NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 31 gennaio 2018

A S.A.R. la Principessa Leonor la più alta onorificenza di Spagna

Per il 50° genetliaco di Sua Maestà il Re Felipe VI, S.A.R. la Principessa Leonor ha ricevuto la più alta onorificenza dinastica del Regno di Spagna.
Ad entrambi, Re e Principessa, i più calorosi auguri da parte di tutto lo Staff.
Viva il Re!

Recensione dell'autobiografia di Re Simeone II

La storia non bussa mai alla porta degli uomini, abbatte la porta e li travolge condizionandone la vita, i sogni e l’avvenire oltre ogni immaginazione. Ed è proprio la storia a costruire un “destino singolare” come quello vissuto da Simeone II.
Nato nel 1937 da Re Boris III di Bulgaria e da Giovanna di Savoia (principessa figlia dei sovrani d’Italia Vittorio Emanuele III ed Elena) egli ha davvero vissuto un’esistenza meritevole d’essere raccontata. Nel 1943, quando il padre morì pochi giorni dopo il suo rientro da un burrascoso incontro con Hitler in Germania, egli ascese al trono bulgaro ancora bambino potendo contare su di una corte fedele, sulla protezione d’una madre straordinaria e sulla reggenza del coraggioso zio Cirillo.
Anni di fuoco, con l’Europa tormentata dai fatti della Seconda Guerra Mondiale e la Bulgaria in bilico tra la protervia tedesca e la minaccia sovietica. Il colpo di stato che portò i comunisti al potere nel 1944 ed il referendum palesemente alterato del 1946 condussero all’esilio il giovane Re.
Una serie di eventi travolgenti e drammatici nel corso dei quali i più fedeli e lo stesso reggente Cirillo furono barbaramente uccisi aprendo, per la Bulgaria, una drammatica ed oscurantista stagione.
Decenni di feroce dittatura sotto lo scomodo ombrello sovietico, decenni di ipocrisie, odio, rancore, livore e cattiverie. Un paese ed un popolo ostaggio di manipoli di facinorosi.
Simeone II, nondimeno, condusse un’esistenza da galantuomo onesto e leale, con il cuore nella sua patria lontana che, malgrado la censura del regime socialista, mai l’aveva dimenticato. Anni difficili, anni di guerra fredda, anni di cortina di ferro e di angoscia.
Ne ha parlato Simeone II stesso nella sua bella autobiografia pubblicata nel 2017 in diverse lingue e disponibile in Italia grazie all’Editore Gangemi.
[...]


Simeone II di Bulgaria.
Un destino singolare
Dopo 50 anni di esilio l'unico Re divenuto Primo Ministro
Editore Gangemi - € 24,00 - eBook EPUB € 18,99


lunedì 29 gennaio 2018

Correte tutti a votare!


Carissimi amici,
al link che segue si trova il sondaggio online de "Il Mattino" di Napoli con la seguente domanda:


Shoah, De Magistris cambia nome a piazzale Tecchio e via Vittorio Emanuele III. Siete d'accordo?






Vi preghiamo di votare fortissimo, numerosissimi. Votate e fate votare amici e conoscenti!



Non solo De Magistris bis

Nel nuovo logo della Città di Fossano l’antico scudo simbolo dei Savoia

La Città di Fossano ha un nuovo logo. Richiama lo storico stemma araldico che non sarà sostituito, ma i due diventeranno complementari. «Il nostro stemma araldico, depositato all’Ufficio Onorificenze e Araldica della Presidenza del Consiglio, resterà a tutti gli effetti il simbolo della Città di Fossano per tutte le documentazioni e gli atti ufficiali, ma è molto dettagliato e i suoi piccoli decori mal si prestano a essere riprodotti in piccole dimensioni.

Attendiamo con viva curiosità di conoscere il nuovo logo del comune!

La ruota dello stato macina oltre i regimi

da Il Giornale del Piemonte e della Liguria, 28/1/2018                                         
di Aldo A. Mola

“La verità è che quando il fascismo arrivò al governo, delle antiche istituzioni parlamentari non rimaneva più che l'apparenza esteriore. Nella sostanza esse erano state distrutte, e vi si era sostituito una specie di direttorio, composto dai delegati dei gruppi (parlamentari), cioè la più anarchica tra tutte le forme di governo. In quanto dunque il fascismo riconsacrò l'idea di Patria e restaurò l'autorità dello Stato, i fini da esso raggiunti coincidono con quelli a cui dedicai tutta la mia esistenza politica”. Lo scrisse Vittorio Emanuele Orlando, il “presidente della Vittoria”, monarchico, liberale, “pater” della rinascita post-fascista e punto di riferimento di ambienti mafiosi secondo Tommaso Buscetta e altri (lo ricorda Riccardo  Mandelli in “I fantastici 4 vs Lenin”, Ed. Odoya). Era il 2 aprile 1924, quattro giorni prima della straripante vittoria del Partito Nazionale Fascista alle elezioni, in cui ottenne il 66% dei voti. “Il fascismo sorse come protesta contro un eccesso di violenza sovvertitrice della vita nazionale. Il senno e l'intuito del Capo dello Stato (Re Vittorio Emanuele III) risparmiarono una guerra civile, le cui conseguenze sarebbero state gravissime. Mussolini (il 31 ottobre 1922) costituì un ministero che raccoglieva i rappresentanti di tutti i partiti costituzionali e nulla rinnovò negli ordinamenti costituzionali dello Stato. Mussolini, pur facendo al partito (fascista) larghe concessioni, voleva ottenere dal Parlamento la legalizzazione del fatto compiuto”. Lo dichiarò il 3 aprile 1924 Enrico De Nicola, futuro primo presidente della Repubblica. Sono frasi da rileggere e meditare quando si parla, talora a sproposito, di fascismo e di regime fascista come un “continuum” nato, cresciuto e concluso secondo un percorso logico-cronologico uscito dalla mente del duce come Minerva da quella di Giove. La realtà storica è del tutto diversa. Il fascismo fu prima movimento, poi partito. La sala a piazza San Sepolcro in Milano per la prima sortita di Mussolini, il 23 marzo 1919, venne procacciata da Cesare Goldmann, ebreo e massone. Orlando, De Nicola e una lunga serie di liberali, democratici ed ex esponenti del partito popolare (cioè dei cattolici) nel 1924 affollarono la Lista Nazionale e giudicavano il fascismo non su quanto sarebbe avvenuto in un futuro ancora del tutto imprevedibile, ma sulla base di quanto avevano sotto gli occhi: la restaurazione dello Stato dopo anni di guerra civile strisciante, intrapresa da chi voleva “fare come in Russia”, cioè annientare le istituzioni uscite vittoriose dalla Grande Guerra (corona, forze armate, “borghesia”...).
La vera storia del regime fascista non è quella raccontata in discorsi di circostanza. Il 1922-1924 non contiene né le leggi speciali (iniziate con la caccia ai massoni nel 1924-1925), né il 1938, le leggi razziali, il patto d'acciaio e quel che ne seguì. La storia procede a segmenti discontinui e va capita seguendola passo passo, non partendo dalla sua fine. Fluisce come immenso fiume gonfio di acque limpide e detriti, di carogne e sabbie aurifere. Non chiede né sentenze, né giustificazioni, ma cognizioni e comprensione, in una visione di lunga durata e con la comparazione degli eventi di un paese con quelli coevi degli altri Stati, almeno i propinqui.
È il caso dell'Italia tra il 1919 e il 1946. Ne scrive Guido Melis, autorevole studioso delle istituzioni politiche e della storia dell'amministrazione pubblica, nell'importante volume “La macchina imperfetta”, sintetizzato dal sofferto sottotitolo: “Immagine e realtà dello Stato fascista” (ed. il Mulino).
Sulla scorta di decenni di studi severi studi l'autore chiarisce tre “fatti” fondamentali. In primo luogo, contrariamente a quanto solitamente si ritiene, quando venne nominato presidente del Consiglio Mussolini utilizzò largamente la dirigenza esistente (monarchica, liberale, democratica, riformista...) in tutti i settori fondamentali: dalla diplomazia alle forze armate, dalla giustizia all'istruzione e all'economia. A quanto egli scrive potremmo aggiungere un elenco lunghissimo di antifascisti notori chiamati dal duce al governo e al vertice dei gangli vitali dello Stato. Altrettanto avvenne ai vertici  dell'“impresa Italia” (banche, grande industria, commercio...) e dell'Istituto per la Ricostruzione Industriale affidato al massone Alberto Beneduce. Inoltre Mussolini ridusse il partito a succedaneo dello Stato e la Milizia a “dopolavoro” del partito, libera di celebrare i suoi riti chiassosi (come il giuramento di fedeltà “a Dio e alla Patria”, ignorando il Re), ma senza effettivo potere politico e militare, come si vide nell'ora decisiva, il 25-26 luglio 1943, quando essa risultò evanescente. Infine Melis affronta la “vexata quaestio”: il rapporto tra la monarchia e il fascismo, concretamente tra Vittorio Emanuele III e Mussolini. Al riguardo non aggiunge molto a quanto noto e conclude che durante il regime l'Italia fu una diarchia “piuttosto di fatto che di diritto”, giacché, tratte le somme, il potere apicale rimase nelle mani del sovrano. A chiarimento ulteriore, occorre spazzare via uno degli equivoci perduranti su un nodo centrale del “ventennio” (che poi fu un quindicennio: 1928-1943).  Il Gran Consiglio del Fascismo, istituito con la legge 9 dicembre 1928, n. 2693, non ebbe e non esercitò alcun potere effettivo sulla Corona né, meno ancora, sulla successione al trono. Esso era tenuto a “esprimere il parere su tutte le questioni aventi carattere costituzionale”, tra le quali le “proposte di legge concernenti la successione al Trono, le attribuzioni e le prerogative della Corona, i rapporti tra lo Stato e la Santa  Sede” e doveva anche tenere “aggiornata la lista dei nomi da presentare alla Corona in caso di vacanza per la nomina a Capo del Governo”. Il Gran Consiglio, dunque, non ebbe alcun vero controllo sulla successione, ma solo il “dovere” di formulare un “parere” (la legge non precisò se vincolante) su disegni di legge: la differenza è enorme, anche se troppi storici (inclusi parecchi “monarchici”) non l'hanno né compreso né spiegato nei loro libri e/o dalle cattedre.
Melis dedica un robusto capitolo a “lo Stato totalitario e lo Stato razzista”, cioè alla crisi profonda aperta in Italia dal 1938, pesantemente condizionata dall'annessione dell'Austria da parte della Germania di Hitler, confermata da entusiastico plebiscito nell'inerzia afona di Francia e Gran Bretagna. In quel drammatico contesto, Mussolini intraprese l'offensiva contro la monarchia utilizzando anche le leggi razziali, che avevano innumerevoli e fervidi sostenitori nel mondo cattolico e nelle sinistre (Lenin, Stalin, il Partito comunista d'Italia...) che da mezzo secolo marchiavano a fuoco il complotto “giudaico-massonico”.
Tra i fautori di quelle leggi vi fu Giuseppe Bottai, il “fascista critico”, una cui frase Melis ricorda quale lapide tombale sul “regime”: “Guardo questo irresponsabile (un ufficialetto sedentario al ministero della Guerra) fatto responsabile da questo meccanismo d'irresponsabilità in cui ci siamo cacciati”. Era il 17 novembre 1940. L'Italia stava perdendo l'offensiva contro la Grecia (una tra le decisioni militari più stolte di Mussolini). Ma, oltre che volatile in loggia, dov'era stato Bottai dal 1922? Non erano suoi la Carta della Scuola e la retorica del corporativismo e “Primato”?
Melis ha il merito di documentare che il governo Mussolini fece fuoco con la legna che si trovò a disposizione: i funzionari forgiati nei decenni precedenti, non solo con la regia di Giovanni Giolitti ma sin da Francesco Crispi e prima ancora. La dirigenza di un Paese non si improvvisa. I prefetti dell'età mussoliniana (1922-1943) erano a servizio dello Stato da fine Ottocento. Lo stesso vale per élites militari (Melis ne scrive in “fascio e stellette”), diplomatici, docenti universitari, scienziati, come Guglielmo Marconi e per tanti componenti dell'Accademia d'Italia.
Lo stesso del resto avvenne dopo il 1946, cessato il “tempo del furore” alimentato da partiti vendicativi e in gran parte intrinsecamente antinazionali, acremente critici nei confronti dell'unità nazionale, dell'“idea di Italia” (neoborbonici, neopapisti e neoasburgici ora dilaganti sono solo paleogramsciani in confusione). Il miracolo economico fu opera di una dirigenza che arrivava dagli Anni Trenta, animata da un alto senso dell'interesse pubblico.
Dall'opera meritoria di Melis emerge anche la differenza profonda tra l'Italia monarchica e l'attuale. Piaccia o meno, fu Vittorio Emanuele III a imporre a Mussolini le dimissioni da capo del governo e a incaricare il nuovo capo dell'esecutivo. Fu il Re a prendere sulle spalle il peso della richiesta di resa incondizionata per sottrarre l'Italia a sciagure peggiori. Il sovrano decise in solitudine, e sin dal 1941, come poi scrisse nella “memoria” a difesa del ministro della Real Casa, duca Pietro d'Acquarone. Fu il punto di arrivo di un lungo processo, fondato, tra altro, su un caposaldo della monarchia costituzionale sabauda: l'esclusione del Principe ereditario da qualsiasi responsabilità nelle decisioni del sovrano in carica perché “si regna uno per volta”, così come la Repubblica ha un Capo dello Stato per volta. Sui motivi dell'esclusione del principe Umberto dalle scelte politiche del padre sono state scritte insinuazioni di sapore anche scandalistico. Al netto delle chiacchiere, resta che David è David ed esclude che da qualche parte s'infratti un Assalonne (Antico Testamento, Secondo libro di Samuele, 16-18). La monarchia sabauda non ha mai derogato alle regole della Casa. In Repubblica, invece, il potenziale “principe ereditario”, cioè il presidente del Senato, chiamato ad assumere le funzioni di Capo dello Stato in caso di impedimento permanente o di morte o di dimissioni del Presidente, si erge ad Assalonne e assume la guida di un partito politico, addirittura di opposizione al governo in carica. È lo sbando delle istituzioni. Se per sciagura dovesse affrontare una crisi vera, come ne uscirebbe questa Italia? La Spagna lo sta facendo perché, a fronte della pochezza antistorica degli indipendentisti catalani, fa perno su Filippo VI di Borbone, cioè sulla monarchia, tutt'uno con l'unità di quel Paese. Qual è invece lo Stato d'Italia mentre Pietro Grasso e la presidente della Camera, Laura Boldrini, fanno campagna elettorale? Qualcuno osserverà che anche in passato i presidenti delle Camere si concessero qualche discorso elettorale: ma non strizzavano l'occhio a forze anti-sistema né erano “all'opposizione”. L'Italia odierna ha due paradossi clamorosi: un ministro degli Esteri non dimissionario ma da mesi scomparso dalle scene (a quando una spiegazione, presidente Gentiloni?) e la solitudine del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, un David che si prodiga in quotidiane presenze sulle trincee più disparate. Porta sulle spalle il “brut fardel” dello Stato, come Vittorio Emanuele II definì il peso della Corona in un Paese giovane, che solo in questo 2018 ricorderà il centenario della sofferta Vittoria del 4 novembre 1918. Non fu “inutile strage” ma coronamento del Risorgimento, la grande prova dell'unità nazionale in un'Europa al collasso. Perciò è l'ora di “stringersi a coorte” e di andare alle urne per difendere il patrimonio comune degli italiani, l'Unità nazionale, uno Stato che macina storia al di là dei regimi che vi si sono susseguiti nel tempo.  


Aldo A. Mola  

domenica 28 gennaio 2018

Guerra toponomastica e lotta politica: si rischia di esagerare

di Pierluigi Battista

A Roma e a Napoli in questi giorni si rischia di oltrepassare una soglia, di smarrire il senso del limite e di cadere in una sorta di smania iconoclastica




Da sempre la toponomastica significa lotta politica con altri mezzi. 
Accade sempre, dappertutto, quando i regimi crollano, quando si chiude con dolore e violenza un capitolo della storia: non c’è da scandalizzarsene. Ma a tanti anni di distanza si rischia di esagerare, di smarrire il senso del limite. Certo che ha un senso se, come è accaduto in questi giorni, a Roma si chiede di cambiare l’intestazione delle vie dedicate a chi promosse e diede parvenza pseudoscientifica ai provvedimenti razzisti sfociati nelle leggi del ’38. Ma invocare la damnatio memoriae per Vittorio Emanuele III, come ha proposto e deliberato il sindaco di Napoli de Magistris, oltrepassa una soglia, si trasforma in smania iconoclastica, come se l’azzeramento del passato in blocco potesse redimere il presente e la purificazione toponomastica potesse ricreare un mondo senza brutture. E senza storia.
 [...]

Ma oggi, dopo tanti decenni, che senso ha? Ha un senso che non sia premiato chi firmò il «Manifesto della razza», non ne ha la cancellazione di autorità di Casa Savoia, che pure qualche ruolo nella nascita dell’Italia unita nella quale viviamo lo ha esercitato. O no? Per cui la guerra toponomastica, a meno di casi clamorosi e indifendibili, dovrebbe chiudersi qui. La memoria del fascismo e dei suoi orrori non viene rafforzata dalle esagerazioni e dai colpi mediatico-propagandistici. Anzi.

Non solo De Magistris

Mafalda di Savoia batte Montessori e Montalcini. Il nome della scuola scelto su Facebook


A Mafalda la scelta del nome da attribuire alla nuova scuola è passata sui social network: l’Amministrazione comunale guidata da Egidio Riccioni in collaborazione con i ragazzi dell’ufficio stampa e del servizio civile hanno elaborato una serie di nomi e hanno sottoposto le idee alla popolazione che ha contribuito esprimendo il proprio parere con commenti, mi piace e messaggi. Alla fine, dopo la chiusura del voto e il conteggio, è stato ufficializzato il nome: la scuola si chiamerà Principessa Mafalda, proprio come la principessa di Savoia a cui il paese è stato dedicato un anno dopo la sua nascita, nel 1903 e a cui è stata dedicata una lezione nella Giornata della Memoria.



Mafalda. Una scuola nuovissima, appena inaugurata, con le ultime novità in fatto di tecnologia, con gli spazi adatti per ogni tipo di attività, da quelle sportive a quelle di laboratorio. E per di più un campo di calcio sul tetto e pannelli solari per autoalimentarsi. Tutto questo e tanto altro, ma senza un nome. E visto che ogni istituto scolastico porta il nome di una personalità che si è contraddistinta per cultura, storia, fisica, scienza, per le gesta e pure per il popolo e per il proprio paese, anche Mafalda ha pensato di intitolare il nuovo istituto scolastico nato sulle ceneri della vecchia scuola in via Pascoli.

E quel qualcuno però andava scelto. Le votazioni sono state aperte, in modo del tutto anomalo rispetto alle modalità consuete per coinvolgere anche il popolo e lasciare a tutti la possibilità di esprimere il proprio parere. Perché il problema dell’intitolazione non è passato inosservato all’Amministrazione comunale di Mafalda e dopo qualche settimana dall’inaugurazione il sindaco Egidio Riccioni ha iniziato a lavorare all’iniziativa insieme ai ragazzi del servizio civile e dell’ufficio stampa aprendo i voti su facebook: le proposte infatti sono state pubblicate proprio sul social network, sulla pagina ufficiale del Comune di Mafalda «perchè - spiega il primo cittadino - abbiamo preferito trovare una condivisione e sapere cosa ne pensassero i mafaldesi, quelli che ci vivono e anche quelli che vivono all’estero ma proprio grazie ai social network riescono a seguire cosa accade in paese e ad essere vicini a Mafalda».

Il primo post, datato 22 novembre invitava i cittadini ad esprimere il loro parere sul sondaggio lanciato sulla pagina: con un like potevano essere d’accordo o meno sulla proposta dell’intitolazione alla principessa Mafalda di Savoia. Proprio a lei, nata nel 1902, il Comune di Ripalta sul Trigno nel 1903 con una seduta straordinaria del Consiglio comunale approvava all’unanimità di dedicare il paese e chiamarlo Mafalda. «Il Comune di Mafalda - si legge - sta valutando l’ipotesi di intestare il nuovo plesso scolastico alla principessa Mafalda di Savoia, eponima della nostra cittadina e grande esempio di eroismo per la nostra Patria. Chiediamo a voi cittadini un parere in merito: metta "mi piace" chi pensi sia una buona idea altrimenti accettiamo volentieri proposte differenti». 

[...]

sabato 27 gennaio 2018

Lettere al Giornale

Da il Giornale, 26 Gennaio 2018


Se putacaso il Re fosse rimasto a Roma anche in seguito all'armistizio, che sarebbe successo? Anni fa lo stesso Re Umberto II, in un'intervista, disse e ripeté più volte che se si fosse rimasti in Roma, si sarebbe dato ragione sia ai tedeschi, sia agli alleati, poiché si sarebbero scatenati delle lotte ancora più feroci,di quanto non lo furono già quei sanguinosi mesi di guerra (le Fosse Ardeatine, Marzabotto, Monte Cassino, per dirne solo alcuni). Non soltanto l'intera Famiglia Reale, compresi i nostri anziani Sovrani ed il Principe Ereditario, avrebbe conosciuto la stessa sorte della sventurata Principessa Mafalda, ma ne sarebbe
andato di mezzo il patrimonio storico, culturale, artistico e soprattutto religioso dell’intera Urbe. In definitiva, le due operazioni di de fascistizzazione dell’Italia ad opera del Re e del suo governo furono senz'altro necessarie ma mal condotte.

E tutto ciò non per colpa del Re,  ma del ministro della Real Casa, Acquarone per la prima  (25 luglio), del governo Badoglio per la seconda (8 settembre). Per la prima, fu un errore relegare Mussolini in zona vicina al controllo tedesco. Se fosse stato messo a Ponza piuttosto che sulla Sila. Skorzeny difficilmente avrebbe potuto farla franca fino laggiù; quanto alla «fuga» da Roma, avrebbe potuto essere organizzata meglio, in modo da togliere all'opinione pubblica la (falsa) impressione che fosse quella che in realtà non era. Ma sappiamo tutti che invece le cose andarono come andarono e che il Re ne fu il comodo capro espiatorio. In realtà nessuno si fece mai l’esame di coscienza di chi fosse stata la colpa, per essere arrivati a tanto: dov’erano gli antifascisti il 3 gennaio 1925, quando Mussolini col suo discorso toglieva le libertà dello Statuto, dov'erano il 9 maggio 1935, quando proclamava da palazzo Venezia la riapparizione dell'impero sui colli fatali dell'Urbe», idem il 10 giugno 1940, quando spediva otto milioni  di baionette a sacrificarsi per sedere tra i vincitori al tavolo della pace, segno già questo della sua delirante demenza politica (eppure era tutt’altro che stupido; era stato plagiato e soggiogato da quella mente satanica del caporale boemo).

Mario S. Manca di Villahermosa, Milano.

Il libro azzurro sul referendum - X cap - 1

I brogli

1) Rapporti ufficiali relativi ad esclusioni di persone aventi diritto di voto, ed irregolarità nelle votazioni della città di Roma


Sono in nostra mano le fotografie di numerosi documenti ufficiali in data 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 13, 16 giugno relativi a persone aventi diritto di voto che non hanno potuto esercitare il loro diritto, nella città di Roma e a gravi irregolarità verificatesi in alcuni seggi in occasione delle votazioni per la Costituente.
Per la precisione desideriamo riportare letteralmente copia di alcuni rapporti omettendo per ovvie ragioni di delicatezza l’indicazione dei nominativi firmatari dei rapporti stessi.
Segue un elenco di irregolarità elettorali e dichiarazioni di persone aventi diritto di voto che non hanno potuto votare:
« Denuncia diretta alla sezione speciale della Corte di Cassazione in Roma presentata dal signor Ferrara Antonio, abitante in Roma via Banchi Vecchi n. 24 già presidente della 78a sezione elettorale per gravi irregolarità elettorali a causa delle quali non potettero essere portate a termine le operazioni di
scrutinio.
In detta sezione hanno votato circa 100 elettori in più di quelli risultanti dalle schede elettorali esistenti e ciò sembra sia potuto avvenire durante una breve assenza del predetto Presidente.
Si soggiunge che per quanto riguarda l’incapacità degli scrutatori, durante la votazione si ebbero a verificare parecchi incidenti per la lentezza delle operazioni a causa delle quali il pubblico giustamente ebbe più volte a reclamare ».
 Trasmetto la presente dichiarazione alla Sezione Speciale della Corte di Appello di Roma, corso Rinascimento, atta ad informare che, oltre a procedere allo scrutinio del Referendum come già verbalizzato nella Cancelleria del Tribunale presso la sezione stessa, deve essere rifatto lo scrutinio della Costituente inerente agli elettori della 78a sezione elettorale sita in via dei Giubbonari n. 41.
Ciò inquantochè le operazioni elettorali furono sospese (data anche l’ora tarda) sol perché dal conteggio del predetto scrutinio risultava che avevano votato circa 100 (cento) elettori in più di quelli risultanti dalle schede elettorali esistenti, che corrisponde esattamente al numero degli elettori iscritti che avevano espresso il loro voto (V. verbale trasmesso). L’errore di spoglio è da attribuirsi alla incompetenza degli scrutatori nominati dalla giunta  comunale senza alcun criterio ed in contrasto con le disposizioni di legge.
Infatti prescindendo che degli otto scrutatori nominati se ne presentarono sei, con i quali si costituì il seggio elettorale, questi eccetto uno (controllore tranviario), erano e sono analfabeti, inquantochè si trovano nella condizione di poter scrivere i numeri e le loro firme molto stentatamente. Si aggiunga che
uno dei medesimi è mutilato alla mano destra ed in condizione di poter stentatamente scrivere la sola firma con la mano sinistra.
Dei sei scrutatori cito il loro mestiere ed il loro stato fisico :
1.) un controllore tranviario;
2.) un   tipografo di anni   77              (V. presidente    del    seggio);
3.) un  tipografo              impressore affetto da              delirium tremens alle mani (V. pres. seggio)
4.) un  imbianchino;
5.) un portiere;
6.) un mutilato alla mano destra che non ha dichiarato il suo mestiere.
Il tutto per le considerazioni che il caso richiede.
Roma, 4 giugno 1946, ore 20.


Il Presidente del Seggio della 78a Sezione
Ferrara Antonio - via Banchi Vecchi 24

Intanto in Spagna...

Tarragona rifiuta che piazza del Re diventi piazza della repubblica.

La seduta del consiglio comunale che ha respinto la proposta
Il provvedimento, che era stato presentato dal CUP, è stato respinto con diciotto voti contrari e sette favorevoli.



venerdì 26 gennaio 2018

Il referendum istituzionale nel comune di Campobasso

Risultati ufficiali:

Monarchia - 13.282 

Repubblica - 3.073 

Nulli - 608  




Cambiate questi, se ci riuscite, e dopo potrete cambiare anche i nomi alle piazze.



giovedì 25 gennaio 2018

Campobasso: anche il Comune manda in ’esilio’ i Savoia?

L’amministrazione guidata da Antonio Battista ha avviato le procedure per il cambio di denominazione di piazza Savoia, l’area compresa tra l’ex Roxy e villa de Capoa. La proposta è stata portata il 23 gennaio all’attenzione dei consiglieri comunali che fanno parte della Commissione Cultura di palazzo San Giorgio. Alcuni non hanno nascosto le proprie perplessità su una iniziativa che rischia di scontentare le associazioni di monarchici della città. Piazza Savoia sarà dedicata ai giudici uccisi dalla mafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Campobasso. Chissà se la recente inaugurazione a Venafro di piazza Falcone e Borsellino è stata la fonte di ispirazione o se ci si stava pensando da tempo. Anche Campobasso avrà la sua piazza dedicata ai giudici antimafia che ‘sfratteranno’ – tenetevi forte - i Savoia. Infatti l’area antistante l’ex hotel Roxy e dedicata ai monarchi cambierà denominazione. Un atto politico molto forte, ’politically correct, azzarderebbe qualcuno. Ad ogni modo il Comune ha già avviato le procedure necessarie per modificare la toponomastica, mentre il sindaco Antonio Battista ha portato la proposta sul tavolo della Commissione Cultura. Una proposta definita “shock” dai consiglieri che erano presenti. 
L’iniziativa si inserisce nel nuovo corso sulla toponomastica inaugurato da palazzo San Giorgio che poco tempo fa ha dedicato l’area di fronte al vecchio stadio Romagnoli al 25 novembre, la giornata delle vittime di violenza. Saranno inaugurati poi un parco ‘8 marzo’ e una strada ad una donna. 


E poi, il ragionamento che avranno fatto in Municipio, alla fine la città capoluogo ha già alcune strade dedicate alla famiglia Savoia, come Corso Vittorio Emanuele, viale regina Elena e via Umberto. Una in meno…non si offenderà nessuno, forse avranno pensato a palazzo San Giorgio. Senza dimenticare che la monarchia è andata in archivio da un pezzo, da quando nel 1946 gli italiani scelsero la repubblica come forma di governo. Certo, si potrebbe obiettare, in Molise in realtà vinse il Re. 

[...]
http://www.primonumero.it/attualita/primopiano/articolo.php?id=27050

mercoledì 24 gennaio 2018

Conferenza per il circolo Rex

CIRCOLO DI EDUCAZIONE E CULTURA POLITICA

“il più antico Circolo Culturale della Capitale”

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L’arte di cui l’Italia è ricchissima avendo il maggio numero di siti UNESCO del mondo deve considerarli una risorsa economica e finanziaria e dedicare agli stessi le maggiori cure. Su questo importante ed interessante argomento parlerà

Domenica 28 gennaio, ore 10.30

Prof. Avv. Emmanuele F.M. Emanuele: 

"ARTE E FINANZA"

Sala Italia presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale),
o 16/B (ingresso con ascensore)
raggiungibile con le linee tramviarie “3” e “19” ed autobus, “ 910” ,” 223” e “ 52”
***

Ingresso libero

martedì 23 gennaio 2018

Quel Tricolore con la scritta “Jesus”

Pochi sanno che il Santuario di Monte Berico custodisce dal 1918 un vessillo italiano molto particolare; un Tricolore su cui campeggia, al centro, la scritta «Jesus» sopra lo stemma di Casa Savoia.

Realizzato da pie donne
La storia di questa bandiera inizia a Genova per iniziativa di una donna del popolo, Francesca Teresa Rossi; una donna pia e umile, che dedicò tutta la sua vita ad una specifica forma di culto verso il Nome di Gesù. Nata nel 1837, fece di questo culto la sua ragione di vita, unitamente ad una profonda azione caritatevole verso il prossimo, soprattutto verso gli abitanti dell’antico e povero quartiere genovese della Madre di Dio, oggi scomparso. Animata da un profondo senso religioso, pur nella sua semplicità e pochezza di mezzi, fu promotrice della costruzione di ben due chiese in Genova dedicate al Nome di Gesù: la parrocchiale in località Geo di Ceranesi, la cui prima pietra sarebbe stata posta nel 1923, e quella del Borghetto a Rivarolo, sorta nel 1924 come Oratorio pubblico.

Il vessillo tricolore, attualmente custodito nel Santuario di Monte Berico, venne voluto e commissionato da Francesca Teresa Rossi, che lo consegnò l’8 settembre 1918 a Mons. Angelo Bartolomasi, primo Ordinario militare dell’Esercito italiano.

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Io difendo la Monarchia - II cap. V parte

I fasci erano divenuti 2200 e i fascisti 310 mila. Il fenomeno milanese dei 1919 si era esteso al nord e nel centro d’Italia, ma in sostanza esso era ancora un fenomeno padano. Bisogna cercare di spiegarsi perché tutti i movimenti politici ci vengono dalla pianura padana: il socialismo, il fascismo e, oggi, la nuova agitazione per la Costituente e per la Repubblica. Milano ci dette la Critica Sociale e l’Avanti!. Milano ci ha dato II Popolo d’Italia e Gerarchia. Milano sembra voglia impartire oggi la sua nuova lezione agli Italiani. Ogni generazione padana aggiunge una sua infelice esperienza a quella dei padri e sempre ha l’aria di insegnare qualcosa agli Italiani delle altre regioni, come se i movimenti politici volta a volta esaltati e rinnegati non fossero milanesi, ma siciliani o pugliesi o napoletani. Ora non v’è dubbio che quei movimenti rappresentano tutti un momento nella vita del popolo italiano, ma i fermenti delle antiche fazioni comunali, ma l'assenza d'ogni tradizione e d’ogni rispetto dello Stato, ma lo spirito di insofferenza e di violenza superano ogni possibile vantaggio. Così i progressi realizzati con il socialismo finirono con gli incendi delle Camere del Lavoro e delle Cooperative ad opera del fascismo padano. Così gli stessi progressi e le numerose opere del fascismo finirono nei più grandi incendi e nelle immani distruzioni delle offese e delle occupazioni straniere.
Non è possibile che la faziosità e la turbolenza ricorrente di una parte del paese, sia pure la parte più favorita e più ricca, debba sempre costituire un titolo di merito nel governo dello Stato nonostante il bilancio fallimentare delle precedenti prove. Nella Storia delle repubbliche italiane del Sismondi si legge che « tutto fu dato a tutti dalla natura» e quindi solo i governi hanno la responsabilità della felicità o infelicità dei popoli.
«La storia c’insegna - dice il Sismondi - che il carattere dei popoli, le virtù o i vizi, l’energia o l’indolenza, i lumi o l’ignoranza non sono quasi mai l’effetto del clima o della particolare razza, ma l’opera del Governo e delle leggi : che tutto dalla natura vien dato a tutti, ma che il Governo conserva questa comune eredità ai suoi soggetti o ne gli spoglia».
In tempi di alto progresso industriale in cui la vita dei popoli può dipendere dal possesso di alcune materie prime, non ci pare facile sostenere la tesi del Sismondi, ma probabilmente lo storico voleva affermare l’influenza della tradizione statale e del suo secolare reggimento nel comportamento di un popolo. Ora è noto che è mancata al nord l’esperienza di un Governo unitario e quindi, quella seria tradizione dello Stato, così radicata, per altro, in Piemonte e nel sud della penisola. Questo spiega il diverso comportamento di città come Napoli, Bari, Palermo nelle presenti distrette della Patria italiana, rispetto a Milano, Bologna, Cremona costantemente pronte alla guerra civile.
Scrive lo stesso Sismondi a pag. 61 del terzo volume della sua Storia (1) a proposito della turbolenza di Firenze al tempo dei Ciompi; «Trovandosi allora a Firenze di molta minuta gente la quale o per l'indole del lavoro suo normale o per miseria o dipendenza non era atta a nodrire liberali pensieri; costoro non potevano venire a consulta senza muoversi quasi ad ebbrezza; né tutti insieme operare senza concitarsi a furore. E sotto il nome di libertà non avevano essi, nell’esercizio di un potere pel quale non erano fatti, cercato mai altro che l’occasione di arricchirsi col saccheggio e con le rapine ».
Come si vede quel costume è tenace in Italia e il fascismo annullando la faticosa opera morale del Risorgimento lo ha ravvivato. Quel cattivo costume finirà però con lo spezzare la breve tradizione unitaria dello Stato italiano.
Il fascismo fu per le sue ideologie, pel suo razzismo, pel suo autoritarismo, pel suo imperialismo aggressivo, per il conto che esso faceva delle piccole nazioni europee, l'Antirisorgimento.
Ed ora, venuto a morte, quel movimento dà i suoi frutti velenosi: la Repubblica (sociale o partigiana) e la disunione della Patria. Le polemiche tra nord e sud sono ora più aspre di quel che non fossero tra piemontesi e napoletani al tempo della calata del Cialdini a Gaeta. Nella crisi dell'ottobre 1860 sono contenuti numerosi insegnamenti che si dovevano tenere presenti nel l'ottobre 1922. Nel Parlamento piemontese vi fu, infatti una memorabile discussione sulla «questione italiana ».
Il dibattito fu aperto il 2 ottobre 1860 con un discorso di Cavour. Nelle settimane precedenti, Garibaldi si era opposto all’annessione pura e semplice, dei territori meridionali al Piemonte fino a quando non fossero liberate Roma e la Venezia. Cavour temeva gli indugi perché pensava che il Dittatore delle Camicie Rosse poteva essere trascinato a risolvere la questione italiana con la
rivoluzione mazziniana e con un attacco improvviso a Roma. I consiglieri del Generale insistevano infatti per la immediata spedizione sulla città del Papa. Vi fu uno scambio di messaggi e di proclami assai aspro tra Napoli e Torino. Dopo avere accennato al dissenso con il generale Garibaldi, Cavour disse; «Custodi fedeli dello Statuto del quale a noi più che ad altri incombe l’esecuzione più scrupolosa, non crediamo che la parola di un cittadino per quanto segnalati siano i servigi da lui resi alla Patria, possa prevalere all'autorità dei grandi poteri dello Stato. Però è debito assoluto dei Ministri di un Re costituzionale di non cedere dinnanzi a pretese poco legittime anche quando sono avvalorate da una splendida aureola popolare e da una spada vittoriosa ».
L’11 ottobre Cavour chiariva ancora la propria posizione rispetto a Garibaldi: «Se egli è dittatore di Napoli è pure il cittadino che come noi ha giurato lo Statuto».
Poiché in sostanza la Corona non riteneva di poter cambiare i suoi consiglieri e i ministri non potevano modificare i loro consigli, ecco che Cavour chiamava arbitro il Parlamento a decidere del dissidio tra il governo del Re e il Dittatore.
Questo precedente avrebbe dovuto essere presente agli uomini politici nell'ottobre 1922 quando in seguito al congresso di Napoli e alle richieste di Mussolini, il Gabinetto Facta senz'altro piegò (2) e si dimise. Invano il Re aveva insistentemente consigliato di convocare e interrogare la Camera perché fosse chiarita la situazione e data autorità al Governo per le sue risoluzioni nei confronti del fascismo. Egli è che da tempo, il rispetto alla Camera era andato mancando, il suo prestigio declinava e sempre più decadeva l’autorità del governo e la fiducia nel sistema parlamentare. Così fece difetto l'atteggiamento dei deputati e dei senatori che si affrettarono ad acclamare Mussolini dittatore. Quanti osarono schierarsi contro? Quanto influì sulle decisioni del Re, scrupolosamente costituzionale, la compattezza della Camera e del Senato in favore del fascismo, il plauso della grandissima maggioranza dell'opinione pubblica delirante in ogni città d'Italia?
Pertanto si apriva minacciosa nel 1922 la crisi che con molte difficoltà e grande accorgimento aveva potuto essere superata nel 1860-61.
« Rivoluzione e governo costituzionale — esclamava Cavour nella sua relazione al progetto di legge che autorizzava ad accettare e stabilire per decreto l’annessione delle provincie dell'Italia centrale e meridionale (2 ottobre 1860) non possono coesistere lungamente in Italia
senza che la loro qualità non produca una opposizione e un conflitto il quale tornerebbe a solo profitto del nemico comune ».
Nel 1922 Mussolini pretese di conciliare la costituzione con la rivoluzione e questo pasticcio nefasto fu portato innanzi per 21 anno sino alla distruzione e invasione del Paese.


        BISMONDO SISMONDI: Storia delle repubbliche italiane del Medio Evo. Milano, 1851.


È opportuno rilevare che In occasione consimile, il Governo del Piemonte si comportò in maniera opposta. L’8 settembre 1860 in seguito alla richiesta di Garibaldi di congedare Cavour, i ministri Farini e Fanti misero i loro portafogli a disposizione del Sovrano. 
Vittorio Emanuele II poté dichiarare «di non voler mutare  né politica né ministri, avendo questi la fiducia sua e del Parlamento, ed essere disposto a far conoscere i suoi divisamenti a Garibaldi e non temere le sue risoluzioni, qualunque potessero essere le conseguenze, non esclusa quella di salire a cavallo e usare la forza». Questo straordinario elemento di chiarificazione
che solo poteva essere portato dal gran Re nella calda e romantica atmosfera del Risorgimento, è mancato — e si capisce — nell’ottobre 1922, giacché invece di simile atmosfera vi era, nel 1922, la pressione della piazza e della gente armata e la disgregazione del Parlamento.


sabato 20 gennaio 2018

Un'offesa ai morti

I promotori del processo staliniano, tenutosi a Roma, all’Auditorium, la sera del 18 gennaio, dove caso unico nella storia, vi era un imputato, il Re Vittorio Emanuele III, un pubblico ministero, una parte civile, ma non un avvocato difensore, non hanno pensato che, sottoponendo a questo  processo il Re per la firma delle Leggi cosiddette razziali, e non gli effettivi estensori delle stesse, offendevano indirettamente decine e decine di migliaia di morti del Regio Esercito, della Regia Marina e della Regia Aeronautica che, sia prima che dopo l’8 settembre 1943, avevano aiutato gli ebrei ed avevano dato inizio alla Resistenza contro i nazifascisti in nome di quel Re.

Se alle Fosse Ardeatine furono trucidati diversi italiani, di religione ebraica, numerosi furono i Reali Carabinieri, gli ufficiali  superiori, come Cordero Lanza di Montezemolo, ed i  Generali Simoni e Fenulli, egualmente massacrati in quella stessa sede, e se si ricorda Bruno Buozzi, fucilato sempre dai tedeschi alla Storta, non si può dimenticare che insieme con lui furono fucilati il Generale Dodi ed altri ufficiali, né si può dimenticare il Generale Perotti, fucilato il 5 aprile 1944, al Poligono del Martinetto a Torino. 
E possiamo dimenticare ben quattro Ammiragli, Carlo Bergamini, affondato con la corazzata Roma, colpita da bombe tedesche il 9 settembre 1943, Federico Martinengo, ucciso, sempre in tale data, combattendo contro unità navali germaniche, e Inigo Campioni e Luigi Mascherpa, fucilati a Parma, dopo un processo farsa da parte della repubblica sociale mussoliniana, rei di avere difeso Rodi e Lero dai tedeschi sempre dopo l’8 settembre. 
E la Divisione Acqui a Cefalonia e Corfù con il Generale Antonio Gandin ed il Colonnello Romagnoli? E i componenti delle prime formazioni di patrioti che dettero inizio alla Resistenza particolarmente in Piemonte e poi nel resto dell’Italia Settentrionale, perché si opposero  al tedesco invasore? Per un giuramento prestato, ed a chi era prestato questo giuramento se non a S.M. Vittorio Emanuele III? Ed a quale Re pensava l’ignoto prigioniero della cella n.13 di Via Tasso a Roma, carcere dei patrioti arrestati dopo l’8 settembre, che incideva sul muro la scritta, ancor oggi visibile: ”L’anima a Dio, la vita al Re, il cuore alla donna, l’onore a me“. 
Ha pensato a tutto questo la presidente delle comunità ebraiche? Sa anche che il primo reparto che entrò in linea a fianco delle truppe angloamericane l’8 dicembre 1943, a Montelungo, portava sulla divisa lo scudetto sabaudo ed era stato più volte visitato nella sua fase di addestramento proprio da quel Re? Si è mai soffermata sulla Via Prenestina all’altezza di Mignano Montelungo a visitare il Sacrario Militare dove riposano le spoglie di quei combattenti della Guerra di Liberazione e nei lager sa quante centinaia di migliaia di militari italiani furono rinchiusi, sempre per fedeltà a quel giuramento a quel Re ? E di questi oltre 600.000 alla proposta di poter tornare in Italia, aderendo alla repubblica sociale il 92% degli ufficiali rispose negativamente e l’87% dei militari di truppa! Ha mai letto la tragica fine, nella notte tra il 27 e 28 agosto 1944, della Principessa Mafalda di Savoia a Buchenwald?
Noi onoriamo e ci inchiniamo davanti alle innocenti vittime della ferocia nazionalsocialista hitleriana, abbiamo visitato a Gerusalemme, con animo commosso e partecipe lo Yad Vashem, fino alla Hall of Names, con i nomi delle vittime della Shoah, ma chiediamo eguale rispetto per chi è caduto per fedeltà al giuramento di fedeltà al Re Vittorio Emanuele III su cui si vogliono far ricadere tutte  le responsabilità e tutte le colpe e che ebbe l’umiltà di scrivere al figlio Umberto, al momento della abdicazione: ”per quasi mezzo secolo ho servito il mio Paese anche in ore difficili ed amare...mirando sempre, anche se posso avere errato, al bene della Nazione.”


Domenico Giglio, Presidente del Circolo Rex