NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 26 dicembre 2020

Regina Elena: esempio di bontà e di grandezza umana

 di Emilio Del Bel Belluz

 

Una volta lessi in una dedica scritta su un libro che chi non ha provato ad essere genitore non può capire il Santo Natale. Questa considerazione mi fa pensare alla Santa Famiglia di Nazareth e, nel caso specifico, al Santo Natale , in cui essa diventa la protagonista. Ogni volta che arriva questa festività, il mio pensiero va alla Regina Elena del Montenegro, moglie del Re Vittorio Emanuele III. Una donna generosa, che nella sua difficile vita aveva in cuore i poveri, gli umili, le persone che il destino aveva abbandonato ed emarginato. Quando osservo la statuina della Madonna collocata nel mio presepe, allestit

o in un angolo della casa, mi viene in mente la Regina Elena, che dopo la morte dell’augusto sovrano dovette esiliare a Montpellier: una mamma buona che aveva sempre nel cuore i suoi figli, e la sua famiglia lontana. Questa donna coraggiosa, quando viveva in Italia, aveva trasformato alcune stanze del Quirinale in depositi per cibo, vestiti, e ogni altra cosa che venivano poi distribuiti alle persone bisognose, per rendere la loro vita più sopportabile. La si può definire la Regina della carità e dell’amore verso gli altri. Le opere di beneficenza la facevano stare in pace con sé stessa, perché amava gli altri più di sé medesima. Possedeva la stessa umiltà ed umanità del buon frate San Leopoldo Mandic’, pure lui nato nella terra lontana del Montenegro, terra di pastori. Il buon frate diventò un confessore instancabile che conduceva le persone che incontrava all’ovile. 

La Regina aveva lo stesso sorriso di suo figlio Re Umberto II, che con la mamma condivideva la sensibilità verso gli indigenti e coloro che soffrivano nello spirito. 

Il Re aveva compreso che per trovare la serenità bisognava confidare in Dio ed aiutare il prossimo. Una donna che ho conosciuto, raccontava che ogni tanto la Regina la chiamava e le chiedeva con il sorriso, di aiutarla a cucinare per i poveri. La signora che abitava a Roma e faceva la domestica non sapeva dirle di no. In quei momenti si vedeva la vera Regina Elena, donna di carità, le cui mani instancabili erano sempre a disposizione di quelli che pativano. Nel periodo bellico si prodigava tra i feriti come una mamma che aveva davanti il figlio ferito a cui concedere una dolce carezza. 


Nel suo esilio in Francia la regina amava andare a pescare in barca; il profumo ed il rumore del mare la facevano stare bene. Amava sia il mare che il fiume, le piaceva la natura, che rispettava, e in quei momenti le sembrava d’essere nella sua terra: nella sua Italia. Negli anni in cui visse a Montpellier furono raccolti in un libriccino alcuni aneddoti del suo modo di approcciarsi agli altri. Ne trascrivo uno.

 

“Il guardiano del canale RhóneSète, Pierre Ollombel, dove spesso Elena si recava a pescare in compagnia di Lamarque, aveva quattro figli, di cui tre bambine e un maschietto. Un giorno di settembre la Regina si trovava con il professore su una barca, al centro del canale. Lamarque aveva gettato l'amo e stava facendo scorrere il filo nel verricello. A un tratto Elena lo pregò di accostare. Aveva scorto, presso la casetta del giardino, una bambina. Raggiunse la casa degli Ollombel, e all'uomo che era sulla soglia domandò una sedia. Si sentiva stanca, disse, e voleva riposare un poco. In realtà desiderava soltanto conoscere la piccola che aveva veduto di lontano.
Quando seppe che la casa ospitava ben quattro bambini sorrise allegra, li fece chiamare, li vezzeggiò. In breve Jacqueline, Monique, Michèle e Nicole, i quattro figli del guardiano del canale, diventarono i suoi piccoli amici, i suoi beniamini. Ad essi recò spesso ninnoli e giocattoli. Il Natale di quello stesso anno fece giungere alla casa del guardiano, una bambola, un orsacchiotto, piccole lenzuola di lino e un pagliaccetto per l'ultimo nato”. Tanta era la tenerezza e l’amore quando si avvicinava ai bambini, soprattutto, quelli orfani. Per le sue virtù e la sua vita dedicata agli altri è stata nominata Serva di Dio dalla Chiesa Cattolica. La Regina d’Italia era nata con il cuore buono, e il buon Dio l’ha voluta con sé il 28 novembre 1952. Riposa assieme al marito, Vittorio Emanuele III, nel Santuario della Natività di Maria, a Vicoforte Aleksandra Fedorovna, Imperatrice di Russia scrisse : “ Gli occhi luminosi e il cuore gentile di Elena d’Italia sono il più bel dono che Sua Maestà Vittorio Emanuele III abbia potuto fare agli italiani”.

 

venerdì 25 dicembre 2020

Ricordi del Partito Nazionale Monarchico - tre conferenze del 1958

All’indomani delle elezioni politiche del 1958 che avevano visto la sensibile flessione elettorale del PNM, superato nel numero di voti e di seggi dal Partito Monarchico Popolare di Achille Lauro, il partito entrò in un periodo di crisi anche economica per cui vi fu un’assenza di iniziative di qualsiasi genere. In particolare la federazione di Roma, che aveva una bellissima sede in Via Quattro Fontane 143, cadde nel letargo più completo, per cui l’allora Commissario Nazionale del Movimento Giovanile del PNM ritenne suo dovere politico e morale cercare di ravvivare gli iscritti con una iniziativa che fu necessariamente accolta.

In effetti nelle elezioni del 1958 i giovani del PNM, in tutta Italia, si erano sobbarcati a tenere comizi oltre al solito “attacchinaggio” dei manifesti, per sopperire alla mancanza in molti casi di oratori di spicco che difendevano il proprio seggio e non andavano a tenere discorsi al di fuori del loro collegio, per cui l’iniziativa presa a Roma, rientrava in questa “supplenza”, ed in una urgente prospettiva di rinnovamento delle strutture organizzative, dimostratesi in molti casi carenti.

Perciò fu organizzato un ciclo di conferenze, tenute nel salone della federazione romana, che poteva ospitare un centinaio di persone. Gli oratori scelti furono Carlo Delcroix, che purtroppo non era stato rieletto, Roberto Cantalupo e Cesare Degli Occhi, che invece avevano mantenuto il loro seggio di Deputato, il primo a Roma ed il secondo a Milano. Erano effettivamente quanto di meglio per pensiero politico e fedeltà monarchica poteva rappresentare il partito.

A questo proposito è bene ricordare l’opera di formazione e cultura storico-politica che l’ambasciatore Cantalupo aveva svolto con il periodico “Governo” e l’appassionata difesa della Monarchia Sabauda, che nelle difficili piazze del Nord aveva svolto, all’epoca del referendum l’avvocato Cesare Degli Occhi, che anche nel congresso della Democrazia Cristiana del 1946 aveva combattuto per la scelta istituzionale monarchica, venendo, purtroppo sconfitto. Per non parlare di Delcroix, grande invalido della Guerra 1915-1918, per un tragico evento, avvenuto nel 1917,che lo privò della vista e delle mani, che, con la sua appassionata oratoria, densa di contenuti storici aveva percorso tutta l’Italia riempendo le piazze come pochi altri oratori, anche di altri partiti, erano mai riusciti ad ottenere, e di cui ricorderemo la frase finale di un suo discorso romano, nella piazza del Colosseo: “Italia e Monarchia, insieme sono cadute, insieme risorgeranno”, che fu accolta da un uragano di applausi, come non avevamo, né avremmo sentito in altre occasioni.

Le date delle conferenze furono rispettivamente il 4 novembre, il 27 novembre e l’11 dicembre ed il salone della federazione non ebbe posti sufficienti per il pubblico accorso, con numerosi giovani, nonché il grande storico Gioacchino Volpe, sempre presente, per cui tutti ne uscirono rinfrancati. Manifestazioni, è amaro dirlo, che furono forse il canto del cigno di questo partito.

“Haec saepe olim meminisse juvabit”

 

Domenico Giglio 

( all’epoca Commissario nazionale del Movimento Giovanile del PNM ).

mercoledì 23 dicembre 2020

"Lo Sparatore sono io!"

Il coraggioso libro di uno di noi...


Questo testo-inchiesta ricostruisce attraverso gli occhi di un poliziotto Antonio Campanile - IL PROTAGONISTA - di servizio nel 1973 all'Aeroporto di Fiumicino la storia del primo attentato avvenuto in quello scalo, per mano dei Fedayyn palestinesi di "Settembre Nero", finanziati e armati in quell'occasione da Gheddafi.

 Il fatto in questione è uno degli eventi più sanguinosi e dimenticati degli anni di piombo, costato la vita a ben 32 persone (tra cui 2 bambini,6 italiani e un finanziere di appena 20 anni).

 Nella ricostruzione eseguita dagli scrittori emergono chiaramente attraverso un amplia gamma di documenti desegretati dell'Archivio di Stato ed articoli di giornale di quel tempo, le responsabilità del governo italiano in carica in quel momento, che aveva come Presidente del Consiglio Mariano Rumor e come Ministro degli Esteri (e cervello politico) Aldo Moro. Responsabilità palesi per la mancata predisposizione di una difesa del complesso, aggravata dal fatto che, nei giorni antecedenti alla tragedia i servizi segreti di mezzo mondo avessero avvisato il governo italiano e gli organi di sicurezza. A tutto ciò il libro aggiunge un analisi dettagliata di tutti i fatti risalenti a quel periodo, circa i collegamenti tra le stragi avvenute in Italia e il legame tra queste e la politica del nostro paese verso il Medio Oriente, eventi che ebbe come inizio proprio questo attentato rimosso a tutt'oggi dalla storiografia ufficiale. Negli approfondimenti si certifica tra l'altro oltre alla già conosciuta politica del libero accesso di armi dei paesi del blocco sovietico in Italia verso la Palestina, le responsabilità del nostro stato

 nell'andata al potere e nel consolidamento del regime di Gheddafi e la connivenza di molte alte autorità della Repubblica Italiana nel tentativo di assassinio non riuscito da parte dei palestinesi del premier israeliano Golda Meir, durante la sua visita in Italia nel gennaio 1973. Ma soprattutto e cosa più importante viene comprovata la scarsità pressoché totale d'interesse da parte di tutti gli organi politici nostrani, verso la sicurezza degli italiani, nonché la poca attenzione sia per le vittime di questo attentato sia per quelle di altri attuati dai palestinesi in Italia e per i cittadini italiani che vennero barbaramente espulsi dalla Libia alla salita al potere del Colonnello.

 

NOTA AUTORE; Francesco Di Bartolomei (Roma 1976),uno degli scrittori è monarchico da sempre ed è stato per molti anni Segretario Nazionale del Fronte Monarchico Giovanile.

 Durante la Giunta Alemanno è stato eletto consigliere al Secondo Municipio di Roma, come indipendente nel centro-destra, e da quello scranno fu l'ideatore ed uno dei promotori dell'intitolazione a Villa Ada-Savoia di due vie ai nostri sovrani; il Re Umberto II e la Regina Maria José di Savoia; nonché difese la denominazione della scuola "Principessa Mafalda" di Via Lovanio nella capitale, da un improprio cambio di nome che voleva eseguire il provveditorato, ufficialmente per motivi amministrativi.

 "Lo Sparatore sono io!" Libro di 202 pagine edito ed acquistabile su Amazon con carta di credito euro 13,07.


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domenica 20 dicembre 2020

Capitolo IX Carnera replica la Vittoria a Parigi

di Emilio Del Bel Belluz 

Carnera aveva ottenuto la sua prima vittoria per KO a Parigi e la stampa lo esaltava con lunghi articoli e grandi foto sui giornali. I cronisti avevano speso parole di lode nei suoi confronti ed affermarono che era nato un nuovo campione. Questo successo fu importante, perché Jeff gli organizzò un secondo incontro con il pugile Joe Thomas che picchiava forte, e per Carnera non sarebbe stata una passeggiata. La borsa in palio era di tremila franchi. L’incontro si sarebbe svolto sempre a Parigi il 25 settembre, non c’erano che due settimane di tempo per prepararsi. Carnera, dal canto suo, avrebbe boxato anche la sera stessa, al circo era abituato ad affrontare anche dieci avversari di fila. Il suo allenatore gli disse che la preparazione sarebbe stata dura e che aveva ancora molto da imparare. L’indomani partirono per Arcachon, 

Primo si era portato i guantoni dell’incontro, voleva fare un regalo. Alla stazione alcuni lo riconobbero e gli vennero vicino, Carnera anche se era un gigante si considerava una persona timida. Non era abituato a questo tipo di complimenti e nel suo cuore sperava che la sua vittoria non fosse un sogno. Il suo allenatore gli concesse un giorno di libertà e quando giunse nella casa della vedova che lo ospitava avrebbe voluto raccontarle del match, delle emozioni provate, ma la donna gli sorrise, e le bastò sapere che l’incontro era andato bene. I guantoni li portò nella sua stanza, si mise a letto, era stanco del viaggio. Non aveva visto nulla della bella Parigi, ma avrebbe avuto tempo in seguito. Prima di addormentarsi, come sempre faceva, pregò e pensò alla sua famiglia e alla maestra che forse dal cielo aveva visto il suo capolavoro. Il giorno dopo, decise di andare al bistrot, portò con sé i guantoni del match, gli piaceva regalarli alla giovane con cui conversava la mattina. Questa ragazza gli piaceva, era giovane e bella, ma forse era fidanzata con qualcuno. Da quando era in Francia aveva conosciuto delle ragazze, ma non era stato possibile approfondire la loro amicizia, a causa del suo lavoro: prima con il circo, che lo portava a girare centinaia di paesi, e ora con la boxe. 

Al bistrot fu accolto in modo trionfale, gli dissero che i giornali avevano pubblicato la sua foto, e che era già famoso. La giovane gli corse incontro quando lo vide entrare, lo abbracciò, e Carnera l’alzò verso il cielo come se fosse un fuscello, e volle donargli i guantoni del suo primo incontro. Quel giorno si fermò a lungo, facendo una colazione con sei brioches e dell’ottimo caffè, e si intrattenne a parlare molto con la giovane. Il padrone del locale non disse nulla, quei guantoni gli sarebbe piaciuto esporli. Nella vita ci sono dei momenti in cui si è felici, sono attimi che passano presto, e Carnera avrebbe voluto fermarli per sempre. La ragazza gli promise che nei prossimi giorni gli sarebbe piaciuto fare una passeggiata con lui. Il lavoro, quel giorno, non glielo permetteva, ma era felice ed orgogliosa del dono ricevuto. 

L’indomani doveva tornare in palestra, tra due settimane ci sarebbe stato l’altro match, e non poteva deludere il suo grande pubblico. Passò la giornata al cinema da solo, gli servì per allentare la tensione accumulata nell’incontro di boxe. Il cinema era una delle sue passioni, e quel giorno si godette un film davvero interessante, che gli fece ricordare il suo paese. Narrava la storia di una famiglia, il cui padre era dovuto partire per la guerra, lasciando a casa la moglie e i figli. Dall’orribile guerra faceva poi ritorno. Il film esaltava l’eroismo dei soldati, di coloro che immolarono la loro vita per la patria e per un futuro migliore. Ribadiva, inoltre, l’importanza della famiglia, quale fonte dei veri valori. A Primo gli mancava molto, infatti, erano anni che non rivedeva i suoi, anche se li portava sempre nel suo cuore. Sentiva nostalgia anche della gente del suo paese con la quale aveva condiviso gli anni della sua fanciullezza. La settimana passò velocemente, in palestra erano venute alcune persone ad assistere agli allenamenti, gente che aveva letto i giornali e sentiva parlare di un pugile che avrebbe fatto fortuna nella boxe. I suoi compagni di palestra avevano un atteggiamento referenziale nei suoi confronti, gli avevano chiesto di quell’incontro e delle emozioni che aveva provato. Alla mattina, Primo era in piedi alle cinque, correva spesso lungo il fiume, e ne respirava il suo profumo. Gli piaceva vedere la gente che andava al lavoro, le luci delle case che si accendevano ad una, ad una ed immaginava che in ognuna ci fosse una famiglia attorno al desco per la colazione. 

Una mattina, un vecchio lo aveva fermato per chiedergli qualche soldo, e Primo non gli aveva negato una parola, e del denaro. L’anziano raccontò che dormiva in una panchina, anche se in passato era stato ricco ed aveva combattuto nella armate bianche del Generale Wrangler, come ufficiale dello Zar Nicola II, che aveva sempre onorato. Dopo la sconfitta contro i rossi, s’era rifugiato a Parigi, come avevano fatto gran parte dei nobili russi. Da allora i due s’incontravano ogni mattina per una breve chiacchierata e Primo gli offriva sempre la colazione al bistrot cui era solito frequentare e dove si sentiva come in famiglia; con la ragazza non era riuscito a fare quella passeggiata, ma non gli importava, gli piaceva vederla e in qualche modo contraccambiare la sua amicizia. Primo aveva un grande cuore, e le persone che incontrava erano per lui importanti, ed anche quel vecchio lo divenne. La sua maestra gli aveva sempre detto che una vita diventa meravigliosa nel momento in cui puoi fare qualcosa per gli altri. Mancavano solo due giorni al combattimento, la voglia di tornare sul ring era tanta, e sperava di farcela. Il giorno prima della partenza, dopo l’allenamento in palestra con il suo allenatore , volle andare dal curato, con il quale aveva fatto amicizia e che vedeva la domenica alla messa. Il vecchio prete stava pregando con il suo breviario in mano, davanti all’immagine della Madonna. Carnera gli volle esporre il caso pietoso del vecchio ufficiale senza dimora. Il prete accettò del denaro che Primo gli diede per occuparsi di lui e si raccomandò di non dire nulla. Lasciando la chiesa, avvolta nel silenzio, chiese al curato di pregare per lui. L’indomani, assieme al suo allenatore, partì per Parigi, e riprovò l’emozione della prima volta. In treno Carnera lesse i giornali, si parlava ancora di lui, del gigante italiano che tornava a combattere nel match contro Joe Thomas, un incontro che avrebbe verificato la forza e il coraggio di Primo. Nell’articolo corredato da una bella foto si raccontava la sua storia, il suo arrivo in Francia per lavorare, prima come garzone in una segheria e poi come attrazione in un circo. 

La sera del suo secondo combattimento, Primo notò che nella sala c’erano molte bandiere italiane, che lo facevano sentire come se fosse a casa. Tanti italiani che risiedevano a Parigi erano venuti per incontrare il loro connazionale. Il match era iniziato da parte di Primo con una velocità di colpi davvero incredibile e l’avversario crollò al tappeto, alla seconda ripresa, mentre la folla esultava. Il gigante aveva vinto e convinto ancora una volta. Primo durante la proclamazione teneva la bandiera tra le mani e l’alzava per salutare gli italiani presenti. Quella sera, dopo il combattimento, la gente lo aspettava fuori per salutarlo, e chiedergli l’autografo. Qualcuno aveva una sua foto e gli chiedeva di firmarla. Carnera aveva mani grandi come badili, e la penna spariva quando l’impugnava. Si dimostrava piuttosto in difficoltà, non essendo abituato a essere festeggiato. Tanti furono gli italiani che volevano stringergli la mano, e abbracciarlo. Tra di loro vi erano anche delle ragazze italiane che facevano la fila per complimentarsi con lui, per dirgli che erano orgogliose del fatto che un loro compatriota avesse tanto successo. Carnera avrebbe voluto che ci fossero i suoi genitori a fargli compagnia e a condividere questa gioia e questo entusiasmo. Sentiva nel suo cuore la felicità di far partecipare a questo momento quei disperati che come lui avevano dovuto emigrare per sopravvivere. 

Era gente che aveva dovuto spendere dei soldi per vederlo combattere, alcuni di essi sventolavano la bandiera italiana, commuovendolo. Dopo il match andò in uno dei ristoranti più famosi di Parigi, assieme al suo allenatore e agli organizzatori. Sperava che i duri colpi inflitti al suo avversario non avessero avuto delle serie ripercussioni, anzi, si augurava d’incontrarlo nel ristorante, ma non lo scorse. Carnera pensava che sarebbe stato giusto onorare anche il perdente, un domani, molto probabilmente, sarebbe toccato anche a lui. In quel locale le persone sfoggiavano dei vestiti molto eleganti, e si stupì nel vedere tante donne che si accompagnavano con persone molto più anziane di loro. Quello era un mondo inusuale per lui, che l’avrebbe dimenticato la prima volta che avesse toccato il tappeto, come lo sconfitto della serata. Nella vita c’e un inizio e una fine, momenti di gloria e di sconfitte, l’importante era saper adattarsi ad entrambi. Uno scrittore scrisse:” Vittoria e sconfitta sono nelle mani del Signore, ma del tuo onore sei tu signore e re .” Quella sera al ristorante bevve molto champagne, non lo aveva mai assaggiato nella sua vita, era squisito, ma dava alla testa. Primo Carnera aveva un grande appetito e quella sera mangiò avidamente un’enorme bistecca, mai vista prima, portata con un vassoio. Si soffermò a parlare con dei giornalisti che gli chiesero, pure, se conosceva Mussolini. Rispose che non l’aveva mai incontrato di persona. La serata al ristorante durò fino alla mattina, gli sarebbe piaciuto andarsene, era stanco, sentiva qualche dolore alla mano, ma doveva rimanere al suo posto, la sua presenza era fondamentale. Vi erano degli uomini d’affari che volevano conoscerlo di persona, stringergli la mano. Carnera lasciò la sala per ritirarsi a dormire, era stanco, ma felice per tutto quello che stava accadendo. Nell’albergo gli avevano messo un letto grande, ma non era sufficientemente comodo. Il giorno dopo i giornali parlavano di questo incontro e del dominio assoluto di Carnera, era nata una nuova stella della boxe, un atleta che era alto come una quercia. I quotidiani parlavano dell’entusiasmo dei tifosi per questo spettacolare atleta e volevano rivederlo sul ring, al più presto. Il suo allenatore aveva già sottoscritto un nuovo contratto; il prossimo combattimento si sarebbe svolto il 30 ottobre 1928, con l’avversario l’italiano: Salvatore Ruggirello. 


L’indomani l’allenatore Paul Journée, lo svegliò, perché dovevano prendere il treno per Arcachon. Quella mattina fece una colazione talmente abbondante che non rimase nemmeno una brioche per il suo allenatore. In serata stava nella sua stanza presa in affitto dalla vedova, che lo aveva atteso come una madre.

lunedì 14 dicembre 2020

Italia in attesa di storia Vittorio Emanuele III, tre anni dopo

Pubblichiamo, con una piccola nota, l'articolo del Prof Mola circa avvenimenti recenti che hanno riportato in Patria le Auguste salme del Re e della Regina.
Con tutto il rispetto ne dissentiamo. 
Siamo felici del ritorno in Italia e del poter visitare le venerate Salme con maggiore facilità. 
Siamo felici che la tomba del Re Soldato non possa essere oggetto di attentati islamisti o similia. 

Ma... "Hic manebimus optime" per noi sarà solo quando saranno nel loro posto naturale al Pantheon.

Lo staff






di Aldo A. Mola

Il Re che venne dal mare

Tre anni fa arrivò in Italia la salma di Vittorio Emanuele III, sul trono dal 29 luglio 1900 al 9 maggio 1946. Era tumulata nella Chiesa di Santa Caterina ad Alessandria d'Egitto, ove il Re morì il 28 dicembre 1946. Giunse a Vicoforte, in provincia di Cuneo, Vecchio Piemonte, verso le 12 del 17 dicembre 2017, una domenica. Cielo azzurro, neve abbacinante. Avvolto in tricolore con scudo sabaudo il feretro fu portato a spalle nella Cappella di San Bernardo, cuore del Santuario-Basilica voluto quale Mausoleo della Casa da Carlo Emanuele I, duca di Savoia dal 1580 al 1630.

Lo attendeva la salma della consorte, la regina Elena nata principessa del Montenegro, sposata nel 1896, madre di quattro figlie (Jolanda, Mafalda, Giovanna e Maria) e del principe ereditario, Umberto, Re dal 9 maggio al 13 giugno 1946. Rimase sovrano sino alla morte (Ginevra, 18 marzo 1983), perché non riconobbe mai l'avvento della repubblica. Ritenne illegale l'assunzione delle funzioni di Capo dello Stato da parte di Alcide De Gasperi, sorretto da tutto il governo, a eccezione di Leone Cattani. Avrebbe potuto resistere al “gesto rivoluzionario” (come egli scrisse) o al “colpo di stato” (come dissero altri), arroccandosi nel Quirinale o riparando in altra terra del regno oppure protestare e lasciare il suolo patrio, senza riconoscere il “fatto compiuto” né abdicare. Preferì la seconda via per risparmiare una guerra civile a un Paese che ne aveva alle spalle una durata due anni, fidando nella certezza di una “riconciliazione”.

Lacerata in fazioni che contavano su appoggio militare di potenze ormai con le armi al piede all'indomani della “cortina di Ferro” da Stettino a Trieste, l'Italia era sotto l'incubo del Trattato di pace, che De Gasperi aveva implorato non fosse reso noto perché duramente punitivo nei confronti del contributo dato dal Paese alla vittoria delle Nazioni Unite e della stessa non sempre limpida “guerra partigiana”. Quanto il Trattato fosse inaccettabile venne confermato a Parigi il 10 febbraio 1947, quando il rappresentante di Roma, Antonio Meli Lupi di Soragna, lo firmò con la propria stilografica e impresse sulla ceralacca lo stemma dell'anello di famiglia.

La salma della Regina era giunta a Vicoforte verso le 18 del giorno 15 precedente, recata con un furgone da Montpellier ove la mattina presto il feretro era stato estumulato e deposto in una “custodia” appositamente approntata. Affiancato dal rappresentante della Casa, nella breve cerimonia di commiato, convocate televisioni, il sindaco d’Oltralpe vi appose una coccarda francese. Alla sua tumulazione presenziarono il Rettore del Santuario, don Meo Bessone, vicario diocesano, il sindaco Valter Roattino, il conte Federico Radicati di Primeglio per Casa Savoia e uno studioso. Nel gennaio 2013, di concerto con la Principessa Maria Gabriella di Savoia, aveva chiesto al vescovo di Mondovì, Luciano Pacomio, teologo e catechista insigne, se le salme dei sovrani che avevano vissuto insieme mezzo secolo e da 65 anni erano sepolte non solo in due città lontane ma addirittura in due diversi continenti potessero essere congiunte proprio nel Mausoleo voluto da Carlo Emanuele I. La risposta era stata affermativa. Era tempo di pietas e di riflessione.

Diverso progetto era stato coltivato da altri, che per vari motivi non avevano raggiunto lo scopo. Al termine di un lungo iter preparatorio, in quel dicembre di tre anni fa il proposito della Casa fu coronato: traslazione e congiungimento delle salme “in Italia”.

 Come noto, dopo la proclamazione del Regno d'Italia, approvato dalle Camere il 14 marzo 1861 e all'indomani dell'annessione di Roma, i Re non ebbero nella Capitale una propria “Tomba”, come del resto non ebbero una reggia nuova. Abitarono il Palazzo dei Papi sulla sommità del Quirinale, oggi Presidenza della Repubblica. Alla morte di Vittorio Emanuele II, confortato da monsignor Valerio Anzino, come ha documentato Aldo G. Ricci, sovrintendente emerito dell'Archivio Centrale dello Stato, preoccupazione precipua del governo Depretis, con Francesco Crispi all'Interno (entrambi massoni), fu di dargli degna sepoltura in Roma. Nella Basilica di Superga, sovrastante Torino, riposavano i Re di Sardegna: una storia superata dall'avvento dell'Italia. Perciò le spoglie di Vittorio Emanuele II, morto nel 1878, a soli 58 anni, furono deposte al Pantheon, con l'insegna “Padre della Patria”, anziché “Re d'Italia”, per non esasperare il conflitto con Pio IX che, come i suoi successori sino all'11 febbraio 1929, non riconobbe la debellatio dello Stato Pontificio del 1870 e dal 1860 scomunicò Vittorio Emanuele II, Cavour e tutti i loro ministri e collaboratori.

Nel 1885, un anno dopo il grande pellegrinaggio nazionale al Pantheon, ebbe inizio la costruzione dell'Altare della Patria, possibile Mausoleo dei Sovrani. Il Vittoriano, tuttavia, era lontanissimo dal compimento quando Umberto I, scampato a due attentati nel 1879 e nel 1897, fu assassinato a Monza il 20 luglio 1900 a soli 56 anni. Fu sepolto a sua volta al Pantheon, ove nel 1926 lo raggiunse la Regina Margherita. Solo nel 1927 l’Altare della Patria ebbe compimento. Dal 1921, però, vi riposava il Milite Ignoto, simbolo della Vittoria sorta dall'unione sacra tra la Casa regnante e il popolo italiano.

Nell'Italia repubblicana quale poteva dunque essere il luogo propizio per congiungere le Salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena? Qualunque lembo dell'Italia che nel 1924, con l'annessione di Fiume, conseguì la quasi completa coincidenza dei suoi confini statuali con quelli geografici, pur senza Corsica, ceduta alla Francia dalla repubblica di Genova nel 1768, Malta occupata dagli Inglesi nel 1798, e contea di Nizza, ceduta alla Francia sin dagli accordi di Plombières tra Cavour e Napoleone III (1858) con trasferimento legittimato da plebiscito nel 1860.

Vicoforte era uno dei tanti luoghi possibili, appunto; ma aveva il pregio di essere originariamente proprio un mausoleo sabaudo, nel cuore della Provincia Granda che i Savoia vivevano quale seconda “culla” della Casa, tanto che Vittorio Emanuele III scelse il castello di Racconigi per la nascita del principe ereditario (1904) e da lì andava a vegliare i poderi modello avviati a Pollenzo dal bisnonno Carlo Alberto, morto esule in Portogallo. Per lui e per la regina Elena era anche la terra di cacce al camoscio, pesca di trote e vacanze serene in decenni di torbidi d'ogni genere e, va aggiunto, di attentati alla loro vita, come quello che il 12 aprile 1928 mancò di poco il bersaglio mentre Vittorio Emanuele III andava a inaugurare la Fiera campionaria di Milano, come soleva fare sin dalla prima edizione. Il tritolo collocato nella base di lampioni di ghisa fece venti morti e decine di feriti. Ma quanti altri attentati vennero progettati e sventati nel tempo...

Funerale di Famiglia per il Capo dello Stato

Cerimonia di Famiglia, tumulazione del 15-17 dicembre 2017 si svolse in forma rigorosamente privata. Quando il 28 dicembre 1947 morì ad Alessandria d'Egitto Vittorio Emanuele III era “cittadino italiano all'estero”: non “in esilio”, dunque, bensì nel pieno esercizio dei diritti civili e politici e con lo status di ex Capo dello Stato e comandante delle forze di terra e di mare, a norma dell'articolo 5 dello Statuto albertino, formalmente vigente sino al 1° gennaio 1948, quando entrò in vigore la Costituzione della Repubblica italiana. Nulla di abnorme, quindi, se al trasferimento della salma abbia concorso lo Stato, se attorno al feretro, debitamente ornato, vi fossero Carabinieri e se un caporale della Fanfara della Brigata Taurinense abbia suonato il “Silenzio” mentre il feretro scendeva nell'avello, sul quale sovrasta l'arca con la Stella d'Italia.

All'arrivo della salma della Regina uno dei presenti disse che per rallegrarsene non è necessario essere monarchici. Basta essere italiani. Era il compimento di un “gesto umanitario”, come fece sapere il Quirinale quando la Principessa Maria Gabriella di Savoia ringraziò il Presidente Sergio Mattarella per aver propiziato la traslazione col riserbo perfettamente compreso dalle decine di giornalisti che la mattina del 17 pazientemente affollarono l'immenso sagrato tra il Santuario di Vicoforte e la Palazzata, identica nei secoli dai tempi di Carlo Emanuele.

A rito concluso (quod factum est, infectum fieri nequit...), si susseguirono alcune deplorazioni. Con l'opinabile senso di opportunità che ne ha ridotto il consenso dai 10.700.000 del 2-3 giugno 1946 a molti meno, taluni “monarchici” protestarono contro la sepoltura dei Reali in una “chiesetta di campagna” e chiesero l'immediato trasferimento delle salme al Pantheon. Per oscuri motivi altri non le visitarono affatto. Taluno addirittura asserì che bisognava lasciarle dov'erano: forse ultimo appiglio per lagnarsi della Repubblica.

I conti con la Storia

Sfuggì proprio ciò che invece più avrebbe dovuto contare e conta. La Traslazione doveva far riflettere sul ruolo della monarchia nella storia d'Italia e in specie sulla figura di Vittorio Emanuele III, il “Re isolato”. Invece, pronubi stucchevoli polemiche e incomprensibili silenzi, siamo sempre al punto zero. Il 5 dicembre 2020 in risposta a un lettore che domandò quali sarebbero i “meriti” di quel re, sul “Corriere della Sera” - quotidiano che si batté per l'intervento dell'Italia, impreparata, nella Grande Guerra e appoggiò l'avvento di Mussolini – Aldo Cazzullo scrisse che il sovrano bene fece a valersi di Giolitti nel primo Novecento ma, poiché il suo regno non finì nel 1922, ebbe responsabilità successive imperdonabili: il cedimento al fascismo, le leggi razziali, l'alleanza con la Germania e la disastrosa gestione dell'8 settembre 1943.

In poche righe è impossibile ripercorrere vent'anni e più. Nondimeno va ricordato che il 29 ottobre 1922, mentre in Roma non era ancora entrata alcuna “squadra” fascista e non c'era alcun bisogno di “stato d'assedio”, il Re incaricò Mussolini di formare il governo su parere unanime di politici navigatissimi, industriali, banchieri, massonerie, del partito popolare e della Chiesa cattolica, che aveva già patteggiato intese con il “duce”. Il nuovo governo comprese nazionalisti, liberali, cattolici, democratici sociali, il giolittiano Teofilo Rossi di Montelera, il filosofo Giovanni Gentile alla Pubblica istruzione, Armando Diaz alla Guerra e il massone Paolo Thaon di Revel alla Marina. Non era affatto un “regime”. A metà novembre venne approvato dalla Camera con favore straripante, ove i fascisti erano appena 37, e dal Senato ove erano 2 su 400. Che cosa poteva fare un Re costituzionale? Sciogliere le Camere perché prone a Mussolini? Abolire il diritto di voto perché gli italiani votavano da bestie come ormai pensava Giolitti? Non fu il Re ma l'Italia a cedere a Mussolini perché, occhi roteanti come recitasse a fare la faccia feroce, gestacci, ed eccessi d'alcova, ne sintetizzava aspirazioni e frustrazioni, come documenta il seminario sul “Fascismo magico” organizzato dall'Istituto Storico Politico e Internazionale diretto da Giorgio Galli. Che colpa vi ebbe il re?

Leggi razziali del 1938. Padre Tacchi Venturi S.J. da un decennio metteva in guardia Mussolini dalla piovra giudaico-massonica. In Senato il cattolico Filippo Crispolti chiese solo di “discriminare” i “matrimoni misti” tra cattolici ed ebrei convertiti. Ma ormai la partita era persa. Benedetto Croce non presenziò alla votazione decisiva e nessuno chiese la verifica del numero legale.La legge passò con 150 voti su 400 senatori in carica. Che cosa poteva fare da solo un Re costituzionale? Ignave e opportuniste le Camere (una confezionata dal Gran Consiglio del fascismo, l'altra ora succuba ora rassegnata) votavano tutto quello che Mussolini chiedeva, pretendeva, imponeva. Furono loro ad approvare le leggi razziali. Lì è il punto. Sino a poco prima Vittorio Emanuele III aveva nominato senatori molti ebrei.

Alleanza con la Germania di Hitler? Fu decisa dal governo e votata dalle Camere, con il nazionalista Federzoni presidente del Senato, che non riuscì a opporsi neppure alla indecente invasione fascista di Palazzo Madama che intimò ai patres il conferimento del grado di Primo Maresciallo dell'Impero a Mussolini e, bontà sua, anche al Re, che da capo delle forze di terra e di mare non ne aveva alcun bisogno.

Quanto all'8 settembre, Cazzullo ammette che il groviglio era tale che Vittorio Emanuele III non può essere imputato della sua gestione non ottimale. Fu però il Re l'unico garante dell'armistizio del 3/8 settembre 1943 e della continuità dello Stato d'Italia.

Fu bersaglio della feroce campagna antimonarchica scatenata da Mussolini, prelevato dall'albergo Imperatore al Gran Sasso, trasferito in Germania, issato a capo di uno Stato vassallo della Germania e finito come sappiamo. Ma due anni di contumelie repubblichine contro la monarchia lasciarono il segno. Lo si vide il 2-3 giugno 1946 quando, facendo “saltare i tombini”, tornarono a galla tutti gli odi contro l'unificazione italiana e Casa Savoia rimasti sotto traccia dal 1859-1870 e oltre e, al netto delle migliaia di brogli, decretarono la vittoria della repubblica che dovette alla propaganda antimonarchica della RSI più di quanto abbia ammesso la storiografia, compresa quella di una “destra” più succuba di alleanze elettorali che dedita alla verità.

Anno zero, dunque. Motivo in più per studiare la storia, quella che ancora non passa nei manuali e nei media. Richiederà decenni per essere capita e forse non accadrà mai. Però quella è. Per meglio comprenderla, quando torni la libera circolazione dei cittadini almeno in Italia, val la pena una visita alle Tombe di Vittorio Emanuele III e della regina Elena a Vicoforte. Non hanno alcun bisogno di essere vegliate da “guardie”. Avvolte nel silenzio dicono sommessamente: Hic manebimus optime. Lì, nel silenzio dei secoli, merita raccogliersi in meditazione. Tempo è venuto per il “cantico nuovo” dell'Apocalisse: non la apologia della monarchia o di un Re, ma la storia d'Italia. Quella vera.

 

Aldo A. Mola

domenica 13 dicembre 2020

Capitolo VIII Il primo combattimento a Parigi

 


di Emilio DEl Bel Belluz

 

Primo trascorreva gran parte della giornata in palestra, gli allenamenti duri e i pugni presi facendo i guanti con un peso massimo lasciavano il segno. Qualche volta era andato al tappeto, i pugni si danno, i pugni si prendono, ma quest’ultimi sono duri da assorbire. In quei mesi intensi aveva appreso molti insegnamenti della boxe. Gli piaceva Paul Journée: era una persona determinata, il suo volto era scolpito dai tanti pugni che aveva preso non solo sul ring, ma anche nella vita. Qualche volta, dopo gli allenamenti, mentre facevano due passi, gli aveva raccontato d’essere stato a combattere in Italia, contro un peso massimo molto importante: Erminio Spalla. Costui era poi diventato campione italiano ed europeo dei pesi massimi. L’Italia era piaciuta a Journée ed avrebbe desiderato farvi ritorno. Il mondo della boxe assomiglia a quello del circo, si va di paese in paese, facendo e disfacendo in continuazione le valige, sempre alla ricerca di momenti di gloria. Paul Journèe disse che il momento più bello per lui, fu la sfida al titolo dei pesi massimi francese. Nei giorni che seguirono Paul scrisse a Léon See di venire ad Arcachon per vedere il pugile, perché secondo lui era pronto per combattere. Léon See era un ebreo che aveva frequentato l’università di Oxford, e aveva una colonia di pugili a Saint-Germain, fuori Parigi: era considerata la più forte. Lèon See, non aveva voglia di spostarsi dal suo paese, ma fece uno sforzo. Un giorno arrivò alla stazione ferroviaria di Arcachon, e ad aspettarlo al binario c’erano Primo Carnera e Paul Journée. L’incontro non fu molto cordiale, anche se si conoscevano da anni. L’ex pugile dopo avergli presentato Carnera, lo aveva preso in disparte, dicendogli di avere fiducia in lui, era sicuro di avere tra le mani un gigante che avrebbe potuto scrivere il suo nome nel mondo dei pesi massimi. Il manager si mise un sigaro in bocca e continuò con il suo malumore. Primo si era reso conto che qualcosa non andava, ma non gli importava, se l’accordo non si fosse concluso, avrebbe fatto ritorno in Italia. Un lavoro come falegname l’avrebbe di sicuro travato. Quando Léon See vide il gigante di Sequals in palestra si accorse che davanti a sé aveva una scultura, un uomo possente, muscoloso, enorme che non ne aveva mai notato prima. Una massa di muscoli distribuita in quasi due metri, e quando lo vide fare i guanti con uno della palestra di Paul, si calmò. Non gli era dispiaciuto come si muoveva, ma si comprendeva molto bene che il giovane doveva continuare ad allenarsi, non era ancora pronto per salire sul ring. Doveva imparare ancora molti trucchi del mestiere. Dopo l’esibizione, l’impresario volle che si andasse a mangiare. Una volta seduti a tavola raccomandò al pugile di seguire il sogno del pugilato, e di allenarsi ancora più duramente. Per tre mesi Primo avrebbe dovuto solo frequentare la palestra, senza andare a lavorare nella segheria. Carnera mostrò la sua preoccupazione, i soldi erano importanti per lui: doveva aiutare la sua famiglia. Léon See prese dal portafoglio una somma di denaro pari allo stipendio di tre mesi in falegnameria e gliela consegnò. Sarebbe dovuto diventare ancora più forte e con più tecnica e solo allora sarebbe andato a Parigi per il suo primo incontro. Léon See disse a Carnera: “ Caro Primo pensaci su, ogni strada che si percorre nella vita è piena di sorprese, alcune anche belle, ma se vuoi raggiungere l’obbiettivo prefissato dovrai lavorare molto e non arrenderti alla prima sconfitta”. Carnera ascoltò con molta attenzione e, battendo un pugno sul tavolo, disse nella sua lingua che sarebbe stato all’altezza del compito e si sarebbe fatto onore. Quel giorno a tavola Primo aveva sbalordito Léon See per quello che aveva mangiato, sembrava non essere mai sazio, e quel pranzo era costato un capitale. L’allenatore accompagnò Léon al treno, e Primo li lasciò. La stazione era affollata di gente, tra cui molte coppie di fidanzati, e uno studente chino su un libro, con una matita rossa in mano. Léon appariva allegro, non si aspettava un gigante così grande, non disse nulla a Paul, ma era sicuro che qualcosa di buono sarebbe accaduto, ma bisognava lavorare senza tregua. Quei tre mesi sarebbero stati fondamentali. Allungò a Paul dei soldi, si raccomandò che Primo mangiasse carne in abbondanza. Léon See era un uomo furbo, da tanti anni nella boxe, conosceva il cuore dei pugili, sapeva cosa volesse dire arrivare al successo, ma bisognava costruire anche il personaggio, creare un nuovo Maciste affinché la gente lo considerasse un mito in cui immedesimarsi. Quando si salutarono, Léon gli regalò un sigaro molto costoso, ma Paul non fumava; l’avrebbe donato a qualche suo amico. Fuori della stazione incontrò un vecchio che gli aveva teso la mano, assieme a dei soldi, gli posò anche il sigaro rendendolo felice. La boxe è fatta di momenti che passano, bisogna saper sfruttare l’occasione e per questo bisognava crederci. Paul non era stato molto fortunato con la boxe, non aveva raggiunto il successo sperato, la gloria gli era stata lontana, si era nascosta, la gente però gli voleva bene. Grazie al mondo della boxe aveva trovato una donna da amare, erano nati dei figli e ora si aspettava di guadagnare del denaro per sistemarsi economicamente. Quando giunse a casa la moglie lo abbracciò, aveva notato la sua felicità, per le scale fischiettava una canzone popolare, di quelle che si cantavano alle sagre del paese. La moglie lo attendeva dal mattino, e si era preoccupata. Era una donna che lavorava molto per il bene della famiglia. La felicità di Journée era dovuta alla enorme opportunità che gli offriva Primo. Le settimane che seguirono furono davvero essenziali. Carnera si alzava alle cinque, si vestiva e andava a correre. In tutti i modi doveva ritrovare una forma perfetta e le sue prestazioni dovevano essere al massimo. Quando avrebbe dovuto combattere, doveva essere all’apice delle sue condizioni fisiche. Appena finito l’allenamento, si fermava in un bistrot frequentato da operai che andavano al lavoro, da gente umile, e da contadini che portavano i frutti della loro terra al mercato. La gente si era abituata a vedere quel gigante che stanco della corsa, si rifocillava con delle brioches appena tolte dal forno. A Primo piaceva parlare con le persone, e raccontava che doveva fare il suo esordio ufficiale nel mondo della boxe. Qualcuno conosceva per averlo visto assieme a Paul Journée. Carnera era felice perché in quel bistrot c’era una bella ragazza che spesso gli parlava. In quel posto si sentiva una celebrità, si augurava solo di vincere e di convincere. La boxe era tutto per lui, la giovane lo interrogava, gli chiedeva che gli parlasse dell’Italia, perché aveva una partente a Torino e le sarebbe piaciuto andarla a trovare. In quei tre mesi di duro allenamento, ogni mattina, era puntuale a consumare la sua colazione. Alcuni degli avventori scherzavano con lui, altri lo temevano, perché era talmente grande che faceva paura. Nelle palestre aveva fatto numerosi allenamenti con dei pugili che il suo allenatore aveva chiamato da fuori. Carnera li considerava come dei veri e propri incontri di boxe. La tecnica si stava affinando e il fisico da quando mangiava molte proteine si era sviluppato ulteriormente. Passava dalla casa, alla corsa per strada e alla palestra. Alla domenica andava alla Santa Messa in una chiesa poco distante da casa, lì aveva conosciuto il parroco che spesso si intratteneva a parlare con lui. In chiesa si metteva sempre in fondo, non avrebbe voluto nascondere nessuno. I tre mesi passarono, e Paul Journée chiamò al telefono Léon See per dirgli che il suo campione era pronto per salire sul ring. La condizione fisica era ottimale, bastava iniziare. A quell’avvenimento fu dato importanza e i giornali ne parlarono con degli articoli molto approfonditi. Per la seconda volta il pugile vide il suo nome sui giornali, la prima volta fu quando parlarono del combattimento con quei giovani che lo volevano picchiare. Con gioia ritagliò l’articolo che riportava una foto che aveva fatto durante gli allenamenti. Carnera svettava per la sua altezza e i guantoni che erano enormi. Nel suo cuore così genuino pensò che gli sarebbe piaciuto poter passare quella mattina al solito bistrot, e far vedere agli avventori quella pagina di giornale e, soprattutto, catturare l’interesse della ragazza, ma tutto ciò non era possibile. Infatti, si trovava già in viaggio per Parigi, la località dove avrebbe esordito. La data fissata era il 13 settembre 1928. Il suo procuratore, Léon See, si era accordato con l’organizzatore numero uno degli incontri pugilistici in Europa, Jeff Dickenson, e questi lo aveva ammesso in una riunione a Parigi. Al suo arrivo nella capitale francese, Primo assieme a Journée e a Léon See, era andato a trovarlo. Quando arrivò nel suo ufficio, il procuratore gli disse che aveva portato con sé un peso mosca, e questo pugile era molto bravo a combattere e meritava di ricevere un’ opportunità. Nel frattempo Carnera aspettava nell’ufficio della segretaria assieme a Journée. L’impiegata non aveva mai visto un uomo così possente e se lo mangiava con gli occhi. Quando entrò Carnera, Jeff che aveva trascorso molti anni nel mondo della boxe, non credeva che ci potessero essere atleti così alti e muscolosi. In quell’ incontro i due uomini d’affari avevano capito che avevano davanti una macchina da soldi che bisognava far partire. Il pugile, che era destinato combattere contro Carnera nel suo esordio, era un buon collaudatore che aveva fatto numerosi incontri nella categoria dei pesi massimi. Il match si sarebbe svolto nella Sala Wagraam; il pugile da affrontare era Léon Sébilo. La borsa per l’incontro era stata fissata in mille franchi, che erano un patrimonio per un pugile che incominciava la sua carriera, ma Jeff Dickenson aveva pattuito questa cifra che Primo pensava di mandare subito a sua madre. Da tempo non mandava soldi a casa, con suo grande dispiacere. La famiglia era sempre al primo posto nel suo grande cuore, la mamma, specialmente, per tutti i sacrifici che aveva fatto. La madre era l’angelo della famiglia, il fuoco che riscaldava il cuore in qualunque parte del mondo, uno si trovi. Carnera, la notte prima dell’incontro, si trovava in una bella camera d’albergo e rivedeva i momenti più belli degli anni trascorsi, come se assistesse ad un film. L’indomani, la sua nuova vita sarebbe incominciata come una piéce teatrale, e lui sarebbe stato l’attore principale. Nell’albergo erano confluiti alcuni giornalisti che volevano avere notizie su questo gigante italiano che esordiva al professionismo lontano dalla sua patria. Carnera rispondeva a tutte le domande, anche alle più cattive, ed ebbe modo di raccontare anche la sua dura esperienza di emigrante. Alcuni fotografi gli avevano fatto delle foto, assieme al suo avversario. Carnera si dimostrò felice e non preoccupato, tutto sarebbe stato nelle mani di Dio a cui sempre chiedeva aiuto che, finora, non glielo aveva mai negato. Un giornalista disse a voce bassa rivolto al suo allenatore, che sarebbe stato triste se perdesse, magari, per KO alla prima ripresa. Paul Journée gli rispose che questo sarebbe potuto accadere solo al suo avversario. Qualche ora più tardi Carnera entrava nel luogo del combattimento con un accappatoio, su cui il suo allenatore aveva fatto scrivere il suo nome e cognome. Anche questo aveva inorgoglito il campione, i guantoni erano già indossati, e salito sul ring, Carnera sventolava la sua bandiera italiana con lo stemma sabaudo, regalatagli dalla sua maestra, per dimostrare a tutti che non aveva dimenticato la sua patria. Nella sala c’erano altre due bandiere sventolate da un gruppo di italiani. Il cuore di Carnera sembrava che gli uscisse dal petto. Chiunque se si fosse avvicinato a lui lo avrebbe sentito, era il cuore di un combattente. L’arbitro fece avvicinare i pugili, Primo teneva ancora con sé la bandiera e dopo averli dato alcune raccomandazioni, li inviò ai rispettivi angoli. Il match sarebbe iniziato tra qualche minuto. Carnera baciò la bandiera e si fece il segno della croce, come era sua consuetudine fare prima di prendere delle decisioni. L’incontro ebbe inizio, Léon Sébilo venne liquidato da Carnera in soli due rounds, e ottenne, così, la sua prima vittoria. La gente della sala era soddisfatta, aveva visto un grande combattimento. Carnera riprese la bandiera italiana, la sventolò, la baciò, e salutò festante il pubblico. Qualcuno urlava il suo nome e questo suo primo incontro non lo dimenticò mai.

 

sabato 12 dicembre 2020

La solitudine di Vittorio Emanuele II

Aspetti inediti della personalità del Re


Pubblicato  il  9 dicembre  su  "Unsognoitaliano.eu" diretto  da Salvatore Sfrecola



12 gennaio, 20 gennaio, 11 febbraio e 17 maggio 1855, dicono qualcosa queste quattro date così ravvicinate? All’attuale livello di conoscenza della nostra storia, anche se trattasi di parlamentari che interrogati, anni or sono, non sapevano cosa fosse avvenuto il 17 marzo 1861, credo proprio di no, eppure fu una sequela di lutti, come mai era accaduto in Casa Savoia, iniziati con la morte della appena cinquantaduenne Maria Teresa, Regina vedova di Carlo Alberto e madre del Re Vittorio Emanuele, seguita dalla nuora, Maria Adelaide, Regina di Sardegna, di trentatré anni, sposa amata del Re, e poi ancora da Ferdinando, Duca di Genova, del 1822 e fratello del Re, ed infine dall’ultimo nato, Vittorio Emanuele, Duca del Genevese, che, con la sua nascita, l’8 gennaio del 1855, aveva, involontariamente provocato la morte della madre.

I quattro funerali che aveva predetto Don Bosco, vuotano il palazzo reale e Vittorio Emanuele rimane drammaticamente solo in un periodo denso di importanti decisioni ed avvenimenti, quale fu la partecipazione del Regno di Sardegna, alla guerra di Crimea. Ora una simile tempesta familiare avrebbe abbattuto chiunque non fosse stato Vittorio Emanuele, ma il giovane Re era un carattere forte, non insensibile e tanto meni cinico, ed era psicologicamente un militare . Malgrado, essendo nato nel 1820, fosse stato educato ancora nel clima di una monarchia assoluta, aveva conservato e giurato lo Statuto, elargito dal padre, alla cui memoria fu sempre affezionato, e negli anni successivi aveva accettato un governo che, da costituzionale, era, con Cavour, già divenuto parlamentare . Per quanto poi dibattuto nella sua coscienza di cattolico sul problema della legge relativa alla soppressione delle corporazioni religiose ed aver cercato quanto più possibile di evitarla, come era riuscito anni prima con la legge del matrimonio civile, affossata dal voto del Senato, anche consigliato con una nobile lettera di Massimo d’Azeglio, non più ministro, ma fedele monarchico, aveva firmato la legge approvata dalle Camere.

Dopo perciò la tempesta di queste morti improvvise la solitudine di Vittorio Emanuele nel e del Palazzo Reale! Quando si è parlato e si parla ora con tono di sufficienza, o con disprezzo, ora con alterigia de “i Savoia”, quasi fossero dei predoni, dei profittatori, dei lanzichenecchi, chi usa questo termine in modo offensivo o denigratorio ha mai riflettuto su chi fossero in quegli anni “fatali”, della storia d’Italia, dal 1855 al 1861, proclamazione del Regno d’Italia, “i Savoia”? Una giovane donna, la vedova Duchessa di Genova con una bambina, Margherita, la futura Regina, di quattro anni ed un maschietto, Tommaso, appena di un anno, che avrebbe ereditato il titolo di Duca di Genova, e poi i figli di Vittorio Emanuele, dalla primogenita Maria Clotilde, nata nel 1843, dodicenne, ed i fratelli Umberto, principe ereditario( n. 1844), Amedeo,(n. 1845) duca d’Aosta e futuro Re di Spagna ,la sorella Maria Pia (n. 1847), futura Regina del Portogallo ed infine il fratello Oddone del 1846 e che sarebbe mancato appena ventenne nel 1866, di cui a distanza di un secolo si sono scoperte doti di amante dell’arte . E Clotilde, dimostrando una maturità ed una consapevolezza superiore all’età, segue amorevolmente i fratelli ed è la più vicina al padre che affettuosamente la chiama “Checchina”, maturità che la porterà ad accettare nel 1859, nell’interesse della causa nazionale, il matrimonio, Lei sedicenne e profondamente credente, con il cugino di Napoleone III, Gerolamo Napoleone, trentasettenne, di fama libertino e notoriamente anticlericale, se non ateo, “conditio sine qua, non”, richiesta dall’ Imperatore, più Savoia e Nizza, per concludere l’alleanza tra Impero Francese e Regno di Sardegna, per la guerra all’Austria, la vittoriosa seconda guerra d’indipendenza.

In questo quadro di solitudine per il Re Vittorio vi era, fortunatamente un lontano cugino, parente non diretto, Eugenio Emanuele di Carignano, scapolo, poco più grande d’età, essendo nato nel 1816, da Carlo Alberto saggiamente reinserito nella famiglia come Principe di Carignano, dopo una brillante carriere nella Marina Sarda, di cui era divento Comandante .E proprio a Lui, Carlo Alberto, partendo insieme con i figli per la prima guerra d’indipendenza, aveva affidato il ruolo statutario di suo Luogotenente che,a sua volta, Vittorio Emanuele avrebbe ripetutamente rinnovato in occasione delle successive guerre d’indipendenza, oltre ad altri incarichi prestigiosi, altrettanto delicati e difficili che il Principe di Carignano espletò sempre con molta dignità, grande rettitudine, non comune buonsenso, bonario, schivo di orpelli e munifico, acquistando durante un suo incarico a Napoli, dopo il 1860, la collezione d’arte del Principe Leopoldo di Borbone, e donandola al Museo Nazionale.

Questi quindi i Savoia, che per la causa italiana dovettero cedere la regione d’origine di lingua francese, perdita necessaria perché la sua conservazione sarebbe stata contraria a quel principio di nazionalità per il quale combattevano, e questa solitudine del Re che poteva trovare solo un po’ di conforto nella compagna, Rosa Vercellana, poi moglie morganatica, rende ancora più grande la figura di Vittorio Emanuele II, che dedicò tutte le sue energie e capacità alla causa unitaria, mettendo anche a rischio il suo trono, con autonoma libertà di giudizio e di azione, senza cortigiani, che portò all’appellativo, merito di Massimo d’Azeglio, di “Re Galantuomo “ che lo ha consacrato e consegnato alla Storia .

di Domenico Giglio

mercoledì 9 dicembre 2020

La televisione russa racconta la storia di Elena di Savoia e del suo legame con Formia

Sono di parte... Lo so.



Formia – Non è la prima volta che la televisione russa, grazie anche ad un convegno dove il nome di Formia verrà pronunciato grazie ad una illustre ospite di tanti anni fa, viene realizzato proprio nella città pontina.

Infatti nel 2017 c’è stato un progetto dove due documentari vennero trasmessi in tutta la Russia attraverso la mediazione culturale della giornalista russa Natalia Jaboklova, dove in particolare la dottoressa e insegnante universitaria, autrice tra l’latro di due romanzi sulla storia di Cicerone, i telespettatori russi hanno potuto ammirare in quella occasione i resti della villa romana di Caposele e il sito del mausoleo detto “Tomba di Cicerone”.Formia – Non è la prima volta che la televisione russa, grazie anche ad un convegno dove il nome di Formia verrà pronunciato grazie ad una illustre ospite di tanti anni fa, viene realizzato proprio nella città pontina.

Infatti nel 2017 c’è stato un progetto dove due documentari vennero trasmessi in tutta la Russia attraverso la mediazione culturale della giornalista russa Natalia Jaboklova, dove in particolare la dottoressa e insegnante universitaria, autrice tra l’latro di due romanzi sulla storia di Cicerone, i telespettatori russi hanno potuto ammirare in quella occasione i resti della villa romana di Caposele e il sito del mausoleo detto “Tomba di Cicerone”.


www.ilfaroonline.it

martedì 8 dicembre 2020

Formia, la storia della Regina Eelena raccontata dalla televisione russa

 
Formia. La mia bellissima città.

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Stanza da letto della Regina Elena foto di Pietro Zangrillo

Non è la prima volta che la televisione russa, grazie anche ad un convegno dove il nome di Formia verrà pronunciato grazie ad una illustre ospite di tanti anni fa, viene a Formia. Infatti nel 2017 c’è stato un progetto dove due documentari vennero trasmessi in tutta la Russia attraverso la mediazione culturale della giornalista russa Natalia Jaboklova, dove in particolare la dottoressa e insegnante universitaria, autrice tra l’latro di due romanzi sulla storia di Cicerone, di cui il secondo, Ceasar, è di recentissima pubblicazione, i telespettatori russi hanno potuto ammirare in quella occasione i resti della villa romana di Caposele e il sito del mausoleo detto “Tomba di Cicerone”.

A questo progetto dovevano poi seguire delle situazioni importanti che dovevano portare a Formia dei turisti russi, ma la folle e miope politica turistica e culturale dell’amministrazione Villa questo non lo ha permesso, perché hanno voluto giocare sulla Commedia Italia e una raffazzonata edizione delle Notti di Cicerone, senza comprendere che la Russia ha un bacino d’utenza importante di persone desiderose di vedere i nostri siti archeologici.

[...]

www.gazzettinodelgolfo.it







lunedì 7 dicembre 2020

7 Dicembre

 



L'immagine riproduce il martirio dei patrioti italiani impiccati per volontà del Maresciallo Radetzki a Mantova il 7 dicembre del 1852. 
Il loro nomi, ormai sconosciuti ai più, sono 

Don Enrico  Tazzoli 

Angelo Scarsellini

Carlo Poma

Bernardo Canal 

Giovanni Zambelli

Furono tra i primi a far meritare ad un giovane Francesco Giuseppe l'appellativo di "impiccatore" che lo seguì nella tomba sulle note della Leggenda del Piave.

Il sacrificio di tanti patrioti durante il Risorgimento faceva parte, e ancora dovrebbe farne, di un patrimonio culturale e storico della nostra Nazione che invece oramai ha relegato questi luminosi martiri, precursori dell'Unità Nazionale, in una soffitta polverosa.

A questi martiri sono ancora intitolate vie e piazze d'Italia ma chi ne conosce veramente la storia?

A tutti l'invito a restituire la dignità di autentici profeti della Nazione Italiana a questi ed agli altri protagonisti del Risorgimento.

Noi cercheremo di farne memoria.

domenica 6 dicembre 2020

Democrazia: Perché avere paura delle elezioni?

di Aldo A. Mola

Il governo di Sua Emergenza Conte: l'abisso.

(Pieter Bruegel il Vecchio, La parabola dei ciechi, 1567)


Ma il 20 settembre le votazioni non erano un babàu?

Il 20 settembre 2020, settantacinque giorni fa, gli italiani, tutti, dalla A alla Z, in ogni comune d'Italia, sono stati chiamati alle urne per confermare o cassare il “taglio “ dei parlamentari approvato quasi all'unanimità da Camere suicide. Ultimi barbagli d'estate, appena dopo le scandalose “pance al sole”, le perverse “movide”, le “discote-covid 19” a tutto contagio. Su disposizione del governo “Conte II” i seggi furono aperti. Debitamente mascherati gli italiani si misero in fila longobarda, certificato elettorale in una mano, carta di identità nell'altra. Acciuffarono la matita e la scheda e a lume di una fioca lampadina, in una sorta di confessionale, appoggiati su un rettangolo di squallido compensato, tracciarono la loro croce. Lì non aleggiavano né esalavano virus? Mistero, mistero...

Votare dunque si poté, tra l'una e l'altra ondata di una pandemia che non sappiamo donde venne, come vaghi come foglia frale e sino a quando scorrazzerà. Alcuni sussurrano che circolerà a tempo indeterminato. Campa cavallo, allora, se per votare un'altra volta dovessimo aspettare il benestare di Sua Emergenza, del Comitato tecnico-scientifico, dell'OMS e di chissà chi altri. Quindi: chi sono mai Conte e tutti i suoi “esperti” per decidere la democrazia in Italia?

Secondo la Costituzione vigente (al riguardo abbastanza ingarbugliata e pertanto disattesa, sicché sulla forma prevale la prassi) la cosa funziona così: il governo deve avere la fiducia dei due rami del Parlamento. Se viene sfiduciato, il Capo dello Stato, consultati i rispettivi presidenti, può sciogliere le Camere o anche solo una di esse (articolo 88 della Carta). Non è neppure tenuto alle estenuanti consultazioni rituali di delegazioni di partiti, movimenti e compagnia cantante, croce e delizia di quirinalisti, spesso sedicenti. Non può sciogliere le Camere negli ultimi sei mesi del suo mandato (art. 88 comma 2). Oggi mancano nove mesi abbondanti all'inizio del “semestre bianco” e quindici mesi all'elezione del Presidente venturo. Il Paese, però, non può attendere tempi biblici; ha urgenza di capire dove stiamo andando, o meglio dove veniamo trascinati a suon di decreti del presidente del Consiglio dei ministri, i famigerati Dpcm. Dall'estero ci guardano con preoccupazione crescente. Non vogliono essere trascinati nel “cupio dissolvi” del Conte bis.

Perciò proprio non si capisce perché le elezioni anticipate sarebbero chissà quale attentato alla democrazia. Semmai vale l'opposto. Tutti concordano che l'attuale parlamento non rappresenta più il Paese. I motivi sono tanti e noti, ma conviene ripeterne un paio per chiarezza. A parte la asimmetria fra quanto da due anni emerso dai rinnovi dei consigli regionali, che oggi vedono il centro-destra al governo in 15 regioni su 20, a cominciare dalle più popolose e prospere (dalla Lombardia alla Sicilia, per intenderci), tutti i sondaggi degli orientamenti di voto concordano sul fatto che il numero dei probabili astenuti è stabilmente attestato intorno al 40%. La partita si giocherà quindi tra il restante 60% degli aventi diritto. Nel frattempo con il consenso bulgaro delle Camere il Parlamento si è tagliato 230 deputati e 115 senatori: un'amputazione che rende sempre meno accettabile la sopravvivenza dei patres nominati dal presidente della repubblica, che corrispondono al 3% circa dei futuri senatori elettivi: un “partitino” tutt’altro che trascurabile. La nuova geografia dei collegi (dei cui nuovi confini gli elettori poco o nulla sanno) ha stravolto settant'anni di storia delle elezioni e riserverà molte e clamorose sorprese. Infine siamo sempre in attesa della nuova legge elettorale, che potrebbe anche non decollare per incapacità dei partiti, a cominciare dal Partito Democratico, che ne fece una malattia prima del 20 settembre ma ora tace (su questo come su ogni altro tema fondamentale) e non cava un ragno dal buco.

Con o senza di essa questo governo non può durare perché manca di un minimo di coesione e quindi non è in grado di darsi un programma vero, politico. Vive di rinvii su partite vecchie (Alitalia, Ilva, Autostrade...). Figurarsi se è capace di prospettive. Ora ha perso ogni credibilità anche nella prevenzione contro il contagio, unico appiglio che gli ha consentito di vivacchiare ansimando di mese in mese.


Il ballo in mascherina nel Castello di carte

Una verità va detta. A differenza di quanto strepitano Speranza, Orlando e altri Savonarola da strapazzo, i morti per covid-19 di questi giorni non sono imputabili alle immaginose scostumatezze di Ferragosto!

 Il 31 gennaio di questo bisestile 2020 Giuseppe Conte dichiarò che il governo assumeva pieni poteri nella lotta contro il misterioso contagio (i cui segnali c'erano, eccome: prima o poi la storia verrà scritta) e comunque rassicurò: tutto era pronto per affrontarlo. Settimane dopo agli italiani fu “fortemente raccomandato” di lavarsi le mani (non lo facevano? Non discendono da Ponzio Pilato?) e di tenere le distanze “sociali” (cosa raccomandabile anche in tempi normali, onde non essere scippati all'angolo della strada). Infine, per arginare il contagio occorreva coprire naso e bocca con mascherine. Quali? Dove trovarle? Il governo non ci pensò proprio. Il loro approvvigionamento divenne pascolo sterminato di improvvisazioni e di truffe. Prevalse quindi il “fai da te”: fazzoletti, sciarpe, pizzi di Bruges. Ancora oggi se ne vedono di tutti i colori, in assenza di una normativa chiara e univoca, come sulla “distanza” e sui detergenti. Meno ancora governo e regioni provvidero a dotare almeno il personale sanitario di protezioni adeguate. Poi fu la volta dei tamponi per accertare lo stato di infezione, altro capitolo dominato dalla confusione perenne e perdurante. Anziché in strutture sanitarie oggi ci si può tamponare anche nei parcheggi aeroportuali.

In poche settimane il Paese precipitò dalla beata incoscienza d’inizio gennaio al baratro della chiusura totale da marzo a maggio, delle misure estreme e delle sottovalutate coartazioni di libertà costituzionalmente garantite. Sono trascorsi appena sette mesi dal quel “blocco”. Un incubo. Sembra il passato remoto, eppure è solo ieri. Nel frattempo, mentre all'ora dei vespri ogni giorno veniva recitato, come fosse il rosario, il numero dei contagiati, dei ricoverati in terapia intensiva e dei morti, il governo assicurava che dal male nasce il bene e che gli italiani avevano motivo di sperare in un'estate tranquilla, grazie... ai raggi ultravioletti. Tutto andrà bene si leggeva sulle cantonate.

Conte si trincerò dietro i “pareri” (che non sono affatto vincolanti) del fantomatico comitato tecnico-scientifico, i cui verbali furono secretati (e in parte tuttora indisponibili), mentre sono sotto gli occhi di tutti le liti furibonde tra epidemiologi, virologi, infettivologi e i tanti addetti a “dare i numeri”, divisi su tutto tranne che sulla constatazione più banale: non si sa dove il virus sia “nato”, donde sia giunto, quanto durerà, se e quando se ne andrà e quali conseguenze lascerà. Eravamo e restiamo nel vago.

Dopo esami farsa e la promozione in massa di studenti non valutati da mesi, per l'intera estate venne assicurato che le scuole sarebbero state riaperte senza più ricorrere alla sciagurata e socialmente discriminante “didattica a distanza”, con aule spaziose, banchi monoposto (dalle fogge più bizzarre e a costi di cui prima o poi si dovrà rendere conto) e, se di necessità, con utilizzo di edifici e spazi pubblici in abbandono. L'Università statale di Milano noleggiò per anni sale cinematografiche per lezioni “di massa”.

Sappiamo come è finita.

I media hanno imperversato con immagini distorcenti della realtà: le file di bagnanti (persino con mascherina) in acqua solo fino al ginocchio in questo paese che ama il mare e i laghi solo per pediluvio e farsi la foto ricordo, non per nuotarci; le passeggiate sui lungomare o sui sentieri di collina e di montagna: materiale di riserva per poi demonizzare le malefatte di cittadini scavezzacolli.

Nel frattempo, come noto, tramite i comitati (alla Colao) e le girandole di esperti (stile Villa Pamphili) il governo assicurò che avrebbe badato a tutto. Ma il ministro dei Trasporti, De Micheli (PD), scordò di organizzare il trasporto degli allievi. Una dimostrazione da manuale della totale assenza di strategia. In un paese serio, i responsabili sarebbero stati non solo rimossi ma messi ai ceppi, da tempo. Da noi invece restano in carica. Intoccabili. Insostituibili. Perché questo governo è un castello di carte. Ne togli una, crolla tutto.

Alla fine l'appuntamento fatale. Il governo s’incaponì a riaprire le scuole il 14 settembre, cosa mai vista da anni in Liguria e nel Mezzogiorno. La fretta era del tutto ingiustificabile perché pochi giorni dopo, come già ricordato, gli italiani furono convocati alle urne per rinnovare consigli regionali e dire la loro sul taglio dei parlamentari: una consultazione nazionale, dunque, quando da settimane erano chiuse le famigerate discoteche accusate di tutti i mali del mondo e i pochi italiani rientrati dalle vacanze all'estero erano stati sottoposti a tutti i controlli di rito. Conte imitò Sanchez che scatenò il contagio in Spagna con l'8 marzo e Macron che non rinviò le elezioni amministrative in Francia. Tutte teste d'uovo.

A scatenare questa “seconda ondata” non sono state la movida, le cene all'aperto, la tarantola e i pochissimi convegni di studio tra fine settembre e inizio ottobre, bensì la totale assenza di un piano strategico governativo.

Da allora, con la macabra scusa del contagio virale e malgrado la modesta capacità offensiva dell'opposizione, la coalizione di governo non è avanzata di un millimetro nelle scelte politiche vere. Dopo mesi di chiacchiere sui Piani dell'Unione europea per rimettere in sesto l'economia e al tempo stesso segnare una svolta di lungo periodo, l'Italia non ha un progetto chiaro e condiviso, a parte vaghe linee guida che dicono tutto ma non contengono nulla. Il covid-19 fa forse comodo a qualcuno? Per ora è solo un dubbio. Domani potrebbe divenire una triste constatazione.

Alle urne e una legislatura Costituente per salvare il salvabile

Da mesi il sistema politico-istituzionale è allo sbando: una deriva che non può essere ulteriormente ignorata. Lo ripetono decine di costituzionalisti illustri, non per carrierismo (sono in massima parte docenti emeriti) ma per obiettività. Lo ha detto anche il presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, seconda carica dello Stato, che ha rivendicato il ruolo del Parlamento troppe volte eluso dal governo o con l'imposizione di voti di fiducia, o con il giochino degli emendamenti infilati in decreti legge di tutt'altra natura: un malcostume deplorato persino dal taciturno Capo dello Stato. Che questo avvenga con un presidente del Consiglio avvocato (non più “del popolo”, ma di sé medesimo) è paradossale. Ma è tragicomico anche che il capo del governo per la prima volta nella storia sia costretto a narrare in Parlamento i fatterelli privati per “giustificare” le piroette della sua “scorta”.

Il punto della crisi è però un altro: dalle cronache che ne rimbalzano all'esterno, le sedute del Consiglio dei ministri (quando ne leggeremo i verbali?) sono ridotte a piazzate furibonde dominate da alcuni giacobini in servizio permanente effettivo, a cominciare dal ministro della Sanità, rappresentante dei leu-cociti, e i suoi emuli, quali il titolare dei rapporti con le regioni e il ministro agli scavi archeologici, con piddini e pentastellati divisi su tutto.

Solo sotto il tallone di giacobini da strapazzo è possibile che in un'Italia in ginocchio, tartassata, con milioni di cittadini senza lavoro e senza indennizzi o tenuti a carico delle imprese per decreti legge ma prima o poi condannati alla disoccupazione, con una miriade di aziende piccole e grandi prossime al fallimento e alla chiusura, con un presidente del consiglio prono dinnanzi ai “duri e puri”, venga proposta la “patrimoniale”, ora sponsorizzata anche dal comico redivivo, Grillo Giuseppe, “che tutti chiamavan Beppe”.

Solo in presenza di questo stravolgimento delle regole le parole di buon senso che si levano dall'interno e da fuori del governo (da Renzi, Calenda e Della Vedova, per esempio) vengono messe a tacere come lesa maestà. Ma qualcuno dovrà pur chiarire perché, a parità di sicurezza, bar e ristoranti debbono restare chiusi la sera anziché la mattina; perché, malgrado le misure adottate, rimangano chiusi cinema, teatri, musei e circoli culturali; perché, sempre eseguite le sanificazioni del caso, le chiese debbano chiudere a una certa ora di un certo giorno. Qualcuno dovrà spiegare perché un cittadino può percorrere centinaia di chilometri all'interno dei confini (meramente amministrativi e spesso indistinguibili) della propria regione e non può valicarli di cinque chilometri se gli vien bene di farlo, magari per visitare un parente o chissà chi altro, anche se non decrepito. E qualcuno dovrà ricordare a Conte e ai giacobini che gli tengono bordone (Zingaretti incluso) che vi sono Comuni con aree minime, senza servizi di sorta e dai quali è pertanto può essere necessario muoversi anche a Natale, Santo Stefano e Capodanno senza incappare in alabardieri frustrati.

Già che siamo sotto le feste, doniamo loro una Carta d'Italia, con l’invito a studiarla bene, magari mentre cenano in camera d'albergo in attesa della fatidica Mezzanotte...

Alla resa dei conti, non tiriamo in mezzo il Quirinale

Con questo governo l'Italia non è più un paese da G7 ma di spaventapasseri.

E qui si viene al punto politico.

Il governo che rivendica pieni poteri, raggira regioni e comuni e gonfia il petto con Commissari tuttofare, ancorché “della domenica”, tipo Arcuri, non è stato in grado di fornire per tempo una quantità sufficiente di vaccini anti-influenzali ordinari. Avvolto nei candidi manti dei plenipotenziari nostrani dell'OMS (che diventano extraterritoriali quando vengono richiesti di render conto del loro operato), Conte rinvia alle calende greche l'erogazione del vaccino anti-covid 19, benché (dichiara il solito Commissario) ne sian state ordinate quantità stratosferiche e di varie marche e sottomarche, sicché alla fine saranno come le pizze: ognuno potrà scegliere il gusto che gli pare e farsi fare il richiamo con uno diverso.

Ma vogliamo fissare un giorno per la verifica della bontà di tutte le privazioni imposte ai cittadini o si andrà avanti all'infinito perché Sua Emergenza continuerà a prorogarle ad libitum? C'è una data di verifica o si andrà da una ondata all'altra? Il decreto legge in Gazzetta Ufficiale del 3 dicembre curiosamente indica il 15 gennaio 2021 quale termine delle sue norme. Pendiamo quella data come limite per la resa dei conti?

Che cosa fa più male all'Italia? Il virus o l'inconcludenza del governo?

L'elezione del prossimo presidente della Repubblica, altro spauracchio tirato in campo, è un falso problema, per di più oltraggioso nei confronti dell’attuale capo dello Stato. Il solo fatto che venga accampata quale motivo di sopravvivenza dell'attuale Parlamento dimostra che i deputati e i senatori che oggi lo compongono non meritano di rimanere in carica: ove fossero loro a eleggere il nuovo Presidente, infatti, ne pregiudicherebbero la credibilità e l’autorevolezza.

 

Aldo A. Mola