NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 31 gennaio 2021

Quali furono le responsabilità di Vittorio Emanuele III sulle leggi razziali?

di Waldimaro Fiorentino



 Mino Monicelli, in un’attenta ricostruzione dei fatti, pubblicata il 17 febbraio 1968 sul quotidiano «Il Giorno», all’epoca di proprietà dell’ENI, quindi espressione del governo repubblicano, rammenta che Vittorio Emanuele III per tre volte negò la firma dei decreti a Mussolini; ed invano attese che parlamentari, intellettuali, esponenti della società civile insorgessero; si sa, invece, che diversi docenti furono ben lieti di subentrare nelle cattedre agli Ebrei espulsi per effetto di quei Decreti.

    Vittorio Emanuele III attese che almeno dalla Chiesa venisse una indicazione; non vi fu neppure quella!

    Mino Monicelli riferisce, nell’articolo che ho citato, il colloquio avvenuto tra Vittorio Emanuele III e Mussolini il 28 novembre 1938; e lo riporta con queste esatte parole: «Colloqui re-Mussolini. Per tre volte il sovrano riesce ad infilare nel colloquio ‘provo una infinita pietà per gli ebrei’. Il duce ingoia tre volte il rospo, digrignando la mascella quadrata».

    Nel suo «Diario 1937-1938» Galeazzo Ciano parla anche lui dell’episodio; alla data 28 novembre 1938, scrive testualmente: «Trovo il Duce indignato col Re. Per tre volte. Durante il colloquio di stamane, il Re ha detto al Duce che ‘prova una infinita pietà per gli ebrei’... Il duce ha detto che vi sono 20.000 persona con la schiena debole che si commuovono sulla sorte degli ebrei. Il Re è tra quelli. Poi il Re ha parlato anche contro la Germania.... Il Duce era molto violento contro la Monarchia. Medita sempre di più il cambiamento di sistema. Forse non è ancora il momento. Vi sarebbero reazioni. Ieri a Pesaro il comandante del Presidio ha reagito contro il Federale che aveva dato il saluto al Duce e non quello al Re».

   Si sa che l’anziano Sovrano cercò di attenuare la portata di quei Decreti, anche attraverso il trasferimento di ebrei in località delle Colonie, lontano da zone soggette al predominio delle dottrine imperanti all’epoca in Europa.

    Si sa con certezza che fu proprio l’intervento del Sovrano ad ottenere considerevoli attenuazioni a favore degli ebrei. Tra l’altro, la deliberazione del Gran Consiglio del fascismo del 6 ottobre 1938, che non escluse «la possibilità di concedere... una controllata immigrazione di ebrei europei in qualche zona dell’Etiopia».

    Il duca d’Aosta ha dichiarato alla televisione che suo padre e suo zio rimasero «orripilato» (testuale) dalle leggi razziali; e che lo zio, nella qualità di Vicerè d’Etiopia, aveva pensato di salvare gli ebrei riservando una regione d’Etiopia. Ne parlò come di un sotterfugio all’insaputa del regime; mentre, invece si trattava di un accordo al quale il fascismo era addivenuto per volere di Vittorio Emanuele III, fino a far meditare a Mussolini l’accantonamento della Monarchia.

    Menachem Shelah, professore universitario a Gerusalemme e storico finito in un campo di concentramento nell’isola di Arbe, in Dalmazia, fu salvato e venne liberato dalle truppe del Regio Esercito, appena cadde il fascismo; ha scritto un libro pubblicato dall’ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito italiano, dal titolo «Un debito di gratitudine – Storia dei rapporti tra l’Esercito Italiano e gli Ebrei (1941-1943)», Roma 1991.

    In quel libro si documenta come il Regio Esercito, di educazione e di sentimenti monarchici, fu esemplare nel salvataggio di un grande numero di ebrei il quali, su ogni fronte fuggivano dalle zone occupate dai tedeschi, per riparare sotto la protezione dei nostri reparti; come di legge nella supplica: «...scritta dai profughi di Sarajevo rifugiati a Mostar, cioè sotto il controllo italiano, che descrive i martirî sotto il governo ustascia e il destino che avrebbero atteso quei poveretti se fossero stati riconsegnati. In tale supplica si legge, tra l’altro: ‘... l’invio ad un campo di concentramento croato significherebbe... una condanna a morte... una morte lenta, tra infiniti tormenti’».

    Altrettanto fermo fu il comportamento del Regio Esercito nei confronti delle pressioni tedesche.

    C’è un rapporto dell’Ambasciatore germanico a Zagabria Siegfrid Kasche (ne parla Menachem Shelah, ell’op. cit. alle pagg. 74-75) che, nell’agosto 1942, scriveva: «...la protezione concessa dagli italiani agli ebrei impedisce la completa attuazione dell’accordo tedesco-croato riguardante la deportazione all’est degli ebrei del posto. La permanenza in Croazia potrà incoraggiare i partigiani e provocare attriti tra noi e gli italiani».

    Nel presentare il libro, Yosef Lapid scrisse (pagg. 17-18); «... e proprio popoli cattolici hanno mostrato, durante l’olocausto, un atteggiamento più ostile di quanto abbiano fatto i popoli cristiano-ortodossi o protestanti.... I membri del movimento nazionalista croato, i tristemente famosi ustascia, si dimostrarono le belve di tutto lo zoo nazista, e godettero l’appoggio della Chiesa cattolica locale. L’unico popolo che fece eccezione a questa triste regola fu proprio quello in cui la tradizione cattolica era più viva: il popolo italiano... Gli italiani tennero sotto la loro protezione gli ebrei presi prigionieri nel Nord Africa, in Grecia, nella Francia Meridionale e in Jugoslavia».

    Johann Steinberg, in un libro sull’olocausto uscito sull’olocausto nel 1993, riporta una corrispondenza del «Times» del 1° gennaio 1943 dalla Francia, nella quale si legge: «I comandanti italiani che occupano la Francia meridionale hanno invitato i prefetti francesi a disattendere gli ordini ricevuti dal loro alleato secondo cui gli ebrei devono portare, come in Germania, cucita sul petto la stella gialla. I generali italiani hanno spiegato ai funzionari che l’onore delle forze armate italiane è incompatibile col fatto che gli ebrei vengano costretti nelle zone di nostra occupazione a portare in pubblico u segno distintivo stigmatizzante».

    Ma, soprattutto, cito una testimonianza assolutamente non sospetta che lo conferma.

    Il secondo «Quaderno del centro di Documentazione Ebraica contemporanea», nel volume «Gli Ebrei in Italia durante il fascismo», pubblicazione a cura di Guido Valbrega nel marzo 1962, a pagg. 20-21, scrive testualmente: «Molti ebrei, circa 6.000 sui 45.000 allora esistenti, si battezzarono nella vana speranza di regolarizzare così la loro posizione, altri 5.000 emigrarono. Con tutto ciò, si deve obiettivamente riconoscere che fino al 25 luglio 1943 la persecuzione razziale fu contenuta in limiti moderati e di portata soprattutto economica: e che la maggioranza degli italiani disapprovava i provvedimenti razzisti ed esprimeva in ogni modo possibile la sua simpatia verso gli ebrei. Peraltro (v. la pregevole relazione del col. Massimo Adolfo Vitale, conservata nel centro Documentazione Ebraica contemporaneo di Milano), l’insi- stenza del Governo nella campagna di denigrazione, l’imbonimento della stampa, i vantaggi che tale campagna apportò a molti, le minace fatte a coloro che mostravano pietà per le vittime non mancarono di conseguire buoni risultati, cosicché i coraggiosi che seppero manifestare la loro disapprovazione per le mostruosità che si commettevano furono necessariamente sempre meno numerosi. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 comincia per gli ebrei italiani un tremendo periodo nuovo: l’Italia era ormai sotto il tallone tedesco e Mussolini voleva riabilitarsi agli occhi dell’alleato. Pertanto, alla fine del novembre 1943 una disposizione del Partito Fascista Repubblicano dichiarò gli ebrei «nemici n. 1, assimilati ai cittadini stranieri di nazione nemica in guerra». Ma di fatto, gli ebrei vennero a trovarsi in situazione ben peggiore di quella degli stranieri nemici, perché questi venivano catturati e rinchiusi in campi di concentramento, mentre per gli ebrei italiani, dopo un brevissima sosta nei campi di raccolta di Fossoli o di Merano, non vi era che la via della Germania, cioè la distruzione».

     C’è ancora un’ulteriore conferma dell’azione moderatrice svolta in quel periodo da Vittorio Emanuele III è in tre numeri del quotidiano bolognese «Il Resto del Carlino» che:

   -  venerdì 19 novembre 1943 titolava in prima pagina «Due ebrei immessi nel nuovo Gabinetto Badoglio», sottolineando la simpatia «colpevole», secondo l’articolista, di Vittorio Emanuele III per gli ebrei, testimoniata dall’elevazione al Governo di Guido Jung, nominato ministro alle Finanze, Scambi e Valute, e di Mario Fano, nominato sottosegretario alle Poste e Telegrafi;

   -  giovedì 2 dicembre 1943 faceva importanti ammissioni sul trattamento inflitto agli ebrei, divenuto disumano solo dopo l’8 settembre; in un articolo di prima pagina, titolava «Gli ebrei in Italia avviati in campi di concentramento»;

   -  sabato 11 dicembre dello stesso anno, sempre in prima pagina, titolava «Sequestro dei beni appartenuti agli ebrei»; eventi tutti verificatisi solo dopo l’8 settembre 1943 e nel territorio che gli eventi avevano sottratto alla giurisdizione ed al controllo del Regno d’Italia, e attribuito alla Repubblica Sociale Italiana, controllata dalla Germania nazista.

     Ed ancora, riguardo alle leggi razziali Indro Montanelli scrisse: «Premesso che le leggi razziali furono una cosa ignobile, insensata e per nulla condivisa dal sentimento popolare, salvo una esigua frangia di fanatici che forse non si resero conto della loro criminosità, è assolutamente vero che la ‘Costituzione faceva al re obbligo di firmarle come qualsiasi altra legge approvata dal Parlamento’». Ed aggiunse: «Altrimenti al re non sarebbero rimaste che altre due alternative: o tentare un colpo di Stato per mettere alla porta Mussolini e il fascismo, o abdicare. Il colpo di Stato sarebbe stato un fallimento perché in quel momento Mussolini aveva in mano tutte le leve del potere, comprese le forze armate, e per di più poteva contare sull’appoggio incondizionato della Germania nazista che non glielo avrebbe certamente fatto mancare. Abdicando, il re avrebbe salvato la propria anima, ma affrettato la sottomissione dell’Italia a Hitler e così aggravato anche la condizione degli ebrei. Non solo, ma avrebbe privato il Paese dell’unico punto di riferimento istituzionale se un giorno si fosse trovato ancor più coinvolto nelle avventure naziste. Come poi avvenne».

     La Corte di Cassazione, inoltre, si pronunciò sulla loro approvazione, con firma del Re, con la sentenza del 26 giugno 1950 n. 1624, quindi in epoca repubblicana, precisando che tali leggi: «non possono considerarsi prive di efficacia giuridica per costituzionalità di fronte all’ordinamento giuridico del tempo».

Capitolo XIII Una valanga di vittorie

di Emilio Del Bel Belluz 


Era il 1929, contraddistinto per Carnera da  un susseguirsi di vittorie, e di trionfi per KO, non solo in Francia ma anche nel resto del mondo. La prima vittoria avvenne in Germania, contro Ernst Rosemann. Costui era l’ex campione dei pesi massimi tedesco, lo sconfisse in otto riprese,  era un puglie con molta esperienza, ma piuttosto lento, riuscì a terminare l’incontro in piedi, con bravura. Carnera era in Germania per la prima volta e fu felice d’aver fatto questo viaggio. Suo padre, dopo che era tornato dalla guerra, era stato un lungo periodo a lavorare in Germania. Questa nazione si stava lentamente risollevando dopo la dura sconfitta della Grande Guerra.  

Carnera aveva fatto la conoscenza con un pugile italiano che viveva proprio a  Berlino, da molti anni. L’uomo vi era andato per lavorare, si era innamorato di una donna tedesca e l’aveva sposata. In seguito, aveva fatto fortuna. Nel modo della boxe combatteva per piccole borse, nella categoria dei paesi massimi. Primo gli chiese di fargli fare il giro della città e in questo modo avrebbe potuto raccontare a sua mamma che aveva visto la grande Berlino. In ogni paese dove andava a combattere, ne approfittava per vedere le sue bellezze.  Il suo allenatore non voleva che si fermasse qualche giorno di più, ma Carnera riuscì a convincerlo; in fondo, in questi mesi aveva dovuto lavorare sodo, senza distrazioni. Almeno gli fosse concesso di visitare quei posti, portando con sé dei bei ricordi.   L’amico pugile gli aveva fatto assaggiare la buona birra e le prelibatezze del posto. Carnera ricordava i soldati germanici ed austriaci che aveva visto durante la guerra, al suo paese. Erano  fieri,  non sapevano che li aspettavano la sconfitta e i tempi duri contrassegnati dalla fame al loro ritorno in Germania.  Anche l’Italia faceva fatica a risollevarsi nel dopoguerra. 

Quei tempi così diffficili gli ritornavano in mente spesso. La storia personale la si porta dentro, e poi riemerge. L’amico pugile era felice d’aver incontrato Carnera, gli sarebbe piaciuto sfidarlo sul ring ma non era possibile, sarebbe stata una lotta impari, data la superiorità tecnica del campione. In quei giorni Carnera era felice, gli capitava di incontrare tanta gente che lo riconosceva, specialmente italiani, quelli che lavoravano aspramente per un futuro migliore. Le loro storie parlavano di sofferenza, di lotta per poter ritornare un domani nella loro patria. Molti di loro non avevano portato le famiglie con sé e sentivano in modo particolare la loro lontananza. In Italia c’era Mussolini che stava cercando di rendere migliore il Paese, un uomo forte che avrebbe risollevato le sorti dell’Italia. Era molto amato dalle persone umili e semplici. Quando il suo amico lo portò in un locale gestito da una famiglia italiana, al suo interno, aveva visto le immagini delle Regina Elena,  del suo consorte Vittorio Emanuele III, e  di Benito Mussolini con la sua firma. Anche qui incontrò degli italiani, a cui si mise a raccontare della sua vita pugilistica, molti gli chiesero se sarebbe tornato in Germania a combattere, ma questo non era in grado di saperlo. Il mondo dei pesi massimi affascinava la gente. 

Quei giorni passarono veloci, erano momenti in cui Primo era riuscito a dimenticare tante cose tristi, ma doveva rientrare. Passò una allegra serata in famiglia con il suo amico. La moglie preparò degli ottimi cibi, e  portò in tavola del buon vino italiano, che tanto piaceva al nostro pugile, un vino che esaltava i sapori della terra italiana. La stessa sera, il campione aveva portato dei giocattoli ai bambini, e a quello più grande aveva comprato una penna stilografica con una boccetta  d’inchiostro. Carnera ne aveva acquistata una anche per  lui, ci teneva ad avere un ricordo della Germania. Prima di addormentarsi volle inaugurare la penna, scrivendo alcune cartoline alle persone care. La prima la scrisse alla mamma, ricordandole che le voleva bene, poi ne scrisse alcune agli amici di Sequals , ma la più bella la mandò alla sua amica del bistrot, e scrivendola si emozionò. 

A questa cara ragazza aveva comprato anche un piccolo dono. L’indomani, Carnera prese il treno per ritornare in Francia dove l’aspettava una nuova avventura, e in cuor suo era felice della bella esperienza tedesca. Quando il treno lasciò la stazione di Berlino, vide dal finestrino degli italiani che erano appena arrivati in Germania, con le loro valige di cartone, con i loro pensieri, qualcuno aveva il volto sereno, altri l’espressione triste di chi era stato costretto ad andare lontano. Uno di questi italiani fischiettava una canzone napoletana  e per un attimo Carnera avrebbe voluto affacciarsi al finestrino e salutarlo.

 

domenica 24 gennaio 2021

Amara riflessione...

Senza voler entrare nel merito delle azioni dei principi di Casa Savoia che abbiamo stabilito non commentare MAI questa volta una cosa la dobbiamo dire.

Le leggi razziali hanno avuto origine dalla volontà di Mussolini e di alcuni, pochi peraltro, gerarchi fascisti. 

Mussolini convertitosi al razzismo molto tardi avendo avuto, tra le tante, un'amante israelita di rango quale Margherita Sarfatti autrice di un importante libro agiografico quale "DVX", edito da Mondadori nel 1926 che contribuì in maniera significativa alle temporanee fortune del Duce.


Non staremo ad elencare la solitudine nella quale fu lasciato il Re dalla Camera e, soprattutto, dal Senato davanti all'avanzare della legge nefasta. 

Diciamo soltanto che il Re fu forse la vittima politica più illustre di quell'orrore non potendo in alcun modo realistico evitare di apporre la propria firma.

Ed una volta per tutte ribadiamo che non vi fu alcuna persecuzione! Le persecuzioni cominciarono solo dopo l'8 settembre nelle zone del territorio nazionale soggette all'occupazione tedesca ed al governo della cosiddetta repubblica sociale. La famosa razzia nel ghetto di Roma, avvenne infatti a metà ottobre 1943. 

Ovunque gli ebrei preferivano porsi sotto la protezione delle truppe italiane piuttosto che finire tra le fauci dei nazisti o dei loro collaboratori locali quali ad esempio ustascia e francesi di Vichy

A nostro modestissimo, ma libero, giudizio le scuse andrebbero presentate al Re per essere stato lasciato solo a fronteggiare le prepotenze di un regime che si sarebbe suicidato di lì a poco trascinando nel suicidio l'intera Nazione.



Capitolo XII : Carnera e la Francia

di Emilio Del Bel Belluz

 


Nello scompartimento del treno che lo riportava a Parigi, Primo si addormentò con il cuore colmo di emozioni e di gioia per aver rivisto la sua cara mamma. Il suo allenatore, Paul Journée, stava già pensando al prossimo incontro, che si sarebbe tenuto a Parigi, la città che aveva visto sorgere il gigante italiano. Questa volta bisognava dare a Parigi l’immagine di un pugile che era determinato a continuare la sua notorietà tra i pesi massimi. Il prossimo incontro era stato già fissato per il primo dicembre 1928. In pochi mesi era la quinta volta che saliva sul ring, l’avversario era Costant Barrik. Carnera chiese di poter passare un giorno in solitudine, avrebbe approfittato per andare al cinema e per fare un giro per la città. L’indomani avrebbe ripreso con serietà, come sempre aveva fatto, gli allenamenti.

Erano gli ultimi giorni di Novembre del 1928, gli alberi dei lunghi viali erano vestiti di foglie di tanti colori, sembravano dipinti da un pittore che aveva usato con molta maestria la sua tavolozza. La donna che lo ospitava si era dimostrata più gentile con lui, nella sua stanza Primo aveva letto alcuni giornali che riportavano la vittoria contro Epifanio Islas, e lo elogiavano, a differenza di quelli italiani che erano stati avari di complimenti e non avevano capito il suo spirito patriottico. La signora che lo ospitava, volle abbracciare Carnera, era felice per lui, e gli riferì che la gente la fermava per chiederle sue notizie. Primo le sorrise, e queste parole lo fecero diventare di buon umore. Carnera non aveva voluto mangiare in casa , era grande nel suo cuore la voglia di tornare al bistrot, indossava un vestito elegante che aveva acquistato in Italia.

A buon passo lo raggiunse, lo attendevano i soliti avventori che furono felici di salutarlo. Primo offrì da bere a tutti, e ben presto una cinquantina di persone entrò nel locale. Si sedette al tavolo e rispose in modo gentile a tutti, ma la sua felicità era raddoppiata nel momento in cui vide la ragazza. Era ancora più bella, i capelli sciolti sulle spalle, il volto dai lineamenti dolci, e Carnera sentì sobbalzare il suo cuore e la voglia di abbracciarla. La giovane mostrò alcuni ritagli di giornali, con delle sottolineature in rosso che pazientemente aveva incollato su alcune pagine di un album. Primo le chiese se quel giorno, visto che era libero, sarebbe potuta uscire con lui a fare una passeggiata per l’incantevole città. La giovane arrossì, e andò dal suo padrone, chiedendogli una giornata di libertà, che le fu concessa.

Nel frattempo Primo s’intratteneva a parlare con gli avventori che gli si avvicinavano per farsi firmare una sua foto. Prese in mano una rivista che raccontava la sua storia, quella del gigante con il cuore da cavaliere, che era vicino ai deboli, e aiutava i poveri. In un articolo c’era anche la sua foto sul ring, con i guantoni in segno di giubilo, e con grande sorpresa, alla fine della pagina riconobbe la foto dell’ufficiale dello zar con la descrizione delle sue vicissitudini, raccontate dal suo amico prete.

A Primo fece molto piacere leggere questa testimonianza e alzando lo sguardo verso il crocefisso, collocato vicino ad un quadro, ringraziò il buon Dio per quello che gli aveva dato. Quando si possiede qualcosa in più, bisogna condividerla con gli altri. La sua maestra gli diceva che ogni giorno bisogna trovare l’occasione per fare una buona azione. Il buon Dio premiava le persone dal cuore generoso, le faceva sentire in armonia con sé stesse e con il mondo intero. La ragazza non ci mise molto a prepararsi, vestiva in modo semplice e a Primo piacque. La gente li vide andarsene, alcune ragazze l’avevano invidiata, altri sorridevano per lei.

Quando furono in strada, camminarono per una buona mezz’ora senza parlare, la timidezza li aveva colti entrambi. Successivamente iniziarono a chiacchierare con più disinvoltura, s’erano dichiarati la loro simpatia reciproca, si misero ad esprimere i sogni che serbavano per il futuro e che speravano di realizzare assieme. Primo era venuto a conoscenza che i suoi amici del circo si trovavano in un paese vicino ad Arcachon e, aveva, pertanto, intenzione di rivederli. La giovane fu subito felice di conoscere il mondo in cui Primo aveva vissuto. Carnera era orgoglioso d’averla accanto. S’avvicinava il S. Natale e il pugile aveva deciso d’aiutarli, perché dopo la sua dipartita gli affari non andavano troppo bene. In piazza presero un taxi, e si fecero accompagnare al luogo dove era allestito il circo. Quando arrivarono lo spettacolo pomeridiano era iniziato da pochi minuti.

Alla cassa dovette insistere per pagare il biglietto, perché la cassiera, avendolo riconosciuto, lo voleva fare entrare gratuitamente. All’interno del tendone non c’erano molte persone. Si sedette nell’ultima fila per non nascondere la visuale a nessuno. Il presentatore dello spettacolo lo riconobbe, e subito disse che tra di loro era presente il campione di pugilato, Primo Carnera e la gente che non era molta si girò verso di lui e lo salutò. Poi chiamò l’amico pugile e il nano Antonio al centro del circo, perché la gente vedessero questi due grandi amici. Carnera lo prese in braccio come se fosse un bambino e gli diede un bacio. La cosa durò una manciata di minuti, Primo volle ringraziare il mondo del circo che era stata la sua famiglia per alcuni anni.

Carnera si mise a guardare lo spettacolo dei pagliacci, dove si esibiva il suo amico nano, e applaudiva. Qualcuno uscì per riferire che era arrivato il gigante buono e il circo si riempì di gente, con felicità del proprietario. Il vecchio circo dai tendoni con molte toppe aveva sempre resistito. Alla fine dello spettacolo, il presentatore chiese a Carnera di fermarsi anche a quello serale, perché la sua presenza avrebbe garantito il tutto esaurito. Carnera si fermò a bere qualcosa con gli artisti che lo festeggiarono per il suo ritorno insperato, e per questo dono. Qualche ora dopo il piccolo circo era strapieno di persone, che avevano saputo che come ospite c’era il gigante buono, l’uomo più forte del mondo. La ragazza che era assieme accettò di condividere quel tempo con chi ne aveva davvero bisogno e comprese che Primo era una brava persona con un grande cuore. Lo spettacolo serale fu un successo, la gente dovette attendere fuori perché non c’era più posto.

Quel giorno, si concluse con un grande abbraccio agli amici del circo, che non dimenticarono quel gesto. Alla fine si era fatto tardi, e salutando il direttore del circo gli consegnò una busta con del denaro, chiedendo che non ne parlasse con gli altri, anche se quei soldi sarebbero serviti per festeggiare il S. Natale con gaudio. Il direttore lo ringraziò molto e si salutarono. Carnera assieme alla giovane se ne andò a mangiare in un locale poco distante, in cui si fermava quando lavorava al circo. Rientrarono ad Arcachon, Primo riaccompagnò la ragazza a casa e si salutarono con un bacio e un abbraccio. Nella sua stanza s’addormentò serenamente, felice di quel piccolo contributo apportato ai suoi amici di un tempo. Il primo dicembre a Parigi, in una sala pugilistica gremita di gente che si faceva sentire, incontrò l’avversario, che era d’origine italiana, Costant Barrik, e lo stese alla terza ripresa. Il percorso di Carnera non si fermò e quel 1928 portò la sua quinta vittoria consecutiva, con la felicità del suo scopritore, Paul Journée, che coronava quest’anno in modo positivo. Alla fine del match Carnera si intrattenne con il suo avversario, constatando che stava bene e che non gli aveva fatto male con i suoi pugni. Il pugile sconfitto, si chiamava in realtà, Costantin Di Rocco, anche se aveva ottenuto la cittadinanza francese, conosceva l’Italia grazie ai suoi incontri, aveva combattuto due volte contro i fratelli Spalla, e ne era uscito sconfitto Era di due anni più giovane di Primo, ma aveva tanti match all’attivo e una esperienza maggiore, avendo combattuto molto all’estero, ma non gli era servita contro il roccioso Carnera.

Si salutarono con un abbraccio e un augurio, e il vincitore volle mostrargli la bandiera per la quale avrebbe combattuto fino all’ultimo giorno, quella Sabauda; lo sconfitto la baciò, perché era ancora la sua bandiera. Primo aveva passato il S. Natale con la famiglia della sua amica e si era fermato con loro anche per la cena. Non si era mai trovato bene come allora, tutti l’avevano fatto sentire come a casa.

Erano tanti anni che non passava un Natale in famiglia. Con la sua amica andò alla Messa di Mezzanotte celebrata nella bella chiesa del paese. Durante il rito chiuse gli occhi ed immaginò d’essere nella chiesa della sua amata Sequals, dove ritrovava i suoi vecchi amici e i famigliari che gli mancavano tanto. Nella chiesa era stato allestito un bel presepe con delle grandi statue. A Primo piacevano quelle della Natività, l’artista che le aveva scolpite doveva essere dotato di un grande talento, il volto della Mamma di Gesù era di una bellezza che non si poteva dimenticare. S’interrogava, come ogni anno, sul perché il Figlio di Dio fosse nato in una povera stalla e la risposta era che ogni uomo doveva essere umile e in pace con sé stesso e con gli altri. Quando la messa si concluse, prese la via di ritorno con la sua amica. Lungo la strada ammirava le luci accese nelle case, dove i bambini di sicuro non dormivano ma stavano davanti al presepe e gli anziani ricordavano i bei tempi in cui anche loro erano in grado d’uscire per la Messa di Mezzanotte. Arrivato nella sua stanza, pregò per la sua famiglia e chiese al buon Dio di darle serenità.

Le leggi antiebraiche in Italia

Con l'avvicinarsi del giorno della Memoria, considerati i consueti attacchi alla persona del Re Vittorio Emanuele III, dedichiamo all'argomento quanto più spazio possibile.
E per questo attingiamo dal  Professor Mola con un articolo pubblicato e scaricabile dal sito http://www.giovannigiolitticavour.it/


La connivenza della Chiesa, del parlamento e degli italiani succubi del Regime  

di Aldo A. Mola 

I termini: leggi “razziali” o antiebraiche? Affrontare in poco spazio un tema vastissimo come il varo della legge “contro gli ebrei” approvata dal Parlamento italiano il 14-20 dicembre 1938 è compito arduo, anche perché il tema è stato arato da molte opere sistematiche e da decine di migliaia di “memorie”, saggi e articoli. In premessa va precisato che il termine “leggi razziali” sotto il quale generalmente quelle norme vengono ricordate è improprio. E' più corretto parlare di provvedimenti, disposizioni e norme “nei confronti di ” (o “contro”, per evitare superflui eufemismi) cittadini italiani “di razza ebraica” e va precisato che in nessun titolo quella congerie di “atti” si riferisce a “israeliti”, cioè a italiani professanti la religione di Abramo. A parte il R.D. 7 settembre 1938, n.1381, Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri, tutta la normativa antiebraica partì dal presupposto che i destinatari delle misure vessatorie erano comunque cittadini italiani: condizione, questa, destinata a riflettersi sulla loro intrinseca contraddittorietà, Basti, a conferma, il secco rifiuto di Mussolini di espellere incondizionatamente tutti gli ebrei dal partito, come proposto da Achille Starace nella seduta del Gran consiglio del fascismo il 10 novembre 1938. L'insieme dei provvedimenti antiebraici si incardinò sul postulato che esistano le razze e, in quell'ambito, esistano la “razza italiana” e quella “ebraica”. La “questione religiosa” non venne contemplata dalla normativa in esame.

[...]

http://www.giovannigiolitticavour.it/documenti/LEGGI_ANTIEBRAICHE.pdf

28 Novembre 1938: Diario di Galeazzo Ciano

 


28 Novembre

Trovo il Duce indignato col Re. Per tre volte, durante il colloquio di stamane, il Re ha detto al Duce che prova una "infinita pietà per gli ebrei".

Ha citato casi di persone perseguitate, e tra gli altri il generale Pugliese che, vecchio di ottant'anni e carico di medaglie e ferite, deve rimanere senza domestica.

Il Duce ha detto che in Italia vi sono 20.000 persone con la schiena debole che si commuovono sulla sorte degli ebrei.

Il Re ha detto che è tra quelli.

Poi il Re ha parlato anche contro la Germania per la creazione della 4 divisione alpina.

Il Duce era molto violento nelle espressioni contro la Monarchia.

Medita sempre più il cambiamento di si­stema.

Forse non è ancora il momento. Vi sarebbero reazioni.

Ieri a Pesaro il comandante del Presidio ha reagito contro il Federale che aveva dato il saluto al Duce e non quello al Re.

Riunione per la cittadinanza agli arabi. Un forte battibecco tra Bal­bo e Starace perché il primo ha detto cose che suonavano offensive per l'a­zione del Partito.

Perth viene a vedermi a casa per concertare un comunicato sulla visita di Chamberlain a Roma. La notizia doveva restare segreta ma a Londra hanno parlato ed i giornali ne erano già pieni fino da questa mattina. Ho informato della visita e della sua genesi von Mackensen.



Jacomoni mi consegna una cartina con la dislocazione delle bande in Albania nonché il piano d'azione.

Pugliese, Generale di Corpo d'Armata a riposo.

venerdì 22 gennaio 2021

Eugenio Corti: centenario della nascita



Il 21 gennaio ricorre il centenario della nascita, nel 1921, di questo grande scrittore cattolico ed anticomunista, tornato alla casa del Padre il 4 febbraio 2014, Eugenio Corti, brianzolo, al quale si deve uno dei più grandi romanzi storici del ‘900, “Il cavallo rosso”, uscito nel 1983, nel quale parte non secondaria è quella della esperienza personale dell’autore, nella tragica campagna di Russia del 1942, e di un altro romanzo, anche questo storico ed autobiografico, “Gli ultimi soldati del RE”, che ricorda l’attività del ricostituito Regio Esercito, nella liberazione dell’Italia, dal dicembre 1943, Montelungo, all’aprile 1945 .

Uscito nelle edizioni ARES nel 1994, con successive numerose edizioni, è forse l’unica e più completa storia di questi reparti che, appunto dettero alla liberazione, un contributo non secondario, anche se poco conosciuto o misconosciuto., combattendo non con odio verso i tedeschi, ma per amore di patria, per cui terminata la guerra e versato un non indifferente tributo di sangue, tornarono con semplicità alle loro case, senza vanterie, ma con la serena, semplice coscienza di avere fatto il proprio dovere. 

Atteggiamento ben diverso da chi aveva invece combattuto per instaurare una diversa dittatura, che Corti aveva conosciuto in Russia, e che ancor oggi si arroga diritti, scava solchi e vanta un monopolio inesistente nella e della guerra di liberazione.

Domenico Giglio

lunedì 18 gennaio 2021

Amedeo di Savoia, Duca D'Aosta, un italiano sul trono di Spagna (1871-1873)

 


150° dimenticato 

Un Savoia sul trono di Madrid

C'era una volta l'Italia. Svolgeva un ruolo centrale per salvare l'Europa dall'abisso della guerra generale e della rivoluzione. Il 30 dicembre 1870 Amedeo di Savoia, duca d'Aosta, approdò a Cartagena. Il 16 novembre il Parlamento di Madrid (las Cortes) lo aveva eletto re di Spagna con 191 voti contro 120. Suo attivo e prestgioso “grande elettore” era il generale Juan Prim y Prats, conte di Reus. A deciderne l'elezione  furono quattro concause che andavano molto oltre la sua persona.

In primo luogo gli insanabili conflitti interni allo Stato iberico. Il 18 settembre 1868 Esercito e Marina avevano iniziato la “Gloriosa Rivoluzione” che costrinse all'esilio Isabella II di Borbone col suo fido confessore, Antonio Maria Claret, e la discussa “sor Patrocinio”, monaca sedicente miracolosa ma ritenuta “anima nera” della regina. Il 1° giugno 1869 le Cortes di Madrid approvarono la Costituzione che fece della Spagna una “monarchia democratica”. Un ossimoro. Il sovrano elettivo sarebbe risultato ostaggio dell'Assemblea.

Spettava ai deputati cercare il sovrano, più di loro mutevole gusto che adatto al Paese. Da decenni la Spagna era un guazzabuglio di conflitti tre pretendenti, correnti, clan e gruppi che si offrivano alzando il prezzo della propria corruttibilità, una malattia genetica. Fernando VII di Borbone, “il Desiderato”, abrogò la legge salica (successione al trono di maschio in maschio) e nominò erede la figlia Isabella II. Suo fratello, Don Carlos Maria Isidro, rivendicò il trono manu militari. Se ora il conflitto è una disputa tra appassionati di araldica, all'epoca fu combattuto con le armi e con la sua ferocia seminò odio e spirito di vendetta.

Le Cortes, in terzo luogo, dopo varie dispute e interferenze straniere (dinastiche, ideologiche e personalistiche, con tanti altezzosi “cacicchi”, “costruttori a noleggio”) il 21 giugno 1870 scelsero per re Leopoldo Hohenzollern Sigmaringen. Forse non era il peggio possibile (la Spagna era sotto l'influenza del filosofo massone Krause, del tutto ignorato in Italia), ma l'imperatore Napoleone III non poteva ammettere che la Francia venisse chiusa nella tenaglia tra la Prussia e una Spagna germanizzata: un balzo di secoli all'indietro, all'età durata da Carlo V d'Asburgo alla guerra di successione spagnola, da inizio Cinquecento al Settecento, quando Filippo V di Borbone ascese sul trono di Madrid.

   L'Europa di 150 orsono usava moneta vecchia (successioni dinastiche sulla base delle norme vigenti all'interno delle singole Case regnanti) e moneta nuova (la volizione delle “nazioni” espressa dai suoi rappresentanti elettivi). Non bastasse, dal 1864 serpeggiava l'internazionale operaia, la Rivoluzione soffocata con l'annientamento di Caio Gracco Babeuf e dei suoi seguaci ed eredi. Nel 1869 Giuseppe Fanelli fondò in Spagna i primi nuclei dell'Internazionale e Farga Pellicer li rappresentò al congresso di Basilea. “Ordo ab Chao” era l'insegna del Rito scozzese antico e accettato, il più influente della massoneria universale, ma anche quella dell'estremismo giacobino pronto  scatenare il pandemonio per e afferrare il potere con un colpo di mano, preludio alla tirannide rossa.

Per scongiurare questo rischio bisognava avere mano ferma, solide basi nella Spagna profonda e il consenso delle Potenze del “concerto europeo”, che sempre più “steccava” per mancanza di un direttore d'orchestra. Lo stratega dell’“investitura” di Amedeo di Savoia, il  generale Juan Prim y Prats, era alto grado della massoneria come documenta l'insuperato massonologo José Antonio Ferrer Benimeli nel rigoroso e “divertido” volume Jefes de gobierno masones. España 1868-1936 (Madrid, Esfera de los Libros, 2007).

La svolta da Leopoldo Hohenzollern al Duca di Aosta non fu affatto indolore. Dopo una serie di provocazioni il 19 luglio 1870 Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia, benché Berlino avesse acconsentito a dichiarare che “mai” avrebbe mirato a insediare un principe tedesco sul trono spagnolo. Le conseguenze del conflitto sono notissime. L'1-2 settembre agli acuti dolori alla prostata Napoleone III aggiunse la sconfitta militare a Sedan e la resa nelle mani del nemico. A Parigi fu proclamata Repubblica, la terza dopo quelle del 1792 e del 1848. La Rivoluzione prese la rincorsa e finì con la “Commune” di Parigi e la guerra civile soffocata in un bagno di sangue nel 1871.

Il ruolo europeo del Regno d'Italia

Il 20 settembre 1870 il regno d'Italia fece di Roma la propria capitale effettiva: un triplo salto carpiato, che gli consentì di chiudere la “questione romana” nei confini interni, nel rispetto della “sovranità spirituale” di Pio IX, e di candidarsi a garante della pax europea. Con il crollo dell'impero francese, il neonato regno sabaudo (14/17 marzo 1861) risultò il più importante dell'Europa centro-occidentale “di terraferma”, impero austro-ungarico a parte. Aveva carte da giocare anche per attuare la “missione dell'uomo bianco” negli spazi afro-asiatici. Nel 1868 la genovese Compagnia di navigazione Rubattino acquistò la baia di Assab sulla costa africana del Mar Rosso, primo passo verso la futura Colonia Eritrea (1885-1890).

Dall'inizio del torbido “sessennio” che dilaniò la Spagna, il re d'Italia Vittorio Emanuele II, politico dalla lungimiranza ancora in attesa di pieno riconoscimento storiografico, mise sul tavolo della diplomazia moneta vecchia di incontestabile valore legale: il titolo di successione di un Savoia sul trono di Madrid, risalente alla rinunzia al trono di Sicilia (in cambio della Sardegna, 1719) in caso di “estinzione” dei Borbone, proprio quanto era accaduto con la cacciata di Isabella II. A quel punto il Re Vittorio doveva mettere in campo un Principe della propria Casa. Cercò invano di indurre il nipote Tommaso di Savoia-Genova, che però (come ricorda Franco Ressico nella recente bella biografia di Carlo Cadorna, ed. BastogiLibri) si riteneva riserva aurea della Casa se i figli del sovrano non avessero dato continuità diretta alla Corona. Dopo mesi di sollecitazioni, documentate dal suo Epistolario curato da Francesco Cognasso (Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1966), Vittorio Emanuele II ottenne infine l'assenso del secondogenito Amedeo duca di Aosta ad assumere la corona di Spagna.

Quella “moneta vecchia” faceva di Roma il fulcro di un “patto di famiglia” che andava dall'Italia al Portogallo, il cui re (sovrano di un vasto impero coloniale) aveva sposa Maria Pia, figlia del re d'Italia. Tra i “doni di nozze” era stata ventilata la cessione dell'Angola a Vittorio Emanuele: un’ipotesi bloccata dalla Gran Bretagna che non voleva un altro Stato europeo sull'Atlantico.

Il dialogo impossibile tra il Re e il suo “popolo”

Re designato, Amedeo di Savoia partì da La Spezia il 26 dicembre. Il 2 gennaio entrò in Madrid intirizzita dalla neve. Salutò la cortina di spettatori con ampi gesti, che alcuni interpretarono come segni massonici. Giurò fedeltà alla costituzione e intraprese la sua “missione”. Purtroppo per lui il 27 dicembre il generale Prim era rimasto vittima di un attentato. Come documentano le sue recenti biografie, la ferita di una palla di rivoltella non venne affatto curata. Molti indizi lasciano anzi ritenere che fu “aiutato a morire”. Nell' “imbalsamazione” i suoi occhi furono sostituiti con bulbi di vetro: per celare tracce di soffocamento?

Comunque sia, con la sua tragica morte (30 dicembre) la Spagna stessa entrò in agonia. Il 24 gennaio 1871 al prestigioso e affollato Teatro Calderón di Madrid (ricorda lo storico Vicente Palacio Atard) fu rappresentata la commedia “Maccaronini I”, sarcastica allusione al nuovo re. Parecchi ufficiali rifiutarono di prestare il giuramento di rito. In varie città, Madrid inclusa, si levarono grida “Viva il Papa-Re, abbasso il Re massone”. In marzo fu rinnovata la Camera. Vennero eletti 53 carlisti, 18 isabellini,18 fautori del futuro Alfonso XII di Borbone (figlio di Isabella II), 9 seguaci di Antonio di Montpensier, duca di Orléans, mancato candidato al trono, e ben 52 repubblicani dichiarati. I “costituzionali” erano lacerati in fazioni guidate da maggiorenti che si contendevano il potere, spinti da proterva ambizione personale: Mateo Práxedes Sagasta, Ruiz Zorrilla (entrambi alti dignitari massonici) e Francisco Serrano duca de La Torre, ognuno con le proprie clientele.

In due anni si susseguirono sei diversi governi. Una nuova elezione generale portò alle Cortes 14 seguaci di Sagasta (“progressisti”), 9 “alfonsini” dichiarati e 79 repubblicani capitanati da Emilio Castelar e apprezzato da Mazzini e Garibaldi: minoranze inconcludenti ma chiassose, come osservò Ortega y Gasset in “El Imparcial”.

Amedeo I tentò di farsi ben volere percorrendo le molte e vaste regioni dell'immenso “continente” iberico e ricambiando le calorose attenzioni di dame e damazze. Ma era la Spagna stessa a precipitare verso la crisi. Si aggrovigliarono  l'esito infelice di una delle molte fasi belliche a Cuba, l'insorgenza armata dei carlisti in Navarra (21 aprile 1872) e le agitazioni in Catalogna.

Il Paese era lacerato dalla rottura tra Chiesa e Stato, che risaliva alla proclamazione della libertà di religione (1° giugno 1869), duramente combattuta dall'episcopato e dalla generalità del clero cattolico. Lo scioglimento dei gesuiti, di ordini conventuali e congregazioni religiose aveva riattizzato divisioni che risalivano all'età franco-napoleonica, alla guerriglia per l'indipendenza nazionale e alla feroce lotta contro gli “afrancesados”. “Amedeo Primero”, figlio del re che aveva spodestato Pio IX, era considerato strumento di Satana. La regina, la piissima Maria Vittoria dal Pozzo della Cisterna, era figlia del principe Emanuele, famoso cospiratore liberale del 1821 e  “caposetta” così potente che, fermato alla frontiera del regno sabaudo con molte prove a suo carico, era stato subito rilasciato. Un mistero paragonabile a quello del leggendario Michele Gastone, massone e carbonaro.

Come attestato dal conte di Romanones, Amedeo di Savoia concluse che ormai la dirigenza politica era “una casa di pazzi”. Dopo essere stato bersaglio di due attentati (il secondo mentre era in compagnia della regina), alle 13 e 30 dell'11 febbraio 1873, avuto riservatamente il consenso paterno, abdicò alla corona di Corona di Spagna e rientrò in Italia, ove, nei tempi e modi previsti, riprese titolo alla successione in subordine al fratello maggiore, Umberto.  Se in repubbica un governo non regge su maggioranze raccogliticce, una monarchia elettiva ha bisogno di consenso vastissimo, come sentezio Umberto II alla vigilia del referendum del 2-3 giugno 1946. 

La Repubblica e il caos

Lo stesso 11 febbraio 1873 a Madrid fu proclamata la repubblica. La Spagna precipitò in un regime anarco-sovietico. L'11 luglio il potere esecutivo fu assunto da Francisco Pi y Margall. Il giorno dopo esplose l' “alzamiento” in Cartagena. Il 18 seguente salì al potere Nicolas Salmerón, altro massone. Il 5 settembre Castelar assunse la presidenza della Repubblica “conservadora”. Il 4 gennaio 1874 il generale  Manuel Pavia y Lacy, marchese di Novaliches, sciolse le Cortes. Il governo passò nelle mani di Francisco Serrano. Il 10 venne soppressa la sezione dell'internazionale operaia. Il 29 dicembre 1874 Carlos Martínez Campos proclamò in Sagunto la restaurazione della monarchia nella persona di Alfonso XII di Borbone, antenato dell'attuale Felipe VI. Il cerchio si chiuse. Due anni dopo don Carlos passò la frontiera e dalla Francia riparò nell'Impero asburgico, sempre col sostegno del clero reazionario e oscurantista. Il 30 giugno 1876 la Restaurazione iniziò a camminare sulla via indicata da Antonio Cánovas del Castillo, grande riformatore destinato a essere assassinato proprio perché, come già Prim, favoriva il progresso.

Il “sessennio” contenne i germi della seconda repubblica e delle sue devastanti conseguenze: la guerra civile del 1936-1939, che oggi continua con la “damnatio memoriae”.  La Spagna ebbe la saggezza di rimanere estranea alla Grande Guerra come poi alla Seconda guerra mondiale, ma non ha mai superato le divisioni interne (lo documentano le magre sorti del Partito popolare e di Ciudadanos) e l'inclinazione all'estremismo da anni impersonato da Pablo Iglesias e dalla deriva indipendentistica e repubblicana imperversante in Catalogna.

Benché non sia mai giunto a ispanizzarsi (riluttò anche ad apprendere e a usare correntemente lo spagnolo) Amedeo I ebbe il pregio di far capire agli spagnoli che la monarchia era l'unica istituzione capace di tradurre in forza unificante le pulsioni particolaristiche. Preferì abdicare piuttosto che tradire il giuramento di fedeltà alla “monarchia democratica”, caposaldo della Spagna odierna.

Il paradosso iberico di 150 anni orsono molto insegna a un Paese come l'Italia, ove un docente di diritto  mai eletto da nessuno eppure pro tempore presidente del Consiglio dei ministri a capo di due (o forse persino tre) maggioranze del tutto diverse e disarmoniche, si atteggia ad “avvocato del popolo” e campione di europeismo reggendosi sulle grucce di movimenti geneticamente antieuropeisti e populisti come i Cinque Stelle, alcuni vetero-stalinisti intruppati fra i “leucociti” (vale d'esempio il neo-giacobino Roberto Speranza) e i clerico-marxisti che tessono le fila dei “Democratici”. Questa è la moneta vecchia, priva di valore nell'Unione Europea ma ancora circolante in Italia, inchiodata alla sterile guerriglia ideologica e alla contrapposizione (più propagandistica che storiografica) su fatti e misfatti di due partiti – il PCI e il PNF - ormai morti e sepolti.

Motivo in più per fare memoria del 150° dell'ascesa del duca Amedeo di Savoia sul trono di Spagna: una grande occasione mancata per l'“Unione latina”, alternativa al dominio germanico e all'altrettanto fatale duello franco-tedesco iniziato nel luglio 1870 e protratto sino al maggio 1945, quando tutti i paesi europei, vincitori e vinti, persero la guerra e finirono, come sono, succubi di potenze mondiali.  

 

Aldo A. Mola

 

DIDASCALIA.

Amedeo Ferdinando Maria di Savoia (Torino, 1845-1890), “el Rey Caballero”,  e la regina Vittoria, che allatta un bambino spagnolo. Sullo sfondo l'Escorial. (da Aldo A. Mola, Italia. Un Paese speciale,Torino, Ed. del Capricorno, 2011, vol. 2, p.123) Figlio di Vittorio Emanuele duca di Savoia, poi re di Sardegna e d'Italia, e di Maria Adelaide d'Asburgo, da Maria Vittoria il principe Amedeo ebbe Emanuele Filiberto, Vittorio Emanuele e Luigi  Amedeo. Vedovo dal 1876, nel 1888 sposò la nipote, Maria Letizia Bonaparte, figlia di Carlo Gerolamo e di sua sorella Clotilde di Savoia, e ne ebbe Umberto, conte di Salemi.

Emanuele Filiberto (1869-1931), II Duca di Aosta, comandante della Terza Armata nella Grande Guerra, da Elena d'Orléans ebbe Amedeo (poi III Duca d'Aosta, viceré di Etiopia, morto prigioniero degli inglesi nel 1942) e Aimone, Re di Croazia (ove non pose mai piede), IV duca di Aosta, padre di Amedeo di Savoia, nato nel 1943, V  Duca di Aosta, poi  Duca di Savoia, erede della Corona d'Italia, padre di Aimone di Savoia, VI Duca di Aosta, che da Olga di Grecia (sposata nel 2018) ha avuto Umberto, principe di Piemonte, Amedeo e Isabella. Il Principe Aimone è ambasciatore del Sovrano Ordine Militare di Malta presso la Federazione Russa. 

  Nell'Archivio storico nazionale di Salamanca è conservata una lettera  della Loggia “Nuova Sparta” all' “Hermano  Amadeo de Saboya, grado 33° (1872), che proverebbe legami tra il Re e la massoneria spagnola, all'epoca molto frastagliata.

Governo Pella: precisazioni storiche

 

il Presidente Giuseppe Pella


In un articolo sul “Corsera” del 16 gennaio, sui trasformismi e cambi di casacca, Gian Antonio Stella scrive: ”tutta la storia italiana è piena di governi dalla maggioranza risicata o addirittura di minoranza” e prosegue citando il governo di Giuseppe Pella, durato dall’agosto 1953 al gennaio 1954.

Ora è bene ricordare che questo governo ebbe la fiducia alla Camera con 315 voti favorevoli , 215 contrari e 44 astenuti ed al Senato con 140 sì e 86 no.

La maggioranza quindi formata da Democrazia Cristiana, con 263 deputati, più i 40 del Partito Nazionale Monarchico, i 13 liberali e 3 Volkpartei assicurava 319 voti su 590, e nel prosieguo forse anche il MSI, con 29 deputati poteva passare dalla astensione al voto favorevole, specie quando si vide l’energica presa di posizione del governo per la difesa della italianità di Trieste, ancora sotto il governo anglo americano, il AMG.FTT.

Questa è storia non oppugnabile e spiace che un articolista del valore di Stella l’abbia dimenticata.

Domenico Giglio

domenica 17 gennaio 2021

Crisi di Governo, i Monarchici: “La nostra è una democrazia bloccata”


 

 

Crisi di Governo, la parola ai Monarchici: “La crisi del governo Conte 2, dopo la defezione di Italia Viva, presenta le caratteristiche evidenti di una gravissima crisi di sistema. Il Premier, infatti, è costretto alla disperata ricerca del voto di transfughi da vari partiti, eufemisticamente definiti “costruttori”, nel tentativo estremo di evitare lo scioglimento delle Camere”.

Secondo il presidente dell'Unione, Alessandro Sacchi, “Il ricorso alle urne, ricorda l’Unione Monarchica Italiana, che in ogni democrazia parlamentare consegue all’accertata mancanza di una maggioranza di governo omogenea, è impedita in Italia dall’imminente scadenza del mandato del Presidente della Repubblica e quindi dal timore che possa cambiare, come prevedono i sondaggi, la maggioranza che ha eletto l’attuale Presidente e che vuole eleggere il suo successore. La nostra, osservano i monarchici, è, dunque, una democrazia bloccata che ancora una volta dimostra la superiorità democratica dell’istituzione monarchica che sottrae il Capo dello Stato al condizionamento dei partiti”.


https://www.affaritaliani.it/roma/crisi-di-governo-i-monarchici-la-nostra-una-democrazia-bloccata-716586.html



Capitolo XI : l’incontro con la madre

 

 di Emilio Del Bel Belluz

 


Primo Carnera dopo un mese di duro lavoro, si trasferì nuovamente a Parigi, gli venne assegnato lo stesso albergo, trovò tanta gente che lo attendeva, non pensava di meritare tanta fama, ma la gente amava quel gigante così forte. Carnera non si sottrasse alle persone che lo attendevano, non gli dispiacquero neanche le donne che erano venute a salutarlo. Il suo allenatore gli sussurrò all’orecchio che doveva pensare solo all’incontro, non aveva ancora portato a casa il risultato e per festeggiare c’era tempo. Paul gli voleva bene e sapeva anche che se Carnera vinceva, anche lui avrebbe potuto guadagnarci. La sua carriera in tanti incontri disputati non era stata molto fortunata e il denaro che aveva accantonato era irrisorio.

Quella sera prima di addormentarsi, Carnera pensò al pugile con il quale avrebbe dovuto boxare. Salvatore Ruggirello era un pugile nato in Tunisia un anno prima di lui, nel 1905, e ed era d’origine italiana, come si poteva comprendere dal suo cognome. Strano destino quello di due pugili italiani che si trovavano a sfidarsi in una patria che non è la loro. In cuor suo gli dispiaceva combattere all’estero proprio contro un suo connazionale, infatti, avevano la stessa bandiera e la stessa Patria nel cuore. Lo aveva incontrato alle operazioni di peso, era più piccolo e pesava molto meno di lui, ma Carnera ricordava il suo primo incontro da dilettante quando venne messo al tappeto da uno che era metà di lui. In quell’occasione Primo aveva deciso di non boxare più. Salvatore Ruggirello gli era simpatico, pure lui aveva avuto una vita dura e gli sarebbe piaciuto parlargli, da italiano a italiano, ma questo non si verificò. Nel giornale sportivo si faceva solo qualche cenno al paese dove era nato: la Tunisia e alla sua carriera pugilistica.

Proprio lì aveva deciso di fare il pugile, una carriera che non gli aveva dato grandi soddisfazioni. Il suo avversario alloggiava in piccola pensione assieme al suo allenatore. Primo non riusciva a prendere sonno, troppe emozioni lo turbavano. A Salvatore avrebbe voluto mostrargli la sua bandiera, quella che la maestra gli aveva donato, e di cui era orgoglioso. La bandiera che la maestra aveva avuto con sé per tutta la sua vita. Alla fine cedette al sonno, dopo aver pregato, come sua madre gli aveva insegnato. Primo Carnera, l’indomani sera, avrebbe combattuto contro il suo rivale italiano, due destini che si sarebbero incontrati grazie ai pugni.

 Al suo ingesso nell’arena gli spettatori avevano urlato il suo nome, molti erano emigranti italiani, con le bandiere italiane innalzate. Primo aveva la sua con sé, la sventolava all’inizio prima di combattere, e l’avrebbe fatto anche dopo; quella bandiera era il suo orgoglio, e ne traeva una forza immensa. Davanti all’arbitro che raccomandava ai due pugili la correttezza, Carnera era sereno, il suo animo rispecchiava una grande forza e una volontà che aveva sperimentato in quei mesi durissimi. L’incontro ebbe inizio, Primo riusciva a colpirlo con una certa facilità. Ruggirello, ogni tanto riusciva a mettere a segno qualche colpo, ma la sua fine era destinata.

Carnera riusciva a mettere KO alla quarta ripresa l’avversario. La folla esultava, gridava il suo nome e andando all’angolo, mentre l’arbitro faceva il conteggio, e dichiarava fine al combattimento, prima di alzare le braccia al cielo, andò verso il suo avversario e in modo cavalleresco, lo abbracciò con affetto. Ora poteva considerarsi un pugile con un pugno che faceva male. Era circondato da un pubblico festante, ma Primo pensava all’avversario sconfitto e condivideva la sua tristezza. La vittoria contro Ruggirello era stata importante, il mondo del pugilato sapeva che era nata una stella, un pugile che avrebbe fatto parlare di lui. Parigi era diventata la sua città, e per tre volte aveva centrato il segno. Il prossimo match era fissato in Italia, e finalmente sarebbe potuto tornare in patria.

Il grande impresario Carpegna aveva sottoscritto un contratto con Léon See, per una grossa somma di denaro per quell’epoca. Carpegna era venuto per vedere Carnera combattere e gli era piaciuto. L’incontro doveva svolgersi a Milano il 25 novembre 1928, e in quella data i giornali avrebbero sicuramente dato molto spazio all’avvenimento. La venuta di Carnera a Milano aveva scatenato i tifosi, perché Carnera era un italiano, un emigrante che aveva iniziato ad aver fortuna all’estero. Primo Carnera arrivò a Milano qualche giorno prima dell’incontro, gli servivano per ambientarsi. Nel suo cuore c’era una grande felicità che era impossibile non notare, in treno aveva parlato con tutti gli italiani che lo avevano avvicinato, e ciò gli faceva sentire l’aria di casa.

Nella valigia si era portato un pacco di giornali francesi che parlava delle sue gesta, voleva mostrarlo ai giornalisti che lo avrebbero cercato. La stampa italiana non aveva ancora parlato molto di lui. Carpegna da buon organizzatore aveva fatto le cose in grande, aveva scelto un buon albergo vicino al luogo dove si sarebbe svolta la serata. Ai giornalisti aveva mandato dei giornali parigini che esaltavano il pugile, definendolo un colosso dal pugno pesante. Carpegna aveva deciso che, chi volesse assistere agli allenamenti, avrebbe dovuto pagare. Qualche giornalista era venuto a intervistarlo, ed era rimasto soddisfatto di come si allenava. Nel fare i guanti con due pesi massimi aveva dimostrato una forza prorompente.

Uno dei due pugili che lo allenava, per due volte, era andato al tappeto. L’altro pugile non aveva voluto assaggiare i suoi pugni e si teneva alla larga, ma Carnera lo colpiva a piacimento. La gente applaudiva e Primo continuava lo spettacolo, con grande soddisfazione di quelli che lo osservavano. Nei due giorni che seguirono Carnera si allenò lungo le strade di Milano, voleva respirare l’aria dell’Italia che gli era mancata tanto. Il suo allenatore lo seguiva in bicicletta, anche se avrebbe preferito starsene a dormire in albergo, perché aveva avuto delle notti inquiete, avendo bevuto qualche sorso di vino in più a cui non era abituato. Per la strada qualcuno si era messo ad osservare questo gigante che correva e sembrava una quercia. Alla fine della corsa volle entrare in un piccolo bar per fare colazione, i pochi avventori lo riconobbero e gli vennero vicino per fargli gli auguri.

La sua presenza richiamò l’attenzione di altre persone e il proprietario era felice, perché il suo locale si stava riempendo. Primo era circondato da tanto affetto che non avrebbe voluto più andarsene via. La sera prima del match, nella propria camera, si sottopose a dei massaggi. Nel mentre, qualcuno gli disse che una persona lo stava attendendo nella hall dell’albergo. Allora si mise addosso un accappatoio che aveva comprato per il debutto a Milano, era di un verde scuro e lo avvolgeva fino alle caviglie, tanto da sembrare un monumento. All’ingresso dell’albergo lo attendeva sua madre, che quando lo vide si mise in ginocchio dall’emozione, non si vedevano da quasi sei anni. La donna disse che ringraziava il Signore che le dava la possibilità di rivedere il figlio. Si mise a piangere copiosamente, a quel punto Carnera la rialzò come se fosse un fuscello, anche se pesava novanta chili, l’abbraccio e baciò a lungo, piangendo. La gente che osservava la scena si commosse, mai Primo avrebbe pensato di rivedere sua madre a Milano: era bella come il giorno che l’aveva lasciata.

Quanto gli sarebbe piaciuto soffermarsi più a lungo con lei per raccontarsi tutto quello che avevano vissuto negli anni di separazione, ma domani l’attendeva il combattimento. Ad assistere alla scena c’era l’organizzatore Carpegna che volle trovare un albergo per la donna. Il cuore di questo organizzatore era molto generoso. Carpegna si era molto impegnato finanziariamente affinché l’evento potesse dare i suoi frutti. Un peso massimo, un gigante come Carnera avrebbe potuto far risvegliare la passione per il pugilato in Italia. Quella notte Primo non riusciva a prendere sonno per la grande emozione provata per aver rivisto la madre che non appariva ai suoi occhi invecchiata. Quando fece il suo ingresso al palazzetto, la gente incominciò a urlare il suo nome, e sentì il calore del numeroso pubblico che lo acclamava.

Con sé aveva la sua immancabile bandiera del Re, avrebbe voluto urlare al pubblico la sua felicità per essere in Italia, la sua patria. A quell’incontro avrebbe assistito anche sua madre. L’avversario si chiamava Epifanio Islas, un argentino che resistette per dieci riprese al gigante Carnera. Fu decretata una netta vittoria ai punti. Primo rimase molto rattristato per i commenti poco lodevoli nei suoi confronti, da parte della stampa. Solo il Resto del Carlino scrisse come titolo: “Carnera, gigante terribile e dolce”. Quello fu l’unico articolo che parlò del match in modo obiettivo. La sera, Primo ne parlò con il suo avversario, l’argentino Epifanio che riteneva il match combattivo, infatti, lui aveva ricevuto tanti pugni che gli avevano fatto male. Si promisero di ritrovarsi ancora su un ring e Epifanio tornò in Argentina.

Dopo l’incontro, si trovò con sua madre ed altri amici in un locale di Milano, per festeggiare la vittoria. All’improvviso giunse un maresciallo dei carabinieri, assieme ad un bambino di dieci anni, fermato alla stazione dei treni che sosteneva di essere un nipote di Primo. Carnera ancora non aveva nipoti, prese in braccio il bambino che si mise a piangere. Raccontò che era partito da Sequals per vedere l’incontro del suo idolo Carnera, non aveva detto nulla alla sua famiglia che si era preoccupata e aveva avvisato i carabinieri che, molto verosimilmente, il loro figlio s’era recato a Milano (conoscendo la sua grande passione per l’idolo friulano). I carabinieri fermarono il bambino mentre scendeva dal treno. Il ragazzino, non sapendo che scusa inventare, aveva dichiarato di essere nipote del campione Primo Carnera e di essere venuto a Milano per assistere all’incontro.

La mamma di Primo lo volle prendere con sé, gli asciugò le lacrime con un fazzoletto, e gli fece una carezza. Primo chiese solo di tenerlo con sé, avrebbe dormito con sua madre che l’indomani l’avrebbe portato a casa. Il maresciallo era una persona di buon cuore ed approvò questa ottima soluzione. Il carabiniere reale volle che Carnera gli firmasse una cartolina con dedica a lui e a suo figlio. Primo fu gentile e donò al milite una maglia in cui c’era scritto il suo nome, e lo salutò. Quando rimase solo con il ragazzino, volle che gli raccontasse il perché di questa storia inventata, ma il bambino commosso pianse ancora. Carnera ordinò al cameriere che gli fosse portata una grande fetta di torta, per consolarlo.

Regalò al bambino una sua foto con dedica, ricordandogli di non dire mai più bugie ai suoi genitori. Carnera, commosso, comprese che la fuga del bambino era stata dettata dalla sua grande passione per la boxe, e soprattutto per lui, di cui si parlava spesso in famiglia. Carnera doveva ripartire per la Francia, salutò sua madre e le promise di far ritorno al paese al più presto. Le consegnò anche una consistente somma di denaro da depositare in banca. Il suo sogno era quello d’investire i suoi guadagni nella costruzione di una villa circondata da un parco a Sequals, perché dopo il suo ritiro dalla boxe, vi avrebbe fatto ritorno. Un altro dolore dovette sopportare Carnera: il drammatico suicidio dell’organizzatore Giovanni Carpegna.

Questi aveva investito molto sul suo match, per quello di Al Brown e per altre riunioni, ma non aveva recuperato le somme spese, pertanto, decise di chiudere i conti con la vita. Quando Carnera venne a sapere del triste evento, inviò una somma di denaro alla famiglia, e non dimenticò mai quel doloroso giorno.

sabato 16 gennaio 2021

Io difendo la Monarchia cap X - 5


Le voci di critica preconcetta si erano spente e il vecchio Oriani e il vecchio Carducci avevano da tempo abbandonato le negazioni della Lotta politica e le birbonate di Enotrio Romano. Dopo l'altro dopoguerra, in presenza del fascismo e dei suoi primi risultati e della rinascente lotta contro la libertà, ricomparve la tendenza a negare il Risorgimento e i suoi frutti: né si può dare torto a Gobetti e ai suoi seguaci per questo. Forse l'accenno recente di Ferruccio Parri alla assenza di una vera democrazia in Italia, anche nel periodo aureo del Parlamento, è dovuto alla sua derivazione intellettuale da Gobetti e ai suoi ricordi giovanili. Ma non può maravi-gliare che esso sia parso del tutto inopportuno e inutilmente ardito e paradossale in un paese che recuperava infine, pur sotto forma di «consulta» e sotto la vigilanza straniera, una libera tribuna per i suoi dibattiti. Benedetto Croce rivendicava in tale occasione i benefici della libertà e della democrazia nell'Italia di ieri. Diceva, egli, nella seduta del 27 settembre 1945 alla Camera:

«La mia ammirazione e la mia gratitudine d'italiano per l'opera del Parri nella lotta eroicamente tenace contro i fascisti e tedeschi è così grande e così sincera che non solo non impedisce, ma vuole che io prenda la parola per ribattere nettamente un giudizio storico da lui pronunciato ieri e che ha destato non tanto scandalo, quanto stupore. Egli ha detto che già prima del fascismo l'Italia non aveva avuto governi democratici. Ma questa asserzione urta, in flagrante contrasto, col fatto che l'Italia, dal 186o al 1922 è stata uno dei paesi più democratici dell'Europa e che il suo svolgimento fu una non interrotta e spesso accelerata ascesa nella democrazia. Effetto evidente apparve che quel popolo o piuttosto quelle plebi, che i vecchi governi avevano lasciate miserabili e analfabete, e, anche nelle dimostrazioni esterne, vergognosamente servili, oltre che progredire nella salute fisica come comprovava annualmente e statisticamente il de­crescente numero degli scartati nelle leve, oltre la cre­scente diminuzione dell'analfabetismo, con la sempre più larga efficacia della scuola popolare, vennero acquistando carattere e sembianti di liberi cittadini, si riunirono in associazioni e camere di lavoro; poterono difendere i loro diritti, ottennero l'arma degli scioperi, ebbero leggi pro­tettive del lavoro, e, coi consecutivi allargamenti del­l'elettorato, giunsero fino al suffragio universale. E sor­sero partiti politici che formularono e propugnarono i diritti dei lavoratori, ed espressero i loro ideali, e i so­cialisti, dapprima uno o due, crebbero sempre più di numero nella camera dei Deputati, talché nelle ultime legislature erano, se mal' non ricordo, un centinaio e mezzo o più; e tra essi erano Giacomo Matteotti, che con l'Amendola e coI Gramsci, morirono per l'Italia demo­cratica. «Democrazia», senza dubbio «liberale», come ogni verace democrazia, perché se il liberalismo senza democrazia, langue privo di materia e di spirito, la de­mocrazia a sua volta, senza l'osservanza del sistema e del metodo liberale, si perverte e si corrompe e apre la vita alle dittature e ai despotismi: come le democrazie dei comuni medioevali ai tiranni del Rinascimento, e la prima e la seconda Repubblica francese al primo e se­condo Impero. Chi come me, nacque nei primi anni del­la nuova Italia libera ed una, vide ancora alcuni pitto­reschi aspetti di quelle plebi scalze che nella mia Napoli si chiamavano i «lazzari»; ma assistette anche al loro rapido sparire sicché la memoria ne rimase solo nella descrizione e negli aneddoti della storia. E chi come me, si educò nel fiorire democratico e liberale dell'Italia, non dimenticherà. mai che il meglio di se stesso deve a quei modo e a quel ritmo della vita italiana, che gli rese age­vole come non era stato alle generazioni precedenti, di formarsi senza compressione di nessuna sorta, di spaziare nel vasto mondo della cultura universale, di apprendere da tutti, italiani e stranieri, di tutte le più diverse scuole, di enunciare e di sostenere quello che egli stimava verità, di misurarsi con chiunque nella gara civile, di portare in quest'opera quel senso di onore che prima assai spesso si metteva in varie o poco oneste competizioni. E anche ora egli augura che l'Italia torni non certamente allo stato o alle condizioni di allora, perchè grandiosi e terribili eventi sono accaduti, e le condizioni di fatto non sono più quelle e problemi nuovi e diversi urgono nel nostro spirito, ma bene al modo di allora, che è poi l'eterno modo dell'alta vita umana: stare come diceva Faust, libero in libero popolo. E in questa coscienza in lui vivissima del debito che tutta l'Italia presente ha verso quel passato, è la ragione di questa sua difesa di oggi, come già egli difese, contro l'« Italietta » inventata e schernita dal fascismo l'Italia reale, l'Italia creata dai nostri padri del Risorgimento, che è sempre da venerare, quell'Italia nella quale avemmo a maestri di regola intellettuale e morale ed estetica un Francesco de Sanctis e un Giosuè Carducci ».

Il composto equilibrio tra Corona e Parlamento, tra il paese, i suoi partiti e la sua rappresentanza si interruppe negli anni 1919-1922 con l'insorgere di movimenti demagogici e con l'opposizione ad essi di un partito altrettanto popolare. Non la Corona e non, a dir vero, il Parlamento iniziarono quei movimenti e quella reazione. Essi si effettuarono nel paese e trasmodarono nella antica e tradizionale violenza. La lunga guerra aveva risvegliato antichi istinti che parevano sopiti se non definitivamente estinti nel nostro popolo. La lotta politica si trasferì così nelle piazze delle principali città e il Parlamento non seppe far prevalere la sua autorità, né seppe esprimere Governi capaci di contenere l'aspra lot­ta civile. La Corona non aveva nulla da guadagnare nel triste giuoco della contesa civile. Re Vittorio aveva rag­giunto, con la conseguita gloria di Vittorio Veneto, l'api­ce del suo Regno, aveva guadagnato all'Italia le sue frontiere naturali e il posto di grande Potenza tra i mag­giori Imperi del mondo. Nessuno può accusarlo di ec­cessive ambizioni o di tendenze dittatoriali o di imperialismo. Il quadro che l'italiano medio aveva fatto del suo Re era di un Re borghese e liberale: tutti ricorda­vano che egli aveva richiamato al Governo il Giolitti e che avea sonetto e confortato la esperienza liberale del suo Governo nel primo decennio del nuovo secolo. Che poi vi siano dei Salvemini che consideravano ieri Giolitti il ministro della mala vita e attribuiscono oggi a Re Vittorio le colpe di Mussolini, questo non è che un in­dice del disordine mentale purtroppo diffuso in questa epoca conturbata, anche in uomini di sicuro ingegno e di innegabile merito. Così tutti ricordavano che Re Vit­torio aveva desiderato fin dal 1902 di chiamare al Go­verno Filippo Turati e nel 1908 aveva insistito per ave­re Leonida Bissolati. Se un appunto veniva fatto al Re, esso veniva dagli elementi conservatori i quali lo giudi­cavano troppo democratico, troppo proclive ad abban­donare i privilegi del trono, insomma troppo poco Re e molto Presidente di una repubblica ereditaria. Questo era il giudizio corrente in Italia sino al 1922 su Re Vit­torio. Questo giudizio non può essere modificato dagli avvenimenti successivi. Certo egli considerò il fenomeno fascista un fatto storico che non si poteva contenere con i mezzi ordinari. La classe politica gli venne meno; gli intellettuali da d'Annunzio a Marconi, a Mascagni, a Pirandello a Panzini (i) ne celebrarono il genio; il Parla­mento non seppe esprimere un Governo durevole: "opi­nione pubblica italiana e straniera acclamò il nuovo Ce­sare e salvatore della civiltà latina. Il resto è noto ed è stato da noi diligentemente e obiettivamente descritto.

Ora si tratta di impedire che quello che è avvenuto nell'ottobre 1922 possa ancora ripetersi. E si tratta di stabilire se, a mantenere la lotta politica sul binario par­lamentare, convenga più la Monarchia costituzionale o la repubblica. Noi diremo in primo luogo che a difendere la libertà del Parlamento giova innanzitutto un più vi­gile e diffuso e ostinato sentimento. della libertà nei cit­tadini elettori ed eletti. Nessuno si farà più trascinare dal turbine demagogico che nel 1919-1922, sotto la bandiera del patriottismo, nascondeva la brama di potere di un avventuriero plebeo. Oggi tutti sanno che la più corrotta democrazia è preferibile alla più ordinata delle tirannidi.

Quando sia reso impossibile a un partito divenuto più forte, di asservire il Parlamento, la Monarchia e la Repubblica si equivalgono nella tutela dell'equilibrio dei poteri. Ma naturalmente si equivalgono una Monarchia costituzionale e una Repubblica democratica, borghese e parlamentare. Non si equivalgono allo stesso modo una Monarchia costituzionale e una repubblica giacobina o socialista o comunista per la elementare ragione che quest'ultima repubblica tende alla dittatura di una par­te, il proletariato, e quindi al partito unico e alla ditta­tura permanente. Quando il sig. Nenni dice che la Re­pubblica « sarà socialista o non sarà », egli esclude che la repubblica possa essere democratica e parlamentare.

(1) Non, parliamo naturalmente dei Bontempelli che accla­marono ieri al tiranno ricordando Augusto, così come oggi ap­paiono lusingati di frequentare l'anticamera di Togliatti.