NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 30 aprile 2021

Ricordo di Giovannino Guareschi: ritratto di un grande italiano, a lungo oscurato

Registriamo con piacere un diverso atteggiamento nei confronti della Monarchia, scritta addirittura con la maiuscola da parte di una Destra che si è quasi sempre detta repubblicana.
Era ora.







Dal sito del Secolo d'Italia:

di Massimo Pedroni

 [...]

Guareschi e la Monarchia

Lo scrittore, era un uomo dalle convinzioni granitiche. Una per tutte lo sbandierare il suo essere Monarchico. Era ben a conoscenza della drammatica situazione che stava vivendo la sua terra in quel periodo. Nelle tensioni che sfociavano in orrori, vendette, violenze imperdonabili. “Cose terribili succedono a Castelfranco Emilia e gente ci manda lettere piene di terrore elencando assassinii. Quarantadue persone sono state già soppresse misteriosamente per causa politica o di vendetta, in uno spazio di pochi chilometri quadrati, in piena pianura. E la gente sa, ma non parla perché ha paura”. Questa sua testimonianza, stride con l’universo letterario da lui creato. Quello alla fine, indulgente e benevolo della saga Peppone e Don Camillo.


[...]

https://www.secoloditalia.it/2021/04/ricordo-di-giovannino-guareschi-ritratto-di-un-grande-italiano-a-lungo-oscurato/?utm_source=dlvr.it&utm_medium=facebook

martedì 27 aprile 2021

L’editto del 10 febbraio 1836 di Re Carlo Alberto

Contributo al blog dell'Avv. Augusto Genovese




Uno sconosciuto primato piemontese nel campo sindacale e sociale

Premetto che cinque o sei anni fa, rovistando alla Biblioteca Reale di Torino fra la parte rimasta del « Fondo di Torino » che in forza del trattato di pace con la Francia si dovette consegnare all'Archivio di Chambery, rovistando, dicevo, fra quelle buste ingiallite e polverose mi imbattei in un documento veramente singolare e di importanza ch'io ritengo eccezionale. Non certo da poter capovolgere il corso della storia, ma tale da influire e correggere talune errate interpretazioni - errate, faziose ed ingiuste -, circa uomini e avvenimenti a noi piemontesi particolarmente cari.

Il documento è un Editto, come si diceva allora, o meglio una Regia Patente; porta la firma di Re Carlo Alberto con la data del 10 febbraio 1836. Si tenga presente la data: 1836, 12 anni prima della emanazione dello Statuto.

È un lungo e particolareggiato appello al fine di provvedere al sostentamento dei poveri attraverso le Opere Pie ch'egli faceva riordinare e potenziare onde far fronte a sollevare le miserie dei diseredati. Un Editto, insomma, che esprime tutto l'anelito del disgraziato e tanto ingiustamente diffamato Re a creare una legislazione che considerasse l'assistenza come una funzione pubblica. Ma egli va più avanti ancora: in questo stesso Editto del 10 febbraio 1836 tenta il primo esperimento legislativo a protezione del lavoro, e cioè la costituzione in Genova di una Commissione «dalla cui autorità dipenderanno in avvenire tutti coloro che in detta città sono in qualità di facchini (camali), impiegati in. trasporti di generi e merci di qualunque natura». Scopo primo della Commissione era quello di «assicurare perennemente la giornaliera sussistenza dei facchini qualora venisse a stagnare il commercio» emanando «regolamenti e tariffe per ogni classe di facchini, della cui condotta morale sorveglierà un giudice legale

Iscrizione obbligatoria che riassume:

        ufficio di collocamento;

        sussidi ai disoccupati;

        tariffe e salari in contesa col datore di lavoro.

Carlo Alberto precursore del sindacalismo operaio e, in embrione, anche della Magistratura del lavoro.

Altri atteggiamenti non meno importanti ebbe Carlo Alberto in favore degli umili, atteggiamenti intesi a sollevarli dalle brutture dell'ignoranza. Valga ad esempio il caso dell'abate Ferrante Aporti: era questi un sacerdote mantovano che si era prodigato nella propagazione dei Giardini di infanzia, diventati in seguito gli attuali Asili infantili. La predicazione, la propaganda dell'Aporti suscitarono l'ostilità di Mons. Fransoni, Arcivescovo di Torino, ligio alle massime della Curia romana. Vietò ai sacerdoti di partecipare alle riunioni di apostolato dell'Aporti, fino al punto di togliergli la facoltà di celebrare la Messa. La più grave delle umiliazioni che si possa infliggere ad un sacerdote.

Ma questo rientrava nelle massime allora in vigore per cui più il popolo è ignorante e più facilmente lo si governa.

Di parere contrario era invece Carlo Alberto, il quale di fronte alle persecuzioni di Monsignor Fransoni, nominava l'Aporti professore all'Università di Torino, poi Rettore Magnifico e lo includeva in una delle prime infornate di Senatori del Regno. L'aveva in pectore per la nomina a Collare dell'Annunziata - che faceva dell'Aporti cugino del Re - ma l'esilio dopo Novara gli impediva di mettere in atto tale suo proposito.

Carlo Alberto fu sempre inesorabile nel tenere separati i due poteri, il religioso dal civile, ossia il Pastorale dalla Spada, secondo la grande concezione dantesca contro la confusione dei due poteri, concezione della quale è pervasa la Divina Commedia. Egli faceva la comunione tutte. le mattine, ma quando Mons. Fransoni tentava di intromettersi nelle questioni, negli affari di Stato lo affrontava sino a minacciarlo di arresto. Arresto che avverrà più tardi sotto Vittorio Emanuele II il quale dopo averlo ammonito e fatto rinchiudere nella fortezza della Cittadella di Torino, lo spediva in esilio a Lione.

Non si può comprendere la complessa figura di Carlo Alberto il " re per tant'anni bestemmiato e pianto», che ispirò il lirismo carducciano, se non si tiene presente ch'egli aveva sulle spalle una pesante eredità: otto secoli di malgoverno degli Stati italiani e le spogliazioni delle occupazioni francesi, durante e dopo Napoleone, spogliazioni che devastarono il piccolo Piemonte. Tutto era da rifare. Lungimirante egli aveva visto nell'iniziativa dell'Aporti uno strumento nuovo per la sua opera - lenta ma tenace - di redenzione del vecchio Piemonte: educare l'infanzia al nuovo sentimento di italianità. D'altronde non era possibile costruire uno Stato con le sole due classi, dei nobili e dei diseredati, mentre la classe sacerdotale glí era dichiaratamente ostile. Occorreva formare una nuova classe di cittadini, il ceto medio, donde uscirà la borghesia. Infatti, diventati adulti i bambini dei giardini d'infanzia, si venne a poco a poco diffondendo una concezione politica che servì potenzialmente a trarli nell'orbita dello Stato.

Intanto con lo Statuto Albertino si accentua sempre più la necessità della organizzazione del lavoro ed ha inizio lo sviluppo in Piemonte delle Società operaie di mutuo soccorso che danno l'ultimo colpo di piccone all'autorità feudale. Ho detto l'ultimo perché la lotta contro il prepotere dei feudatari ebbe inizio già coi primi conti e poi duchi e poi re di Casa Savoia coi loro memorabili Statuti: da Pietro II detto il Piccolo Carlo Magno fino a giungere a Carlo Alberto. Una lotta tenace, costante, metodica che durò ben 500 anni. Fu con i suoi Statuti che Casa Savoia usciva dal Medio Evo ed entrava nel mondo moderno. Il feudalesimo traeva la sua dal «diritto del più forte». Con gli Statuti Sabaudi sorgeva un'era nuova: «il diritto egualitario», cioè la legge uguale per tutti.

Lo Statuto Albertino, emanato malgrado l'opposizione dei potentati stranieri, apriva, con la libertà di riunione e di associazione, la via a nuove organizzazioni economiche in favore delle classi operaie che allora erano per la maggior parte a carattere artigiano. Fu così che sorsero le prime Società di Mutuo Soccorso, tanto maschili che femminili, e mentre i. provvedimenti di ordine sociale si andavano sviluppando attraverso queste nuove organizzazioni, nasceva quello che sarà la base dello Stato moderno.

 

(Simbolo delle Società Operaie di Mutuo Soccorso)

Ma vi ha di più: con lo Statuto Albertino si accentua sempre più la trasformazione del concetto di beneficai; za: essa si basa non più sul cristianesimo elargitore ed elemosiniero, ma diventa un diritto. Questo diritto viene sostenuto dalle nuove società- operaie di mutuo soccorso che a poco a poco vanno assumendo un grande impulso: nel 1851 sono già in grado di riunirsi a Congresso a Torino dove viene fondata la Confederazione Generale delle Società Operaie dello Stato sardo-piemontese.

I congressi si susseguono ogni anno e dopo il 1860 assumono carattere nazionale poiché vi partecipano Milano e Bologna dove le società operaie, iniziano la loro conquista. In questi congressi venivano emesse deliberazioni della più alta importanza, nelle quali predominava il tema della regolamentazione del contratto salariale, avente lo scopo di ottenere l'applicazione di una tariffa normale dei prezzi della mano d'opera e la nomina di comitati per il collocamento degli operai disoccupati. Si doveva altresì provvedere a speciali sussidi alle operaie prima e durante la maternità. Provvedere alle sovvenzioni in caso di malattia dei soci, agli inabili al lavoro, alle cure mediche gratuite, alla pensione all'età di 70 anni.     

Queste società operaie purtroppo ancora ignorate oggi dai più, erano tutte pervase da spirito patriottico. Tipico il Congresso nazionale di Firenze del 1861 al quale parteciparono Guerrazzi, Montanelli e Mazzini che proposero di ammettere la politica nelle discussioni il che avrebbe voluto dire la fine di quei sodalizi nati soprattutto per la difesa dei problemi del lavoro.

Le opposizioni si fecero vivissime e la maggioranza delle società, quasi tutte piemontesi, uscirono protestando dall'aula, anche in considerazione della condotta di Mazzini che si era schierato - con l'invito ai soldati: alla diserzione -contro la spedizione di Crimea la quale segnava l'inizio della guerra di liberazione intrapresa dalla Monarchia con ripreso del Piemonte nel concerto europeo. In conseguenza del tentativo del Guerrazzi, di Montanelli e di Mazzini, venne indetto nell'ottobre dello stesso anno 1861 un nuovo congresso ad Asti che fu detto «riparatore» al quale intervennero le società operaie piemontesi a ristabilire all'unanimità l'intransigenza del loro patriottismo.

E così fallirono anche i tentativi per la creazione di associazioni operaie a carattere repubblicano data la nebulosità della concezione economica mazziniana dell'«associazionismo». Sorte, le nostre mutue, con la divisa dell'amore fraterno, della materna assistenza, della tutela degli interessi del lavoro, della previdenza operaia ed a quelli più alti del patrio risorgimento, non potevano essere insensibili ai richiami del governo invocante la solidarietà fra i cittadini. E due anni dopo - 1866 - per le stesse ragioni dichiaravano la loro solidarietà per la guerra contro l'Austria.

Intanto l'organizzazione operaia avanzava.

Nel 1885 si contano 800 mila iscritti in 5000 società operaie tutte a carattere monarchico. I loro soci intervengono alle pubbliche manifestazioni con la bandiera tricolore in testa portante nel centro lo scudo crociato di Savoia. Degna di rilievo la famosa Federazione del libro della quale fanno sovente cenno le cronache del Lavoro, a carattere nazionale, e che non è altro che la figlia adulta dei primi nuclei nati e cresciuti dopo lo Statuto Albertino.

Forti dello spirito libertario dello Statuto e l'ansia per la soluzione dei problemi del lavoro, le nostre società operaie di mutuo soccorso a poco a poco trasformano il contenuto del loro programma che impostano su nuove formule e nascono così le Camere del lavoro, emanazioni dirette delle Confederazioni operaie monarchiche, e si propongono di rendere più agevoli i rapporti tra capitale e lavoro. Hanno all'inizio un carattere apolitico e tendono soprattutto all'opera di collocamento ed alla difesa dell'orario e del salario, nonché a rendere più agevoli i rapporti fra le parti contraenti. Ne fu primo organizzatore e segretario Angiolo Cabrini che qualcuno di noi ha conosciuto qui a Roma quale rappresentante del Bureau International du Travail. All'inizio avevano una impronta di collaborazione di classe, come si legge in una sua relazione del 1890: «si ritiene che le associazioni miste di padroni e operai, laddove ciò sia opportuno, possono insediarsi nei locali della Camera....».

Più tardi assunsero il carattere di rivendicazioni operaie, profilandosi così la lotta di classe vera e propria, cioè la contesa della ripartizione della ricchezza prodotta nelle fabbriche e nei campi in collaborazione con la classe padronale. Nasceva così un diritto nuovo, il diritto del lavoro. Ma, corrotte da una propaganda demagogica da parte dei politicanti, vennero in seguito sopraffatte dall'odio di classe.

All'alba dell'unità la Monarchia apriva la valvola di sicurezza che avvierà alla soluzione della questione sociale ed hanno inizio le agitazioni operaie. Il problema del lavoro preme alle porte degli opifici e delle conduzioni terriere per la ripartizione della ricchezza prodotta in comune. Ma la situazione economica in tutto il paese è grave. L'eredità dei sette stati è spaventosa. L'unità aveva messo a nudo le condizioni miserande del Mezzogiorno e del territorio pontificio, eredità che pesò per oltre mezzo secolo sul Regno d'Italia. Specialmente le condizioni politiche, economiche, sociali e amministrative della Sicilia erano disastrose. Raccapriccianti le condizioni e gli orrori del lavoro nelle solfatare, che con sforzo tenace la Monarchia cercò di eliminare, avendo come oppositori i feudatari latifondisti, mentre la plebe angariata manifestava i suoi aneliti di libertà e di progresso componendo cortei é avendo alla testa i ritratti del Re e della Regina. Altrettanto grave era la decadenza nel napoletano dove non era ancora spento il sistema feudale.

La situazione si presenta grave ovunque, i mezzi per combattere la miseria sono pochi ed i governi si succedono alla ricerca di soluzioni efficienti, e pertanto la Monarchia si dibatte fra nuvole e baleni.

Nullameno frammezzo a tante difficoltà qualche iniziativa senza dubbio anticipatrice per la soluzione della questione sociale, apparve come emanazione di vecchi organismi di vita collettiva, nati e cresciuti per influsso dello Statuto Albertino e sotto l'egida della monarchia. L'utilità di queste iniziative già si rivelava durante la costruzione del traforo del Cenisio (Fréius) inaugurato nel 1871; opera grandiosa nella quale si dovettero superare difficoltà, che erano sembrate insormontabili, col contributo di una stretta collaborazione fra le maestranze operaie e le imprese costruttrici nonché coi tre promotori ed esecutori di così meravigliosa opera, Sommeiller, Grattoni e Grandis, usciti dal seno della schiera operaia che si prodigò in sacrifici, affrontando disagi e pericoli superiori al comune, ed ottenendo con l'emulazione la perfezione di un'opera d'arte. E la pratica del lavoro fu così maestra da mettere in evidenza gravi difetti nella legislazione allora vigente, rivelando nella loro crudezza le condizioni della classe operaia ancora immersa in una lunga odissea di dolori. Furono così le società operaie che, ispirate, guidate dall'Associazione Generale di Torino, suonarono le loro campane a stormo al fine di ottenere una legge protettrice.

Nel maggio del 1891 Leone XIII lanciava al mondo attonito la famosa enciclica Rerum Novarum nella quale, dopo aver deprecato l'assenteismo dello Stato liberale e basandosi sopra rievocazioni evangeliche, a queste si appella per reclamare la libertà di organizzazione, ma non vuole constatare che di queste libertà già ne fruivano gli organismi associativi compresi quelli cattolici e questo in forza dello Statuto Albertino.

Ma l'Enciclica, se pure ispirata da Leone XIII, non fu opera sua. Leone XIII fu uomo di grande talento, scienziato e latinista di fama mondiale, ma non ebbe alcuna cognizione delle dottrine economiche e sociali. L'enciclica venne compilata da un gruppo di studiosi: il gesuita padre Liberatore, il card. Zigliara, i monsignori Volpini, Mazzella e Boccati. Forse con l'intervento del Toniolo. Croce la definì «la famigerata enciclica vacua di pensiero politico, la quale adulatamente fu chiamata la carta cristiana dei lavoratori». Vuota dí contenuto proprio no: la verità è che in essa non vi ha nulla di nuovo, nulla di originale. I compilatori di essa volendo dare al loro documento una parvenza di originalità rivendicavano il diritto e la libertà di associazione (negato in Francia dalla legge Le Chapellier con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo) ed accennando con duro linguaggio le tristi condizioni dei lavoratori ne davano la colpa al sistema economico instaurato dai regimi liberali. E' vero invece proprio il contrario. Non si può nemmeno discutere il fatto che nulla avrebbe potuto fare la Chiesa senza la carta albertina - pure tanto combattuta e criticata dalla Curia romana - poiché da questa traeva la forza della libertà di organizzazione, mentre dalle società operaie tutte a carattere monarchico apprendeva i concetti della mutualità e della cooperazione sempre ostacolati dal Vaticano in modo particolare durante i pontificati di Gregorio XVI e di Pio IX. Fu proprio con l'economia liberale che il territorio dello Stato Pontificio uscì dall'arretratezza e dalle tristi condizioni dì estrema miseria nella quale era caduto dopo i secoli di potere temporale. Nel Lazio, martoriato dalla malaria, vigeva il regime del latifondo, terra incolta, perché protetto dalla Curia e imperavano salari di fame. Esempio: le trecciaiole pagate 20 centesimi al giorno per 12 ore di lavoro.

 

Ad onor del vero - e qui vi è un'altra contraddizione

nella quale sono caduti i compilatori dell'Enciclica - in essa è ammessa l'esistenza delle « Società di mutuo soccorso, le

molteplici assicurazioni private, destinate a provvedere all'o¬peraio, alla vedova, ai figli orfani nei casi d'improvvisi in¬fortuni, d'infermità, o di altro umano accidente; i patronati per i fanciulli d'ambo i sessi, per la gioventù e per gli adul¬ti ». I compilatori dell'Enciclica della quale ho riportato il breve periodo, non vollero però dichiarare chiaramente che queste provvidenze da loro riconosciute, nacquero sotto l'e¬gida della monarchia.

Caratteristica principale, (della quale è pervaso tutto il documento leoniano), è l'avversione ad ogni soluzione socia¬lista perché dannosa agli operai. Fautrice della proprietà pri¬vata, l'Enciclica cade in contraddizione nel marcato accenno in favore dell'intervenzionismo statale (nazionalizzazione), che è la caratteristica delle comunità socialiste e comuniste, intervenzionismo pericoloso per l'integrità della proprietà che pertanto l'Enciclica afferma di voler favorire e proteggere.

All'attento studioso dei fenomeni sociali non sfugge il merito grande di queste società operaie derivate dallo Sta¬tuto Albertino, le quali hanno preparato non solo l'atmosfera per la soluzione di più. vasti problemi, ma hanno per prime saputo vincere la riluttanza dell'operaio ad assoggettarsi alla disciplina, chiamiamola così, societaria.

* * *

Nel 1890 molte di esse sono già raggruppate in Confedera¬zioni ed è proprio da queste che emanano le Camere del la¬voro. Ma soprattutto esse furono le avanguardie di quelle provvidenze che assumeranno nel futuro una gigantesca im¬portanza.

Vediamo come.

Nel maggio 1891, come abbiamo visto, esce l'Enciclica Rerum Novarum.

 

Ebbene, tutti i postulati sui quali si basano i programmi delle due parti politiche, già erano in atto in Italia per merito delle società operaie a carattere monarchico da almeno 10-20 anni ed alcune da trent'anni. Inutile dunque l'invocazione contenuta nell'Enciclica tendente a reclamare, com'è detto in essa, con intonazione di protesta, «il riconoscimento del diritto dei lavoratori ad associarsi per la difesa dei diritti e la protezione degli interessi minacciati dai ceti economici più potenti»; inutile poiché questo diritto dei lavoratori ad associarsi in difesa dei propri interessi, è implicito nello Statuto Albertino.

Infatti.

Ho qui le Memorie dell'Associazione Generale degli operai di Torino, dal 1850 a tutto il 1882. La pubblicazione segna la data del 1884. Essa riporta i bilanci delle varie organizzazioni operaie, di quasi un decennio prima dell'Enciclica Rerum Novarum e del Congresso socialista di Genova.

Da queste pubblicazioni possiamo rilevare i bilanci delle seguenti iniziative già operanti:

        Cassa di riserva per le pensioni agli inabili al lavoro per vecchiezza o malattie croniche;

        Cassa Particolare Mutua per le pensioni dí vecchiaia;

        Monte sepolture per accompagnare i soci all'ultima dimora;

        Cassa particolare mutua per le pensioni ai vecchi ed agli inabili al lavoro;

        Cassa delle vedove e degli orfani;

        Oneri funerari;

        Biblioteca;

        Compagnia tiratori al bersaglio;

        Sezione Previdenza: Magazzini alimentari, i quali erano autorizzati a battere moneta propria;

        Banca Cooperativa operaia approvata con decreto 5 . maggio 1883;

        Cassa di risparmio.

Va rilevata l'assidua campagna spiegata dalle società di mutuo soccorso, al fine di ottenere una legislazione in difesa del lavoro delle donne e dei fanciulli, propaganda che ebbe lieto risultato con la legge che enumeriamo fra le altre seguenti:

Nel 1891-92 al comparire della Rerum Novarum ed al Congresso socialista di Genova, per. l'opera tenace e lungimirante delle società operaie monarchiche erano già state approvate le seguenti leggi:

. Nel 1851 - legge n. 1192: Abolizione delle prestazioni feudali e decime.

Nel 1859 - legge n. 3595: Cassa di rendite vitalizie per la vecchiaia.

Nel 1859 - legge n. 3725: Legge Casati sull'istruzione pubblica.

Nel 1859 - legge n. 3755: Sicurezza dei lavoratori nelle miniere.

Nel 1873 - legge n. 1733: Divieto dell'impiego di fanciulli in professioni girovaghe.

Nel 1877 - legge n. 3961: legge Coppino sull'istruzione elementare obbligatoria.

Nel 1881 - legge n. 134: Casse pensioni per impiegati statali.

Nel 1882 - legge n. 593: Riforma elettorale che estende il suffragio.

Nel 1886 - legge n. 3657: Divieto del lavoro dei fanciulli negli opifici e nelle miniere.

* * *

 

Ho voluto enumerare le leggi a protezione del lavoro e dell'istruzione pubblica emanate prima della Rerum Novarum e della fondazione del Partito Socialista, perché nei proclami e nei loro programmi, pare che l'impulso alla civiltà ed al progresso derivante dalla soluzione dei problemi del lavoro organizzato e dalle provvidenze sociali abbia avuto inizio con la loro apparizione nella vita pubblica italiana. Credo di aver dimostrato che le tante decantate richieste, sia da parte cattolica che da parte socialista, erano già in atto per iniziativa delle nostre società operaie, alcune da almeno 30-40 anni.

Non voglio chiudere queste mie rievocazioni, senza rilevare che le iniziative delle mutue monarchiche servirono ancora di guida a leggi successive:

- L'Assicurazione infortuni sul lavoro, assurta oggi a grande importanza, annunciata da Re Umberto I nel discorso della Corona del 1898 e concretata in una legge l'anno seguente.

La legge sulla Cassa Nazionale di Previdenza per la invalidità e vecchiaia, ora in clamoroso se pure discusso sviluppo, porta la data del 17 luglio 1898 e la firma di Re Umberto I.

Si susseguono ancora all'inizio del secolo altre riforme di grande importanza sociale. Artefice di tanta sollecitudine, la Monarchia, il governo dei poveri.

Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II, Umberto I, Vittorio Emanuele III, tutti oramai avvolti nella tristezza di una tragedia che ogni giorno sempre più si innalza e si affina, e che il destino ha collocato nel cielo conteso della Gloria sempiterna.

 

MARIO VIANA

lunedì 26 aprile 2021

Pregevolissima nota

 Oggi accadde: 25 Aprile sotto i riflettori



di Francesco Perri

22 APRILE 1946 – Umberto II di SAVOIA, dopo avere personalmente partecipato al Comando delle unità del ricostituito Regio Esercito a numerose operazioni contro le truppe tedesche occupanti, tanto da impressionare lo storico Mack Smith, che scrisse “Umberto pareva cercare una pallottola per sé ” a celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, dichiarava, con decreto Luogotenenziale, il 25 Aprile Giornata di Festa Nazionale: alla luce dei numerosi episodi che videro la strenua resistenza delle piccole e grandi unità italiane dopo l’8 Settembre e, la rapidità con cui i militari di ogni ordine e grado, in ossequio del giuramento prestato al Re ubbidirono ricostituendo i ranghi e volgendo le armi contro i tedeschi.

In molti casi, prodigandosi tra mille pericoli e difficoltà, per proteggere la popolazione civile offrendo se stessi, in cambio di ostaggi per placare la furia nazista, (Salvo D’Acquisto, e i Carabinieri Sbarretti, Marandola e La Rocca): potrebbe ben dirsi che i militari non hanno assolutamente partecipato alla Resistenza, ne tantomeno gli si può adattare la definizione di “partigiani”.

Essi hanno semplicemente continuato la consegna di rivolgere le armi ”ovunque gli fosse additato dalla Maestà del Re” e, così, possiamo ampiamente osservare quanto sarebbe stato più facile e funzionale agli scopi operativi che le formazioni partigiane irregolari, avessero offerto più viva collaborazione alle truppe nazionali regolari anziché condurre una guerra parallela che, come si vedrà in seguito, aveva numerose aderenze con la Russia di Stalin.

Eppure la ricorrenza non ha mai tenuto conto del suo istitutore ne le varie fazioni dei comitati di Liberazione nazionale si sono mai ricordati dell’ impegno della Regina che ha attivato un ampio spettro di conoscenze e Lei stessa ha accompagnato in più occasioni diverse personalità di rilievo della resistenza attraverso il confine svizzero.

Fonte: https://www.veritasnews24.it/oggi-accadde-25-aprile-sotto-i-riflettori/

domenica 25 aprile 2021

Draghi: le prime delusioni.



Favorevole al nuovo governo, solo per il confronto con il precedente, e per la speranza che un esperto del mondo economico e finanziario tornasse a far navigare la barca Italia, arenatasi per il Covid e relativi provvedimenti restrittivi delle attività industriali e commerciali, non possiamo che essere delusi per le riaperture tardive ed ancora parziali previste dal 26 aprile. 

Conservare il coprifuoco dalle 22 alle 5 fino al 31 luglio, quando le giornate, grazie all’ora legale, sono le più lunghe dell’anno, è un colpo gravissimo per il turismo nazionale ed internazionale, che si aggiunge al consiglio negativo dell’ambasciata USA al viaggio in Italia dei loro cittadini! si sfiora il ridicolo consentendo l’apertura ai ristoranti che abbiano spazi all’aperto, quando, specie nei centri storici, i ristoranti più famosi si trovano in locali privi di questa possibilità esterna o quando per le seconde case si mettono limiti alle presenze con divieti assurdi di genitori che non possono ospitare figli o nipoti, o figli che a loro volta non possono ospitare i genitori. 

Ecco la delusione ! Evidentemente Draghi , nei settori estranei alla sua storica attività , non è riuscito a superare le resistenze dei cosiddetti esperti, avallata da ministri incompetenti, chiusi nel terrore del virus che hanno inoculato nella maggiorana della popolazione, facendole accettare privazioni della libertà superiori a qualsiasi precedente in caso di epidemie. 

Ancora oggi si mettono in luce gli aspetti numerici negativi, mentre aumenta il numero dei guariti, confermando il carattere di questo virus, pericoloso, ma non mortale, se preso in tempo, come accade per tutte le malattie. 

Quanto poi all’argomento decisivo per questi provvedimenti restrittivi che nella Costituzione vi è la tutela della salute, sarà bene ricordare che nel primo articolo della stessa Costituzione si afferma essere il lavoro la fondamenta dello Stato , e non la disoccupazione che ha raggiunto cifre impressionanti e la cessazione di decine e decine di migliaia di attività! 

Forse il primo articolo ha meno peso ?

Domenico Giglio

Capitolo XXIII: Carnera e la rivincita contro Maloney.

 


 di Emilio Del Bel Belluz

 

Primo s’imbarcò nuovamente per raggiungere l’America. Il viaggio in mare era durato molto più del previsto. A New York era aspettato per degli incontri che erano stati pianificati dagli organizzatori americani che avevano firmato dei contratti con Léon Sée. Al molo lo accolsero in molti, i giornali avevano dato la notizia del ritorno di primo Carnera, il gigante italiano. Alla banchina lo presero subito in ostaggio dei giornalisti sportivi, che lo tempestarono di domande. L’argomento principale era quello relativo al suo prossimo incontro con l’uomo che lo aveva sconfitto: Maloney. Gli porsero alcune domande piuttosto impertinenti. Gli domandarono, perfino, se non fosse stato meglio che rimanesse a combattere in Europa, dove gli sarebbe stata più facile la vita pugilistica. A queste domande aveva risposto con un sorriso, non voleva dare alcuna spiegazione, il futuro passava attraverso questo suo match con Maloney e sapeva che non avrebbe perso. Aveva scommesso anche con sua mamma che avrebbe dato filo da torcere al suo avversario e voleva la rivincita al più presto. Nei primi giorni di permanenza in America, riprese la via della palestra, e nelle pause pranzo andava a mangiare nella trattoria del suo amico napoletano, e si sentiva come a casa sua. Quando era ritornato lo avevano festeggiato, e si accorse che nel ristorante avevano appeso delle nuove foto che lo ritraevano durante il combattimento con Paulino Uzcudum, e ne fu felice. La figlia del padrone gli fece avere degli articoli di giornale che erano usciti in quei mesi che parlavano di lui, li aveva ritagliati come faceva sempre. Le piaceva essere utile al campione. In quei mesi al ristorante erano venute alcune persone, che volevano sapere le abitudini di Primo, e chiedevano spesso di mangiare allo stesso tavolo. Il ristoratore era felice, e sentiva nelle sue vene scorrere il sangue italiano. Si era convinto che avrebbe lavorato ancora qualche anno e poi sarebbe ritornato in Italia, perché la nostalgia per il suo paese era come un vulcano che eruttava sempre, e non la si poteva controllare. Parlò di questo anche con Carnera, che poté solo approvare. I giorni che seguirono furono duri, intensi, e non c’era tempo per pensare che all’allenamento. Carnera non mancava mai alla messa della domenica, e gli sembrava di essere al suo paese. Sua mamma sarebbe stata felice se lo avesse visto mentre pregava davanti alla Madonna. Ogni persona nella vita cerca qualcosa di trascendente in cui credere e Carnera l’aveva trovata nella fede in Dio. Nei giorni successivi incorse in un brutto infortunio, riportando una costola lussata e la guarigione sarebbe stata lunga. Ma lui, dopo una settimana, il 5 marzo 1931 avrebbe dovuto disputare il match di rivincita contro Maloney. La preparazione era stata molto accurata, ma i dolori per la costola lussata si facevano sentire. Fu interpellato un medico che disse che era meglio rinviare il match, la costola aveva bisogno di riposo assoluto, altrimenti le cose sarebbero peggiorate. Il suo manager e l’allenatore Paul Journée chiesero un rinvio agli organizzatori, ma questo risultò impossibile ottenerlo. La macchina organizzativa si era messa in moto, e si erano investiti molti soldi, il rinvio era impossibile. Carnera come sempre non si disperò, la sua rabbia aumentava sempre più e il suo coraggio non venne meno. Il combattimento si svolse il 5 marzo 1931 all’arena Southern Madison Square Garden di Boston. Quella sera erano presenti almeno ventimila persone, ma gli organizzatori ne aspettavano molte di più. I giornalisti presenti a bordo ring erano decine, il fumo nella sala sembrava una nebbia; nelle prime poltrone c’erano degli esperti della box e uomini facoltosi che avevano pagato molti soldi. Carnera al suo ingresso fu accolto da tanti applausi e dalle grida del pubblico. Aveva con sé la sua bandiera sabauda che faceva sventolare, molti italo-americani gridarono il suo nome, e alzarono i vessilli con lo stemma sabaudo. Carnera si spogliò e si vide una grande fasciatura, ma il suo volto era sorridente come sempre. Il suo avversario non fu salutato con lo stesso affetto, questa volta non era a casa sua. Alle operazioni di peso che si erano effettuate a mezzogiorno Primo Carnera pesava 274 libbre e Maloney 199. Durante il match le sue fasciature attorno al torace si allentarono come era prevedibile, l’avversario sapeva quale fosse il suo punto debole e ogni tanto, quando gli riusciva, colpiva in modo scorretto. “Le prime riprese dell’accanito combattimento furono in vantaggio dell’americano che danzando intorno al suo grosso avversario riuscì replicatamente a toccare con secchi “jabs” evitando la reazione di Carnera. Il gigante non si scoraggiò e continuò a perseguire l’agilissimo avversario tentando di chiudere la distanza e poter piazzare i suoi potenti colpi. Durante il secondo round Maloney andò al tappeto essendo scivolato ed altrettanto capitò a Carnera nella quarta ripresa; ma gli incidenti non ebbero conseguenza alcuna, come fu senza conseguenza un colpo che arrivò sotto la cintura di Carnera durante l’ottavo tempo. “Primo”, che sostenne senza dar segni di stanchezza le dieci movimentate riprese, piazzò il suo sforzo massimo negli ultimi tre tempi e cercò con accanimento di abbattere l’avversario, ma per quanto riuscisse ad aggiudicarsi queste tre riprese convincendo così i giudici che gli assegnarono la vittoria, non pervenne mai a scuotere seriamente il bostoniano. Un momento che sembrò decisivo si ebbe nell’ottavo round quando il gigante riuscì a chiudere alle corde l’agile avversario ed a colpirlo con una serie di colpi, ma nessuno di essi arrivò con quella precisione necessaria per troncare le gambe all’abile Maloney. Forse se Carnera avesse attaccato a fondo quando ancora era fresco, avrebbe potuto conquistare una vittoria prima del limite, ma la mobilità e la scaltra tattica del “vecchio fanciullo di Boston”, gli impedirono di sviluppare la potenza delle lunghe leve prima dell’ottava ripresa” (La Gazzetta dello Sport). Carnera era felice, aveva avuto la sua rivincita contro l’avversario che gli aveva rovinato la sua ascesa al titolo dei massimi. Il campione fu festeggiato dagli italiani che erano venuti a vederlo e che avevano scommesso su di lui. Gli sarebbe piaciuto festeggiare questa vittoria con una presenza femminile, quella sera durante il combattimento ne aveva viste di belle ragazze e si era accorto di come lo guardavano. Ma si accontentò di bere qualche bicchiere di vino al ristorante, assieme ai suoi tifosi e al suo manager che pensava già di prendere accordi per il prossimo match. Quella sera Carnera fece la conoscenza di un pugile che aveva visto sulla copertina del giornale di boxe “The Ring “: si trattava di Jonny Grosso. Costui aveva radici italiane, combatteva in America con alterna fortuna, ma era considerato un ottimo peso massimo. Grosso era fiducioso che Carnera presto sarebbe stato il campione del mondo, talmente certo che gli chiese se poteva incontrarlo nella sua prima difesa del titolo, magari in Italia. Carnera con il suo volto sorridente annuì. Quella sera, parlando con Grosso gli chiese cosa ne pensasse di Sharkey, un pugile che avrebbe di sicuro incontrato nei prossimi mesi, almeno così si diceva. Grosso si era allenato con lui e dandogli una pacca sulla spalla di Primo gli disse che lui non avrebbe avuto seri problemi e che lo avrebbe battuto. Grosso confidò che aveva molta nostalgia dell’Italia, la patria che aveva nel cuore e che seguiva quello che stava facendo Mussolini in quel periodo, e gli sarebbe piaciuto vederlo. La famiglia di Mussolini era molto legata a Carnera e amava il pugilato. Grosso non aveva avuto molta fortuna nella vita, si arrangiava con piccoli lavori per vivere, ma sperava che il futuro gli serbasse ancora dei giorni fortunati. Quell’anno aveva combattuto una sola volta e aveva perduto il match. Ora confidava di rifarsi, gli avevano proposto un secondo combattimento che sperava di vincere. Boxava per guadagnare la sua borsa, con quei soldi manteneva la famiglia. Carnera lo confortò, dicendogli che si sarebbero di sicuro rivisti, magari al combattimento più importante. Grosso lo salutò con una pacca sulla spalla. Primo quella sera mangiò di buon gusto una grande bistecca al sangue, la costola gli faceva male, perché durante il match era stata duramente colpita. Il 15 giugno 1931 otteneva una facile vittoria contro Pat Redmond alla prima ripresa e il suo periodo positivo continuava. Nello stesso tempo scrisse alcune lettere alla mamma, sapeva che non stava tanto bene ed era preoccupato, il suo cuore era con lei. Spesso in quei momenti di apprensione andava al porto, per vedere la navi che salpavano e avrebbe voluto partire anche lui per l’Italia. Al porto era molto conosciuto. Talvolta si recava a trovare un suo amico pugile che aveva conosciuto in America. Si era ritirato da qualche anno e conduceva una vita tranquilla. Aveva sposato una donna americana che gli aveva dato tre tigrotti, come li chiamava lui. I piccoli erano sempre con il padre che giocavano e Carnera amava questa famiglia, gli faceva ricordare la propria. Ogni tanto mangiava da loro e non gli facevano mancare la polenta e qualche bicchiere di vino buono. Con il vecchio pugile, a volte, andavano al porto per osservare il mare e l’andirivieni della gente. Carnera non passava inosservato, con quei muscoli possenti che avrebbero sollevato il mondo. La vita di Primo in quei mesi era contraddistinta dai duri allenamenti, sotto la guida di Paul Journée che non lo lasciava mai. La boxe alla fine era il suo lavoro. Nei mesi che seguirono sostenne alcuni incontri. “Prima tappa a Buffalo dove Torriani, un pugile italiano da molto tempo in America, si presenta per dar la replica a Carnera. Non può però resistere più di due riprese, era il 26 giugno. Da Buffalo a Toronto il 1 luglio, dove il non più giovane Bud Gorman è facilmente messo Ko in due round. Il 24 luglio Carnera è a Rochester, dove lo affronta un pugile europeo che godeva di una certa fame nel vecchio continente : Knute Hansen. Dal forte nordico si attende una resistenza ad oltranza, invece dopo due soli minuti il match finisce con la vittoria dell’italiano per Ko. La rapida corsa continua ed ai primi di agosto Carnera è ingaggiato prima a Newark poi a Wellington per combattere contro due suoi connazionali : Roberto Roberti e De Carolis. Tanto il fiorentino quanto il pugilatore di Norcia, non possono però far molto di più dei loro colleghi americani incontrati dal gigante in questo scorcio di tempo. Roberti dopo una coraggiosa difesa, provoca l’intervento dell’arbitro che arresta il combattimento prima che finisca la terza ripresa e il norcino rimane al tappeto per il conto totale durante il secondo tempo”. Carnera era felice d’aver battuto gli ultimi avversari, gli dispiaceva solo che due fossero italiani e di averli maltrattati sul ring , in una terra lontana dalla patria. Uno di loro era Armando De Carolis, da anni viveva in America, però gli mancava la sua amata e soleggiata Italia. Dopo il combattimento si era trovato con lui, avevano passato la serata assieme, si era parlato della possibilità per Carnera di affrontare il tedesco Max Schmeling per il titolo mondiale, ma erano solo ipotesi, perché nessuno conosceva il futuro di Primo. Armando De Carolis era una persona simpatica, e gli aveva consigliato di avere pazienza, aveva già fatto molto, e questa sua fama si era talmente diffusa in America che i manager per organizzare un match cercavano spesso degli italiani. In questo stato ve ne erano alcuni, e lo sfidarli comportava una maggiore presenza di pubblico e, quindi, delle borse più sostanziose. Quando trovava un connazionale Primo era felice di intrattenersi a parlare con lui della loro cara patria.

 

sabato 24 aprile 2021

Napoleone: fu vera storia

 

 

di Aldo A. Mola 

L' “ardua sentenza”...

A distanza di due secoli si può rispondere all'interrogativo posto da Alessandro Manzoni (Milano, 1785-1873) in Cinque Maggio: “Fu vera gloria?”. Oggi si può pronunciare l'“ardua sentenza”: Napoleone il Grande fu “vera storia”. Cattolico non senza ambasce, nella stagione degli Inni sacri e delle tragedie (Il conte di Carmagnola e Adelchi) il poeta e scrittore milanese conferiva al sostantivo gloria un valore aggiunto, morale, che in sé originariamente esso non ha. Manzoni ritenne di dovere distinguere la nomea imperitura conquistata dall'Eroe con imprese memorabili talora atroci, svettanti e abissali a un sol tempo, e la gloria “vera”, riservata non tanto a chi raggiunge fama universale, ma al campione di valori positivi, al “cavaliere dell'umanità”, novello Baiardo senza macchia e senza paura e soprattutto senza imputazioni di sorta. Di lì la sua esitazione a tracciare il bilancio del quarto di secolo dominato da Napoleone, che aveva sulle spalle azioni spregiudicate come l'arresto di Cadoudal, poi suppliziato, e il rapimento e fucilazione del duca di Enghien (“più che un delitto, un errore” osservò Charles-Maurice di Talleyrand, “vescovo apostata” di Autun (come scrive p. Giovanni Sale S.J. in “La Civiltà cattolica” del 15 aprile 2021).

Da poeta “morale” (come avrebbe osservato Dante), sulla futura “ardua sentenza” Manzoni insinuò condizioni che debbono stare al di fuori sia dell'accertamento processuale di colpevolezza, sia della storiografia. Nel primo i magistrati debbono accertare e valutare i fatti non sulla base delle proprie inclinazioni personali, bensì secondo le leggi, che non sono mai retroattive (nullum crimen sine lege). Senza dover ricordare la lezione di Benedetto Croce, il giudizio storiografico vero è formulato correttamene se ci si cala nell'epoca e nelle vicende degli uomini sui quali si “indaga”, senza pretendere di impartire lezioni al passato remoto. Ne conviene padre Sale che giustamente dissente da valutazioni retrospettive anacronistiche, “anche perché spesso i personaggi storici, come anche gli eventi della storia, possono essere giudicati e letti in modo differente a seconda della sensibilità e degli orientamenti psicologico-culturali di chi li valuta e, soprattutto, della cultura dominante in un certo periodo storico”. Vale per i pontefici e gli ecclesiastici cattolici del passato prossimo e remoto, come per gli “eresiarchi” (Giovanni Calvino fece bruciare vivo Michele Serveto per mero dissenso teologico), nonché per gli imperatori, re, principi e capitani come Cesare Borgia ammirato da Niccolò Machiavelli in Il Principe, capolavoro del discernimento oggi raccomandato da papa Francesco.

Quando correttamente rinviò ai “posteri” l'“ardua sentenza” Manzoni interpretò dunque la necessità di lasciar decantare il tempo. La pula si sarebbe separata dal chiccho, la fanghiglia si sarebbe depositata sul fondo; l'acqua, tornata limpida, avrebbe fatto distinguere il durevole dal contingente, l'imminente dall'immanente, permettendo di cogliere i raggi della “vera gloria”.

 

Napoleone, Uomo cosmico-storico

Nel 1821 sull' “immagine” dell'Imperatore si allungavano le ombre del trentennio di conflitti che avevano sconvolto l'Europa, inclusa la feroce guerrilla degli spagnoli contro francesi e afrancesados (1808-1813), prima lotta per l'indipendenza nazionale, assunta a modello dai Fronti di liberazione nei due secoli seguenti, compresi quelli contro il dominio coloniale europeo negli spazi afro-asiatici, dall'Algeria all'Indocina (ma possiamo aggiungervi anche quelli nell'America latina contro regimi dittatoriali tenuti per le dande dagli Usa: valga il caso della Bolivia di “Che” Guevara).

Gigante buono per gli uni, Mostro tirannico per gli altri, Napoleone era già stato collocato nella giusta cornice dal Giorgio Guglielmo Federico Hegel, che lo aveva definito “Genio del mondo”. L'imperatore non era solo un “se stesso”, il trentacinquenne asceso dalla difficile adolescenza e da imprese azzardate e sfortunate per l'indipendenza della sua nativa Corsica a dominatore dell'Europa, vittoria su vittoria, da Marengo ed Ulm e ad Austerlitz e a Iena. Era Uomo cosmico-storico. Vi è motivo di rileggere il filosofo nella traduzione delle Lezioni sulla filosofia della storia pubblicata da Guido Calogero e Corrado Fatta nell'ottobre 1941 (ed. La Nuova Italia), all'indomani dell'“Operazione Barbarossa” e poco prima che la guerra europea divenisse nuovamente mondiale. Gli individui cosmico-storici, scrisse Hegel, “afferrano lo spirito universale superiore” del Tempo e “ne fanno il loro fine”. Sono “lo spirito che batte alle porte del presente, che è tuttora sotterraneo. Gli altri debbono loro obbedire perché lo sentono. I loro discorsi e le loro azioni sono il meglio che poteva essere detto e fatto. Così i grandi individui storici si possono comprendere solo al loro posto”, cioè quando “lo stato del mondo non è ancora conosciuto” ed essi “lo producono trovandovi la propria soddisfazione”. Certo gli individui cosmico-storici “soddisfano dapprima sé medesimi: non agiscono affatto per soddisfare gli altri (...) resistere a questi individui è impresa vana. Essi sono spinti irresistibilmente a compiere la propria opera. C'è in essi un potere sopra loro medesimi”. Sono, in sintesi “condottieri di anime” al cui seguito si pongono anche quanti non lo comprendono appieno e persino li avversano ma ne sono fascinati, attratti, rapiti e ne divengono comunque seguaci. Hegel non lo scrive ma si può aggiungere che sono demoniaci, pervasi dal dàimon che, anziché frenarli, li sospinge ad andare sempre oltre, anche al di là dei propri stessi “sogni”: Alessandro Magno, Caio Giulio Cesare e i veramente grandi navigatori ed esploratori, gli inventori e gli scienziati che hanno cambiato il mondo, i poeti, i compositori, gli artisti che hanno dato forma universale alle “voci” che i più sentivano senza saperle tradurre in Verbo e questo in Atto, come Giovanna d'Arco, arsa viva e secoli dopo proclamata santa.

 

Dalla giovinezza, sottotenente d'artiglieria (l'“arma dotta”), guardato con degnazione perché da poco citoyen e poi dalle amicizie sospette (quella con Augustin Robespierre, fratello del giacobino e terrorista Massimiliano rischiò di costargli cara), Buonaparte (cognome di non facile pronuncia in francese) accompagnò gli studi giovanili di matematica, balistica e geografia e le velleità letterarie, consegnate al romanzo che gli meritò la “comprensione” postuma dei tanti “colleghi mancati”, con la lettura appassionata dei classici della storiografia greco-romana, in specie le Storie di Polibio e le Vite parallele di Plutarco. I suoi modelli erano i grandi capitani dell'antichità, gli strateghi che nei secoli avevano colto la vittoria con geniali manovre, gettando infine nella mischia i reparti di élite, tenuti di riserva per infliggere il colpo finale e menare strage dei vinti. Per quegli uomini cosmico-storici i combattimenti non erano carneficina e dispendio di vite umane ma Arte della Guerra e i terreni delle battaglie non erano lugubri distese di morte ma campi della Gloria. Immorali o quanto meno “amorali”, per chi si fermava allo spettacolo desolante dei cadaveri e dei feriti (spesso destinati al trapasso) ai suoi occhi erano, se si preferisce, affermazione di altra e più alta moralità: la carne che si fa Spirito, l'azione tumultuosa che diviene sviluppo dell'Idea.

 

Dalla prima campagna militare condotta dall'Armata d'Italia in autonomia di decisione (1796-1797), Napoleone mostrò la sua personale concezione dell'impiego della forza militare. Come intuito dai coevi Jomini e Clausewitz la guerra è in tutto e per tutto politica, accelerazione della maturazione dei tempi, sintesi del trapasso dalla potenzialità all'atto. Sbaragliare gli eserciti austro-sabaudi in poche settimane, imporre esosi armistizi, profittare delle illusioni di chi, come Foscolo, lo celebrava “liberatore”, salvo constatare che trattava la Repubblica di Venezia quale pedina di un gioco europeo, molto più ampio dell'ottica locale, uscire temporaneamente dalla scena franco-italica per colpire l'Inghilterra in India, passando dall'Egitto e dal Vicino e Medio Oriente (dalla battaglia delle Piramidi all'assedio di San Giovanni d'Acri) segnarono il cambio storico). Esso sfuggì ai Termidoriani e al Direttorio, espressione di una nuova casta impastata di borghesi arruffoni e aristocratici trasformisti, come anche ai seguaci del visionario Caio Gracco Babeuf. Esaurita la spinta innovatrice della Rivoluzione (diritti dell'uomo e del cittadino, avvento della nazione, avvio di profonde riforme sociali), uomini come Barras concepivano l'espansione della Francia come ingorda rapina. Ma la Rivoluzione non era affatto conclusa: mancavano i nuovi codici e il rinnovamento dello Stato. A restituirle  impulso non furono l'annessione di Malta, sottratta all'Ordine dei Cavalieri di San Giovanni, e la “spedizione in Egitto”, col seguito di cinquecento tra gli esponenti della cultura d'avanguardia cresciuta nella lettura dell'Enciclopedia di Diderot e d'Alembert e delle opere di Voltaire (non solo Candide o La Pucelle d'Orléans, poi tradotto da Vincenzo Monti, ma quelle di storia, su Luigi XIV, le più pregnanti). A risvegliare i già insonnoliti post-rivoluzionari provvidero gli austro-germanici vittoriosi sulle armate francesi sul Reno e in Svizzera e soprattutto l'irruzione dei russi di Suvorov per la prima e sino ad ora unica volta nella Pianura Padana. I popoli della penisola e delle grandi isole erano abituati da secoli a invasioni e scorrerie, perché (come aveva osservato Francesco I di Francia che vi si affacciò nel 1515) non c'era terra migliore per condurre una guerra: campi ubertosi, ricche città, abitanti volgenti alla codardia e facilmente succubi. Da spartire nelle lunghe guerre per l'egemonia. Lo ripeté pari pari il generale Buonaparte nel proclama all'Armata d'Italia (aprile 1796). Ma i cosacchi di Suvorov non erano le feroci “compagnie di Santa Fede” del cardinale Ruffo o le “masse cristiane” di Branda de' Lucioni: erano satanassi. Compirono ruberie e menarono stragi che nessuno imaginava. Di lì l'urgenza della riscossa, a nome della Francia, dell'Europa centro-occidentale e quindi di una nuova idea della Missione del potere politico-militare. Da quell'humus in pochi mesi nacquero i cosiddetti “colpo di Stato” del 18 brumaio (9 novembre) 1799, il Consolato e infine la proclamazione dell'Impero dei francesi per voto popolare (romanamente plebiscito) e il sacre del 2 dicembre 1804 in Notre Dame a Parigi, presente e silente papa Pio VII, come poi il cardinal Caprara nel Duomo di Milano per l'incoronazione di Napoleone a Re d'Italia (Lombardo-Veneto, ex ducati padani per secoli “a noleggio” e Legazioni pontificie): completa della Corona Ferrea, simbolo della monarchia in Italia.

Tre anni dopo, nel 1808, Napoleone capovolse la clessidra. Dopo aver ripristinato il calendario giuliano, cancellando quello repubblicano, ormai fastidioso, fece deportare il pontefice e ne inglobò lo Stato, ma in forma labile. La svolta epocale venne il 20 marzo 1811 quando conferì il titolo di Re di Roma a Napoleone Francesco Carlo Giuseppe, il figlio avuto dalla seconda moglie, Maria Luisa d'Asburgo.

Quel giorno la Città Eterna (e con essa l'“idea di Italia”) rischiò davvero di rimanere inchiodata per sempre nella condizione di provincia dell'Impero napoleonico: da caput mundi a periferia della storia.

 

La sindrome di Sant'Elena

 

Sconfitto in Russia (1811-1812), battuto a Lipsia (1813) e poi sul Reno, costretto all'abdicazione (Fontainebleau, aprile 1814), il 26 marzo 1815 Napoleone salpò dall'Elba per la Francia. Guidò la spedizione dei mille e cento imbarcati sull'“Inconstante” e sei piccole navi d'appoggio alla volta della Costa Azzurra dove tutto era iniziato tra il 1793 e il 1796. In dieci giorni raggiunse Lione. Il 14, con voltafaccia prevedibile, schierò con lui il maresciallo Ney che aveva promesso di portarlo in gabbia di ferro a Luigi XVIII, subito fuggito da Parigi. Il 20 rientrò a Fontainebleau. Quaranta giorni dopo, il 1° giugno 1815 annunciò solennemente al Campo Marzio in Parigi l'Atto Addizionale, redatto con il consiglio di Benjamin Constant, che lo aveva strenuamente avversato dall'esilio svizzero e ora concorreva alla svolta “liberale”. Ancora una volta Napoleone era l'Età Novella. In armi. Precorse l'invasione nemica irrompendo in Belgio. Il 12 batté l'inglese duca di Wellington, mentre Ney sconfiggeva i prussiani. Il 18 la battaglia decisiva a Waterloo. A lungo la vittoria sembrò a potata di mano, ma nell'ora decisiva anziché de Grouchy (inetto o infido?) sul campo arrivò Bluecher. Fu la fine. Chi non cadde sul campo, come Cambronne (“La Guardia muore ma non si arrende”: un motto tante volte riecheggiato nelle due guerre mondiali), finì prigioniero e suppliziato (come Ney). L'Imperatore tornò a Parigi e per la seconda volta abdicò a favore del figlio, l'Aiglon. Persa la speranza d'imbarcarsi per gli Stati Uniti, si consegnò agli inglesi sul “Bellorophont”: meglio che la fucilazione da parte di Bluecher.

L'8 agosto iniziò la sue deportazione verso l'“isoletta sperduta nell'Atlantico”. A Sant'Elena giunse il 15 ottobre. Vi visse prigioniero col seguito dei suoi fedelissimi, sorvegliato dall'arcigno Hudson Lowe. Iniziò la sua nuova vita. Non quella del Memoriale dettato a Las Casas. Ormai era l'Inquietudine dei due mondi. Il Congresso di Vienna non riportò l'Europa all'Ancien Régime. Molti e profondi mutamenti erano irreversibili. In Svezia il maresciallo napoleonico Bernadotte dette inizio alla dinastia tuttora regnante.Con il Blocco doganale continentale Napoleone anticipò l'Europa odierna. La Gran Bretagna si tenne fuori dalla Santa Alleanza ideata dal cancelliere austriaco Metternich, tra impero asburgico, Russia, Prussia, Francia e stati di minor peso, inclusi il regno delle Due Sicilie e quello di Sardegna.

Il 1815 non fu mera Restaurazione neppure in Francia. Luigi XVIII di Borbone regnò col vincolo di una costituzione. I re che ne avevano concessa una, salvo abrogarla, dalla Spagna a Napoli, vissero con l'incubo delle rivendicazioni liberali, che non tardarono a manifestarsi con cospirazioni, insorgenze, moti.

 

e la Rinascita dell'Italia

Il 1°aprile 1817 venne pubblicato a Londra il Manuscrit venu de Saint-Hélène d'une manière inconnue (ed. John Murray, Alemarle Street). Nel 1982 l'ambasciatore e storico Sergio Romano ne scrisse la storia (ed. Bompiani). Già a giugno Napoleone ne ebbe estratti e li confrontò con quanto aveva vissuto e stava narrando di sé.

Dallo scoglio sperduto tornò il cuore dell'Europa. Innumerevoli furono i progetti di colpi di mano per liberarlo; altrettante le fiabe sulla sua fuga; molti non credettero affatto che fosse davvero morto il 5 maggio 1821. Il cinquantaduenne sepolto all'ombra di due salici a Sant'Elena non era, non poteva essere, “Lui”. E infatti visse di nuova vita. Era Osiride, quale venne e tornò a essere celebrato nei templi massonici nei due secoli seguenti. A quella vera luce si ispirarono il Risorgimento e l'Italia unita, foriera di indipendenza, libertà, progresso civile, uguaglianza nella legge, con la guida di Vittorio Emanuele II. Il suo beneaugurante “Governatore”, Cesare Saluzzo di Monesiglio, gli aveva donato la “spada di Napoleone”; per “simbolo” della regalità in Italia il sovrano sabaudo scelse, a sua volta, la Corona Ferrea.

 

Aldo A. Mola

 

DIDASCALIA. Napoleone Primo Console: le dita a compasso del Legislatore, un messaggio cifrato verso l'Impero del Sole (Dipinto di Jean Auguste Ingres).

martedì 20 aprile 2021

Il libro azzurro sul referendum - XXI cap - 5


 

V. - Il Ministero delle cifre nascoste

Se furono veramente inscritti nei registri elettorali del Regno numero 23.021.375 i cittadini aventi diritto all'elettorato attivo per il solo fatto di «aver compiuto gli anni 21», in ipotesi è da ammettersi che debbano essere stati emessi altrettanti certificati elettorali.

Infatti, dal prospetto n. 13 a pag. XXIV del volume « Note illustrative e documentazioni  sulle Elezioni dei Deputati alla Costituente e sul «referendum” Istituzionale del 2 giugno 1946» pubblicato nel 1948 dall'Istituto Centrale di Statistica, si rileva che la somma indicatavi dei certificati elettorali in possesso degli elettori n. 26.482.808 - e dei certificati non consegnati” (giacenti) n. 1.516.043 - è «di 27.998.851», corrispondente - salvo le trascurabili differenze in meno - alla cifra dichiarata degli elettori inscritti. Ciò, fra altro, sta a dimostrare che i supposti «errori di emissione» (omissioni o duplicati) incidono in misura irrilevante.

Siccome nelle Tabelle e nei Prospetti dell'Istituto Centrale di Statistica tutte le somme tornano, può pensarsi che le cifre «ufficiali» siano esatte.

Vero; però si osserva: non si dice «a chi» siano stati consegnati i 26.482.808 certificati «in possesso degli elettori». E si domanda, se per avventura non siano compresi in quel numero - inscritti, e scritti i loro nomi sui certificati - i «1.609.975 elettori presunti» che si son già rilevati. E ancora si domanda se non sia ammissibile che i certificati relativi siano stati «consegnati» ad un congruo numero di elettori veri, già muniti del proprio certificato legittimo -- od anche a giovani «aspiranti elettori» - in funzione di una preordinata organizzazione preelettorale di cui pure si è fatto chiaro cenno.

Comunque, quel «1.609.975 elettori presunti» - e si dica pure «inventati», non può trovare il suo posto nei conteggi elettorali. È fuor di dubbio che siano «certificati esuberanti», ma non possono essere gabellati come «duplicati per errore», né tanto meno possono compensarsi con i «certificati non consegnati” (giacenti), il cui numero, 1.516.043, a un dipresso corrisponde.

Perché anche dei «certificati non consegnati» non si dice, neppure per ipotesi, quali siano le categorie di elettori che non avrebbero potuto o voluto riceverli. Mentre è fuor di dubbio che tali categorie possono essere, e sono, ben definibili.

Già per conto suo l'Istituto Centrale di Statistica avverte, e precisa, dei 26.603.537 certificati «consegnati», non ne sono stati consegnati, perché «ritirati agli elettori», n. 120,.639 i, dì cui n. 86.593, a causa di morte, n. 25.990, per «sospensione», e n. 8.146... «altri» ...per motivi imprecisati o imprecisabili; il che sta a indicare che, - essendosi accorti di « morti” e di sospensioni dall'elettorato attivo» - gli uffici elettorali funzionavano bene, quando volevano, e quindi non si può ammettere che abbiano « sbagliato” emettendo «duplicati di certificati» per la cifra ingente di oltre un milione e seicentomila, pari al 6% dei certificati da emettersi.

È troppo noto clic le categorie di cittadini che «non hanno potuto ricevere» o, «andarsi a prendere» il certificato «non pervenuto all'esatto domicilio», sono costituite - oltre che dagli «esclusi per legge», il cui numero, nel mio primo studio, avevo valutato in 25.00=; e furono infatti 25.990 gli elettori ai quali il certificato, già loro consegnato, «venne ritirato d'ufficio” a causa di «sospensione del diritto elettorale» —

a)      dagli Ufficiali delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana, che furono perfino individualmente «diffidati»;

b)      dai cittadini che si trovavano nelle carceri o nei campi di concentramento, per «motivi politici»;

c)      dai sottoposti a procedimenti di «epurazione»;

d)      dai morti - di cui gli uffici anagrafici non avevano ancora registrato il decesso - a causa di «esecuzioni partigiane»;

e)      dai congiunti dei cittadini di cui alle categorie a), h), c), e d), che per intimidazione o per timidità si guardavano bene di andare a richiedere il certificato non ricevuto;

f)       dai prigionieri di guerra «non rimpatriati», ed erano allora circa 250.000;

g)      dagli sfollati non ancora rientrati al luogo originario di residenza, o rimasti inscritti nella residenza temporanea che già avessero lasciato;

h)      dai cittadini residenti all'estero o comunque assenti dalla loro residenza, e questi normalmente costituiscono dall'I% all'i,2o% della popolazione.

Nel mio primo studio, avevo valutato che le su elencate categorie potessero rappresentare, nel complesso, circa due milioni o due milioni e mezzo di elettori «non provvisti, comunque, di certificato elettorale». La cifra complessiva così come le cifre parziali, non desumibili da dati certi né rilevabili a fonti dirette, aveva più che altro valore largamente indicativo. Nel presente studio, voglio ammettere che il numero degli elettori appartenenti alle su elencate categorie corrisponda «praticamente» al numero di 1.516.043 «certificati non consegnati», o «giacenti», e cioè «non potuti comunque ricevere dai loro legittimi aventi diritto». Ma ciò esclude a maggior ragione che, di quei certificati, possa mai dirsi che si trattava di «duplicati per errori di emissione».

Avvicinandosi alla conclusione, restano ferme queste cifre:

-        Popolazione italiana alla data dei 31 dicembre 1945 (escluse le provincie di Bolzano e delle Venezia Giulia)     : 44.019.000

-        Indice di maggiore età (proporzione percentuale dei cittadini che hanno compiuto il ventunesimo anno di età): 60%

-        Cittadini elettori di diritto: 26.441.400

-        Elettori «presunti», inscritti (o dichiarati per tali) in soprannumero sugli elettori legittimi: risultanti dalla differenza fra la cifra «dichiarata” (28.021.375) e la cifra «reale» (26.441.400) dì elettori legittimi: 1.609.975

...dalle quali si deducono queste altre cifre:

- Elettori «VOTANTI»: vale a dire elettori che hanno partecipato «fisicamente» alle votazioni, muniti di legittimo certificato, e che hanno espresso «comunque», anche deponendo «schede bianche», la loro volontà: risultanti dalla cifra «dichiarata” di votanti (voti validi più voti nulli = 24.946.942) depurata degli elettori «presunti” e quindi «inesistenti» (1.609.975): 23.336.967

- Elettori sprovvisti di certificato elettorale (certificati «non consegnati” o giacenti): 1.516.043

- Elettori «muniti di certificato», ma volontariamente astenutisi: 1.558.390

... che, sommati, riconducono alla cifra degli Elettori di diritto, a cui corrisponde il numero dei certificati legittimi, in: 26.411.440

 

Vien fatto di osservare che, sommando fra loro le cifre dei «certificati giacenti» e degli elettori «astenutisi dal recarsi alle urne», si ha un totale di «3.074.433; aggiungendovi i circa 750.000 elettori delle provincie di Bolzano e della Venezia Giulia, si eleva ad oltre 3.800.000 cittadini Italiani elettori di diritto i quali, rappresentando insieme il 15% del corpo elettorale, non hanno votato, in parte (9%) impediti di farlo, in parte (6%) astenutisi per una volontà «negativa» sulla quale non è affatto certo possa escludersi che abbiano sovente influito i «timori e minacce di un clima politico eccezionalmente agitato».

Per completare le considerazioni - strettamente attinenti ai risultati del «referendum» quali furono ufficialmente comunicati, ed accolti, con lievi rettifiche, nell'accennato volume commento e documentazione dell'Istituto Centrale di Statistica - resta da realizzare nelle sue componenti caratteristiche, la cifra dei voti nulli, che risulta rettificata in 1.509.735.

Nel volume citato, l'Istituto Centrale di Statistica precisa:

- Schede bianche: 1.146.729

- Schede nulle: 333.905

- Voti nulli, o contestati: 29.101

- Totale: 1.509.735

e annota: «Le schede bianche» rappresentano voti non espressi; le schede nulle contenevano tracce di scritture o segni che potevano ritenersi fatti artificiosamente; i voti nulli erano in gran parte costituiti da schede sulle quali i votanti avevano espresso il voto per entrambe le forme istituzionali, oppure in modo da non far apparire chiaramente la loro volontà.

Quanto sopra, è importante sia tenuto presente, particolarmente nel considerare che la percentuale più alta di schede bianche - che presuppongono agnosticismo, o ignoranza primitiva, dell'elettore - si riscontra nell'Italia Settentrionale (5,40%), dove è più opinabile l'agnosticismo, e la più bassa in Sicilia (3,30%). Per contro, la percentuale più alta di schede nulle o contestate (2,60%), si riscontra in Sicilia, dove prevalgono nettamente i voti monarchici, e la più bassa (1,10%), nell'Italia Settentrionale, a prevalenza nettamente repubblicana.