezioni del 18 aprile 1948 in cui fu sconfitto il fronte socialcomunista.
Ciononostante è importante rimarcare la testimonianza di un valoroso militare, di rango, che ebbe un ruolo di primo piano durante i mesi dell'occupazione tedesca del nord Italia.
Testimonianza che andrebbe diffusa nuovamente visto l'atteggiamento dei nipotini di quelli dell'Anpi, che credono di parlare a nome di tutti quando non hanno titoli, né numerici né di altro tipo, per dare lezione alcuna.

Raffaele Cadorna


La resistenza non è un monopolio comunista,
 dice Cadorna

Il generale Raffaele Cadorna è stato nominato recentemente presidente della federazione del Corpo Volontari della Libertà, che si contrappone all’A.N.P.I., ormai praticamente in mano al partito comunista. L’iniziativa, che sta ottenendo un successo insperato, si propone di organizzare i partigiani autonomi in un’unica forza, dimostrando agli italiani che la resistenza non è stata un monopolio dell’estrema sinistra, e che "partigiano” non significa comunista. Il 25 aprile del '45, solo il 30 per cento delle forze era iscritta al P.C.. Il generale Raffaele Cadorna è stato comandante generale del C.V.L., durante il periodo clandestino, e successivamente capo di stato maggiore delle forze armate, dopo la liberazione, fino alla fine del ’47. Dimessosi per contrasti coi ministri in carica, da lui ritenuti "incompetenti", si è ritirato nella casa di Pallanza, che fu già di suo nonno Raffaele e di suo padre Luigi Cadorna, nomi illustri della nostra storia militare. Da poco tempo, seguendo una tradizione di famiglia, il generale si è dedicato alla vita politica, accettando la candidatura al senato per il collegio di Novara. Nel tempo che gli rimane libero, si dedica alla cura del giardino che circonda la villa. Qui il generale Cadorna a bordo di una jeep durante una manifestazione di partigiani a Vigevano.


Pallanza, aprile
Raffaele Cadorna ha cinquantott’anni, ha lasciato da alcuni mesi il servizio attivo e, quando non è occupato dal suo giardino, veste in modo corretto e quasi elegante; a differenza di suo padre che era e poteva avere soltanto l’aspetto di un soldato, il figlio ricorda piuttosto negli atteggiamenti la figura di un diplomatico. È candidato per il senato come indipendente nella lista della democrazia cristiana, il che lo costringe da qualche settimana a tenere comizi nei centri maggiori del suo collegio. Si è presentato nella lista democristiana, non perché il suo pensiero politico coincida esattamente con i principi di quel partito, ma perché Cadorna è un generale, e perciò preferisce combattere — dice ridendo — da una altura, piuttosto che da un fosso.
E oggi la democrazia cristiana e la posizione strategicamente migliore per difendersi dal comunismo. Da pochi mesi ha lasciato il posto di capo di stato maggiore generale e non lo rimpiange. E’ venuto via per i dissensi avuti con i vari ministri della guerra. Cadorna subito dopo la liberazione si era messo a lavorare alla ricostituzione dell’esercito, ma i tempi non eran favorevoli, e piuttosto di continuare in una inutile funzione ha preferito lasciare il servizio. In seguito alle sue dimissioni, gli sono state rivolte delle accuse, tra l’altro di non aver saputo fondere le forze della resistenza con quelle dell’esercito regolare, e da queste si è difeso, mediante una lettera mandata al Corriere. Ma, come suo padre, è alieno dalle polemiche. A Pallanza, quando non si occupa del giardino, tiene la corrispondenza che è piuttosto numerosa. Scrive a mano, perché non possiede una macchina da scrivere; in questi giorni ha consegnato all’editore un libro sulla resistenza. Quando da Pallanza deve andare a Milano, e gli capita di sovente, prenota un posto sull'auto corriera; aveva un’"Augusta”, ma l'ha venduta due anni fa. In questi ultimi tempi ha ripreso a fumare, dopo dieci anni d’interruzione. La colpa è stata di un "Avana", offertogli in un circolo inglese subito dopo la liberazione, e da allora non ha più saputo resistere. Ha cinque figlie e sua moglie passa lunghe ore accanto a lui, mentre scrive, lavorando a maglia. Durante il periodo precedente al "referendum" gli è stata rivolta l’accusa di non essere un fervente monarchico. Era un’accusa ingiusta; del resto Re Vittorio Emanuele era stato assai ingrato verso suo padre, dopo Caporetto, licenziandolo senza una parola di saluto.
Luigi Cadorna rivide il Re solo sette anni dopo, quando, nominato maresciallo d’Italia, fece una visita al Quirinale. In quell’occasione a Vittorio Emanuele che si congratulava con lui di "non essere per nulla invecchiato", Cadorna rispose:
«Sì, Maestà, mi sento come allora, malgrado tutto ciò che è stato fatto contro di me ».
Ma l’attenzione su Raffaele Cadorna in questi tempi si è rivolta in modo particolare per la nomina a presidente della federazione italiana Corpo Volontari della Libertà. Quest’organo, sorto di recente il
29 febbraio scorso, si contrappone all'Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e sta ottenendo un successo che nei primi tempi gli stessi fondatori non avevano sperato.
La scissione verificatasi in seno all'Associazione Partigiani ebbe, com’è noto, la sua causa prossima nella decisione presa dai componenti della direzione di fare aderire in blocco, come si usa, tutta l’associazione al Fronte popolare.
Le formazioni autonome erano in gran pane anticomuniste fin dai tempi della resistenza e oggi i suoi aderenti portano sulla divisa cachi del partigiano il fazzoletto azzurro che si contrappone a quello rosso delle formazioni garibaldine. La scissione del mese scorso rappresenta l'ennesima prova dell’impossibilità di ’’coabitazione" con i comunisti, anche dove avrebbe dovuto riuscire più facile. Per questo motivo la frattura, rispetto al piano politico interno, è l’ultima nell’ordine che si sia verificata, e si può dire ormai che neppure il ricordo delle imprese compiute insieme può servire ancora a legare chi è comunista e chi non lo è.
La storia dell’ANPl di questi tre anni non è la cronaca dei suoi convegni, né di quello di Firenze (agosto del ’46), né di quello di Roma (dicembre del ’47); non è neppure contenuta nei vari ordini del giorno di Patrignani, comandante delle autonome dell’Emilia, o del democristiano Enrico Mattei, usciti con le loro forze, prima e dopo l’ultimo congresso. È la storia di uno stato d’animo che è venuto lentamente maturandosi in dramma. Il 26 aprile del 1945 un partigiano, comandante della zona dell’Oltrepò disse alla radio queste parole : « Io non ho molte cose da dirvi, vi parlo tenendo le mani dietro la schiena, ma di una cosa sono certo, noi non faremo i reduci!». Non era il sentimento di uno solo ma quello di tanti, di tutti coloro che avevano giudicato lo scopo della resistenza un fine e non un mezzo da raggiungere, che avevano pensato il giorno dopo l’insurrezione di lasciarsi alle spalle l’eredità di quel periodo miracoloso e di uccidere
con esso il proprio nome di battaglia. Ma per i comunisti la liberazione era soltanto la prima tappa di una grande battaglia che era appena agli inizi; fu così quindi che l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, in un primo tempo avversata dai comunisti stessi perché paritetica e cioè rappresentata dalle varie correnti : garibaldini (comunisti), brigate Matteotti (socialisti), brigate del Popolo (democristiani) e G. L. (partito d’azione) finì in un secondo tempo, per il disinteresse di coloro che non erano garibaldini, col diventare uno strumento in mano al partito comunista. Sul numero complessivo dei partigiani, al momento della liberazione, gli iscritti al partito comunista sommarono pressappoco al trenta per cento, mentre le formazioni inquadrate nell’orbita garibaldina, e composte di elementi di tutte le tendenze, raggiungevano il cinquanta.
Sono ormai lontani i tempi in cui
Longo andava d’accordo con Cadorna, quando, nel ’44, il vice comandante del C. V. L. si faceva aprire la porta del convento della casa di Nazareth di corso Magenta con queste parole: «Sono qui per la conferenza di San Vincenzo». E la madre superiora, l’unica a sapere che significato avessero quei convegni tra i rappresentanti del C.L.N., domandò una volta: «C’è anche il comunista? », e quando gli venne additato Luigi Longo la suora esclamò: « Peccato, sembrava così per bene! ».
Sono episodi che il generale Cadorna racconta con una punta d’amarezza senza più sorridere, ricordi di tempi ormai lontani che facevano sperare in un prossimo futuro di comprensione e di serenità.
Cadorna impersona in un certo senso il dramma della resistenza.
Nel 1943 verso il mese di maggio, trovandosi a Ferrara per la costituzione della divisione ’’Ariete”, aveva avuto i primi contatti con il comunista Concetto Marchesi. Il professore era stato da lui e gliaveva chiesto se in caso di un improvviso colpo di stato egli avrebbe potuto contare su di lui e sui suoi uomini. Ma Cadorna era un soldato e rispose a Marchesi che si sarebbe potuto fare assegnamento su di lui soltanto nel caso che dalla sua parte ci fosse stato il Re. Marchesi rimase male, poi all’8 settembre Cadorna si trovò al comando della divisione ’’Ariete” nei pressi di Roma, sparò sui tedeschi con la soddisfazione che poteva avere il figlio di un uomo che aveva condotto una guerra contro di loro.
Fece parte del gruppo Montezemolo a Roma, finché venne richiesto, nell’agosto del '44, dal C.L.N. Alta Italia come consigliere militare del Corpo Volontari della Libertà.
L’11 dello stesso mese il generale venne paracadutato fortunosamente insieme a tre ufficiali italiani e a un inglese sul territorio della Val Camonica. Le prime lotte coi comunisti, la necessità di soffocarle in vista di un fine comune, il peso della tradizione paterna, la sua fedeltà di soldato al Re erano tuttielementi contraddittori tra i quali il comandante generale dei partigiani venne a dibattersi, (tadorna rappresentò il tentativo di conciliare l’Italia di Vittorio Veneto con quel la della liberazione, o meglio il tentativo di conciliare un mondo con un altro che gli è opposto, e nella sua posizione si trovano tutti coloro che tentano di salvare il sacrificio fatto durante la guerra partigiana.
La delegazione del Corpo Volontari della Libertà attende il suo imminente riconoscimento da parte del governo a ente morale, il che significherebbe la virtuale liquidazione dell’A.N.P.I. cui verrebbe a mancare della qualifica ’’nazionale” e sarebbe assorbita dal partito comunista.
Intanto in parallelo con le manifestazioni elettorali i partigiani autonomi organizzano raduni un po’ dappertutto, nelle zone dove più acuta è stata la lotta partigiana.
Domenica scorsa il comandante Mauri ha parlato a Casale Monferrato e Cadorna a Vigevano, l’11 aprile gli autonomi sfileranno una seconda volta a Milano come già
hanno fatto il giorno di San Giuseppe in occasione della parata militare per la consegna della medaglia d’oro al gonfalone di Milano.
Lo scopo immediato di queste manifestazioni è quello di dimostrare agli italiani che ai partigiani rossi corrispondono i partigiani azzurri, e infatti lo slogan su cui si fonda la propaganda del movimento è: «Non tutti i partigiani erano comunisti».
La simpatia con cui vengono generalmente seguite le manifestazioni tenute in queste settimane stanno a dimostrare come in una larga parte della nazione il movimento partigiano potrà riprendere la popolarità e il prestigio che sembrava aver perduto.

Enrico Roda

giovedì 20 aprile 2017

Luigi Amedeo D'Aosta - Il Duca degli Abruzzi




Andrea Carotenuto
Genova - Galantuomo, nobile di casa Savoia ma anche esploratore artico e grande appassionato di vela al punto da fondare a Genova lo Yacht Club Italiano che oggi, all’ombra della Lanterna, porta il suo nome. Palazzo Reale rende omaggio alla figura di Luigi Amedeo, duca degli Abruzzi con una mostra “Il Duca e il mare” che, fino al 16 luglio consentirà di ammirare i preziosi cimeli di casa Savoia negli appartamenti privati usati dal rampollo reale durante la sua permanenza nel capoluogo ligure.
L’iniziativa coinvolge tre istituzioni cittadine con il proposito di descrivere il forte legame che ha avuto Genova con il mare e il porto alla fine dell’Ottocento, inizio Novecento anche attraverso importanti figure storiche: Palazzo Reale di Genova rievoca, in una mostra, la figura di Luigi Amedeo, duca degli Abruzzi, che nei primi decenni del Novecento abitò nell’appartamento nobile al primo piano dell’ala di levante del Palazzo; la Biblioteca Universitaria di Genova dedica la propria esposizione, attraverso fotografie d’epoca, libri antichi e cimeli di ogni genere, agli uomini che, del mare e dei mestieri ad esso connessi, hanno fatto la loro ragione di vita; il Castello D’Albertis Museo delle culture del mondo, approfondisce la vita quotidiana del viaggiatore ottocentesco attraverso l’inserimento nel percorso museale di scatti di E.A. d’Albertis, cofondatore del Regio Yacht Club, che ha coltivato tutta vita la passione per il mare e vi ha costruito intorno un castello.
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Leggi razziali e 8 settembre. I Savoia secondo Montanelli

vittorio emanuele III_benito mussolini - Copia
di Alberto Alpozzi


Vittorio Emanuele III, il re Soldato, attraversò due guerre mondiali, il fascismo, le leggi razziali, l’armistizio dell’8 settembre e la caduta della monarchia. In Italia la monarchia era di tipo costituzionale e regolata dallo Statuto Albertino del 1848, che rimase formalmente tale, pur con modifiche, fino al 1946.
Il Fascismo prese il potere nel 1922, dopo la Marcia su Roma. Benito Mussolini ebbe nel 1924, come Capo del Governo, la fiducia dei partiti democratici, popolari e liberali dell’epoca con 306 voti favorevoli e 112 contrari ottenendo 35 deputati fascisti al Governo.
Le legge razziali vennero approvate nel 1938: alla votazione, svolta con scrutinio segreto, presero parte 164 senatori, i voti contrari furono nove, i senatori ebrei non si presentarono a Palazzo Madama.
Furono abrogate con due regi decreti del 20 gennaio 1944.
Montanelli“Premesso che le leggi razziali furono una cosa ignobile, insensata e per nulla condivisa dal sentimento popolare, salvo una esigua frangia di fanatici che forse non si resero conto della loro criminosità, è assolutamente vero che la Costituzione faceva al re obbligo di firmarle come qualsiasi altra legge approvata dal Parlamento”.
Infatti sulla loro approvazione, con firma del re, si pronunciò la Corte Suprema di Cassazione con la sentenza del 26 giugno 1950 n. 1624: “non possono considerarsi prive di efficacia giuridica per costituzionalità di fronte all’ordinamento giuridico del tempo”.
Prosegue Montantelli“Altrimenti al re non sarebbero rimaste che altre due alternative: o tentare un colpo di Stato per mettere alla porta Mussolini e il fascismo, o abdicare. Il colpo di Stato sarebbe stato un fallimento perché in quel momento Mussolini aveva in mano tutte le leve del potere, comprese le forze armate, e per di più poteva contare sull’appoggio incondizionato della Germania nazista che non glielo avrebbe certamente fatto mancare. Abdicando, il re avrebbe salvato la propria anima, ma affrettato la sottomissione dell’Italia a Hitler e così aggravato anche la condizione degli ebrei. Non solo, ma avrebbe privato il Paese dell’unico punto di riferimento istituzionale se un giorno si fosse trovato ancor più coinvolto nelle avventure naziste. Come poi avvenne”.
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martedì 18 aprile 2017

La simpatia di Toto' per la Monarchia


Dalla rubrica del Corriere della Sera "Lo dico al Corriere"

Un ricordo di Toto'



Il 15 aprile 1967, come sappiamo, moriva il grande Totò. Ma ci sono due fatti che pochi ricordano. Nello studio della casa romana dell’attore erano presenti, in bella vista, il diploma del conferimento del titolo di Cav. Uff. dell’Ordine della Corona d’Italia che ricevette da Vittorio Emanuele III; e, sopra un mobile, una foto con dedica di Umberto II. Totò si faceva spesso fotografare lì accanto. Eppure c’è chi afferma che Totò non era monarchico.

Il Nobel alla Marina

Dalla rubrica del Corriere della Sera "Lo dico al Corriere"
14 aprile 2017

shadow
Caro Aldo, 
il centro Pannunzio vorrebbe proporre la Marina militare italiana per il Premio Nobel per la Pace. Il salvataggio di vite umane che i nostri marinai hanno realizzato in questi anni fa pensare a quanto accadde cent’anni fa, tra il 1915 e il 1916, quando la Regia Marina protesse l’esodo dell’esercito serbo e trasse in salvo 115 mila profughi. Ieri e oggi, una grande lezione di civiltà e di grandi valori umanitari. 
Pier Franco Quaglieni Quaglieni@centropannunzio.it


Caro Pier Franco, 
Mi associo alla sua proposta. A maggior ragione perché il centro Pannunzio rappresenta un caposaldo della cultura liberale torinese, che con il suo rigore e la sua serietà è agli antipodi dei buonismi capaci di nuocere alla migliore delle cause. 
Gli uomini di mare conoscono e praticano l’imperativo di salvare vite umane, proprio perché sanno la nostra precarietà e la fragilità di fronte alla natura e alle condizioni avverse. Mi viene in mente un bellissimo film di qualche anno fa, «In solitario», passato in Italia quasi inosservato. Il protagonista è l’attore francese di «Quasi amici» François Cluzet, che stavolta interpreta un velista, Yann Kermadec, impegnato nella più importante regata al mondo, il Vandée Globe. Costretto a una tappa d’emergenza alle Canarie, Yann riprende l’oceano ma scopre che a bordo si è intrufolato un ragazzo, Mano Ixa, un sedicenne della Mauritania. Mano è afflitto da un’anemia, che lui crede sia una maledizione, e vuole andare in Francia per curarsi: ha visto una barca con il tricolore bianco rosso blu, e pensa sia diretta in patria. Quando apprende che invece la barca deve fare il giro del mondo, rimane stupefatto: «E perché?». 
Il film finisce bene. Il velista all’inizio vorrebbe liberarsi dell’intruso che rischia di farlo squalificare: il povero Mano è sul punto di essere abbandonato al largo del Brasile, poi in Nuova Zelanda. Ma Yann alla lunga si affeziona e rinuncia alla vittoria pur di non rinnegare il suo quasi amico. La realtà è ovviamente molto più complicata. Lo ripeto: nessun Paese può reggere i flussi migratori cui è sottoposta oggi l’Italia; la rotta del Mediterraneo va chiusa, il controllo dei mari va sottratto ai trafficanti, si devono aprire i corridoi umanitari per i profughi che ormai chiede pure Salvini. Ciò non toglie che se noi potessimo conoscere davvero le persone che arrivano, avremmo un approccio meno aspro di quello che misuro ogni giorno leggendo le lettere al Corriere.



«Sarebbe giusto assegnarlo alla nostra Marina»
shadow
15 aprile 2017


Mi associo in maniera incondizionata alla proposta di assegnazione del Nobel per la pace alla Marina militare italiana fatta dal Centro Pannunzio sul Corriere di venerdì 14 aprile. Aggiungo però che non andrebbero dimenticate le popolazioni del nostro Sud che accolgono i migranti.
Maurizio Panciroli Pavia



Aderisco alla importante proposta del professor Franco Quaglieni per l’assegnazione del Nobel per la pace alla nostra Marina militare. 
Domenico Giglio Presidente del Circolo Cultura ed Educazione Politica «Rex» Roma

sabato 15 aprile 2017

Buona Pasqua!


Vita eroica di Amedeo di Savoia - quarta parte

Il 16 maggio, dopo 43 giorni di assedio e dopo avere reiterate volte respinto le intimazioni di resa le condizioni erano queste: gli uomini ridotti a 2500 perché 1300 erano morti, non esisteva più un solo colpo di cannone, vi erano ancora pochi caricatori per le armi leggere, i pochi muli erano stati già tutti sacrificati, la sete era allucinante, ma, dalle pendici del monte si vedeva avvicinare sempre più una marea di fute bianche, i 30.000 armati di Ras Seium. No, non vi era più scampo! Ed il Duca che aveva cercato più volte la morte su quell'Amba desolata, che aveva visto morire attorno a sé ì migliori Suoi fidi, pensò che aveva il dovere di risparmiare l'orrenda carneficina che attendeva i superstiti, adesso che era salvo l'onore della Bandiera. Mandò fuori il Suo Volpini a trattare con gli inglesi; ma gli armati di Ras Scium non rispettarono la guarentigia della bandiera bianca, una scarica di fucili uccise lui e gli altri parlamentari, così che furono gli inglesi a dover recarsi dal Duca; e due giorni dopo vi fu la discesa dell'Amba Alagi.

Amedeo di Savoia fu l'ultimo ad abbandonarla dopo avere diviso con i superstiti le poche cose ed il danaro che Gli restava; ma prima si recò nel forte Toselli dove due giorni prima era stato sepolto il generale Volpini, l'amico del Suo cuore, che per 15 anni aveva, ai Suoi ordini, diviso la gioia e le asprezze della Sua vita, ed aveva pagato l'estremo tributo alla Sua granitica fedeltà.

Vi è una fotografia di Amedeo, fatta dagli inglesi, mentre Egli saluta nel fortino Toselli il breve lembo di terra che copre la salma di Volpini: gli occhi infossati, il volto emaciato, irriconoscibile, è la statua del dolore e dà l'impressione di essere già al di là del tempo e della vita.

Venne portato ad Adi Ugri ove restò 15 giorni, chiuso in una piccola casa, in attesa della sistemazione definitiva, e fu ad Adì Ugri, nel chiuso di quattro pareti che seppe dalla radio della medaglia d'oro al valor militare assegnatagli da S. M. il Re: «ho seguito con viva affezione e con ammirata fierezza la Tua opera di comandante e di soldato. Ti ho conferito la medaglia d'oro al Valore Militare, desiderando premiare in Te anche coloro che, combattendo ai Tuoi ordini, hano bene meritato dalla Patria ».

Sì. Egli si sentiva di essere, Egli era il depositario dei mille e mille Caduti nella difesa dell'Impero; nel Suo cuore batteva il cuore di una moltitudine di Morti e di superstiti.
La Sua nuova dimora fu stabilita a Nairobi.
Gli fu assegnato il villino da caccia di Lady Me Millan, a 70 Km da Nairobi, villino abbandonato da anni, infestato da pulci da zecche e da topi, e dovette personalmente per una settimana intera, aiutato dai Suoi, provvedere a liberarsi, per quanto possibile, da questi ospiti indesiderabili.

Le gazzette inglesi farneticavano sulla libertà di cui godeva il Principe, che poteva recarsi ove volesse, ospite, dicevano, e non prigioniero di S.M. Britannica; che da Addis Abeba Gli erano stati portati i Suoi cavalli, che possedeva una ricca automobile per i Suoi spostamenti. La verità vera era un'altra: non poteva andare al di là di 380 m dalla casetta, vigilato da un bene attrezzato e numeroso corpo di guardia, ed invece dei cavalli e dell'auto, esisteva una carrozza di cui si servivano gli ufficiali inglesi, che dopo una settimana l'avevano resa inservibile.

Era un prigioniero, come gli altri, che ebbe la prima lettera dei Suoi dopo sette mesi di prigionia, e niente Lo feriva e Lo umiliava più delle letture delle riviste Sud Africane ed Inglesi che gli ufficiali di guardia Gli mostravano.
In una si diceva che, sull'impegno della Sua parola di onore, Gli sarebbe stato concesso di andare in Italia a rivedere la Sua famiglia.
Il rossore Gli salì al viso. Come si poteva pensare che Egli avrebbe accettato un simile privilegio? Un'altra volta lesse in una rivista Sud Africana che i Suoi magnifici soldati erano i « contemptible scavengings in the biways of the battle ».

Umiliato, depresso, in quella solitudìne disperata rotta solamente dalle notizie sempre peggiori che giungevano dai lontani campi di battaglia europei, fu, punto un giorno da una zecca, e ne risultarono altissime febbri a tipo tifoideo, che Gli durarono settimane e Lo ridussero allo estremo, mentre il Suo medico, Dott. Borra, invano chiedeva di poter fare delle analisi e degli esami speciali, ed invano chiedeva medicinali.

Appena rimessosi chiese ed ottenne di poter recarsi al Comando del Campo da cui dipendeva, per avere la assicurazione che le donne ed i bambini internati nel Kenia sarebbero stati evacuati per primi, con precedenza su tutti.

Voleva entrare nel campo per salutare i Suoi soldati colà prigionieri, ma Gli fu vietato, ed allora girò attorno al filo spinato entro il quale eran rinchiusi, mentre i Suoi vecchi soldati Gli gridavano parole di amore. Fu visto pallido, diritto, con gli occhi gonfi di lagrime, e non si vergognò di dire a chi Lo accompagnava: «Talvolta piangere è una felicità!».

Ma la febbre riprese, gagliarda, e questa volta fu trovato il plasmodio della malaria.

In quell'organismo, debilitato dalla lunga sofferenza morale, dalle privazioni fisiche durate nelle lunghe settimane di assedio sull'Arnba Alagi, questì lunghi attacchi febbrili determinati dalla insalubrità del luogo, dovevano portare alla consuzione ed alla morte.

Quando si recò a trovarlo il Maggiore Ray Wittit, di cui cito il nome ad onore, unico tra gli ufficiali inglesi che, avendo in tempi felici conosciuto il Duca di Aosta, non aveva dimenticato l'omaggio che a Lui si doveva nella sventura, quando andò a trovarLo e Lo vide in quelle condizioni, su quel lettino di ferro ove non poteva allungare i piedi, con gli occhi lucidi di febbre, nella più grande desolazione, non potè contenere il suo sdegno, che esplose in sacro furore: questo era il modo di trattare un Principe Reale della più vecchia dinastia regnante di Europa? Questo era il modo di trattare un glorioso nemico, leale e cavalleresco, tenendolo lì, a 70 km dal consorzio umano, in quella casetta abbandonata al limite di una foresta?
Questa era la asserita, vantata ospitalità del Re di Inghilterra?

Così riuscì ad ottenere che, a spese del Duca, Egli fosse ricoverato in una casa di cura, La Maja Cumbery Nursing Home.

Ma oramai il destino era segnato, ed ecco allora, per salvare la faccia, il medico inglese che appare all'ultima ora, ecco anche affacciarsi quel Rennel Road, compagno di giuochi della Sua fanciullezza, quando il padre era ambasciatore in Italia nei tempi felici. Il padre che amava ed era riamato dagli italiani aveva scritto al figlio degenere: ricordati, ricordati di quanto dobbiamo ai Duchi di Aosta, e sii di conforto al prigioniero.
Ma il figlio era andato all'aeroporto, aveva salutato con ostentata indifferenza lasciando di ghiaccio il Duca che Gli era andato incontro per abbracciarlo; ed ora, eccolo lì, vicino al Suo letto di morte: « Che sei venuto a fare ora? - gli disse il Duca - ora è tardi, vattene ».
Si, oramai era tardi per le finzioni del mondo; adesso voleva essere solo con Dio e con i pochi fidi superstiti, per prepararsi a morire; oramai aveva gli occhi chiari della morte che guardano con distacco le cose vane e caduche.

A chi Gli propose di chiedere - e certo lo avrebbe ottenuto, che Sua Madre e la Sua Sposa accorressero al Suo capezzale, non rispose neppure: si limitò a guardarlo: come poteva Egli, il Capo, morire diversamente da quei soldatini che uno ad uno se ne scendevano ogni giorno nella terra nera dell'Impero perduto?

I pensieri supremi oramai Lo dominavano, ed erano quasi allucinanti tra le accolimie della febbre: la Patria, la bandiera, l'onore, il Re, ed i Suoi soldati, i Suoi soldati.

Il 1° marzo il comando inglese, convinto ormai della fine imminente, consente alfine che gli amici del Duca si rechino al Suo capezzale.

«Scrivi, scrivi, io ti detto, ho paura di non fare in tempo, scrivi; giunga l'estremo saluto ai miei soldati di terra, del mare e del cielo, compagni di arme di tante campagne d'Italia e di Libia. Ai miei camerati di prigionia, ed a tutti quelli che con indomito valore mi hanno seguito in questa epopea Africana, lascio il retaggio di portare il tricolore sulle Ambe dove i nostri Morti montano la guardia».

«Scrivi, Verin, scrivi: riaffermo al mio Re, in questa ora suprema la fedeltà di tutta la vita».

Poi dice al Dottor Borra: «quante volte, caro Dottore, ho pensato che sarebbe stato meglio morire sull'Amba Alagi. Colà la morte non mi ha voluto. Ma ora, di fronte a Dio, penso che sarebbe stata vanità: bisogna saper morire anche in mano al nemico, anche in un povero ospedale».

Padre Boratto Gli somministra i Sacramenti la sera del 2 marzo. Mancano poche ore alla fine, ed il Duca dice a Padre Boratto: «come è bello morire in pace, con Dio, con gli uomini, con se stesso. Questo solo è quello che veramente conta».

Alle ore 3,56, prima dell'alba l'ultimo respiro si è fermato nel petto generoso.

Abbiamo letto or sono due anni sui giornali che un'opera di orfani di guerra intitolata alla memoria di Amedeo di Savoia Duca di Aosta cambiava nome, per chiamarsi Opera degli orfani della Banca d'Italia. Chi propose tale cambiamento, chi ci appose la firma sanzionatrice?

Meglio non dire.

Leggemmo anche sui giornali che qualche cittadino e non tra gli ultimi della Valle di Aosta, aveva proposto, a proposito di autonomie regionali che, in caso di guerra tra Oriente ed Occidente la regione autonoma dovesse proclamare la sua neutralità, chiedendo di unirsi alla Svizzera, e la proposta trovò presso parecchi favorevole accoglimento.

E noi abbiamo riveduto con gli occhi dell'anima il Duca di ferro sull'altissimo picco dell'Amba Alagi, all'ombra della vecchia Bandiera, mentre da l'estremo saluto al Suo vecchio compagno d'armi sotto una breve zolla di terra, ed ha gli occhi infossati, le guance scavate, già irriconoscibile, già votato alla morte; abbiamo veduto con gli occhi dell'anima quei magnifici battaglioni Alpini Aosta, superbi nella battaglia, ancora allineati sotto la terra del Montenero, dell'Ortigara, del Pasubio, di S. Michele, ed abbiamo pensato, ahime! abbiamo pensato che siamo caduti in una voragine di bassura, che abbiamo toccato il fondo della miseria; ma pure amiamo credere che forse appunto per questo, forse appunto perché non possiamo andare ancora più in basso, sia fatale che risaliamo alle alture.

Verità insopprimibile ed eterna è quella della Patria, e gli Italiani, se hanno potuto assistere impassibili allo strazio della loro terra tra contendenti stranieri, e se ancora cono divisi tra i fautori di oriente e di occidente, pur comprenderanno un giorno, e già cominciano ad aprir gli occhi, che né dagli uni né dagli altri possono attendersi grazia e salute, e che solamente se saranno uniti saranno ancora forti e rispettati nel mondo.

La bandiera della unità ci è stata portata via con la frode, anche essa imposta dallo straniero di dentro e di fuori, ma ogni giorno di più la nostalgia diventa cocente nel nostro cuore: ritornerà, ritornerà quel giorno benedetto nel quale gli Italiani si daranno ancora la mano: e quel giorno ritornerà anche l'ombra placata di Sua Altezza Reale Amedeo di Savoia, Duca di Aosta.

venerdì 14 aprile 2017

Le Guardie d'Onore per il rimpatrio della salma di Re Vittorio Emanuele III


15 Aprile 2017

Ricorre il 50° anniversario della scomparsa del Principe

Antonio Griffo Focas Flavio Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria,principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo.


In arte Toto'

Ci piace ricordare l'artista che ci ha dato ore di interminabile riso, l'uomo generoso, il monarchico, Ufficiale della Corona d'Italia.
Lo ricordiamo con questa sua foto e con la recita della sua celeberrima "A livella".
In entrambe gli occhi allenati dei nostri lettori riconosceranno la foto di Re Umberto II.






mercoledì 12 aprile 2017

La croce dei Savoia resta su stemma e gonfalone: bocciata a Oristano la proposta del sindaco

Critiche e duri scontri in Consiglio comunale a Oristano e alla fine la proposta del sindaco Guido Tendas di modificare lo stemma e il gonfalone togliendo la croce dei Savoia e inserendo l'albero deradicato degli Arborea non è passata.
Al primo cittadino non sono bastati i 13 voti a favore della maggioranza di centrosinistra: per le modifiche allo statuto infatti sarebbero serviti 17 voti ovvero una maggioranza qualificata.
Forti le critiche da parte della minoranza che lo ha accusato di approssimazione e di non aver coinvolto un esperto di araldica per una questione così delicata e specifica.
Ancora si è puntato il dito contro il mancato coinvolgimento della città, mentre la maggioranza ha difeso la scelta del sindaco e sottolineato l'importanza della proposta per rivendicare l'identità culturale e storica. Alla fine però non è bastato.
E su stemma e gonfalone continuerà a rimanere il simbolo dei Savoia.

1867 - IL VERO 150° DELLO STATO . L'ITALIA TRA LE GRANDI POTENZE


di Aldo A. Mola

Lo Stato d'Italia compie tra poco il vero 150° del suo ingresso nella Comunità internazionale. Oggi il Paese è in affanno, disorientato, quasi sfarinato. Perciò va ricordata quella data. L'11 maggio 1867 il marchese Emanuele Tapparelli d'Azeglio rappresentò il Regno alla firma del Trattato di Londra che chiuse il contenzioso sul Lussemburgo: una vertenza apparentemente minima, in realtà gravida di storia. Il Granducato era “la Gibilterra del Nord”: un ammasso di fortificazioni erette nei secoli per sbarrare la strada all'invasione dall'una o dall'altra sua parte. Napoleone III aveva tentato di comperarlo dal regno dei Paesi Bassi, come nel 1768 la Francia di Luigi XV aveva fatto con la Corsica, venduta a Parigi dal genovese Banco di San Giorgio. Ma la Prussia gli tagliò la strada. La frizione sprigionò scintille. L'Europa era appena uscita dalla guerra del 1866 tra l'impero d'Austria e la coalizione italo-prussiana che all'Italia fruttò il Veneto. La diplomazia ebbe la meglio sulle armi, che - aveva insegnato Clausewitz - ne sono la prosecuzione. Era il “secolo della pace” che, tra l'una e l'altra “guerra di teatro”, tutte circoscritte per territorio e numero di vittime, durò dal Congresso di Vienna del 1815 alla conflagrazione europea del 1914.
Giocando d'iniziativa e di sponda tra il 1859 e il 1860 Vittorio Emanuele II di Savoia coronò il sogno di tanti patrioti: un regno unitario dalle Alpi alla Sicilia. Non era tutto. Mancavano il Triveneto e Roma. Ma anche ai più audaci l'elezione di una Camera nazionale nel febbraio 1861 parve un miracolo, come in opere magistrali ricorda Domenico Fisichella, storico e politologo insigne, designato Premio alla Carriera dal 50° Premio Acqui Storia. Il 14 marzo 1861 il Parlamento proclamò Vittorio Emanuele II re d'Italia. Dunque era fatta? No, perché sia per le persone sia per gli Stati non basta “dirsi” qualcosa, bisogna “esserlo”, occorre ottenere il riconoscimento: battesimo, iniziazione, consacrazione...
La demolizione del Sacro Romano Impero da parte di Napoleone I abbatté nell'Europa centro-occidentale il principio in forza del quale il potere regio discende da quello imperiale: ora erano le Nazioni a dare corpo agli Stati. La Russia continuò a fare storia a sé, perché, come Terza Roma, non riconosceva alcuna autorità al vescovo di Roma che per un millennio aveva benedetto Pipino e consacrato Carlo Magno e i suoi successori. Il 17 aprile 1861 il Parlamento deliberò che il sovrano avrebbe firmato leggi e decreti come “re d'Italia per grazia di Dio e volontà della Nazione”: la Tradizione venne fusa con la “rivoluzione”, del resto già alla base dello Statuto promulgato nel regno di Sardegna il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto di Savoia, che proclamò i cittadini uguali dinnanzi alle leggi e la libertà dei culti, caso unico nell'Italia dell'epoca, mentre nel regno delle Due Sicilie (rimpianto da Pino Aprile, da Fabio Andriola inopinatamente elevato a paladino della “verità”, quasi sia lo scopritore della plurisecolare “questione meridionale”) vietava ogni religione diversa dalla cattolica apostolica romana, là praticata in forme superstiziose: e non per caso l'abate di Montecassino, Luigi Tosti, si schierò per l'unità d'Italia, come Carlo Passaglia e tanti insigni teologi ed ecclesiastici.
Ma, appunto, nella storia non basta dirsi, bisogna farsi accettare. Dopo la proclamazione, il Regno d'Italia venne riconosciuto dalla Gran Bretagna (che così lo sottrasse all'abbraccio di chi lo confondeva con una qualunque contessa di Castiglione), dalla Svizzera, dalla Grecia (che fu sul punto di avere re il secondogenito di “Monsù Savoia”, Amedeo, duca d'Aosta) e dagli Stati Uniti d'America. Gli altri Paesi, spocchiosi, rimasero a guardare. Quasi nessuno credeva che l'Italia sarebbe divenuta uno Stato vero. A tarparne il volo erano mazziniani, federalisti (pochi e irrilevanti), papisti e nostalgici dei regimi abbattuti e sconfessati dai plebisciti che nel 1860 unirono col voto l'adesione alla corona sabauda di Ducati padani, Granducato di Toscana, Emilia e Romagna, Umbria, Marche, Sicilia e Province napoletane. In alcune di queste divampò il “grande brigantaggio”, alimentato da carenza di senso dello Stato, sorretto dall'estero e direttamente dallo Stato pontificio che gli parò le spalle. Fu una partita tanto difficile e dura quanto necessaria. Checché ne capiscano i nostalgici del trapassato remoto, appunto alla Pino Aprile, l'Italia era il ponte tra la Gran Bretagna, l'India e l'Estremo Oriente. Potate per linee ferrate dal Mare del Nord al Mediterraneo settentrionale, dai suoi porti (Genova, anzitutto) le merci avrebbero puntato, via nave, verso il Canale di Suez ormai in costruzione. Il mondo cambiava celermente nell'età dei cavi telegrafici sottomarini, del gioco di borsa, dei grandi traffici e della seconda età coloniale che in pochi decenni portò l'Europa a dominare l'80% dell'Africa e, con metodi sbrigativi, la Cina (anche tramite la guerra dell'oppio), l'India, l'Afghanistan, per trarne risorse e senza la pretesa infantile di esportarvi la democrazia. Era l'età studiata da Karl Marx, secondo il quale senza ammodernamento (industrializzazione e accumulazione del capitale) non sarebbe mai giunta la liberazione del lavoro dalla mercificazione. Rispetto ai Paesi da più tempo uniti, organizzati e dotati di una dirigenza capace di pensare “in grande”, l'Italia era arretrata, malgrado i Congressi degli scienziati (1839-1847), la prima statistica del regno (1861) e le ancora balbettanti Esposizioni nazionali. Ben vennero quindi i riconoscimenti del neonato Regno da parte del Portogallo (il cui re aveva sposato Maria Pia, figlia di Vittorio Emanuele II), dell'impero ottomano e dell'Olanda (1861). L'impero di Russia e il regno di Prussia lo riconobbero solo nel luglio del 1862, proprio quando Garibaldi organizzò la spedizione contro il papa (“Roma o morte”), rischiando di far annientare la credibilità di uno Stato sorto non per suscitare disordini ma per concorrere alla pace europea. Il 25 giugno 1863 la Danimarca accreditò il suo rappresentante presso il re d'Italia. La Spagna si decise solo il 12 luglio 1865, quando capì che era del tutto vana la speranza di restaurare l'evanescente Francesco II di Borbone. Vittorio Emanuele II, di gran lunga superiore al ritratto che ne fa Adriano Viarengo nella biografia ora edita da Salerno, per unire l'Italia aveva generosamente sacrificato non solo la Savoia e l'italiana Nizza ma anche Torino quale capitale: meritava credito. Lo stesso anno il regno fu riconosciuto da Brasile, Messico e dal cattolico Belgio. Mancava il tassello finale. Con la pace di Vienna (3 ottobre 1866) l'Austria aveva sì ceduto il Veneto, ma a Napoleone III, che a sua volta lo “trasferì” alla Corona d'
Italia: accordo ratificato dal Parlamento italiano il 13-16 aprile 1867.
Il corpo diplomatico italiano, guidato da patrioti di alto talento quali Alfonso La Marmora e Pompeo di Campello e da ambasciatori di prim'ordine come Costantino Nigra e Isacco Artom, cresciuti alla scuola di Cavour, raggiunsero la meta: l'Italia fu accolta alla Conferenza di Londra del maggio 1867. Fu la sua prima volta: “ultima fra le grandi potenze” si disse con sorriso ironico. Ma le sue potenzialità erano chiare agli osservatori stranieri. Volente o nolente il Mondo Nuovo doveva passare per l'Italia. Perciò non le erano più consentiti colpi di testa, come la spedizione garibaldina dell'ottobre-novembre 1867 contro il papa-re. Del resto, pochi giorni dopo la Conferenza di Londra lo sfortunato Massimiliano d'Asburgo, aspirante imperatore del Messico, mandato allo sbaraglio da Napoleone III, fu arrestato a Querétaro dagli sgherri di Benito Juárez, che lo fece fucilare, su procura degli USA.
I veri frutti dell'ingresso del Regno d'Italia nella Comunità internazionale si colsero tre anni dopo, quando il governo Lanza-Visconti Venosta-Sella-Castagnola frenò ogni tentazione di scendere in guerra contro la Prussia a fianco di Napoleone III e, nella “finestra” aperta con la sconfitta dell'imperatore a Sedan, corse a Roma per chiudere la “questione” che teneva inquieto il Paese e l'Europa intera. Nei giorni fatali del 19-20 settembre 1870 Pio IX venne “vegliato” dagli ambasciatori di Paesi luterani ancor più che da quelli cattolici, perché era in gioco il coronamento del Risorgimento sognato da Cavour quando, il 17 marzo 1861, aveva fatto proclamare Roma capitale d'Italia: una data da mettere in calendario sin d'ora, in vista del suo 150°. Lasceremo dove sono i nostalgici degli antichi regimi e i visionari d'ogni genere e ricorderemo Vittorio Emanuele II padre della Patria: egli, sì, “uomo della provvidenza” come nel 2011 convenne il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, e come scrive “La Civiltà Cattolica” che nel suo n. 4000 plaude all' “ideale unitario” che la animava “prima ancora che si concepisse l'Italia una e indivisa sul piano politico”. In realtà quello stesso ideale, molto prima che dai gesuiti, anzi contro la loro Compagnia, era stato coltivato da Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Camillo Cavour, Vincenzo Gioberti, dal carbonaro Silvio Pellico a da una schiera di patrioti, in gran parte massoni, che ebbero per vessillo il tricolore con lo scudo sabaudo: l'11 maggio 1867 accolto a Londra tra le bandiere del Mondo Nuovo, mentre gli zuavi di Napoleone III facevano quadrato attorno a Pio IX, nemico acerrimo dell'unità d'Italia.


Aldo A. Mola