NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 22 settembre 2021

Il sito dedicato a Re Umberto II cambia

Carissimi, 

dopo 18 anni di onorato servizio il sito di Re Umberto subisce una  rivoluzione.
Il sito, artigianale, empirico quasi, era diventato impossibile da aggiornare con programmi semplici, per un profano quale io sono, ma ormai vetusti. 

Di fatto il sito non veniva più rilevato da Google (che è praticamente come non esistere) e letto solo da chi già ne conosceva l'esistenza .
Adesso si presenta con una nuova veste grafica e con ambizioni maggiori.

Richiederà tempo ed attenzione riportare in maniera schematica ed organica tutto il materiale in esso contenuto ma conto, con l'aiuto del mio amico Marcello, eccezionale creatore di siti internet oltre che collega di lavoro, di riuscire a farlo in tempi accettabili.

Invito gli amici e gli affezionati a segnalare ogni problema sì da poter riportare il sito alla sua funzionalità originale.

Cambia la veste ma non la dedizione alla memoria del nostro Re ed anche a quella degli amici che al sito hanno collaborato che sono recentemente scomparsi: l'Ambasciatore Camillo Zuccoli, il Dottor Alberto Foracchia, l'Ingegnere Domenico Giglio, presidente del Circolo Rex.

Seguiteci ancora.

Viva il Re!


www.reumberto.it

lunedì 20 settembre 2021

Il Re Soldato per il Milite Ignoto: la riscossa della Monarchia Statutaria



Il 4 novembre 1921 venne tumulata all'Altare della Patria la Salma del Milite Ignoto. Fu e rimane la manifestazione di unità nazionale più ampia e partecipata della storia d'Italia. Scelta il 28 ottobre da Maria Bergamas, madre di un Caduto, tra undici salme di militari non identificati raccolte nella Basilica di Aquileja, la Salma fu trasferita a Roma in treno tra due ali ininterrotte di cittadini in preghiera e meditazione. Il 2 novembre dalla Stazione Termini fu traslata a Santa Maria degli Angeli, seguita da un corteo aperto dal Re. La mattina di due giorni dopo Vittorio Emanuele III attese la Bara all'Altare della Patria, dinnanzi al Sacello della Dea Roma, ove fu tumulata nell'immensa commozione dei presenti e di tutti gli italiani, idealmente presenti col suono delle campane echeggianti da tutto il Paese. Il Re celebrò l'unione tra istituzioni e popolo. Quale messaggio inviò l'Ignoto Milite ai compatrioti? Dopo tre anni di disordini e polemiche iniziava l'era della pacificazione e della solidarietà civile?

 [...]

Fonte Cuneo Cronaca


domenica 19 settembre 2021

Capitolo XXXVII Carnera lascia la boxe.

 


Di  Emilio Del Bel Belluz

Primo iniziò il 1938 senza il mondo della boxe. Erano passati dieci anni dal suo primo approccio con la noble art. Carnera appariva stanco di quell’ambiente, non era più sicuro di nulla. Nel 1938 aveva 32 anni, ed effettivamente, non era troppo anziano, anche se aveva già sostenuto quasi un centinaio di match. Doveva assolutamente trovare un lavoro, ma l’unica cosa che era capace di fare era quella di boxare.   La notte, talvolta, si sognava dei molti incontri che aveva combattuto e delle persone conosciute. Gli era capitato di sognare un suo avversario che lo aveva battuto, e gli era piaciuto che si fosse avvicinato per informarsi sulle sue condizioni fisiche, così come apprezzò la sua visita in ospedale. La boxe gli aveva dato tanto, ma tanto gli aveva tolto. Il mondo l’aveva girato in lungo e in largo e non poteva lamentarsi di questo. I tifosi venivano lo stesso a Sequals per conoscerlo, e per farsi raccontare le sue imprese pugilistiche. L’unico episodio di cui parlava poco e con amarezza era rappresentato dal tragico match contro Ernie Shaaf. Tante volte di notte si era svegliato di soprassalto e aveva urlato il suo nome. Continuava a scrivere alla madre di Ernie chiedendole perdono e inviandole delle somme di denaro. La donna gli rispondeva sempre, invitandolo a dimenticare l’accaduto perché la morte del figlio non era attribuibile ai suoi pugni. Il nuovo futuro di Carnera stava incominciando a delinearsi: alcuni registi lo avevano chiamato affinché interpretasse alcuni ruoli nei loro film. Carnera per questo si era spostato a Roma e in questo modo riusciva a guadagnare dei soldi. Quella vita non poteva durare a lungo ma era pur sempre un modo di accumulare del denaro in modo onesto.  Primo cominciò a riflettere seriamente su quello che da tempo gli ripeteva sua madre, ovvero, di trovarsi una brava ragazza per formarsi una famiglia. Ma la vita di attore lo stava assorbendo molto, aveva fatto tappa in molte città d’Italia, lavorando anche in teatro con Renato Rascel. La sera del debutto con il comico era pensieroso, perché prima dello spettacolo doveva fare una ripresa di esibizione pugilistica con un volonteroso sparring-partner. Questa sua dimostrazione richiamava tanti spettatori che riempivano il teatro. Era la gente che continuava ad amarlo come pugile, come uomo forte e anche lui stesso finiva per sentirsi ancora un boxeur. Il successo e gli incassi facevano ben sperare, aveva trovato la strada della gloria. A Primo faceva ricordare i tempi passati e, precisamente, il suo inizio, nel circo francese, quando doveva esibirsi quasi tutte le sere con degli uomini che volevano sfidarlo. Il nuovo ambiente dello spettacolo gli piaceva.  Tutto questo veniva svolto con la massima passione. I registi sapevano che il campione aveva un seguito di pubblico che voleva conoscere la sua vita. I giornali parlavano ancora di lui, non come boxeur, ma come attore di teatro e di cinema. La gente andava volentieri a vedere i suoi film. Solo sua madre voleva vederlo sotto una nuova veste lavorativa.  Con il cinema aveva avuto la possibilità di conoscere degli attori molto importanti e delle attrici di rara bellezza. Costoro erano parecchio incuriositi di conoscere il periodo americano di Primo. L’America gli aveva dato tanto, aveva conosciuto uomini importanti, quali il Presidente e vari politici di quello stato. Ma aveva ricevuto tante delusioni da parte di persone che lui considerava buoni amici. Nel trattare i suoi affari in America non erano stati molto accorti perché s’era fidato di persone che si erano rivelate poi dei truffatori. Nella sua gestione finanziaria era andato Ko, da cui era stato impossibile rialzarsi facilmente. 

 

 

 

Nel suo girovagare con il teatro aveva sempre un seguito di persone che lo volevano salutare, e gli ponevano mille domande.  Carnera anche nei momenti più dolorosi aveva dentro di sé una grande forza, non si lasciava travolgere dalla disperazione e sorrideva sempre stupito davanti a tutto. Da uomo forte come una quercia sapeva, anzi, aveva imparato a distinguere quelli che gli volevano bene, da quelli che ceravano di sfruttarlo. Anche nei contratti che stringeva nel mondo del cinema, aveva imparato a destreggiarsi molto bene.   La vita dell’attore aveva i suoi vantaggi, uno di questi era quello che il suo nome lo trovava spesso nei giornali e così continuava ad essere ricordato. Quando rientrava in albergo dopo lo spettacolo, gli era capitato di trovare anche delle donne che lo attendevano, che volevano la sua compagnia, ma non era quello che desiderava. La sola donna che voleva in quel periodo era quella che sarebbe diventata sua moglie. Il Duce tassava quelli che non si sposavano e il gigante di Sequals quella gabella non voleva pagarla. Scherzava spesso su questo con i suoi amici, a volte diceva che la donna adatta a lui non era ancora nata. Ogni tanto pensava alla ragazza del bistrot, ma riteneva che i ricordi legati a quel periodo dovessero essere riportati alla mente solo quando si è avanti negli anni per sentirsi ancora vivi. Ricordava con nostalgia anche i difficili esordi pugilistici in terra francese, seppure gli avevano riservato qualche soddisfazione inaspettata, come quella di essere applaudito calorosamente in terra straniera.

sabato 18 settembre 2021

Incontro di studio e di ricerca

 

INCONTRO DI STUDIO E DI RICERCA
PASSEGGIATA ALL’ARIA APERTA



CONOSCERE LA STORIA ATTRAVERSO IL MONUMENTALE

SIETE INVITATI A UN INCONTRO DI STUDIO E DI RICERCA, PER CONOSCERE E RIVIVERE INSIEME L’EVENTO STORICO DELLA BRECCIA DI PORTA PIA DEL 20 SETTEMBRE 1870, EVENTO CHE SOLLEVO’ ROMA A CAPITALE D’ITALIA.

OSSERVANDO DAL VIVO IL MONUMENTO AL BERSAGLIERE, LEGGEREMO SU QUESTO LIBRO DI PIETRA E DI BRONZO LA STORIA DEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO A PORTA PIA.

         

ILLUSTREREMO LE CARATTERISTICHE ARCHITETTONICHE DELLE DUE FACCIATE DELLA MONUMENTALE PORTA PIA, SINTESI DELLA STORIA D’ITALIA.

       

CI SOFFERMEREMO AL MONUMENTO ALLA BRECCIA PER RICORDARE IL MOMENTO DELL’ENTRATA DEGLI ITALIANI A ROMA, E LEGGEREMO LE SIGNIFICATIVE PAROLE SULLE TARGHE, A PERENNE RICORDO PER LE GENERAZIONI FUTURE.


DUE SORPRESE

1.    LA SIGNIFICATIVA TARGA INAUGURATA IL 20 SETTEMBRE 2020 IN OCCASIONE DEL 150° ANNIVERSARIO DI PORTA PIA DA PARTE DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALE ARTIGLIERI D’ITALIA, A MEMORIA DEL LUOGO, UN BOSCO ANCORA OGGI VISIBILE, DA DOVE PARTI’ IL PRIMO COLPO DI CANNONE CHE APRI’ LA BRECCIA.

2.    VEDREMO INOLTRE UNA PALLA DI CANNONE ANCORA INCASTONATA NELLE MURA AURELIANE RISALENTE AL 20 SETTEMBRE 1870 


IL PERCORSO SI SVOLGERA’ ALL’APERTO

APPUNTAMENTO LIBRERIA HORAFELIX VIA REGGIO EMILIA 89 ROMA (VICINO A PORTA PIA)

DOMENICA POMERIGGIO 19 SETTEMBRE 2021 ALLE ORE 16,30

L’INCONTRO SI RIPETERA’ PER CHI LO DESIDERA

LUNEDI’ POMERIGGIO 20 SETTEMBRE 2021 ALLE ORE 16,30

DURATA CIRCA UN’ORA

PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA POSTI LIMITATI

EMAIL: terzanavigazionefutura@gmail.com

TELEFONO: 3384714674

OFFERTA LIBERA

PROF. MASSIMO FULVIO FINUCCI
D.SSA CLARISSA EMILIA BAFARO

 

 

mercoledì 15 settembre 2021

90 anni orsono l'Italia giurò fedeltà al regime

Tra i colpi messi a segno da Mussolini per subordinare lo Stato al Pnf vi fu l'accostamento universale del fascio littorio allo scudo sabaudo, incluso lo stemma del Regno dall'11 aprile 1929.


Anniversari scomodi

La Monarchia non è una persona. È un sistema

“L'istituto monarchico non funzionò a tempo, perché non era più abbastanza monarchico. Oggi, anziché ad abbatterlo per punire la persona che lo incarna (Vittorio Emanuele III) bisognerebbe mirare a reintegrarlo. Bisognerebbe principalmente convincersi che la Monarchia non è una persona, è un sistema, al quale tutta la Nazione e i singoli cittadini sono interessati, e riconoscere che il sistema era stato distrutto da Mussolini e dal partito, e che se il re non aveva potuto e saputo opporsi, nessuno ne aveva preso le parti contro l'usurpazione. Su questo punto essenziale hanno sbagliato tutti; anche quei pochi che, come me, si sono sforzati di difendere l'autorità, il prestigio, vorrei dire la poesia della Corona. Noi stessi, confessiamolo, non abbiamo abbastanza compreso quella verità che oggi appare lampante: l'irriducibile antitesi, almeno nella civiltà politica attuale, fra Monarchia e Stato totalitario”.

Questo amaro bilancio autocritico tracciato da Luigi Federzoni mentre, per sfuggire alla vendetta di Mussolini, era rifugiato nella soffitta dell'Ambasciata del Portogallo presso la Città del Vaticano contiene una parte della verità storica: quella che all'indomani del 25 luglio e dell'8 settembre 1943 appariva a chi, come lui, il 29-31 ottobre 1922 aveva accettato con molte riserve l'ascesa di Mussolini a presidente del Consiglio ma poi ne aveva condiviso il percorso, nascondendo a se stesso il proposito ultimo del “duce”, cioè la subordinazione dello Stato al partito nazionale fascista, nato e morto repubblicano (di Federzoni v. Diario inedito, 1943-1944, a cura di E. Ciccozzi, con saggio di Aldo G. Ricci, ed. Pontecorboli)

Anche in posizioni apicali di potere (all'indomani dell'affare Matteotti” gli venne affidato era il ministero dell'Interno, quale garanzia contro l'assalto allo Stato da parte dei “ras” e dei consoli della Milizia volontaria di sicurezza nazionale), come altri gerarchi di matrice liberal-nazionalistica Federzoni visse per un ventennio nell'ambiguità: preferì non vedere l'“irriducibile antitesi” tra monarchia statutaria e regime di partito unico. Carducciano cattolico, avvolse la realtà nelle bende della retorica nazional-fascista e concorse a sgretolare giorno per giorno le fondamenta della monarchia e ad elevare il monumento al fascismo e al suo “duce”, sino a farne l'uomo del Destino (o “della Provvidenza” come scrisse Pio XI).

   Nell'articolo su La legge del Gran Consiglio scritto all'indomani della “costituzionalizzazione del Regime” (1928) Giovanni Gentile plaudì all'“inizio” della “nuova storia, a cui tutti gli italiani sono invitati a collaborare sotto l'emblema del Littorio. Non più fascisti e antifascisti, ma Italiani; non più uomini della Rivoluzione, e conservatori del vecchio regime; ma cittadini tutti della nuova Italia, stretti dal comune proposito di concorrere ciascuno per la sua parte alla grandezza e potenza della Nazione. Dentro lo Stato, la libertà con la disciplina; fuori, niente. Dentro la nuova legge ogni diritto è sacro perché è un dovere. È un dovere del cittadino verso se stesso, perché è un dovere verso la Patria. È il nuovo ideale cui guarda e deve guardare il Partito Fascista, che nel suo trionfo sente il peso enorme della responsabilità che si è assunta”.

In realtà, l'invenzione del Gran Consiglio, “organo supremo del Regime sorto dalla Rivoluzione dell'ottobre 1922” (legge 9 dicembre 1928, n. 2693), non sanò affatto il dualismo fra la Corona e il partito unico. Quest'ultimo aspirò, senza però riuscirvi, ad avocare la somma del Potere. Latente sotto la maschera della apparente “diarchia”, il contrasto era destinato a esplodere quando il re avesse deciso, come fece il 25 luglio 1943, di sconfessare l'“armistizio” del fascismo verso la monarchia, enunciato unilateralmente da Mussolini nel discorso di Udine del 20 settembre 1922, pronunciato per ottenere l'avallo dei monarchici al suo ingresso nel governo. A conferma della fragilità dell'interpretazione gentiliana del ruolo del Gran Consiglio basti ricordare che dal novembre 1926 egli prese parte alle sue sedute solo come presidente dell'Istituto nazionale fascista di cultura, la cui stessa insegna pretendeva di ingabbiare la cultura (che in sé non è nazionale ma universale) negli steccati del “fascismo”. Ricalcate in Dottrina politica e sociale del fascismo  ( ed nell'Enciclopedia italiana), le pagine di Gentile divennero premessa dello Statuto del Pnf deliberato dal Gran Consiglio in una delle sue ultime riunioni, l'11 marzo 1938.

 

La Camera dei Fasci e delle Corporazioni (1939)

Il “compromesso” del 1922 fu ribadito all'inaugurazione della XXX legislatura, I della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, il 23 marzo 1939, anno XVII dell'era fascista. Presenti il principe ereditario Umberto di Savoia, i principi del sangue con le rispettive Case militari e civili, la regina imperatrice (che rispose al grido “Viva la regina” salutando romanamente), nonché un gruppo di Sansepolcristi e una rappresentanza della Falange Spagnola, il re rispose col saluto romano alle “vivacissime prolungate acclamazioni” e dopo il giuramento collettivo dei “Consiglieri nazionali”, nuova denominazione dei “deputati”. Vittorio Emanuele III rievocò anzitutto la conquista dell'Etiopia (riconosciuta da Londra il 16 novembre 1938) e la creazione dell'Impero, le sanzioni economiche deliberate dalla Società delle Nazioni contro l'aggressione italiana a uno Stato suo membro e l'uscita dell'Italia da “un organismo che ormai sopravvive a se stesso per forza di inerzia e senza alcuna particolare utilità per il mondo”. Ricordate le “relazioni particolarmente amichevoli” con Ungheria, Jugoslavia, Polonia, Svizzera e Albania, l'“Asse Roma-Berlino” e i motivi di tensione con la Francia, il sovrano assicurò che l'Italia desiderava che la pace regnasse “il più a lungo possibile”. Del resto (non lo disse) essa era uscita spossata dalla guerra d'Etiopia e dall'intervento del Corpo Truppe Volontarie in Spagna (senza adeguata contropartita politica) a sostegno dei “Quattro generali”, contro il governo repubblicano di Madrid. Accennò all'imminente Carta della Scuola e alla riforma del codice civile, “specie nella sua parte che si occupa del diritto familiare e di tutti i problemi afferenti alla difesa della nostra razza”, alla quale “dal suo inizio” il regime aveva dedicato “le sue più costanti energie”. Concluse con un cenno alla “intesa e collaborazione” tra Stato e Chiesa”, “nella sfera delle reciproche attribuzioni e responsabilità”, e all'“avvenire garantito dalle armi e dalla sempre più profonda coscienza unitaria nazionale temprata alle dure prove della guerra e ai compiti non meno arditi della pace”. Prima di sciogliersi, senatori e consiglieri nazionali – narra la cronaca pubblicata nella “Gazzetta Ufficiale” del 23 marzo 1939 – “intonarono in coro vibrante gli inni della Rivoluzione”.

Venti giorni dopo, il 6 aprile 1939, scattò l'aggressione dell'Italia contro l'Albania la cui corona il 16 fu assunta dal re, mentre quattro notabili del Paese delle Aquile furono nominati senatori per la 20 categoria (“illustrazioni della patria”).

 

Come e quando nacque il Regime

Inizialmente appagata dall'ascesa del partito al potere, la componente repubblicana del partito premeva nel tempo premette sempre più su Mussolini per un “cambio di passo” nei confronti della monarchia. Il duce però si condusse Mussolini con prudenza e più volte ribadì la priorità dello Stato rispetto al partito. Il 13 giugno 1923 da presidente del Consiglio il telegrafò ai prefetti: “Unico solo rappresentante autorità Governo nella Provincia è il Prefetto e nessun altro fuori di lui (…) Fiduciari provinciali fascisti nonché diverse autorità partito sono subordinate Prefetto. Intendesi che essendo Fascismo partito dominante Prefetto dovrà tenere contatti con fascio locale per evitare dissidi e tutto ciò che possa turbare ordine pubblico”. All'epoca, va ricordato, dopo la fusione con i nazionalisti (febbraio 1923), il gruppo parlamentare del PNF contava meno di 50 dei 545 deputati in carica e il partito era ancora lontanissimo dall'essere “dominante” rispetto al socialista, al popolare, ai demo-sociali e alla ondivaga pletora di “costituzionali”. Sennonché con l'uso sistematico della violenza ai danni degli oppositori i suoi militanti occupavano “nei fatti” lo spazio che non avevano sul piano meramente numerico dei seggi.

Neppure con le elezioni del 6 aprile 1924 i deputati iscritti al Pnf risultarono maggioritari. Se ne contarono 227 su 545. Molti arrivavano dalle file di liberali, popolari, “democratici”. Però sin dalla convalida degli eletti, nel corso di una seduta tumultuosa, fu chiaro che il partito non esitava a imporsi per intimidire gli incerti e isolare le opposizioni residue. In quei frangenti e sino all'inizio del 1926 le reiterate sollecitazioni al sovrano a intervenire per ripristinare l'equilibrio dei lavori parlamentari, in specie alla Camera dei deputati, rimasero senza risposta perché non era provato che essi fossero in contrasto con lo Statuto. Non era il re a doverlo dire, ma le Camere. Esattamente come avviene oggi. Nessun presidente della Repubblica ha mai pubblicamente censurato le squallide piazzate inscenate nei due rami del Parlamento.

Il 5 gennaio 1927, dopo aver messo a segno le leggi “fascistissime” (a cominciare dall'obbligo dei dipendenti pubblici, militari compresi, di dichiarare la propria appartenenza ad associazioni), compreso il ripristino della pena di morte per attentati alla sicurezza dello Stato e ai titolari sommi del potere, Mussolini ribadì: “Il prefetto, lo riaffermo solennemente, è la più alta autorità dello Stato nella provincia. Egli è il rappresentante diretto del potere esecutivo centrale”. Più di ogni altro, i fascisti gli dovevano quindi “rispetto ed obbedienza” perché era il “più alto rappresentante politico del regime”. Avocata all'esecutivo la facoltà di emanare norme giuridiche, sostituiti i consigli comunali elettivi con l'ordinamento podestarile e quelli provinciali con presidi (poi rettori), imbrigliata la stampa periodica, costrette le associazioni massoniche a sciogliersi per evitare rappresaglie ai loro affiliati, vietati i partiti d'opposizione, dichiarati decaduti i deputati assenti ingiustificati alle sedute e preso sotto controllo l'apparato dello Stato, il “capo del governo” (in forza della legge 24 dicembre 1925, n. 2263) aveva motivo di anteporre lo Stato, “formato” in massima parte da dirigenti e funzionari cresciuti nell'età giolittiana e durante la Grande Guerra, ai quadri di partito dalla spesso posticcia preparazione culturale e giuridica, come documenta Guido Melis in La macchina imperfetta ed. il Mulino, Premio Acqui Storia).

Il 26 maggio 1927, nel cosiddetto “discorso dell'Ascensione”, messe nel conto le residue “frizioni” (“la natura umana, disse il duce con spunto autobiografico, non è facilmente addomesticabile”), Mussolini dichiarò alla Camera: “ad ogni modo io non darà mai la testa di un prefetto a nessun segretario federale, e soprattutto se questo prefetto viene dal Partito Nazionale Fascista, e se è, come deve essere, un probo funzionario, servitore devoto del regime”. Ambiguità? Doppiezza? Scaltrezza? Temporeggiava. La “sua” repubblica nondum matura erat.

L'instaurazione del regime non avvenne né il 28 (o, più esattamente il 31) ottobre 1922, con l'insediamento del governo di convergenza costituzionale, né alla fusione dei nazionalisti nelle file dei fascisti, né con la vittoria della Lista nazionale (6 aprile 1924) ma, passo dopo passo, con con le leggi varate dal Parlamento nel quadriennio seguente, sino alla riforma elettorale propugnata da Alfredo Rocco, con la sola opposizione significativa di Giolitti, secondo il quale, eliminando alla radice la libertà di scelta dei rappresentanti alla Camera, essa costituiva un vulnus insanabile dello Statuto. Non gli venne obiettato, però, che la Carta albertina aveva istituito l'elezione dei deputati, demandando al legislatore l’approvazione la legge elettorale; sicché la responsabilità politica di quel vulnus non andava imputata al sovrano, ma ricadeva sui parlamentari in carica e soprattutto sui deputati, inclini a farsi male da soli.

 

L'imposizione del giuramento di fedeltà: a quale fascismo?

Forte dello straripante successo ottenuto nelle elezioni del marzo 1929, preceduto dalla Conciliazione Stato-Chiesa dell'11 febbraio precedente, Mussolini ribadì i principi cardini: “Il partito non è che una forza civile e volontaria agli ordini dello Stato, così come la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale è una forza armata agli ordini dello Stato”.

L'ordinamento della Milizia e lo statuto del Pnf risultarono autoreferenziali e conculcarono le competenze della magistratura ordinaria. I nuovi iscritti al partito, infatti, erano tenuti a giurare davanti al segretario politico (elevato a garante pubblico della moralità politica) “di eseguire senza discutere gli ordini del Duce e di servire con tutte le forze e, se necessario, col sangue la causa della Rivoluzione Fascista”, con la divisa “fede, coraggio, disciplina e onestà”. Ripetutamente aggiornati, gli statuti del PNF e della Milizia non contennero mai alcun riferimento né al re, né alla monarchia. A quel modo perdurò l'ambiguo compromesso del 1922. Il fascista espulso dal Partito andava messo al bando dalla “vita pubblica” senza che fosse precisato se per tale si intendeva solo quella “politica” o comprendesse anche l'accesso a impieghi pubblici, l'esercizio di attività private (commerciali, agrarie, industriali, bancarie...) e le libere professioni. I dati disponibili dicono che nel 1943 a Torino solo un decimo degli avvocati era iscritto al Pnf.

L'ambiguità era nelle norme. I deliberati del Gran Consiglio, dopo la sua costituzionalizzazione (9 dicembre 1928) assunsero valore pubblicistico: di esso facevano parte il capo del governo, i presidenti delle Camere, i ministri, una serie di dignitari e di gerarchi, nominati e revocati su proposta del capo del governo ma “con decreto reale”.

La lunga marcia mussoliniana mirante a usare il partito per impadronirsi dello Stato dal suo interno seguì un percorso sinuoso, non sempre coronato dal successo. Mentre ottenne che il fascio littorio, contrassegno del partito, fosse accostato allo scudo sabaudo sia nello stemma dello Stato sia nelle insegne degli edifici pubblici, il duce fallì nel proposito di inserirlo nella bandiera del Regno per la ferma contrarietà di Vittorio Emanuele III.

Né ebbero successo i ripetuti progetti di rendere il Senato parzialmente elettivo, come ventilato da Luigi Luzzatti dal 1910. Come ampiamente documentato, l'iscrizione all’Associazione fascista dei senatori non comportò adesione ideologica al regime né, meno ancora, subordinazione alle sue direttive. La Camera Alta rimase estremo bastione della monarchia.

Riordinato il non facile rapporto tra la Milizia e l'Esercito, altri tentativi di subordinare la macchina dello Stato alle gerarchie e alle direttive del partito ebbero modesti nelle Forze Armate. Però nel 1931, in vista del decennale dell'avvento al governo, Mussolini impresse l'accelerazione per subordinare lo Stato al partito. Col regio decreto n. 1277 del 28 agosto fu imposto anche ai docenti degli istituti superiori di istruzione ed universitari di pronunciare la formula di giuramento già in uso per i pubblici impiegati: “Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l'ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concili coi doveri del mio ufficio”.

Novant'anni orsono i chierici dell'Educazione nazionale giurarono in massa. Come ricorda Ruggero Zangrandi in Il lungo viaggio attraverso il fascismo (amaro regolamento di conti all'interno dei tanti fascio-comunismi pullulati in un'Italia sempre in crisi d’identità), nella Storia del fascismo Luigi Salvatorelli scrisse “certamente non che tutti i giuranti fossero o fossero divenuti di convinzione fascista. E neppure che tutti giurassero per semplice tornaconto o comodità. Vi furono quelli attaccati all'insegnamento come attività personale e come missione. Dio solo giudica i cuori”. Per rispetto nei suoi confronti si può ritenere che nell'età dei totalitarismi il Grande Architetto dell'Universo avesse altre priorità. L'anno seguente un fiume di “intellettuali” montò la guardia alla Mostra del Decennale. Il Re faceva la spola tra San Rossore e Roma, sempre più isolato: futura vittima sacrificale del ritinteggio di una miriade di camicie nere che nel 1943-1948 divennero rosse, bianche, verdi…: tutto fuorché azzurro Savoia.

 

Aldo A. Mola

martedì 14 settembre 2021

Re Umberto II e il Pantheon negato

di Emilio Del Bel Belluz

In questi giorni ho preso tra le mani un libro di Giovannino Guareschi, il grande scrittore che con le sue opere riuscì a far sorridere e a dare felicità a molti italiani che si ritrovavano nella sua prosa. 
La mia attenzione si è fermata all’ episodio commovente, in cui si vede  don Camillo e il sindaco comunista Don Peppone che si trovano al capezzale della signora maestra Cristina, la donna che ha insegnato a leggere a tutto il paese. 
La maestra dona al sindaco  le sue poche cose, e lascia i libri a lui perché si istruisca e impari i verbi. Davanti al parroco chiede che al giorno dei suoi funerali sulla sua bara sia stesa la bandiera con  lo stemma Sabaudo, che la maestra non ha mai voluto dimenticare. 
La povera donna rimprovera il sindaco e quelli come lui che hanno mandato in esilio il Re e i suoi figli. Riporto: “ Tu e gli altri bolscevichi come te avete mandato via il Re, relegandolo  in un’isoletta lontana per farlo morire di fame assieme ai suoi bambini”, … “ Vi hanno informata male” spiegò dolcemente . “ Son tutte bugie. Né isole deserte né morti di fame. Tutte bugie e ve lo assicuro”… “ E poi,” esclamò Peppone “ mica soltanto noi, l’abbiamo mandato via! C’è stata la votazione ed  è risultato che erano più quelli che non lo volevano che quelli che lo volevano, e allora è andato via e nessuno gli ha detto o fatto niente. Così funziona la democrazia!” “ Ma che democrazia!” rispose severa la signora Cristina. “ I Re non si mandano mai via!”.
 Queste poche righe mi fanno ritornare alla mente il referendum istituzionale, in cui ci furono dei brogli elettorali e un Re che lasciò l’Italia per evitare lo spargimento di sangue. Nessuno agì come lui, pensando più alla Patria che a sé stesso. Non dimentichiamo che quasi la metà degli italiani si espresse a suo favore. Il Re Umberto II lasciò il suo Paese, gli era stato detto che si trattava di poco tempo, quando le acque si fossero calmate, avrebbe potuto fare ritorno. Il Re aveva una sola parola, era un gentiluomo che aveva sempre agito con correttezza, nessuno si sarebbe comportato  da Re come fece lui. La storia poi la si conosce, la povera signora Cristina del libro di Guareschi, aveva ragione. Il re  e la sua famiglia se ne andarono in Portogallo, vissero dei momenti difficili. 
La casa dove andarono non era adatta per ospitare una famiglia, mancava tutto, anche l’energia elettrica ma il Re e i suoi familiari si adattarono anche a questo. In questa nostra Italia, pochi raccontano che il figlio di Re Umberto II, il principe Vittorio Emanuele IV, dovette rimanere in esilio per decenni, senza poter far rientro in Italia, come suo figlio il principe Emanuele Filiberto. Questo esilio che dovettero portare sulle spalle non è stato altro che una vendetta dei comunisti, i patrocinatori della libertà, che anche adesso continuano a nutrire  astio  verso Casa Savoia,  anche se sono passati oltre settant’ anni. 
L’Italia, paladina delle libertà di altri Paesi, non ha mai trovato il tempo per riconoscere gli errori compiuti verso questa dinastia. Il Re Umberto II  e la Regina Maria José si trovano sepolti ancora in terra d’esilio. Non sarebbe ora di farli riposare al Pantheon? 
E’ stato un Re che ha amato fino agli ultimi atti della sua vita, la cara Italia. Spero che le generazioni future ricordino Casa Savoia come merita. E’ stata una dinastia con una storia millenaria, ha unificato l’Italia, invece, la Repubblica che ha settant’ anni dimostra tutte le sue crepe e non credo che possa arrivare al millennio.

giovedì 9 settembre 2021

La famosa mamma degli imbecilli che figlia sempre e non si stanca mai

Chi glielo spiega a quei dementi che nella Resistenza c'era tanta gente fedele al Re?


Ceresole Reale, l’ira dell’Anpi sulla bandiera monarchica sul Mila e il vessillo viene rimosso


Qualcuno dell’associazione l’ha notata e scritto al gestore: «Siamo una Repubblica e il rifugio è intitolato a un esponente della Resistenza»

[...]

La sentinella del Canavese


mercoledì 8 settembre 2021

Una principessa di Casa Savoia (figlia di Umberto II, ultimo Re d’Italia) all’Artistica di Savigliano

Maria Pia di Savoia Borbone ha esaminato testi e foto del suo libro sulla dinastia

SAVIGLIANO

di DEVIS ROSSO

È entrata negli uffici de «L’Artistica di Savigliano con un sorriso smagliante, un vestito rosso e una semplicità sbalorditiva, dispensando saluti e sguardi per tutti. Maria Pia di Savoia Borbone, figlia maggiore dell’ultimo Re d'Italia Umberto II e della Regina Maria José, quindi si è accomodata accanto all’addetta grafica di turno e, pagine di bozza in mano, ha iniziato a commentare e visionare i testi e le fotografie del volume che porterà la sua firma.

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www.lastampa.it

Umberto II di Savoia: l’ultimo Re d’Italia



La storia dell’ultimo monarca di Casa Savoia, Umberto II è segnata dalle vicende che portarono l’Italia al collasso durante il Secondo conflitto mondiale.

Eppure spesso si tende a dimenticare il suo impegno democratico nel post-guerra. Il Re sabaudo, infatti, era intenzionato a mettere a rischio la Monarchia e lo Statuto Albertino pur di trovare una nuova forma di Stato all’Italia.

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Mole24.it

martedì 7 settembre 2021

La Prima Guerra d’Indipendenza: un primo passo verso il Risorgimento

Con il 1848, il Regno di Sardegna portò l‘Italia sempre più vicina all’unificazione


“Fare un 48”, “far scoppiare un 48“, parliamo di espressioni che usiamo tutti giorni e che convenzionalmente indicano una situazioni di confusione e di subbuglio.

Un anno, il 1848, che ha completamente stravolto la storia dell’ Europa come la conosciamo oggi e del mondo stesso.

Un anno “terribile” sotto tutti i punti di vista che ha visto il Piemonte e tutta la penisola italiana come protagonisti nella Prima guerra d’Indipendenza.

In Italia infatti, tutti i governanti, percepito lo spirito di rivolta popolare in aumento, promulgarono progressivamente la Costituzione. A partire da Ferdinando II delle Due Sicilie, poi Leopoldo II, Papa Pio X.

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https://mole24.it/2021/08/30/prima-guerra-d-indipendenza-verso-il-risorgimento/

venerdì 3 settembre 2021

Nel trigesimo dell'ingegnere Giglio il ringraziamento della Famiglia

 3 agosto - 3 settembre 2021



Ad un mese dalla salita in cielo del marito, papà e nonno Domenico, la famiglia Giglio, commossa, ringrazia Tutti coloro che con scritti, ricordi, presenza e parole profonde hanno dimostrato partecipazione sincera al suo dolore.

E' sicura che Domenico, accanto al Dio che lo ha chiamato a sé, da Lui impetra convinzione e forza per proseguire sulla strada che Dio stesso ha tracciato per Tutti noi.​

A Tutti, ancora una volta, affettuosa gratitudine.

Maria Antonietta Giglio Castagnola