NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 28 giugno 2019

Il mese della tristezza


 di Emilio Del Bel Belluz 

Il mese di maggio è finito e come ogni anno mi fa pensare alla sofferenza dell’ultimo Re che lasciò l’Italia nel 1946 per andare a morire in una terra che non era la sua. Per quelli che l’hanno amato e sono tanti è sempre stato chiamato il Re di maggio, perché regnò solo quel mese. Il Re era un fervente cattolico, andava a messa e a comunione tutti i giorni. Fu amato da tanti per la sua umanità, per quella vita vissuta nel silenzio, nella tempestosa solitudine e nell’accettazione.  
Anche se l’ingiustizia è entrata nella sua vita, ha preferito sempre la lealtà del comportamento, e ogni sua azione è stata una manifestazione di lealtà alla patria. 
Il Re, settantatré anni fa, lasciava la sua Italia per andare in esilio. Ripensavo in questi giorni, mentre esponevo il tricolore con lo stemma sabaudo fuori dalla mia finestra, al Sovrano che partì con l’animo lacerato dagli episodi di protesta contro il risultato del referendum tra monarchia e repubblica, di via Medina, a Napoli, del 12 giugno 1946. In una rivista monarchica ho visto la foto di una delle undici vittime, il marinaio della Regia Marina, Mario Fioretti. Nell’immagine lo si vede morto con la bandiera sabauda vicina, e sul petto la croce di Cristo, accanto a dei fiori bianchi. Questo giovane monarchico aveva lasciato la vita nel tentativo di togliere il tricolore con l’effige di una donna turrita nel campo bianco, dal balcone della federazione comunista. La sua morte da eroe è descritta in un articolo comparso nella rivista Monarchia oggi del maggio 1981. “Centinaia di Bandiere recanti tutte lo stemma  Sabaudo, sventolano sulla folla e dai balconi e finestre: centinaia di cartelli ammoniscono: ”Fuori i venduti russi dall’Italia”- Fuori le vergogne comuniste “ -“Non vogliamo la  repubblica nata nel sangue dei nostri giovani”- “ Che fine hanno fatto prigionieri italiani in Russia?”. Carrozze di tram rovesciate ed altri ostacoli improvvisati chiudono gli accessi della via alle camionette ed autoblinde della celere. Il portone della federazione rossa è stato chiuso e barricato dall’interno dai compagni impauriti senza però che sia ritirata quella bandiera provocatrice dal balcone. 
Un giovane marinaio Mario Fioretti unitamente ad altri giovani, inizia la scalata dell’edificio aggrappandosi ai tubi esterni, per giungere al terzo piano e strappare lo straccio del disonore e della vergogna. E’ quasi giunto al balcone, già la sua mano si allunga verso il drappo repubblicano, quando  una mano armata di pistola è vista protendersi dall’interno della sede bolscevica e far fuoco sull’audace marinaio. 
Un grido unanime e un volo pauroso e la Regia Marina può contare su un eroe in più” . Questo é uno dei nove eroi che morirono in via Medina, assieme a due Carabinieri Reali. Queste giovani vite non hanno nessun valore per la nostra cara e martoriata patria, nessun cenno in questi giorni a questi martiri. La storia è appannaggio dei vincitori, ma allora metà degli italiani era monarchica e aveva votato per il Re. La percentuale a Napoli si aggirava all’ottanta per cento.  Non so se a questi giovani Mario Fioretti (21 anni), Ida Cavalieri (19 anni) , Michele Pappalardo ( 22 anni),  Felice Chirico, Francesco D’Arazzo (21 anni ), Vincenzo Di Guida (20 anni), Guido Beninato, Gaetano D’Alessandro, Carlo Russo, Ciro Martino , a distanza di settantatrè anni dalla loro morte, qualcuno avrà messo un fiore sulle loro tombe, sempre se hanno ancora una tomba. Questi giovani che rappresentavano la miglior gioventù mi sono rimasti nel cuore, ho pregato per loro. Nel mi è rimasta  dentro anche la morte della giovane Ida Cavalieri, che nel giornale si descrive con molta dolcezza:” Intanto le autoblinde della celere hanno avuto ragione delle improvvisate barricate irrompendo con furore sulla folla. 
E’ qui che la giovane studentessa milanese Ida Cavalieri, alla testa di un centinaio di studenti, per fermare la corsa, si erige diritta, con la bandiera che le copre il petto, contro le autoblinde  avanzanti, rimanendo  schiacciata senza pietà. Trasportata all’ospedale dei pellegrini, dopo aver avuto gli arti amputati, spira tra le braccia della madre serenamente. E non è l’ultima vittima, perché in quel giorno trovano la morte anche due Carabinieri Reali che avevano partecipato alla dimostrazione monarchica e si erano distinti contro gli ausiliari. Innumerevoli sono i feriti oggi quasi tutti ai Movimenti Monarchici.” Nessuno potrà mai cancellare l’eroismo di chi muore per il proprio ideale. Re  Umberto II, non li dimenticò mai.

giovedì 27 giugno 2019

L'anticristo che è in noi: Benedetto Croce tra progresso e “fine dei tempi”


di Aldo A. Mola

Benedetto Croce: il rifiuto dello “Stato etico” 
In  “Declino e tramonto della civiltà occidentale” (Ed. Rubbettino) Giuseppe Bedeschi ripercorre l'angoscia del filosofo e storico Benedetto Croce all'indomani della seconda guerra mondiale, manifestata in saggi intrisi di profonda amarezza, al confine con lo scoramento. “Nel corso e al termine della seconda guerra mondiale – scrisse Croce in “La fine della civiltà” – si è fatta viva dappertutto la stringente inquietudine di una fine che si prepara, e che potrebbe nei tempi attuarsi, della civiltà, o, per designarla col nome della sua rappresentante storica e del suo simbolo, della civiltà europea”. In “L'Anticristo che è in noi” stigmatizzò il “distruttore del mondo, godente della distruzione, incurante di non poterne costruire altro che non sia il processo sempre più vertiginoso di questa distruzione stessa, il negativo che vuol comportarsi come positivo ed essere come tale non più creazione ma, se così si potesse dire, dis-creazione”. Erano gli “Adelphi della Dissoluzione” indagati da Maurizio Blondet?
Croce era stato profondamente colpito dall'impiego delle bombe termo-nucleari da parte degli Stati Uniti d'America per piegare il Giappone: quasi duello simbolico tra l'ordigno accecante e annientatore e l'impero del Sol Levante, il Satana prodotto dall'uomo e il divino della Tradizione. Luce che si fa Tenebre, come in tutte le visioni dualistiche, e contrapposizione tra il Bene e il Male. Croce era ormai lontanissimo dal pensiero del gigantesco ma sempre più deprecato Hegel, che aveva condotto  a “questo ideale di morte che ora si chiama 'totalitarismo' 'partito unico' e 'obbedienza al partito' frutto della esaltazione dello Stato”, che si fa “comandatore della vita morale” coniugandosi “coi più terribili tra i barbarici idoli primitivi, Moloch, Kemosh, Baal, Jahve, dai quali è provenuto il 'numinoso' che l'idea dello Stato etico serba e che ai tempi nostri ha rivestito forme molteplici, forme diverse ed opposte, ma tutte con un che di sacro”.

La Guerra: fatalità?
Nelle meditazioni di Croce si intrecciavano pulsioni contrastanti. Nel 1914 era stato fra quanti vennero colti di soprassalto dalla conflagrazione europea. Gli pareva impossibile che da una lunga rigogliosa epoca di pace e di progresso in tutti i campi del sapere e della vita civile si precipitasse in un conflitto generale feroce, disumano, negatore dei principi ispiratori della “civiltà”. Fatalità? Imprevidenza? Miopia? Eppure proprio lui pochi anni prima aveva irriso i postulati da due secoli professati dalla massoneria. Il pacifismo, l'umanitarismo, la fratellanza a suo avviso erano formule ingenue, “cultura” ottima per commercianti e maestrucoli di scuola, giacché, egli sentenziava riecheggiando Eraclito, la storia è sequenza di guerre. L'altro caposcuola del liberalismo italiano, il liberista Luigi Einaudi, a sua volta elogiò “la bellezza della lotta” proprio quando questa stava per giungere al culmine dello scontro fra opposti massimalismi: la sinistra rivoluzionaria (più a parole che nella capacità e nel dominio dei mobili di guerra) e il capitalismo dal cuore indurito nel corso della grande guerra.
Il 24 ottobre 1922 Croce non si era perso lo spettacolo di Benito Mussolini che, orante e imprecante nel teatro San Carlo di Napoli, preannunciò la mobilitazione per agguantare il potere: la mai effettuata “marcia su Roma”. Senatore del regno e ministro della Pubblica istruzione nel V governo Giolitti (1920-1921), votò a favore del governo Mussolini non solo nei suoi primi vagiti (improntati dal liberismo di Alberto De Stefani) ma anche dopo l'“affaire Matteotti”, quando approvò il bilancio dell'Interno. Non vedeva alcuna alternativa al governo in carica, anche perché chi avrebbe dovuto opporglisi (a qualunque costo e anche a rischio della vita, come insegnò Giolitti)  aveva disertato l'Aula e si era arroccato nella posizione politicamente più improduttiva e perdente: l'“Aventino”. Opposizione anti-sistema ma nel sistema accampata e cresciuta da oltre trent'anni, la compagine di repubblicani, radical-democratici e socialisti si attendeva che a risolvere la crisi (di governo, non dello Stato) intervenisse Vittorio Emanuele III. Già a fine ottobre 1922 il Re si era trovato pressoché solo a dipanare l'imbrogliatissima matassa della politichetta governativa perché il presidente del Consiglio, Luigi Facta, non convocò il Parlamento e si smarrì negli intricati viottoli di trattative sottobanco con amici e nemici (incluso lo sprezzante Gabriele d'Annunzio) nell'illusione di succedere a se stesso appagando Mussolini con un ministero di seconda fila.
Se quelli erano i “Maestri di color che sanno” bene si comprende il disorientamento (o riorientamento) della generalità dei cittadini cosiddetti “comuni”, desiderosi solo di ordine pubblico, quiete personale e di un salario o stipendio sufficiente per campare dopo gli anni della lunga e dura prova bellica (680.000 morti e più di un milione di feriti e mutilati), della fame e della guerra civile strisciante.

All'opposizione del regime, non contro lo Stato
Con il Manifesto degli intellettuali antifascisti (replica prolissa a quello, parimenti “accademico” dei fascisti, redatto da Giovanni Gentile e sottoscritto anche da futuri avversari del regime) Croce assunse la guida dell'opposizione a un partito che pretendeva di soggiogare il governo e a un governo che si ergeva a Stato, insomma al “regime”, capitanato dal “duce”. Negli anni difficili, dal Concordato tra l'Italia e la Santa Sede, proposto all'opinione pubblica come gratificante e pacificante “Conciliazione”, sino alla guerra contro l'Etiopia, scandita da abilissime operazioni mescolanti patriottismo e fascismo (per esempio l'“offerta dell'oro alla Patria”, cui anche Croce aderì), come la generalità dei politici anti o a-fascisti il filosofo imbevuto del pensiero di Giambattista Vico non colse subito la deriva di Mussolini verso la fatale alleanza con Hitler. Neppure le leggi razziali del 1938 suscitarono la manifestazione pubblica di opposizione netta. A differenza di Einaudi, non partecipò al loro voto in Senato, ove si contarono 10 astensioni su 160 presenti e circa 400 patres. Di anno in anno, di mese in mese l'Europa, e con essa l'Italia, passò dalla Conferenza di Monaco (settembre 1938, quando Hitler ottenne formalmente l'annessione dei Sudeti, politicamente ancor più emblematica di quella dell'Austria) al patto Ribbentrop-Molotov (ovvero tra la Germania di Hitler e l'Unione sovietica di Stalin) e alla nuova conflagrazione europea, poi volta in seconda guerra mondiale (settembre 1939).
Pochi ebbero chiaro che il nuovo conflitto era la prosecuzione del precedente e che l'Italia, giunta ultima e malvolentieri accolta tra le “grandi potenze”, rischiava di retrocedere. Nell'introduzione al volume di Vanna Vailati “1943-1944. La storia nascosta” (Torino, G.C.C., 1986), tra i “Documenti inglesi segreti che non sono mai stati pubblicati” il generale Luigi Mondini ricorda il progetto “allucinante” messo a punto dal Foreign Office e dal War Office britannici che prevedeva la spartizione dell'Italia, “dandone un pezzo a ciascuno degli Alleati, grandi e piccini. Alla Grecia venivano date le Puglie e gran parte del Sud; agli Jugoslavi una fetta che dall'Istria arrivava a Milano; ai francesi l'isola d'Elba, la Liguria, il Piemonte fino a Milano; agli inglesi la Sardegna, la Sicilia, la Calabria. Gli americani avrebbero occupato Roma, che sarebbe stata affidata al Papa”. La spartizione della flotta e delle colonie avrebbe imbonito l'Unione sovietica. L'Italia, insomma, avrebbe avuto la sorte della Germania, suddivisa, come Berlino stessa, nei modi ben noti: una tragedia che si prolungò sino al poco rievocato 1989 e il cui ricordo basta a spiegare i tremori non solo di Angela Merkel ma di chiunque conservi memoria della storia di ieri.

Vittorio Emanuele III, il traghettatore
L'obiettivo dell'Italia fu di uscire comunque dal conflitto, come rievoca Luigi Federzoni nel “Diario inedito, 1943-1944” (ed. Pontecorboli). Fra traversie complesse e in tempi oggettivamente rapidi (poche convulse settimane, tra ostacoli che parevano insormontabili: a cominciare dalla diffidenza dei nemici, ostili e divisi) a condurre in porto la trattativa fu il governo del Re. Con il trasferimento da Roma a Brindisi (9-11 settembre) esso salvaguardò la continuità dello Stato, rafforzata dalla dichiarazione di guerra contro la Germania (13 ottobre 1943), pilastro della “ricostruzione”. Fosse o meno gradito, Vittorio Emanuele III fu a tutti gli effetti l'interlocutore dei vincitori. Svolse il ruolo insostituibile di traghettatore dell'Italia dalla rovina alla sopravvivenza. Come nel citato Diario scrisse Federzoni il 24 dicembre 1943, “la monarchia non è una persona: è un sistema”. L'Italia si era salvata “sia pur tardi e alla meglio, o alla peggio, se si vuole; ma si è salvata perché aveva ancora un Re. Comprendono oggi tutto questo i così detti uomini d'ordine? Per molti segni ne dubito. In non pochi di essi prevale una specie di rancore contro Vittorio Emanuele III. È il solito personalismo, la solita incapacità di pensare obiettivamente, vizio incorreggibile di molte donne e di troppi Italiani che fanno politica”. Avrebbero accettato anche la repubblica. “Somigliano a chi si gettasse dal tetto, con l'intenzione di fermarsi al piano sottostante...”. Anziché abbattere la monarchia occorreva semmai rafforzarla, perché era il bastione contro lo Stato totalitario. Bisognava perciò tenerla al sicuro dai “monarchisti”, dalla folla di quanti pretendevano che il re fosse a loro individuale immagine e somiglianza.

Il rancore di Croce contro il Re
Tra gli “uomini d'ordine” che intrapresero una sorta di battaglia personale contro Vittorio Emanuele III spiccò Benedetto Croce, che il 28 novembre 1943 pronunciò nel chiostro di San Marcellino dell'Università di Napoli un discorso nel quale chiese pubblicamente l'abdicazione del re “illico et immediate”. Il 6 dicembre ne prospettò ruvidamente l'esilio: “Non v'è dubbio che da un regolare processo non potrebbe uscire se non la condanna del re, violatore dello Statuto e alleato del fascismo nel danno e nell'onta apportata al popolo italiano. Condannato, insisteremmo che fosse lasciato libero e allontanato dall'Italia”. Identici concetti ribadì nelle settimane seguenti e in specie il 28 gennaio 1944 nel congresso dei comitati di liberazione nazionale a Bari: “Il re non è in grado di formare un ministero, perché gli uomini che hanno esperienza e reputazione si rifiutano di giurare a lui fedeltà e temono da lui, e dalla gente che lo circonda, insidie”. Dissociazione di responsabilità... Non bastasse, il 3 maggio deplorò pubblicamente l'“intervista” subdolamente carpita al Principe di Piemonte, Umberto, e pubblicata dal “Times”. Luogotenente del Regno, questi aveva osservato che nel giugno 1940 nessuno si era opposto alla dichiarazione di guerra. Croce obiettò che opporsi o chiedere la convocazione delle Camere sarebbe stato da folli o da imbecilli (sic): autoassoluzione di un “popolo” che aveva riempito le piazze osannando. Pur essendo storico di vaglia, non si domandò se quel “documento” rispondesse pienamente al pensiero del Principe o fosse frutto di manipolazione.
Nel “Saluto all'Italia liberata” (5 giugno 1944) il filosofo aggiunse che gli italiani erano ora liberati anche dalla “ardua e penosa questione della persona del re” e forti di un “ministero democratico, formato dai rappresentanti di tutti i partiti...”.
La realtà si rivelò subito molto diversa da come l'aveva immaginata. Nel primo numero di “Rinascita”, la rivista del Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti sparò a palle incatenate contro Benedetto Croce, liquidandolo quale silenzioso connivente del regime. Il filosofo non prese più parte dalle sedute del Consiglio dei ministri.

Il progresso e il suo contrario
Sarebbe soverchiamente lungo ed esula dall'economia di un articolo per questo Solstizio d'Estate ripercorrere gli ideali, le passioni e talvolta gli umori che danno vigore agli scritti crociani tra l'amaro risveglio dell'estate 1944 e il 1946, quando, con lo spettro dello stalinismo, gli si parò dinnanzi l'incubo della fine della civiltà europea. Non gli fu facile ammettere che a difenderla fosse un politico pragmatico come Harry Truman, grado 32° del Rito scozzese antico e accettato, il presidente degli Stati Uniti d'America che non aveva esitato a far sganciare due bombe atomiche sul Giappone e che non avrebbe esitato a cannoneggiare Tito se i comunisti jugoslavi avessero superato la linea fissata per la loro non apprezzata avanzata verso occidente.
Le meditazioni di Croce non furono comunque improntate solo al cupo pessimismo dell'“Anticristo che è in noi”, classificato quale “tendenza dell'anima”. “L'uomo - egli osservò – accetta la morte e la desidera al termine della vita operosa, ma non mai si rassegna al pensiero della fine della civiltà nella quale è nato, si è educato, ha lavorato ed ha amato e si è travagliato. Egli vorrebbe che quel mondo continuasse...”.  Gli pareva però che anche il “progresso” fosse poco più che uno “stato d'animo”, più pulsione emotiva che ideale o persino Idea. Se poi convenne che “la storia è sempre storia di progressi”, confutò però l'interpretazione della storia quale “corso predeterminato”, spiegabile con una causa univoca e affermò che essa è comunque sempre opera umana, quasi un “la storia siamo noi”: conclusione che non richiede speciale formazione filosofica e che serpeggia nell'animo di ciascuna persona, più o meno consapevole di sé.
Non approdò mai alla serenità di chi vive nella leopardiana consapevolezza che “tutto al mondo passa e quasi orma non lascia”, che i barbari barbari sono e il loro avvento non è redenzione ma rovina e che felicità suprema per la persona saggia è di non morire tra efferate torture ma, semmai, di finire porgendo il pugnale al consorte come la matrona Arria Maggiore al marito con la mesta esortazione: “Paete, non dolet”. Quelli erano Stoici. Mai avrebbero scritto “perché non possiamo non dirci cristiani”. Erano Pagani. Un altro mondo, non corroso dall'idea di progresso: capace di gustare la bellezza della vita nella serena contemplazione della morte.
Aldo A. Mola 


mercoledì 26 giugno 2019

Giovannino contro tutti: comunisti, democristi, intellettuali e Chiesa


Quello del Borghese è il Giovannino Furioso. Siamo nel 1963-1964. Si avvertono i primi segnali del Sessantotto e le antenne di Guareschi li captano subito.

"Chiamano fascismo tutto ciò che risulta scomodo per loro".
[...]
 «Sono più pericolosi i comunisti bianchi che i comunisti rossi perché, mentre i rossi rubano e pestano in nome dei diritti del popolo lavoratore, i bianchi rubano e pestano in nome della Giustizia di Dio e, perciò, se uno si difende, rischia di passare per un eretico e di venir lapidato».

[...]

martedì 25 giugno 2019

Quanto costa la Regina Elisabetta ai cittadini del Regno Unito?


1,24 sterline l’anno a testa, circa 1,40 euro secondo il Financial Report per l’anno fiscale 2018-2019. I dati sono stati resi noti con un comunicato inviato a notte fonda ai giornalisti accreditati a Buckingham Palace
La regina Elisabetta costa ai cittadini del Regno Unito solo 1,24 sterline l’anno a testa, circa 1,40 euro. Lo certifica il Financial Report per l’anno fiscale 2018-2019, reso noto con un comunicato inviato a notte fonda ai giornalisti accreditati a Buckingham Palace. Le spese della Sovrana sono ammontate a 82,2 milioni di sterline (92 milioni di euro).


La scomparsa di Antonio Galano


Il 2019 si sta rivelando un anno terribile. Un'altra grave perdita ha colpito noi monarchici. Giovedì scorso è mancato Antonio Galano, appartenente prima al Movimento Giovanile del Partito Nazionale Monarchico e poi al Fronte Monarchico Giovanile, di cui è stato Vice Segretario Nazionale con Sergio Boschiero, Commissario Romano ed altre cariche. Fece parte del comitato direttivo del REX. 
Era particolarmente esperto sulla Resistenza Monarchica a Roma e dei problemi sociali ed ambientali della regione Lazio.
Fu consigliere circoscrizionale nel quartiere romano della Balduina prima per il Partito Liberale poi con Forza Italia facendosi apprezzare anche dai consiglieri degli altri partiti.
Lo staff di Monarchici in Rete si unisce al cordoglio per la sua perdita esprimendo alla Famiglia le più sentite condoglianze.

lunedì 24 giugno 2019

Io difendo la Monarchia - Cap VII - 4


Hitler si sarebbe affrettato a porre l'Italia sotto la sua protezione e vi sarebbero stati sempre molti italiani per prestarsi alla triste bisogna. Per essere sempre in grado di ricorrere a tale operazione Hitler si rifiutava di mandare in Italia aerei, carri armati e cannoni, ma inviava invece unità organiche potentemente armate le quali ponevano in soggezione le autorità italiane. Nello stesso tempo i tedeschi accrescevano e perfezionavano la rete delle informazioni e dello spionaggio e prendevano possesso dei punti vitali così da trovarsi pronti al momento della defezione prevista. 
Quale era dunque la situazione del Sovrano? Era certo inutile recriminare sul passato, ma bisognava guardare all'avvenire per impedire il peggio. Il Re non poteva agire se non si realizzavano alcune condizioni: 
a) che si pronunciasse un movimento interno nel fascismo contro il governo dì Mussolini perché la Monarchia trovasse una base e una giustificazione per sostituire il dittatore; 
b) che la Germania non fosse così forte da schiacciare l'Italia in caso di rivolta contro di essa; 
c) che la superiorità degli Alleati fosse tanto rilevante nel teatro di guerra del Mediterraneo da consigliare Hitler a non indugiare nella trappola strategica della Penisola; 
d) che vi fosse una preliminare intesa tra noi e gli anglosassoni allo scopo di rendere proficuo per tutti il rovesciamento dell'alleanza di guerra.

Quando parvero realizzarsi queste condizioni? Negli anni 1939, 1940, 1941, 1942 la superiorità tedesca fu piena e indiscussa su tutti i fronti. Solo nel novembre del 1942 si ebbero ì tre grandi avvenimenti militari che determinarono una svolta decisiva nell'andamento della guerra: la sconfitta tedesca a Stalingrado; la sconfitta dell'Asse in Egitto (a El Alamein); lo sbarco degli angloamericani nel nord Africa francese.

Fu dunque nei pochi mesi tra il gennaio e il luglio 1943 che si venne precisando il proposito italiano di uscire dalla guerra . Questo proposito matura innanzi tutto nel Re. Dal Re passa all'Alto Comando più precisamente ad Ambrosio che sostituisce il primo febbraio il Maresciallo Cavallero nel posto di Capo di Stato Maggiore Generale. Tra il Re e lo Stato Maggiore, tra il Re e alcuni esponenti dell'antifascismo e, negli ultimi tempi, tra il Re e i fascisti dissidenti fu sempre tramite intelligente attivo e discreto il Ministro della Real Casa duca Acquarone: il quale coltivò e rafforzò la decisione, che già era nel pensiero del Re, di liquidare Mussolini e il fascismo. Convenivano gradatamente nello stesso proposito quei ministri e alti gerarchi del fascismo che, compresa infine la inevitabile sorte delle armi, cercavano in qualche modo di correre ai ripari per diminuire la propria responsabilità. L'antifascismo fu quasi assente. Esso non partecipò alla prima fase della congiura che si preparava. L'autorità di Mussolini era già in gran parte caduta tra il 1938 e il 1939 per i provvedimenti impopolari relativi alla razza, all'autarchia e per le direttive antiborghesi di quel periodo. Dopo una breve parentesi di rinnovata popolarità tra il giugno e il settembre del 1940 e cioè tra la battaglia di Francia e il mancato sbarco tedesco in Inghilterra, l'autorità di Mussolini cadde di colpo con le sconfitte in Grecia e in Africa nell'autunno 1940 e nell'inverno, 1940-1941. Il mito di un Mussolini condottiero e guerriero precipitò fragorosamente e irreparabilmente. Il Comandante in capo della guerra apparve subito all'occhio di tutti, soldati e civili, un generale inesperto e un pericoloso millantatore.

Nel 1941 e nel 1942 Mussolini perse anche quel poco credito che gli era rimasto come esperto uomo Politico: quando egli cominciò a proclamare in pubbliche e private riunioni che avevamo vinto si ebbe la precisa sensazione di trovarsi dinnanzi ad un uomo che aveva perduto il controllo delle proprie facoltà mentali. 
Il moto segreto delle opposizioni si accompagnò, soltanto dopo la caduta del fascismo, al processo di revisione politica ormai in corso; esso non accelerò, né rafforzò in modo rilevante la corrente fascista ostile alla condotta politica e militare della guerra. L'antifascismo era divenuto a quel tempo il minimo comune denominatore di ogni discussione e di ogni incontro tra uomini che appena si conoscevano o si incontravano per la prima volta.

In un articolo di uno tra i più notevoli teorici dei partito d'azione, Guido Calogero, apparso su Mercurio (1) sono descritte le origini e i progressi di quel movimento. Si trattava di sparuti gruppi di professori e di studenti che venivano posti nella impossibilità di agire non appena scrivevano un manifesto o stabilivano un incontro.  Nessun dubbio sul loro coraggio e sulla nobiltà della loro lotta clandestina, ma essa non costituì che un rivolo molto sottile tra la guerra etiopica e la caduta del fascismo.

Il fascismo cadde con la sconfitta militare. Quando l'Africa fu perduta e poi Pantelleria e poi la Sicilia e tutti si avvidero che i soldati non combattevano più e i tedeschi erano odiati assai più degli inglesi, divenne unanime il pensiero di farla finita, di uscire comunque da una guerra che non poteva portare che alla totale distruzione del paese. Molti pensarono alla opportunità di un rapido mutamento di rotta. Esso era invocato da coloro che volevano liquidare la guerra perché la consideravano perduta come da coloro - i Farinacci e gli Scorza - che domandavano un corso più energico e più spietato di essa. Tutte le speranze si rivolgevano alla Monarchia. Ora che lo scontento era così diffuso, la Patria tanto minacciata, i più autorevoli fascisti, convinti della incapacità di Mussolini, doveva essere possibile operare un mutamento interno e subito dopo il rovesciamento dell'aIleanza. Se gli angloamericani fossero stati respinti dalla Sicilia è probabile che il Gran Consiglio non sarebbe stato convocato o avrebbe avuto uno svolgimento diverso.

Nell'iniziativa monarchica si raccoglievano ormai tutte le speranze del popolo italiano. E’ infantile dire che la Monarchia si mosse per tentare di salvare se stessa. Quale maraviglia che il Re si muova per salvare lo Stato e prenda cura delle sue vitali necessità e perché adontarsi se esse coincidono con la conservazione dell'Istituto monarchico? Il problema non sta nella ricerca dei motivi per cui una Monarchia si salva o tenta salvarsi, ma nel vedere se tali motivi coincidono con quelli della salvezza del popolo e dello Stato. Ora non vi è dubbio che nel luglio 1943 l'interesse della Monarchia nell'esonerare Mussolini dalla carica di Primo Ministro coincideva pienamente con l'interesse della Nazione italiana.

Siamo giunti così alla grande crisi dell'estate '43 (25 luglio - 8 settembre 1943).
(1) GUIDO CALOGERO: Ricordi del movimento liberalsocialista. «Mercurio». n. 2 (1 ottobre 1944).


sabato 22 giugno 2019

Felipe VI e Letizia di Spagna, la nuova generazione (formato famiglia) che convince




Il 19 giugno 2014 Felipe diventava re di Spagna e l'ex giornalista regina. Una coppia moderna e affiatata, che in cinque anni ha rinnovato l'immagine di una monarchia ereditata in uno dei momenti peggiori della sua storia. Oggi sono pronti a nuove sfide, che coinvolgono sempre più direttamente anche le figlie Leonor e Sofia.



Dopo l’investitura a cavaliere dell’Ordine della Giarrettiera, lo scorso 17 giugno, Felipe VI di Spagna è rientrato subito a Madrid con la moglie Letizia Ortiz,saltando la passerella di Ascot, a cui ha partecipato invece il «collega» neo Cavaliere Guglielmo d’Olanda con la moglie Máxima e gran parte della famiglia reale inglese. Altri impegni attendevano i sovrani spagnoli, che nella tarda mattinata di oggi 19 giugno hanno conferito l’Orden del Mérito Civil a 22 uomini e 19 donne che si sono particolarmente distinti nei loro impegni quotidiani o sul fronte sociale.

Thaon di Revel, l’ammiraglio che vinse la guerra con i MAS


La biografia firmata da Pier Paolo Cervone per Mursia del Capo di Stato Maggiore della Marina militare e primo e unico Duca del Mare

di Fabio Pozzo

Fu primo e unico Grande Ammiraglio e Duca del Mare. Nobile piemontese, casato di origine nizzarde, natali torinesi, fedele ai Savoia, Paolo Thaon di Revel (1859-1948) è stato probabilmente uno dei migliori ammiragli italiani. Non a caso ha dato il nome al primo dei nuovi pattugliatori veloci della Marina, varato il 15 giugno scorso al Muggiano della Spezia da Fincantieri.

Una vita non facile 
Probabilmente, fu un predestinato. Figlio del conte Ottavio, ministro delle Finanze del Regno, amico di re Carlo Alberto, senatore e firmatario dello Statuto, Paolo Thaon di Revel poteva vantare tra i suoi avi due viceré di Sardegna, luogotenenti generali, cavalieri della Santissima Annunziata, senatori, ministri, prefetti, governatori (Torino, Asti, Tortona, Sassari, Genova). E soprattutto militari, ancorché di terra. Nobile e massone - si diceva che per far carriera in Marina servivano schiatta e grembiule -; eppure, nel leggere la biografia di Pier Paolo Cervone (Thaon di Revel. Il grande ammiraglio; Mursia), non sembra abbia avuto una vita facile.
[...]

giovedì 13 giugno 2019

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II



Nella infausta ricorrenza dell'inizio del suo esilio lo ricordiamo con una intervista composta da diversi numeri che abbiamo rintracciato casualmente, che non abbiamo potuto riportare nel giusto ordine ma che ordineremo alla fine.
Umberto ci guarda. Ci guardava dall’esilio.

Adesso invochiamo che ci guardi da lassù ed interceda per l’Italia presso l’Onnipotente.


lunedì 10 giugno 2019

Articoli


Questa volta è stato più  arduo di sempre riuscire a trovare nella rassegna stampa qualche articolo degno di essere riportato per la sua obiettività circa il referendum  truffa del 2 giugno del 46.
Di seguito riportiamo quei pochi articoli che volenti o nolenti hanno riportato la verità.

Ci scusiamo per il ritardo.





Repubblica o Monarchia: cosa scelsero le Marchee l’Abruzzo il 2 giugno 1946

Festa della Repubblica: quando la Sardegna votò Savoia


Le ricette di Casa Savoia a Palazzo Cisterna

La presentazione del volume di Marisa e Manuel Torello, a cura dell'associazione Amici della Cultura nella sede aulica della Città metropolitana di Torino
Si svolge lunedì 10 giugno alle ore 17 a Palazzo Cisterna l’ultimo appuntamento, prima della pausa estiva, curato dall'associazione Amici della Cultura nella sede aulica della Città metropolitana di Torino.
Sarà Marisa Torello ad intrattenere il pubblico con la presentazione del suo libro, scritto con la collaborazione del figlio Manuel, “Convivio da Re – La cucina dei rimasugli”. Un viaggio tra le ricette ottocentesche di Casa Savoia e della nobiltà europea.
Dopo il successo dell’incontro sull’erbario dei Certosini di Collegno, la scrittrice torinese torna a Palazzo Cisterna su invito degli Amici della Cultura per affrontare il tema della cucina che è arte e sapienza, ma anche specchio della quotidianità. Dagli ottocenteschi manoscritti inediti di alcuni cuochi di Casa Savoia l’autrice raccoglie le ricette create per convivi cui presero parte protagonisti della storia.
Un tentativo, riuscito, di riportare sulle nostre tavole sapori antichi che sarebbe un peccato dimenticare. Un tema, quello gastronomico, affrontato anche in un’altra pubblicazione di Marisa e Manuel Torello dal titolo “Tra ij brich e 'l Pò", la cucina di un'epoca”.
L’interesse storico e culturale di Marisa Torello, nata Vaccarino, non si limita però solo alla gastronomia e alla botanica, infatti da tempo, come volontaria, si offre di inventariare gli archivi storici di piccoli Comuni e di molte parrocchie piemontesi, ritrovando spesso dei documenti ritenuti scomparsi che rivelano vicende sconosciute o dimenticate della storia del nostro territorio.
Grazie al supporto del figlio Manuel ha così potuto far conoscere questi aspetti inediti con alcune pubblicazioni quali la storia di Collegno, di Castagneto Po, di Vallo Torinese, di Robassomero, di Agliè e di alcune antiche chiese, alcune delle quali accompagnate da mostre.
Ingresso libero fino ad esaurimento posti in sala.

Il “Pane del Re” è Denominazione Comunale d’Origine



Si chiama “Pane del Re” ed è la prima Denominazione Comunale d’Origine (De.c.o.) assegnata dal comune di Buttigliera Alta (Torino) a una produzione tipica del territorio che, come recita il disciplinare, ne valorizza le tradizioni e la storia, strettamente intrecciata con le vicende di casa Savoia.
L’idea- spiega una nota-  è nata dalla passione per la storia di Buttigliera Alta da parte di Manuela Massola, conduttrice del web-site Il Filo della Memoria e l’amministrazione comunale ha voluto darne ufficialità attraverso il conferimento del marchio De.c.o. Un “pane da meditazione” lo definisce Manuela Massola, a base di farina integrale, noci e acciughe, sapientemente amalgamati tra loro, la cui produzione è stata affidata a Marco Giaccone, fondatore del panificio “Pane Madre®” aperto nel 2014 nel comune valsusino, che ha reinterpretato l’antica ricetta tramandata oralmente dando forma al primo prodotto certificato buttiglierese.



http://www.agroalimentarenews.com/news-file/Il--Pane-del-Re----Denominazione-Comunale-d-Origine-.htm

venerdì 7 giugno 2019

Il Diario Inedito di Federzoni

I "conti con il Fascismo" di un liberale conservatore

di Aldo A. Mola
Una crisi senza soluzioni?
  La Nòttola di Minerva si leva al tramonto. Volteggia al buio su un mondo ormai libero da passioni e agonismi: le rovine del tempo. Il suo volo può ispirare la riflessione sulla crisi politica in corso in Italia, la più grave dal dopoguerra perché per la prima volta non se ne intravvede la via di uscita, a parte l'ennesimo ritorno alle urne (come in Spagna) o un governo “tecnico”, cioè il crepuscolo della “politica”.  Lasciate da parte le chiacchiere oggi imperversanti su fascismo e antifascismo, l'analogia tra la crisi sistemica odierna e la lunga storia d'Italia rimanda al 1919-1922 quando la “maledetta proporzionale” (la definizione è di Giovanni Giolitti) generò alla Camera due corposi partiti (il Partito socialista e il Partito popolare) e una pleiade di gruppi costituzionali incapaci di sintesi e corrivi ad anteporre i propri interessi a quelli del Paese. Ai margini rimanevano i repubblicani irriducibili e frange estremistiche, parte intruppate nel PSI (dal quale nel gennaio 1921 si spiccò il Partito comunista d'Italia, sezione nostrana dalla Terza internazionale) parte nel “fascismo rosso”, speculare a quello social-massimalista. Con un piede nel “sistema” e uno nell'illegalità, gli estremisti di opposto colore infettarono la vita pubblica. Finanziariamente spossato dalla partecipazione alla Grande Guerra, il Paese precipitò in una degenerazione che richiedeva responsabilità, dedizione e quel “senso dello Stato” tanto difficile da definire quanto facile da comprendere quando chi governa se ne mostra e ne risulta privo.

Il partito liberale nacque vecchio e morì bambino
Tra le prove che l'Uccello di Minerva spicca il volo quando ormai sopraggiungono le tenebre v'è la storia paradossale del partito liberale in Italia. Esso nacque in un congresso a Bologna l'8-10 ottobre 1922, dieci giorni prima della leggendaria “marcia su Roma”, quando il liberalismo in Italia era avviato al crepuscolo. A promuoverlo furono Alberto Giovannini, deputato, eletto segretario, Luigi Albertini, direttore e comproprietario del “Corriere della Sera”, Nino Valeri (iniziato massone in un'officina della Gran Loggia d'Italia con Gabriellino d'Annunzio) e il genovese Emilio Borzino, issato alla presidenza del partito. All'assise bolognese si affacciarono anche Antonio Salandra e Giovanni Giolitti, parlamentari di lungo corso, ministri ed ex presidenti del Consiglio, l'uno molto distante dall'altro: democratici liberali e liberali-democratici contrapposti. Giolitti si iscrisse al gruppo parlamentare “liberal-democratico”, poi semplicemente “democratico”. Finì con la scissione dell'atomo: la fine dei liberali.
Negli stessi giorni il Partito socialista si spaccò per l'ennesima volta: Filippo Turati e Giacomo Matteotti slittarono “a destra”, mentre gli altri continuavano a volere la “rivoluzione”, pur avendo alla loro sinistra Gramsci, Bordiga, Togliatti e Tasca, cioè la già citata Terza Internazionale di Lenin. Quando nel 1931 si spense a Parigi, ove era espatriato da sei anni, Turati fu irriso da Togliatti come strumento succubo della borghesia. All'epoca i comunisti bollavano i riformisti come social-fascisti. Solo anni dopo Stalin promosse i fronti popolari per contrastare l'ascesa dei nazional-socialisti di Hitler e le destre, dall'Italia di Mussolini, all'Ungheria di Horthy, alla Spagna di Franco. Morto durante il rapimento di cui fu vittima il 10 giugno 1924 (come ha documentato Enrico Tiozzo nel 2° volume della sua biografia, “Il Delitto”, ed. Bastogi), Matteotti divenne l'icona dell'antifascismo democratico, che però ebbe il torto di astenersi dai lavori della Camera e così regalò l'Aula al governo che, piaccia o meno, rappresentava lo Stato (non per caso l'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche pochi mesi prima della tragica fine del socialista di Fratta Polesine aveva aperto l'ambasciata a Roma senza invitare i socialisti).

Un “letterato” ministro dell'Interno:Federzoni  
Proprio l'assassinio di Matteotti fermò per qualche mese la deriva del Paese, sospeso tra ripristino della legalità e vittoria del “Trucio”, come Benito Mussolini era detto da Alberto Giannini nella rivista satirica “Il Becco Giallo” (ristampata dal geniale Oreste Del Buono). Dinnanzi all’immediata cattura degli squadristi responsabili della morte di Matteotti (Amerigo Dùmini, Augusto Malacria...) e alle loro palesi connivenze con la cupola del fascismo (Giovanni Marinelli, Cesarino Rossi...), senza bisogno di farselo dire pubblicamente da Vittorio Emanuele III (la cui biografia rimane da scrivere), Mussolini varò subito il più  importante rimpasto di governo dal suo avvento. Il 17 giugno cedette il ministero dell'Interno, posizione nevralgica, a Luigi Federzoni, già titolare delle Colonie. Il 1° luglio l'Istruzione passò dal filosofo Giovanni Gentile al liberale e cattolico Alessandro Casati. Lo stesso giorno Gino Sarrocchi sostituì Gabriello Carnazza ai Lavori Pubblici. Alla Guerra e alla Marina rimasero Antonino Di Giorgio e Paolo Thaon di Revel, “uomini del Re”, mai teneri nei confronti dell'incipiente regime, come il massone Aldo Oviglio alla Giustizia.
 Il cambio più significativo fu appunto l'avvento di Federzoni (Bologna, 27 settembre 1878- Roma, 24 gennaio 1967). Il suo nome oggi suona quasi senza eco. Eppure egli fu tra i massimi protagonisti della storia d'Italia. Figlio di un amico e cultore di Giosue Carducci, saggista, poligrafo e collaboratore del “Giornale d'Italia”, nel 1910 Federzoni fu tra i fondatori dell'Associazione nazionalista italiana con Enrico Corradini, Roberto Forges Davanzati, Francesco Coppola e altri eredi del pensiero di Alfredo Oriani. Promotore de “L'Idea Nazionale”, nel 1913 eletto deputato nel prestigioso collegio Roma I, fautore dell'interventismo nel 1914-1915, volontario in guerra e decorato al valore, rieletto alla Camera nel 1919 e 1921, oratore facondo e acuto, nel febbraio 1923 egli propiziò la fusione nel Partito fascista dell'Associazione nazionalista, sorretta dalle Camicie azzurre, monarchiche, che tante volte si erano scontrate con quelle Nere. Quale pegno, il Gran Consiglio del fascismo (consesso ancora privato, ma certo influente) poco prima aveva proclamato l'incompatibilità tra fasci e logge massoniche. Membro del Gran Consiglio del fascismo dal 5 marzo seguente, Federzoni costituì una garanzia per i monarchici all'interno del governo e nel partito, alla cui vicesegreteria fu nominato Maraviglia.

La forma è sostanza: l'Aula
Come può essere classificato mezzo secolo dopo la sua morte? Il suo nome non compare nel “Dizionario del liberalismo italiano” (ed. Rubbettino), che del resto non ricorda neppure quello di Borzino, presidente del PLI. Nondimeno Federzoni fu un protagonista del liberalismo in Italia. Il Risorgimento italiano (1792-1860 circa) fu animato da società segrete (carbonari, massoni, Giovine Italia...) ma non ebbe “partiti”. Era impensabile in tempi di repressioni, condanne durissime e patiboli per chi chiedeva costituzioni, libertà di culto, di pensiero, di stampa… Neppure all'estero vi erano veri e propri “partiti” come poi sorsero tra Otto e Novecento; neanche in Gran Bretagna (più celebrata che davvero conosciuta), ove la contrapposizione tra conservatori e liberali aveva molteplici sfumature. La sua peculiarità era connessa alla forma dell'Aula che tutti vedono ma non tutti conoscono e pochi si fermano a osservare.
I “modelli” del “Parlamento” nel tempo sono stati tre: il Senato di Roma, l'inglese e quello della Costituente francese, imitato per entrambi i rami del Parlamento italiano. Per quanto si sa, i “patres” dell'antica Roma sedevano in file ordinate su gradini come in aula universitaria. In Gran Bretagna i deputati sono distribuiti in due settori che si confrontano, con un fondale che sa di “Oriente”. Al centro vi è un tavolino per il deposito degli atti. Originariamente fu questa la foggia della Camera allestita a Palazzo Carignano, diversa da quella, celebratissima della Camera “subalpina”. Quest'ultima ebbe forma semicircolare, meno accentuata dell'attuale a Montecitorio ma sufficiente per propiziare la caratteristica del nascente liberalismo italiano: il trasformismo, che nacque dalla coniugazione delle idee ma fu anche facilitato dal luogo fisico nel quale crebbe, come accade per tutti i corpi viventi.
Quel liberalismo ebbe molteplici protagonisti e altrettanti volti, più e meno noti. Va detto che la dirigenza unitaria e postunitaria fu di primaria grandezza. Essa sfidò l'Europa. Di sette diversi staterelli ormai stenti e succubi dei loro dominatori (gli Asburgo, i Borbone, il papa-re), essa  fece uno Stato che dal 1867 sedette nella Conferenza delle potenze europee e mezzo secolo dopo registrò un progresso civile, economico e sociale apprezzato da tutti gli osservatori stranieri. Basti rileggere “Italy-today” di Thomas Okay.
Il passo imperiale di Luigi Federzoni
Certo vi furono dall'inizio due-tre Italie. La prima non voleva fare il passo più lungo della gamba (i conservatori). Un'altra allungava la gamba a costo di farsela ferire (Garibaldi). Infine quella che puntava a orizzonti infiniti. L'equilibrio fu raggiunto con Giolitti, cinque volte presidente del Consiglio tra il 1892 e il 1921: lo statista che unì ideali e pragmatismo. Ma proprio a lui si contrappose il nazionalismo di Enrico Corradini e di Luigi Federzoni. I nazionalisti erano un altro volto dell'Italia liberale, sulla scia della Sinistra storica di Agostino Depretis e, ancor più, di Francesco Crispi.  D'Annunzio non scrisse le “Odi Navali” in omaggio Mussolini. Espresse i turgori dell'Italia che aspirava al Mar Rosso, all'Oceano Indiano, all'“Impero” quando al governo si alternavano Rudinì, Giolitti, Crispi e Pelloux, mentre il socialista Antonio Labriola predicava l'espansione coloniale quale volano per il progresso economico e l'avvento dell'industria senza la quale il “proletariato” non sarebbe mai nato. Marx dixit.

Nel torbido clima dell'estate 1924 fu dunque Federzoni a farsi carico di rimettere un po' d'ordine tra Stato, Governo, partiti e movimenti in un'Europa in subbuglio, tra colpi di stato qui e là tentati e regimi autoritari (come quello di Miguel Primo de Rivera in Spagna). Finissimo letterato prestato alla politica (fu anche il caso dei filosofi Benedetto Croce e Gentile), Federzoni resse l'Interno sino a quando l'attentato a Mussolini, attribuito ad Anteo Zamboni, proprio nella sua Bologna scatenò l'inferno: pena di morte, la “seconda ondata”... Nel novembre 1926 il “duce” riprese l'Interno e relegò Federzoni alle Colonie. Senatore dal 1929, presidente del Senato sino al 1939, quando venne sostituito col più “devoto” Giacomo Suardo, al vertice delle principali istituzioni culturali (dalla “Nuova Antologia” all'Accademia d'Italia) nel luglio 1943 Federzoni fu con Dino Grandi e Giuseppe Bottai autore dell'ordine del giorno che chiese al Re di riprendere i poteri statutari e mise fine al regime. Braccato, riparò nell'ambasciata del Portogallo presso la Santa Sede. Lì scrisse il “Diario” ora pubblicato a cura di Erminia Ciccozzi dall'editore Pontecorboli (Firenze)  con ampio saggio introduttivo di Aldo G. Ricci. L'originale del “Diario inedito, 1943-1944”, dopo lunghe traversie, è stato donato da Francesco Sommaruga all'Archivio Centrale dello Stato.
L'opera di Federzoni ministro dell'Interno è sintetizzata dall'invettiva che contro di lui venne lanciata dal ras di Cremona, Roberto Farinacci, mentre l'ex gerarca era imputato con Galeazzo Ciano e altri per “alto tradimento” e condannato a morte dal tribunale di Verona. Secondo la Repubblica sociale aveva perseguito la “tendenza normalizzatrice”, represso l'estremismo e mostrato “condiscendenza costante verso i partiti antifascisti”. Purtroppo per lui, egli venne destituito da senatore (come innumerevoli altri patres) e condannato all'ergastolo proprio dagli antifascisti al potere. Dopo un breve soggiorno, sempre in clandestinità, nel Pontificio collegio ucraino al Gianicolo, nel maggio del 1946, vigilia del referendum, riuscì a riparare in Brasile, donde nel 1948 passò in Portogallo ove insegnò nelle Università di Coimbra e di Lisbona. Torno in Italia nel 1949 in forma riservatissima e poi dal 1951. 

Federzoni fu aspramente nemico della massoneria che considerava nociva per l'Italia contemporanea, ma questo non basta a dichiararlo non liberale. Altrettanto si dovrebbe fare di Benedetto Croce o di Luigi Einaudi. Sulla massoneria vi furono e rimangono giudizi e pregiudizi. Proprio a dimostrare la superiorità di alcuni massoni  il “Diario inedito, 1943-1944” è uscito con il contributo dell'Istituto intitolato al Gran Maestro Lino Salvini, che ottenne il riconoscimento del Grande Oriente d'Italia da parte della Gran Loggia Unita d'Inghilterra, e si è valso della competenza di un massonologo qual è Guglielmo Adilardi.
Il problema angosciante dell'Italia odierna è la pochezza delle dispute su fascismo e antifascismo e, persino, su unificazione nazionale e “guerra per il Mezzogiorno”, che dà titolo al saggio in cui Carmelo Pinto dà veste vagamente scientifica alle tesi propugnate da noti libelli neoborbonici. Va ricomposta la visione unitaria della storia di questa piccola porzione d'Europa mentre urge far ripartire la Comunità europea (l'“Unione” verrà chissà quando) nell'ambito delle alleanze garanti della sicurezza e della sua integrità territoriale (l'“indipendenza” è acqua passata: ma vale per noi come per tutti i 27-28 componenti dell'Unione Europea).

Monarchici e monarchisti: Federzoni a Umberto II
Perciò è attualissima la lezione impartita in splendida lingua italiana da Luigi Federzoni. A libro “Diario”chiuso al lettore vengono in mente i busti degli italiani illustri al Pincio e i fregi dell'Altare della Patria: rappresentazioni complesse della nostra storia, ove vi è spazio per tutti, senza “damnatio memoriae”, nella consapevolezza che ognuno ha fatto quel che meglio sapeva o gli venne consentito, e ognuno pagò. Una sosta al Pincio merita il monumento levato da Edoardo Calandra a Umberto I, assassinato a Monza da un anarchico estero-diretto. Ai piedi del Re lo scultore subalpino pose il volto della Medusa: l'anarchia, l'odio verso lo Stato. Anche da quell'evento tragico nacque il nazionalismo, che contrassegnò i primi decenni del regno di Vittorio Emanuele III. La sostituzione di Federzoni alla presidenza del Senato coincise con l'inizio della guerra senza frontiere di Mussolini contro la monarchia. Lo ebbe chiaro Federzoni che in una lettera nel primo viaggio segreto in Italia (1949) al “Sire”, Umberto II”, distinse tra monarchia e monarchismo, una piaga, quest'ultima, ancora aperta perché tanti sedicenti monarchici vorrebbero il re a propria immagine e somiglianza.
Umberto Gentiloni Silveri, Pietro Scoppola e altri vent'anni fa si domandarono perché non fosse nato in Italia un “partito conservatore”. Il liberalismo italiano non ebbe mai un partito, né con Cavour né con Giolitti. E poi non fu conservatore, se per tale si intende difensore degli “interessi costituiti”. Fu sempre fautore di profonde riforme, “popolari”. Lì fu la sua forza: progresso civile per consolidare le basi delle Istituzioni. Quello fu anche il liberalismo di Croce (che controvoglia accettò la presidenza del Pli nel dopoguerra) e di Luigi Einaudi. È quanto occorre oggi. Perciò ogni “parte” dovrebbe sacrificare un po' di se stessa e convergere in un “cartello” nell'interesse supremo dell'Italia e dei cittadini. Ma il motto “Italia innanzi tutto” non è dei partiti e dei movimenti. Era di Umberto II che morì esule il 18 marzo 1983. Federzoni fu sino all'ultimo il suo ascoltato consigliere.   


Aldo A. Mola  

giovedì 6 giugno 2019

Il libro azzurro sul referendum - XIV cap - 1-4



2) L’incolumità della Famiglia Reale non è più garantita.
3) Colloquio Bracci-De Gasperi.


« ...Il Presidente e il Consiglio si assumeranno la responsabilità delle gravi decisioni, spegneremo subito i focolai dell’eventuale ribellione, compresa quella del Re. Ma se non autorizzate libertà, ditecelo, prima che sia troppo tardi. Pensateci bene prima di rispondere. Studiate da quale parte è la ragione, perché una vostra azione eventuale contro il diritto degli italiani avrebbe conseguenze nazionali e internazionali difficili a misurarsi ».

Non si garantisce più l’incolumità della Famiglia Reale
Da un ultimo colloquio del  Gen. Infante col Brigadiere Maurice Stanley Lush risultava « che non si poteva fare affidamento sulla buona volontà degli Alleati anche in caso, già in atto, di patente spregio della legge... Gli Alleati che in un primo tempo avevano promesso di garantire l’incolumità personale de! Re e soprattutto della Famiglia, si erano ritirati da questa promessa ».

Cariche di cavalleria e manganellate della Celere dispersero una dimostrazione monarchica di protesta in Piazza del Popolo.

Colloquio Bracci - De Gasperi
« Bracci: E’ tempo di agire... Gli Alleati in fin dei conti sperano in una repubblica più disarmata della Monarchia, al momento della firma del duro Trattato di Pace che ci stanno preparando... Durante la giornata, vari di noi hanno suggerito ad essi che la Repubblica non ha legami col passato; essa, fuori del ginepraio dei nazionalismi, guarda al futuro, consapevole d’altra parte anche delle colpe italiane... Per ragioni interne e internazionali essi, in caso di turbamento sono piuttosto disposti a prendere posizione in favore del Governo... ».


Il non intervento della A. C.
«A proposito di quanto pubblicato in questi giorni circa pretese ingerenze della Commissione alleata in ordine alla presente situazione politica italiana, l’Ansa ha potuto accertare che la Commissione stessa mai è intervenuta, in questo delicato periodo del nostro Paese, nelle faccende interne italiane.
Del resto, mai ad essa è stato ufficialmente richiesto di intervenire, né da parte del Re né da parte del Governo italiano.
Per ciò che si riferisce al recente passo compiuto dall’On. Tullio Benedetti verso l’Ammiraglio Stone, l’Ansa è in grado di precisare che questi si è limitato a rimettere all’On. De Gasperi, per competenza, la richiesta di intervento pervenutagli, informandone nel contempo l’On. Benedetti.
Circa poi le visite fatte dall’Ammiraglio Stone in Quirinale viene chiarito che la visita è stata una sola in seguito all’invito rivolto dal Re al Capo della Commissione alleata per informarlo in linea di cortesia, intorno agli sviluppi della situazione politica; questo colloquio durò mezz’ora e non vi presenziarono altre personalità ».
(12 giugno 1946 - Agenzia Ansa).



(   1) Da Storia segreta pag.196 e 200 e da un saggio di Bracci sulla crisi di giugno