NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 31 ottobre 2018

Il Re e il Generale Diaz

Segnaliamo su Raiplay la trasmissione "Passato e presente" di Paolo Mieli.



Al centro di questo primo appuntamento, due personaggi chiave per le sorti del primo conflitto, che Mieli analizza con il professor Marco Mondini: Vittorio Emanuele III, il Re soldato, e il generale Armando Diaz, il duca della vittoria, chiamato dal sovrano l'8 novembre 1917 a sostituire il generale Luigi Cadorna come Capo di Stato Maggiore dell'esercito italiano dopo Caporetto. Nel momento peggiore del conflitto, in un clima di sfiducia e di diffidenza da parte degli alleati sulla determinazione dell'Italia a resistere e a riscattarsi dalla terribile sconfitta, il re soldato e il generale Diaz sapranno riportare l'esercito italiano sulla strada giusta, fino alla liberazione di Trento e Trieste e alla conclusione vittoriosa del conflitto.


VIÙ. Dalle Valli alla Cupola del Guarini


In occasione della riapertura della Cupola del Guarini, è tornata a Torino la Principessa Maria Gabriella di Savoia. Qualche intervista, tanta emozione e l’inaugurazione di una mostra sulla Sindone Palazzo Madama dove molte delle stampe e miniature esposte fanno parte della collezione della Fondazione Umberto II e Maria Josè di Savoia a Ginevra, da lei stessa fondata. 


Umberto II era suo padre e fu lui ad iniziare una collezione di opere sindoniche che conservò, fino ad inizio degli anni ’30, in Val di Viù e precisamente nella chiesetta di Biolaj, una borgata oggi abbandonata, sopra Richiaglio lungo l’antica mulattiera un tempo principale collegamento interno alla Savoia quando le Terre di Margherita erano le uniche rimaste al Ducato. 
A Richiaglio, Umberto II e le sue sorelle trascorsero lunghe estati con la balia e lì, ancora oggi, sul campanile della chiesa, una targa ricorda l’ultimo saluto del Principe al paese prima dell’esilio. Era l’anno 1930. Fu allora che il Principe portò via con sé la raccolta di opere sindoniche.

La reliquia Sindone, importantissima per l’immagine dei Savoia sin dal 1453 (anno di acquisizione), è sempre stata sapientemente utilizzata dai Savoia per ricordare la gloria della dinastia. Alla Galleria Sabauda di Torino è esposto un dipinto significativo e restaurato, proprio in previsione della riapertura della Cappella della Sindane. Si tratta di un dipinto di Giovanni Marghinotti (Sarzana 1802, La Spezia 1869) che immortala il Duca Carlo III (presente anche nell’affresco di Voragno) in atto di venerare la Sindone al castello di Chambery. L’opera, il cui restauro ha permesso di mettere in evidenza anche i sottilissimi tratti con cui il pittore aveva raffigurato sul Lenzuolo il volto ed il corpo di Cristo, fu commissionata da Re Carlo Alberto nel 1844 nell’ambito del programma di celebrazione della dinastia sabauda. In quell’occasione, Carlo Alberto commissionò anche un’altra opera in cui il Beato Amedeo IX (erede della Sindone) fa l’elemosina ai poveri (1842). La scena è ambientata a Chambery e l’opera è di Camillo Pucci (Cagliari 1798 – 1865) che rappresenta il Beato Amedeo IX ed alcuni membri della famiglia reale nell’atto di dispensare l’elemosina ai sudditi riconoscenti.  Anche in questo caso la raffigurazione riporta un preciso messaggio: il Re che dispensa l’elemosina è santo e garante della pace. 
Entrambe le opere, di notevoli dimensioni e facenti parte della collezione dei Musei del Palazzo Reale, destinate ad essere collocate ai lati del portale di accesso alla Cappella della Sindone. Il restauro è stato presentato nel corso di una serata a Palazzo Reale ad inizio anno, da Enrica Pagella, Direttrice dei Musei Reali ed oggi concluso con la restituzione al pubblico delle due opere. I quadri erano notevolmente danneggiati a causa di perdita di tensionamento della tela, infiltrazioni di umidità, presenza di sostanze carboniose e colature della vecchia vernice protettiva.
 Ad ognuno di questi danni si è provveduto con specifiche tecniche (applicazione di adesivi, riadesione, termocauterizzazione, pulitura selettiva, reintegrazione materi, ecc.) sino ad ottenere il restauro completo ma senza interpretazioni non filologicamente corrette.



martedì 30 ottobre 2018

Il pilota Vincenzo Contratti nel centenario della sua morte


di Emilio Del Bel Belluz

Sono giorni che ho nel cuore la preghiera di Tommaso Gallarati Scotti, dedicata agli aviatori. 
Questa preghiera mi era talmente piaciuta che conoscevo questi versi a memoria. 
“ Volano per L’Italia e hanno una madre/in terra che li attende. Veglian su di noi dai cieli della Patria/ e tu su loro veglia,/o Vergine degli Angeli Maria!”. 
Questa parole così belle mi fecero venire in mente un pilota che, ironia della sorte, morì pochi giorni prima della fine del conflitto mondiale, a Ghirano di Pordenone, vicino a Portobuffolè. 
Il suo nome è Vincenzo Contratti ed è stato ricordato il 9 agosto 2018, a cent’anni dalla memorabile impresa dannunziana, il famoso volo su Vienna, cui aveva partecipato ma un guasto al motore l’aveva costretto a rientrare anticipatamente. 
Vincenzo è sepolto nel piccolo e raccolto cimitero di Portobuffolè. Questo aviatore del Re Vittorio Emanuele III, morì in un combattimento il 28 ottobre di cent’anni fa. Il suo aereo fu abbattuto da un pilota austriaco. 
Cadde e fu ricoverato nell’ospedale di Portobuffolé, dove trovò la morte da eroe, poco dopo. I vecchi narravano di questo aviatore, che fu composto da umili mani, che avevano nel cuore il dolore di madre. 
Ho trovato scritto che Emma Battistella con alcune profughe triestine, compose la salma. Non so se i piloti austriaci gli abbiano tributato gli onori, ma la guerra era ormai verso la soluzione finale. Non so se sulla sua bara fosse stata distesa la bandiera sabauda, quella del Re. 
L’aereo fu abbattuto dal pilota Luwdig Hautzmayer, comandante della squadriglia di caccia 61 Flick J di stanza a Motta di Livenza. Il pilota che vinse era alla sua settima vittoria, che fu anche l’ultima. Vincenzo Contratti morì a soli 24 anni, nel fiore della vita, ma sapeva che ogni volta che si sale su un aero la vita è consegnata nelle mani di Dio. 
Il cielo degli eroi è pieno di uomini che si sono immolati per la patria, ma spesso il destino è beffardo, come lo fu con lui. L’eroismo non conosce tramonto e ricordare i cent’ anni dalla sua morte è un dovere di ogni persona, come porre un fiore sulla sua tomba. 
Il pilota austriaco che lo abbatté, alla fine della guerra, ritornato nella sua terra, consapevole che il destino degli ufficiali non era più il cielo, lasciò l’esercito, morì al comando di un aereo passeggeri nel 1936. 
Strano destino che ha unito questi due eroi, che hanno combattuto con lealtà. Sulla tomba di Vincenzo Contratti vi sta scritto:  

VINCENZO CONTRATTI fu LUIGI
di anni 25
Tenente Pilota
della Serenissima
colpito da piombo micidiale
il 28 ottobre 1918
mentre arditamente dal cielo
inseguiva il nemico in rotta
attende l’Angelo della Resurrezione

A cent’ anni dalla sua morte ho voluto onorarlo ponendo sulla sua tomba, una rosa, la bandiera del Regno del Re Vittorio Emanuele III e la poesia – Un cespuglio di rose – dedicata a un caduto italiano, dello scrittore austriaco Walther Maria Neuwirth che combatté durante la Grande Guerra, a Motta di Livenza.

“ Riposa in pace, quieto mio nemico.
Io devo proseguire, chissà per quanto ancora.
A primavera rifiorirà la tua pianta di rose.
Forse un giorno verrà la ragazza
Che ora ti piange e inconsciamente
staccherà una rosa imbevuta di sangue”.


(foto di Carlo Verardo)

Di nuovo il "fantasma" di Re Umberto II

Sia chiaro che riportiamo queste notizie farlocche a mero titolo di curiosità.
Non vi prestiamo il minimo credito. Lo staff


Apparizione di spiriti in Piazza? Ora indaga l'acchiappafantasmi.
Tante  segnalazioni, arriva l’esperto. L’ombra di Re Umberto II

Siena, 29 ottobre 2018 - «Lo spirito di Umberto II di Savoia è apparso sotto la Torre del Mangia». 

[...]


Quattro persone che erano di passaggio nella Torre asseriscono che intorno alle 20,45 si è avvicinata una figura molto alta, vestita con abiti chiari e alta circa due metri che si è presentata come Umberto II di Savoia: ha chiesto indicazioni per Roma, ha fatto due profezie singolari ed è scomparsa nel muro della Torre».
[...]
https://www.lanazione.it/siena/cronaca/acchiappafantasmi-piazza-1.4265810

lunedì 29 ottobre 2018

Dalla battaglia del Solstizio a quella di Vittorio Veneto - II parte


Fu appunto in quei quattro mesi che il nostro insigne Maestro e Poeta E. A.Mario, per quanto non ancora edita, si prodigò a far diffondere fra i militari al fronte la leggendaria « Canzone del Piave », che fu unanimamente accolta col più vivo entusiasmo e subito imparata a memoria sia nelle strofe che nella musica e cantata, ovunque, ad ogni piè sospinto, tanto da richiamare la commossa attenzione persino del Gen. Diaz che, qualche giorno prima del balzo finale delle sue Armate, ebbe ad esclamare che quella Canzone « valeva più di un Generale! » Quelle note, infatti, facevano vibrare profondamente l’animo dei combattenti e rispecchiavano l’ansiosa attesa del popolo nella fiduciosa realizzazione di un evento che si sarebbe certamente verificato. Al riguardo, ho ritenuto opportuno stralciare da un articolo del giornalista Diego Angeli, pubblicato su « Il Giornale d’Italia » del 18 ottobre 1918, e cioè pochi giorni prima della strepitosa controffensiva, il seguente toccante episodio, avvenuto in quell’epoca, in un Ospedale di Roma, ove trovavansi ricoverati, per convalescenza, parecchi nostri militari provenienti dal Piave, a seguito di ferite riportate in combattimento: 

«Ad un certo punto, qualcuno dei soldati ha cominciato a cantare la Canzone del Piave ”... Oh, molto pianamente, molto modestamente... Ma, a poco a poco, il canto ha preso il sopravvento. Quella specie di nenia — che è bella di sentimento e di nostalgia — si è dilagata per la sala, ripresa in coro da tutti i presenti e nessun canto ha mai avuto una suggestione più grande. Quei giovani non erano stanchi della vita, non erano sazi di spettacoli teatrali e mondani, non erano ammalati di snobismo intellettuale! Tutti avevano sul braccio il piccolo segno argenteo del loro eroismo, qualcuno aveva anche tre o quattro sbarrette.

«Molti avevano il petto fregiato di medaglie al valore. E venivano dal Piave; e quella Canzone — che è piena di malinconia — era un pò la loro vita; la storia dei giorni in cui molti di essi, come loro, morivano combattendo, per impedire che il nemico passasse; dei giorni in cui noi, col cuore stretto, con l’ansia che ci serrava la gola, aspettavamo i bollettini del Generale Diaz, per sapere se i nemici erano stati finalmente arrestati. Giorni di angoscia che sembravano rivivere nel ritmo dolente di quella cantilena. E vi assicuro che, nel sentire quei soldati cantare quella canzone, molti occhi si sono inumiditi». L’Italia dunque ed il suo Stato Maggiore in guerra potevano fare completo affidamento su tutte le Forze Armate e sul morale elevato di tutti i dipendenti militari, persino su quelli più volte feriti e che, cantando la «Leggenda del Piave», ancora convalescenti in Ospedali, anelavano di ritornare presso i loro compagni di arme al Fronte!
Ed era questo lo spirito dei nostri valorosi combattenti, alla vigilia della poderosa offensiva sagacemente preparata dal Generale Diaz, che ci portò alla trionfale Vittoria della guerra 1915-18 e che sintetizzo nella trascrizione dell'ultimo superbo Bollettino di Guerra N. 1268 del Comando Supremo in data 4 novembre 1918: 

«La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, Duce Supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia, ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte 51 Divisioni Italiane, 3 Britanniche, 2 Francesi, 1 Ceco-Slovacca ed 1 Reggimento Americano, contro 64 Divisioni Austro-Ungariche, è finita. La fulminea, arditissima avanzata del 29° Corpo d’Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle Armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della 7“ Armata e ad oriente da quelle «della 1*, 6“ e 4“ Armata, ha determinato ieri lo sfacelo totale del fronte avversario. Dal Brenta al Torre, l’irresistibile slancio della 12“, dell'8", della 10* Armata e delle Divisioni di Cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. 

«Nella pianura S.A.R. il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta 3° Armata, anelante di ritornare sulle sue posizioni, da essa già gloriosamente conquistate, che mai aveva perdute.

«L’Esercito Austro-Ungarico è annientato; esso ha subito perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni di lotta e nell'inseguimento ha perduto « quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi « magazzini ed i depositi; ha lasciato finora nelle nostre mani 300.000 prigionieri con interi Stati Maggiori e non meno di 5000 cannoni.

«I resti di quello che fu uno dei più potenti Eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza ».

Diaz

Dal Quartiere Generale del Comando Supremo. 

4 Novembre 1918

 Indietreggiò il nemico

 fino a Trieste, fino a Trento...
 e la Vittoria sciolse le ali al vento!



Con questa quarta ed ultima strofa e nello stesso giorno del 4 Novembre 1918, il nostro Insigne Poeta e Cantore del Piave E. A. Mario completò mirabilmente la Sua e la nostra più cara e più patriottica Canzone, che dalla Leggenda passò alla Storia, contribuendo anch’essa al glorioso epilogo della luminosa e trionfale Vittoria.

Una degna e significativa definizione esaltatrice di questo poema canoro, che da cinquantanni suscita la spontanea commozione del popolo italiano, sia in Patria che all’estero, fu scritta e pubblicata qualche anno dopo la scomparsa del Maestro e Cantore del Piave, dal Dott. Lucio d’Ambra. Ritengo ché' valga la pena oggi, nel Cinquantenario di Vittorio Veneto, di riprodurre qui di seguito la bella esaltazione di questo scrittore, col fiducioso auspicio che i giovani delle nuove generazioni e, in particolare, gli alunni delle Scuole, imparando le note ed il canto della immortale « Leggenda », ne apprendano il significato ed il vero motivo che fece, a suo tempo, vibrare il cuore dei loro genitori e dei loro nonni, allorché furono chiamati in armi a completare la redenzione della Patria, nella sua unità, nella sua libertà, e nella sua indipendenza: « Ascolta sempre con religione profonda, nipote, quest’inno che forse a te  sembra, così lontano dagli eventi, una semplice canzone di guerra. No. Esso fu la voce di tutto un tempo, il canto di una stagione italiana, la musica dei venti anni di tuo padre. Odine bene la doppia voce: par lieta, ma è grave; par solenne, ma sorride. E’ insieme — trombe e sordine, tamburi, si, ma sottovoce, — è insieme fanfara e marcia funebre, peana ed epicedio. E’, sì, la voce vittoriosa del Piave che respinge il nemico. E’, sì, il canto della Patria che ricaccia fino all’Alpi, sino al mare, il temerario invasore. Ma è anche, e sopratutto, il canto del sacrificio, la voce degli Eroi sepolti, il ricordo di mezzo milione d'uomini caduti, l’elegia guerriera e funebre, nel medesimo tempo, di tanta divina giovinezza umana, per la Patria composta in eterna sepoltura. Senti tu con l’anima, nipote, il gran senso di lontananza che ha questo canto? Senti tu il mistero che sale su a poco a poco dalle sue note e prende l’animo in fondo in fondo? Quella lontananza, nipote, è l’infinito di un’altra vita, come quel mistero è certamente il segreto di un altro mondo, dove gli Eroi del Piave — a Italia fatta, a Italia più grande e grandissima, fatta da loro — s’incoronarono d’eterno alloro su quelle pallide fronti che per Lei, per l’Italia, lì, sul Piave, un giorno si curvarono per sempre sopra il greto insangui nato o nelle acque del Fiume Sacro, del fiume indigete, di tutti gli Italiani ».

La figura artistica, morale e patriottica di E. A. Mario, ai fini di un omaggio di gratitudine imperitura, fu presa particolarmente a cuore, dopo la morte del Maestro e Cantore del Piave (24 giugno 1961), dal Senatore a vita Prof. Avv. Giovanni Leone, che il 24 maggio 1964 si degnò onorare della Sua presenza la solenne cerimonia che si svolse al Cimitero Monumentale di Napoli, ove nel «Recinto degli Uomini Illustri», fu scoperto un degno busto marmoreo, offerto dal Comune, in onore alla Memoria dell’insigne Autore della « Leggenda », nel triennio della Sua dipartita.

Dopo la commemorazione del Sindaco, elevate parole furono anche pronunciate dall'illustre Parlamentare, che già precedentemente, su richiesta del Comune di Napoli e della famiglia del Maestro, aveva dettato una nobile epigrafe scolpita su apposita lapide di marmo, a piè del monumento, che qui si trascrive:

 Cantò l’amore, il dolore

 L’ebbrezza dei fiori e delle stagioni,
Il suggestivo fascino di Napoli.
In una delle ore più oscure della Patria

Il Suo epico canto si levò
A risvegliare gli animi.

Ad accendere l’estremo vittorioso eroismo.
Giovanni Leone

Con tale gesto solenne, la figura gloriosa di E. A. Mario fu già consacrata alla Storia, ma anche alla stessa Storia, indelebile ed imperitura, i vecchi combattenti di tutte le Armi e di tutte le guerre, invocano oggi che sia consacrata la «Canzone del Piave», col riconoscimento di essa da parte del Governo, quale Inno ufficiale della Nazione.


domenica 28 ottobre 2018

La bandiera sabauda


di Emilio Del Bel Belluz

In questi giorni mi sono tornate alla mente le tante immagini che ho visto alla televisione sul centenario dalla fine della Grande Guerra. 
Ormai manca poco all’anniversario e ci saranno ancora migliaia di commenti, mostre in tutto il Paese e discorsi ufficiali di uomini politici. 
Penso al Presidente della Repubblica che parteciperà a tante manifestazioni. Quello che mancherà in queste sfilate commoventi sarà una bandiera, quella del 1918, il vessillo del Re Vittorio Emanuele III, il Re soldato. 
Quella bandiera che si vide garrire al vento nei campi di battaglia, la stessa che aveva ricevuto il giuramento dei soldati italiani, non è esposta, guai a ricordare che l’Italia di un tempo era quella monarchica, guidata dal Re Vittorioso Vittorio Emanuele III. 
Allora da monarchico mi vengono in mente delle parole scritte da Macchiavelli: “E’ regola generale che gli storici dei popoli vincitori facciano cadere in dimenticatoio la storia dei vinti, e non è infrequente il caso che essi mettano i segni della loro vittoria anche sui monumenti e glorie precedenti. Così Paolo Emilio vincitore di Pidna , impose la sua statua sulla grande stele di Delfi che già reggeva la statua di Perseo”. 
Questo accadrà anche il 4 novembre, quei soldati che morirono per il Re saranno orfani della loro bandiera sabauda che nel bene e nel male rappresentò l’ultimo atto della loro vita da eroi. Allo stesso tempo, non mi stupisco nel vedere che, in tanti cimiteri italiani molte lapidi di nostri eroi della Grande Guerra, sono nell’abbandono più totale. 
Molti di questi nostri eroi, per ragioni di spazio, sono finiti negli ossari, disperdendo il vero significato e la volontà che essi avevano espresso. Quando muore un soldato per la patria andrebbe ricordato onorando la sua tomba, ma la nostra società non ha tempo per queste cose. 
Penso alla pagina di un giornale che mi inviò il poeta e scrittore Ermanno Contelli di Pasiano di Pordenone che diceva:“ L’altro giorno visitai il cimitero austriaco. Saranno più di duemila morti, ognuno una croce e una targa nera, per lo più Ungheresi. All’ingresso sta una tabella e su una pietra lessi a caratteri cubitali questa iscrizione: - "Italiani! Se colle vostre gloriose avanzate arrivate in queste vostre terre, non profanatele con le armi e rispettate questo camposanto. Conservatelo, poiché, dopo questo flagello, quando saremo ancora amici, conserveremo delle lacrime negli occhi per bagnare le zolle che ricoprono i nostri congiunti“. 
A Rivarotta, in provincia di Pordenone, in un piccolo cimitero ci sono ancora alcune tombe dei caduti austriaci, che dormono il sonno eterno. Un giorno vi accompagnai lo scrittore di Vienna, Whalter Maria Newirth che aveva scritto molti libri, tra cui uno dedicato a quei soldati, - Isonzo - Piave - Montello. Questo scrittore aveva allora, nel 1996, cent’anni, si commosse davanti a queste tombe e volle onorare anche le tombe di qualche caduto italiano, portandovi un fiore.

Il ruolo di Vittorio Emanuele III, il Re Soldato, nella “Grande Guerra”

Il parere del Gen. Luigi Ghezzi

(b.m.) – La 12^ battaglia dell'Isonzo o “Battaglia di Caporetto”, conclusasi con la ritirata al Piave che terminò il 9 novembre 1917, assunse quasi la fisionomia di una guerra perduta. Non poteva non avere ripercussione sugli Alleati, sui cui ricadeva parte di responsabilità dell'insuccesso italiano, avendo loro sempre considerato il fronte italiano secondario e di conseguenza rifiutato l’invio di truppe in l'Italia. Inoltre, prima dell'offensiva austro-tedesca, avevano ritirato perfino alcune batterie date prima in rinforzo.

Di qui il 6 novembre a Rapallo si incontrarono gli alleati per unificare l'indirizzo delle operazioni sui vari fronti, costituire un comitato di guerra interalleato e trattare gli aiuti da inviare in Italia. Presenti per l'Italia Orlando- Presidente del Consiglio, Sonnino- Ministro degli Esteri, Alfieri, Bissolati e il S.Ca.SM- Gen. Porro; per l'Inghilterra Lloyd George e i generali Smults, Robertson- Ca.SM Imperiale e Wilson; per la Francia Painlevé, Franklin, Bouillon, l'ambasciatore Barrère e il Gen. Foch.

Purtroppo né i Politici né il Gen. Porro seppero delineare esattamente la situazione delle forze italiane onde sostenere l’idoneità della linea difensiva del Piave (i Generali Robertson e Foch, ancora sfiduciati, propendevano per il ripiegamento sull’Adige, perfino sul Mincio/Po) e dare loro sicuri elementi di giudizio per decidere sull’invio in Italia di alcune divisioni. Eloquente la testimonianza dello stesso Lloyd George, che, come risaputo, è sempre stato favorevole - fin dalle riunioni di Roma della primavera e dell’estate del 1917 - a portare tutti gli sforzi dell'Intesa sul fronte italiano per far fuori definitivamente l’Austria. Egli narra come, a Rapallo, Robertson e Foch avessero ancora grandi dubbi sulla convenienza di portare aiuti all’Italia e come lui stesso avesse avuto un' "impressione negativa" dalla esposizione della nostra situazione militare fatta dal Gen. Porro. Pertanto i Capi di governo e gli SM alleati ritennero necessario conferire con il Re. Fu indetto quindi per il giorno 8 il convegno di Peschiera.

A Rapallo fu esclusivamente decisa la costituzione di un Consiglio Supremo di guerra, composto dal primo ministro e da altri membri del Governo di ciascuna delle grandi potenze occidentali belligeranti e l'esonero del generale Cadorna da capo di Stato Maggiore dell'Esercito italiano. Niente più.

A Peschiera Vittorio Emanuele III parlò con calma, chiarezza ed equilibrio, senza esagerare, né nell'ottimismo né nel pessimismo. Illustrò ai convenuti le condizioni dell'esercito italiano, spiegò con grande lucidezza le cause dell'insuccesso riconducendone alle giuste proporzioni le conseguenze e precisando il carattere di esso; affermò con commossa parola le virtù militari del suo esercito, ne escluse la dissoluzione, ne confermò i propositi di resistenza e di rivincita; difese la linea difensiva sul Piave scelta da Cadorna e dichiarò che per il momento la sua difesa sarebbe stata fatta solo dagli Italiani e, per ultimo, espresse con tanto calore la propria fede nel risveglio della coscienza nazionale da parte di tutti, tanto che gli ascoltatori tutti ne furono assai impressionati e convinti. Lloyd George, nelle sue memorie riporta: "Io sono stato molto impressionato dalla calma e dalla forza che egli dimostrò in un'occasione come quella, in cui il suo Paese e il suo trono erano in pericolo. Egli non tradì alcun segno di timore o di depressione. Pareva ansioso solamente di cancellare in noi l'impressione che il suo esercito fosse fuggito…” e poi ancora “…dissipò tutte le debolezze, troncò tutte le titubanze.” Prosegue “… S.M. il Re, non chiese aiuto, chiese soltanto fiducia. Riuscì anche a sdrammatizzare il momento citando un vecchio proverbio popolare: alla guerra si va con un bastone per darle ed un sacco per prenderle, disse !” Ad un certo punto, riporta il verbale del convegno, Lloyd George e Painlevé riconobbero in quel piccolo italiano un uomo dalla testa quadra e dai nervi saldi a cui potevano affidare le loro preziose divisioni; chiamarono sir William Robertson e Foch e impartirono le necessarie istruzioni.

Terminato il convegno gli Alleati si ritirano per andare a pranzo altrove. Vittorio Emanuele resta nello stanzone dell’incontro nella palazzina. Con lui restano al freddo - la stufa da tempo ha finito la legna - Orlando e Sonnino; assieme mangiano in silenzio con l’aiutante di campo del Re - il Marchese Solaro del Borgo - ciò che lo stesso Vittorio Emanuele si era portato appresso nel paniere, come ogni giorno durante le sue visite al fronte: delle fettine di carne fredda e delle uova sode. Dopo mangiato, Orlando sottopose al Re il testo per un messaggio alla Nazione.Egli prese il foglio e, per il buio che era nella stanza, si avvicinò alla finestra per leggere. Fuori pioveva a dirotto. Convenne subito, che il testo era troppo drammatico e pessimista. Aveva un esordio troppo allarmistico. Bisognava ridimensionare Caporetto.

Il Re di suo pugno modificò il testo, iniziando il proclama col dire “…il nemico favorito da uno straordinario concorso di circostanze…ecc. ecc.” e terminando, appellandosi alla concordia di tutti, combattenti e non combattenti:“Italiani, cittadini e soldati ! Siate un Esercito solo. Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è tradimento, ogni recriminazione è tradimento. Questo mio grido di fede incrollabile nei destini d'Italia suoni così nelle trincee come in ogni più remoto lembo della Patria; e sia il grido del popolo che combatte e del popolo che lavora. Al nemico, che ancor più che sulla vittoria militare conta sul dissolvimento dei nostri spiriti e della nostra compagine, si risponda con una sola coscienza, con una voce sola: tutti siamo pronti a dar tutto, per la vittoria e per l'onore d'Italia!”

A merito del Re va anche la scelta di Diaz al posto di Cadorna.  Alcuni zelanti dello Stato Maggiore sostenevano che Diaz, era una “nullità”. D’accordo, non era che un comandante di un Corpo d'Armata; aveva, sì, diretto un dipartimento del Comando Supremo, ma non si era distinto per azioni particolarmente brillanti o clamorose; il Re lo scelse però non per meriti particolari, ma per le sue doti umane. Indubbiamente, quel Re silenzioso, che si aggirava nei campi di battaglia, Diaz lo aveva conosciuto per quelle doti, che non avevano nulla a che vedere con i piani di battaglia. E dato che il "marmittone" reale, "re soldato per caso", era un attento (e molto introverso) osservatoresapeva che i soldati avevano di che motivare la loro ostilità verso Cadorna. Davanti ad un esercito non professionista ma di massa e di analfabeti, i Comandanti più che farsi capire da chi non poteva capire, dovevano loro, che erano in grado di comprendere,cercare di capire. Era più importante la questione "psicologica" che non quella "militare". Diaz non era un   genio della strategia! Non importava gran che: i piani di battaglia li fanno i giovani tenenti colonnelli di stato maggiore freschi di studio e di entusiasmi. Il nuovo comandante doveva occuparsi di ben altro, del "morale" dei soldati.

Diaz infatti non era per niente un ripiego! ha 56 anni, è di poche parole e di sentimenti liberali, non è ossessionato dalla politica. Al contrario di Cadorna ed altri, è tra i meno pessimisti: non si sottrae alle responsabilità, sa fare autocritica ed ha ben chiaro cosa occorra fare. Condivide con il Sovrano la fiducia nel soldato italiano e da questo è ricambiato nella considerazione. Egli, da tempo, ha capito che le spallate frontali non portano a nulla. L’operato tedesco messo in atto a Caporetto l’ha definitivamente convinto che occorre cambiare metodo: basta con la difesa di linea! la difesa va organizzata per capisaldi in profondità e le artiglierie (vds. l’articolo sul n. 4/2013: 15 giugno- Festa dell’Artiglieria) dovranno essere alla bisogna direttamente “collegate” con tali capisaldi, per il fuoco di aderenza: sbarramento e arresto, in difensiva; appoggio, in offensiva.

 Per risollevare il morale e l’efficienza dei combattenti effettua rotazioni più frequenti tra reparti in linea e quelli a riposo nelle retrovie. Viene altresì migliorato il rancio e le licenze sono concesse più facilmente; vengono distribuiti manuali di tattica ai minori livelli per professionalizzare gli ufficiali subalterni, specie quelli di complemento, al nuovo modo di combattere. Non disdegna iniziative non prettamente militari quali la propaganda e il“buon umore”. Promuove infatti la stampa di giornali nelle trincee: sono giornali dai nomi divertenti, che servono a raccontare aneddoti, notizie curiose, …servono a pubblicare caricature, a prendere in giro il disagio e la paura stessa, a sdrammatizzare insomma la situazione.

In 12 mesi di comando, cioè fino alla battaglia di Vittorio Veneto, Diaz non esporrà mai le forze in offensive di grandi dimensioni senza la certezza del successo. Sa bene infatti che la brillante vittoria sul Piave del 15 giugno non ha potuto avere seguito per deficienza di forze e di mezzi, come altrettanto bene sa che gli Austriaci, sotto la guida e con il concorso degli alleati germanici, si sono ben presto ripresi dalla demoralizzante sconfitta, hanno ricostituito le unità con forze numericamente superiori alle nostre e sono saldamente organizzati in posizioni fortissime. Bisogna aspettare il momento favorevole per giocare il tutto per tutto. Resistette quindi alle insistenze del Presidente del Consiglio Orlando che era impaziente di attaccare, temendo la fine della guerra senza una chiara vittoria italiana (in un esasperato telegramma questo gli affermava di "preferire all'inazione la sconfitta", e si ventilò pure la possibilità della sua sostituzione con il generale Giardino). Diaz può farlo, può resistere alle pressioni dei politici perché il Re ha fiducia in lui.

La situazione si sblocca nel settembre: sul fronte occidentale i Francesi, con la controffensiva di fine di luglio, avevano messo in seria crisi i tedeschi; sul fronte balcanico il vittorioso attacco di metà settembre dell'esercito alleato d'Oriente, che inquadrava anche la nostra 35^ divisione, porterà a fine mese la Bulgaria a concludere l’armistizio. Una vasta breccia si era aperta sul fianco dell'impero austro-ungarico per cui il nemico per chiuderla aveva dovuto distrarre forze dal nostro fronte e rinunciare alla soverchiante superiorità numerica fino allora conservata. Questo era il momento tanto atteso. Diaz fu sicuro di trovarsi di fronte soltanto la Monarchia danubiana, con un esercito ridotto piuttosto male. Gli eventi erano dunque maturi, e Diaz agì. Il 25 settembre, quattro giorni prima della conclusione dell'armistizio bulgaro, venivano dati gli ordini per il rapido concentramento delle forze, delle artiglierie e dei mezzi tecnici nel settore d'attacco prescelto, non più sull'altopiano, ma in corrispondenza del Medio Piave: Vittorio Veneto doveva esser la prima tappa dell'avanzata in cui avremmo gettato tutte le nostre anime. Pochi giorni dopo, il 12 ottobre il Comando Supremo forniva le istruzioni necessarie a tutti i reparti e il 24 ottobre iniziava l'ultima battaglia contro l'Austria: la vittoriosa offensiva di Vittorio Veneto.

Idee chiare Vittorio Emanuele III anche sulla mancata nomina del Duca d’Aosta a Capo di Stato Maggiore in sostituzione di Cadorna, al posto di Diaz, come avrebbero preferito gli Alleati, che stimavano molto Emanuele Filiberto per l’ottima condotta della Terza Armata. Rilevatrice la testimonianza di Bissolati che, nel suo diario di guerra, riferisce che il Re gli confidò di non voler esporre in alcun modo il prestigio del cugino e che in caso disperato Egli avrebbe abdicato per sé e il figlio. Il Duca eral'uomo adatto a salvare la dinastia e a stipulare una pace separata.

I fatti diedero ragione delle scelte del Re, a volte anche sofferte.

In merito va ricordato che Vittorio Emanuele III, Comandante Supremo delle Forze Armate, possedeva una solida cultura militare per esercitare quella funzione. Fin da fanciullo infatti aveva avuto una accurata preparazione militare alla Nunziatella, che aveva poi ampliato sotto la guida dell’autoritario colonnello “filo-Prussiano” Osio, Ufficiale di Stato Maggiore intelligente, di vasta cultura e di indiscussa professionalità. Il Re quindi professionalmente avrebbe potuto interferire a ragion veduta sulla condotta delle operazioni, ma, nel rispetto dello Statuto, mai lo ha fatto. Ancora una volta ne dà testimonianza Lloyd George a Peschiera dove si rammaricava con il Re che egli non avesse partecipato alle citate riunioni di Roma del ’17, quando lui propose la necessità di concentrare gli sforzi sul fronte italiano per far fuori subito l’Austria.  A questo punto il verbale riferisce che il Re d'Italia osservò che "... non aveva sempre l'opportunità di vedere effettuate le sue idee".E questa è un ulteriore prova dei limiti costituzionali che il Re imponeva perfino alle sue opinioni.

Gen. Luigi Ghezzi

www.cuneooggi.it


sabato 27 ottobre 2018

Circolo Rex "… E la Vittoria sciolse le ali al vento!…"


CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA
REX


“il più antico Circolo Culturale della Capitale”

INAUGURAZIONE 71° CICLO 2018 - 2019
“ … e la Vittoria sciolse le ali al vento ! …”

Domenica  4 Novembre, ore 10.30
nel Centenario del 4 Novembre 1918

  Il Sen. Prof. Domenico Fisichella
celebrerà la conclusione vittoriosa della
nostra Quarta Guerra d’Indipendenza
***
Sala  Italia  presso “Associazione Piemontesi a Roma”,

via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), 
o 16/B (ingresso con ascensore)

raggiungibile  con  le  linee  tramviarie  “3”  e  “19”  
ed  autobus, “ 910” ,” 223”  e “ 53”

Seguirà brindisi augurale

***
Ingresso libero

La Caporetto alla rovescia di Vittorio Veneto completò l’unità d’Italia


Il 24 ottobre 1918 partì l’offensiva decisiva. La resistenza sul Piave imposta dal Re Vittorio Emanuele fu una vittoria per il Paese e per la coalizione
di Salvatore Sfrecola

Vittorio Veneto è “una Caporetto alla rovescia”, ha scritto Chistopher Seton Watson nella sua “Storia d’Italia dal 1870 al 1925”, riprendendo una frase di Armando Diaz in una lettera alla moglie del 30 ottobre 1918, quando il Generale comincia ad assaporare il successo delle armi italiane in una azione decisiva per la vittoria finale. Subentrato a Luigi Cadorna, giusto un anno prima, Diaz coglie l’effetto della sua capacità di direzione e coordinamento del grande esercito che aveva profondamente rinnovato nell’armamento, nella organizzazione e nei quadri e in un nuovo rapporto con la truppa stressata dai lunghi anni di trincea. E lo porta alla vittoria, una volta esaurita la disperata azione offensiva delle armate austriache vittime di un logoramento del quale i loro comandi erano pienamente consapevoli.
Bloccati sul Piave nel giugno del 1918, gli austriaci riprendono l’iniziativa con un attacco nel Trentino nella speranza che il nostro Comando vi faccia affluire truppe sottratte al fronte del Piave. L’offensiva si sviluppa fra il 14 e il 15 giugno con un massiccio bombardamento accompagnato da lancio di gas su tutto il fronte, soprattutto sul Grappa dove gli austriaci riescono a conquistare alcune importanti posizioni, ciò che convince Franz Conrad von Hötzendorf che la vittoria sia vicina. Per lui gli italiani sono ormai “appesi con le sole mani a un balcone”, tanto che una spinta li farebbe precipitare. Ma non aveva a disposizione quelle truppe tedesche che un anno prima avevano fatto la differenza a Caporetto.
Dura sei giorni l’offensiva “della fame”, delle truppe approvvigionate con derrate alimentari sottratte ai viennesi. Le 58 divisioni austriache cedono alle 56 alleate. E il nuovo Capo di Stato maggiore, Arthur Arz von Straussemburg, subentrato a Conrad, ordina la ritirata abbandonando sul terreno tra morti e feriti quasi 100.000 uomini e 25.000 prigionieri. “Per la prima volta – scrive il Generale Erich Ludendorff - avemmo la sensazione della nostra sconfitta”.
È tutto un rincorrersi di eventi verso la conclusione della Grande Guerra. Il 26 settembre 1918 gli alleati sfondano la “linea Hindemburg”, mettendo in crisi lo schieramento tedesco sul fronte francese, il 29 i bulgari capitolano sotto l’incalzare dell’armata d’oriente, il 3 ottobre gli ungheresi proclamano l’indipendenza. L’indomani la Germania chiede di trattare sulla base di quanto proposto l’anno prima dal Presidente U.S.A. Woodrow Wilson nei suoi famosi “Quattordici punti” secondo il principio dell’autodecisione dei popoli e del loro diritto all’indipendenza nazionale.
Intanto, verso metà ottobre, il nostro Comando Supremo ha pronto il piano della grande offensiva destinata a svilupparsi attraverso il Piave in direzione di Vittorio Veneto. Alle forze già in linea Diaz aggiunge due piccole armate miste, una italo inglese, al comando di lord Frederik Cavan, e una italo francese, al comando del corso Jaean-César Graziani. Vuole coinvolgere gli alleati che lo accusavano di essere troppo cauto. Si attende che diminuisca la portata della piena autunnale del Piave. Per non dare l’impressione di restare fermo Diaz ordina al Generale Gaetano Giardino di attaccare sul Montegrappa dove convergono molte riserve austriache.
L’offensiva italiana inizia alle 3 del mattino del 24 ottobre con un martellamento di artiglieria lungo tutto il fronte. Sul Grappa è un inferno. Gli austriaci respingono sanguinosamente i nostri assalti sul Piave. Occorrono tre giorni di lotta per creare una testa di ponte. All’ordine del contrattacco i reggimenti cechi, croati, polacchi, ungheresi gettano le armi e l’esercito austriaco crolla di schianto. Il generale Enrico Caviglia traghetta oltre il fiume a Susegana la sua VIII armata e lancia le divisioni di cavalleria al comando di Vittorio Emanuele di Savoia-Aosta Conte di Torino in direzione di Vittorio Veneto, raggiunta la sera stessa. Minacciata di aggiramento la VI armata austriaca abbandona il Montegrappa e da quel momento la ritirata si tramuta in quella rotta per cui, come si legge nel Bollettino della Vittoria, l’esercito austriaco perde “quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi”, lasciando “nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni”.
Il 30 ottobre le truppe nemiche in fuga sono inseguite dalle armate italiane che il 3 novembre raggiungono Udine e Trento. È la resa e il 4, alle ore 12, il Generale Diaz dirama il Bollettino della Vittoria.
È la sconfitta di un paese ridotto allo stremo, tanto che taluno ha voluto ridimensionare il valore della nostra vittoria sostenendo che abbiamo sconfitto un esercito in disfacimento. Senza tener conto che a quel logoramento aveva concorso il sacrificio quotidiano dei nostri fanti lungo i quarantuno mesi del conflitto, combattendo in condizioni spesso proibitive, per la natura dei luoghi e per il clima, per molti dei combattenti, soprattutto i meridionali, assolutamente inusitato. Siamo sempre pronti a denigrarci. Eppure, come ha scritto Paolo Pozzato, Vittorio Veneto rimane “per molti aspetti una delle vittorie più significative di un paese che non poteva vantare molti allori militari”. Da annoverare “tra quanto di meglio il nostro esercito ha saputo fare nel corso di tutta la sua storia”.
L’epilogo della guerra non sarebbe sufficientemente inquadrato nell’evoluzione delle operazioni militari all’indomani di Caporetto e dello sbandamento che ne seguì se non riconoscessimo l’importanza della resistenza sulla linea del Piave decisa a Peschiera del Garda l’8 novembre 1917 quando Re Vittorio Emanuele III l’impose ai governi ed agli stati maggiori di Francia e Inghilterra che solo tre giorni prima (il 6), nella Conferenza di Rapallo, avevano insistito perché il nuovo fronte fosse stabilito al Mincio o al Tagliamento. Una scelta che avrebbe potuto consentire all’esercito austriaco di dilagare nella pianura padana. A Peschiera il Re, l’unico che dopo Caporetto non aveva mai perso “il suo sangue freddo”, come ha scritto Indro Montanelli, ribaltò il giudizio negativo sulla nostra capacità di resistenza che francesi ed inglesi avevano manifestato a Rapallo, dove si erano riuniti in conferenza preliminare “con esclusione dei nostri”, ricorda Antonio Gatti, Colonnello di Stato Maggiore nel suo “Caporetto Diario di Guerra”, che “attesero così, alla porta, come servitori, che gli altri decidessero”. “I nostri” erano il Presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, il Ministro degli esteri,Sidney Sonnino, il Ministro della Guerra, Vittorio Alfieri e il Sottocapo di Stato Maggiore Carlo Porro.
Vittorio Emanuele convocò, dunque, tutti a Peschiera.
Pioveva quella mattina nebbiosa sul gran lago quando il Re giunse, pallido, teso, come ci raccontano le cronache. Sembrò sfinito al soldato di guardia alla casetta sede del Comando di battaglione, un tempo scuola elementare. Ma con grandissima energia e competenza convinse i vertici politici e militari delle potenze alleate che gli italiani avrebbero resistito sul Piave, presenti, per la Gran Bretagna, il primo ministro David Lloyd Gorge, con i generali Sir William Robertson e Henry Hugue Wilson; per la Francia il primo ministro Paul Pailevé ed il ministro Franklin Bouillon, accompagnati dal generale Ferdinand Foch e dall’Ambasciatore Camille Barrére. Parlò due ore, solo lui, in inglese e in francese, con estrema decisione riscuotendo l’ammirazione di Lloyd George, che ne ha lasciato un dettagliato resoconto.
Nell’occasione il Presidente del Consiglio Orlando aveva preparato un proclama da lanciare alla Nazione. Cominciava così: “Una immensa sciagura ha straziato il mio cuore di italiano e di Re”. Non gli piacque. Lo stile di Re Vittorio era sempre essenziale, asciutto, mai retorico. E scrisse: “Italiani, Cittadini e Soldati! Siate un esercito solo”.
La resistenza sul Piave porterà alla vittoria, non solo delle armi italiane ma dell’intera coalizione.
(da La Verità del 24 ottobre 2018)