NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 28 agosto 2020

A Sant’Anna di Valdieri si è svolta la Festa di Sant’Elena



La manifestazione si è svolta alla presenza delle LL.AA.RR. la Principessa Reale Maria Pia di Savoia, decano della dinastia e presidente internazionale onorario, il Principe Michele ed il Principe Sergio di Jugoslavia, presidente internazionale, accompagnato dal Delegato generale e dal Vice Presidente Vicario Nob. Dr. Francesco Rosano di Viancino, accompagnato a sua volta da tre delegati nazionali, da numerosi delegati, fiduciari e soci di Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia Romagna, Campania, Sicilia, Principato di Monaco, Francia e Romania.

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https://www.cuneo24.it/2020/08/a-santanna-di-valdieri-si-e-svolta-la-festa-di-santelena-80437/

I Savoia a Vicoforte, nel ricordo della Regina Elena


Di Alessandro Briatore 



Maria Pia di Savoia e Sergio di Jugoslavia hanno celebrato la memoria della regina ed hanno donato viveri e aiuti al rettore del Santuario e a due comunità religiose
  
Nel pomeriggio di domenica 23 agosto, il Santuario di Vicoforte è stato meta di un pellegrinaggio da parte dell’Associazione internazionale regina Elena Odv, in occasione della festa di Sant’Elena (rimandata dal 18 alla prima domenica successiva). 
È stato un gradito ritorno per il principe Sergio di Jugoslavia e la prima attesa volta per sua madre, la principessa Maria Pia di Savoia, figlia maggiore dell’ultimo Re d’Italia Umberto II e quindi nipote della regina Elena del Montenegro, che hanno reso omaggio alla tomba della regina deposta nella basilica accanto a quella del marito Re Vittorio Emanuele III (...)



https://www.unionemonregalese.it/2020/08/27/reali-a-vicoforte-regina-elena/

Mafalda di Savoia

di Emilio Del Bel Belluz 

Su di un lato della strada che mi conduce a Concordia Sagittaria, vedo una bella chiesetta dedicata alla principessa Mafalda di Savoia. Allora mi chiedo se quelli che la scorgono, abbiano il  tempo di fermarsi per recitare una preghiera a questa donna così coraggiosa. Un giorno ero in compagnia di un mio nipote che mi chiese di narrargli  la storia di questa donna. Allora gli raccontai che la Principessa era la figlia del Re Vittorio Emanuele III di Savoia e della Regina Elena del Montenegro. La loro figlia era nata il 19 novembre del 1902 a Roma, un anno dopo la primogenita Jolanda. Si era sposata il 12 settembre 1925 con il principe Filippo d’Assia. Dalla loro felice unione erano nati quattro figli.   A mio nipote che insisteva con delle domande, vista la suo giovane età, gli ho raccontato quello che avevo in cuore. La principessa Mafalda volle far un viaggio per venir in soccorso della sorella Giovanna che aveva sposato il Re Boris di Bulgaria. Il 28 agosto del 1943  il padre di Mafalda, chiese al suo uomo di fiducia, il Conte Federico di Vigliano di accompagnare la principessa Mafalda in Bulgaria per incontrare la sorella Giovanna che aveva il marito ammalato di una misteriosa malattia. Per questo Mafalda  intendeva raggiungere la sorella, per portarle conforto in quelle ore difficili.  Le due sorelle erano particolarmente legate da un grande affetto. Il viaggio verso la Bulgaria non fu tra i più facili.  Nella fermata alla stazione di Udine si venne a sapere che il cognato Re Boris era morto.  A Mafalda non rimase altro che proseguire il viaggio  partecipare ai  funerali, e consolare la sorella straziata dal dolore. Le due sorelle si salutarono per l’ultima volta alla stazione  con il cuore colmo di dolore. Mafalda era tormentata per dover lasciare sola la sorella con un  figlioletto piccolo, ma portarli con sé era impossibile.  Il sospetto che aleggiava in quei momenti è che il Re Boris fosse stato avvelenato dai tedeschi, perché voleva uscire dal conflitto. Mafalda nel suo viaggio di ritorno fece una fermata  a Sinaja, era stata la Regina di Romania, Elena a voler avvertire la figlia di  Re Vittorio Emanuele III che in Italia era stato annunciato l’armistizio. La preoccupazione della principessa Mafalda erano i suoi quattro figli, rimasti in Italia. Il conte Vigliano riuscì a mettersi in contatto con  Roma e la principessa si tranquillizzò, sapendo che i figli  si trovavano sotto la protezione del Vaticano, in buone mani. La principessa arrivò a Roma con la morte nel cuore, non sapeva più cosa fare, temeva che Hitler potesse danneggiare suo marito che si trova in Germania. A Roma, finalmente, riuscì ad abbracciare  i figli, e per un attimo il suo cuore fu colmo di felicità. La situazione nel frattempo era confusa, la famiglia Reale era partita per Brindisi.  Venne convocata con una  scusa all’ambasciata tedesca. Le dissero che suo marito l’avrebbe telefonato alle 11.00, e la principessa puntualmente si recò all’appuntamento, assieme al fedelissimo Conte di Vigliano. In seguito, Le fu detto che suo marito l’attendeva a Berlino e che un aereo sarebbe stato messo a sua disposizione per raggiungerlo. In realtà si trattava di un inganno. Venne prelevata da una donna tedesca e portata a Berlino. La verità era una sola, Hitler in persona aveva deciso  di prendere in ostaggio la donna, per vendicarsi di quello che avevano fatto i Savoia: l’armistizio con gli anglo-americani. La principessa fu tradotta nel campo di concentramento di Buchenwald. Le venne assegnato un nome falso, non poteva contare su nessuno, non una mano amica. Fu rinchiusa nella baracca n. 15, riservata ai prigionieri speciali. Si trovò con altre persone che diffidavano di lei, e tra esse una donna che era una spia dei tedeschi. Qualsiasi persona sarebbe impazzita, ma la sua fede le permise di non disperare. La vita di Mafalda era sempre stata in armonia con il buon Dio. Nella sua vita aveva sempre cercato di fare del  bene. Durante la Grande Guerra stava vicino ai feriti, li confortava, assieme alla madre, la Regina Elena. Nulla si poteva rimproverare a questa donna, nulla avrebbe dovuto rimproverarsi in quella baracca, dove aleggiavano la paura e la disperazione. La principessa aveva solo la certezza che possiedono quelli che non fanno del male: il raggiungere il Buon Dio nell’al di là. La situazione nel campo di prigionia era di una desolazione unica, il cibo immangiabile, la paura dei tedeschi, la disperazione di tanta gente che sapeva che da quel posto non sarebbe più uscita viva. Le incursioni aeree degli angloamericani erano frequenti. In quel terribile luogo ebbe la possibilità di conoscere alcuni prigionieri italiani, che erano venuti a conoscenza che lei era la figlia del Re. Ebbe la possibilità di conoscere un medico triestino, il dottor Fausto Pecorari, e il soldato Leonardo Boninu . Per la principessa questi incontri furono importanti, finalmente aveva trovato delle persone con cui parlare la propria lingua ricordare il loro Paese.   Nino Bolla, uno scrittore di un certo spessore, ricorda: “ Mafalda non voleva morire in quel luogo, perché le pareva impossibile di non dover più rivedere i suoi figli, soprattutto quelli in età minore, che a lei, benché priva d’ ogni aiuto e d’ogni cura, parevano i più bisognosi di questi e di quelli. A tanto giunge l’amore  d’una madre, sia nata al Quirinale, sia nata alla Borgata Gordiani.  Riposava su un lettino di ferro, senza molle. Doveva affrontare ogni tipo di disagio e la buona Mafalda accettava tutto. Quel poco che le davano di cibo lo divideva con gli altri, tra cui il soldato sardo che Le era diventato amico.  Si dice che nei momenti peggiori ci si immerga nel passato, si pensi ai bei ricordi. La vita nel campo di concentramento procedeva, ma senza speranza per molte persone. Quello che accadde il 24 agosto del 1944, fu l’ultimo anello della sua sofferenza, che la donna sabauda aveva offerto a Dio.  Quel giorno gli americani bombardarono il campo, distruggendo completamente le officine e parte delle baracche. Mafalda fu seppellita dalle macerie. Una volta estratta, fu trasportata nel postribolo, trasformato in lazzaretto di fortuna, assieme alla sua compagna di baracca. Il referto medico parlava di ischemia al braccio sinistro con ustione di secondo grado e altra scottatura alla guancia sinistra. Non vennero fatte medicazioni. Dopo due giorni di atroce sofferenza, ci fu un inizio di cancrena all’avambraccio sinistro. Un medico di Praga, internato, molto preparato, consigliò l’immediata amputazione del braccio. Ci furono altri due giorni di tentennamenti, finché fu deciso il trasferimento all’ospedale per l’intervento . Il lunedì 28 agosto, dopo 4 giorni di indicibili sofferenze, il direttore SS comunicò di voler operare lui la principessa- lui che non aveva mai operato – perché l’intervento non poteva essere compiuto da un medico prigioniero. Il referto spiega:“ Amputazione per disarticolazione alla spalla”. Ciò, contrariamente,  all’indicazione del medico praghese. La principessa, ancora addormentata, fu trasferita al postribolo-infermeria. Non si risvegliò più. Si racconta che alla morte della Principessa fosse arrivato l’ordine della cremazione. Ma la Provvidenza, nella quale la principessa s’era sempre affidata, comunicandosi  varie volte durante la prigionia, intervenne tramite  il padre francescano Riccardo Steinof, assieme  al padre francescano internato, Giuseppe Tyl che fecero appello all’ Oberscharzfuherdel crematorio affinché ricevesse degna sepoltura. La bara fu trasferita a Weimer e seppellita nel reparto “ riservato ai morti per causa di guerra”. Lo scrittore Nino bolla scrisse sul mensile Historia  del 1964, alcune righe che meritano la massima attenzione:

“ Poco tempo dopo, alcuni marinai italiani recatesi a Weimar  e giunti dinanzi alla tomba n.262 contenente  le spoglie della signora Abeba pietosamente porranno per primi una croce ed una lapide. La donna ivi sepolta, e per molto tempo “sconosciuta” proveniva da una famiglia che già aveva dato alla Chiesa ed all’Italia alcuni Beati e qualche Santo. Solo otto mesi dopo la fine atroce di Mafalda di Savoia, la notizia giunse la Quirinale. Ai primi di maggio del 1945 i telefoni nel palazzo Reale squillarono a lungo ininterrottamente: chi sperava ancora, chi ormai disperava: ed era come un brancolare nel buio. Purtroppo, la radio confermò la notizia, sempre taciuta dai nazisti. L’ allora il luogo tenente generale del re, molto affezionato alla sorella, parve d’un tratto invecchiato di 10 anni. Non bastavano il dramma del padre, la salute malferma della madre, il distacco da  Maria Josè e dai figli. Chi si trovava vicino ad Umberto di Savoia ne constatò in quell’ora, l’accorato smarrimento. “La debole e sognate Mafalda, morta in terra straniera, dentro una casa equivoca, trasformata in infermeria  dopo un terribile bombardamento … “.  I vecchi sovrani risiedevano a Napoli e vigeva per loro il divieto degli anglo-americani  di andare a Roma. Per ventiquattro ore continuò un’ ansiosa attesa: conferme e smentite; e pare che la sventurata regina abbia appreso la notizia definitiva a mezzo della radio. Svenne. “

Quand’era in vita la principessa Mafalda espresse il desiderio di essere sepolta vicino al suocero Federico Carlo d’Assia, pertanto dal 26 settembre 1951 le sue spoglie mortali riposano nel Burg di Cronberg, il piccolo cimitero di famiglia degli Assia. All’esumazione della salma di Mafalda dal cimitero di Weimar , non fu permessa la presenza di alcun familiare e avvenne senza alcun onore religioso,militare e civile. L’autofurgone la trasportò fino a Cronberg ed erano le 21,30 quando entrò nel castello duecentesco e rinascimentale illuminato da fiaccole.  Ad attenderla c’era il marito assieme ai figli Maurizio ed Enrico. Quando la notizia si diffuse nella cittadina ci fu un affluire di persone commosse, fino alle 2 di notte. Il giorno seguente Filippo d’Asssia inviò una lunga lettera alla Regina Elena per informarla dell’avvenuta sepoltura della figlia a Cronberg. A sua volta la suocera le scrisse questa lettera:

 Carissimo Fili, “ Ti ringrazio moltissimo per la tua cara lettera così toccante. Sapere la mia Mutilini vicino a te è per me una grande consolazione. Io spero in Dio che la mia salute mi permetterà di venire ad abbracciare la cara tomba  e di rivedere te, mio caro Fili. Ho  dato ordine al buon Olivieri di informarsi se il viaggio fino a Francoforte è fattibile poiché tu sai come tutto è difficile per me. Non appena avrò saputo qualcosa di  preciso te ne informerò inviandoti Olivieri per parlartene. Se tu solamente sapessi quanto è grande la mia consolazione di sapere la mia cara povera bambina sotto la tua custodia e così vicina a te. Essa ti amava tanto. “ Spero che il medico che mi cura mi permetterà questo viaggio perché  in questo momento non mi sento troppo bene. “ Ringraziandoti ancora della felicità che ho avuto leggendo la  tua lettera ti abbraccio, mio amato Fili, con tutto il cuore,  La tua affezionatissima mamma  Elena. ”



PREGHIERA


PER LA PRINCIPESSA MAFALDA di  SAVOIA

Pietosissimo Iddio, che nei Tuoi imperscrutabili disegni, permettesti che la Tua serva Mafalda, nata e vissuta nella regalità della corte, si dipartisse da questa terra in seguito alle sofferenze ed all'abbandono vissuto negli ultimi mesi della sua esistenza terrena, lontano dalle cure e dall'affetto dei suoi, umiliata e vilipesa in suolo nemico, accetta il suo sacrificio! Fà che ella, spiritualmente ricollegata alle grandi donne della sua casa che la precedettero, in una dinastia di Santi e di Eroi, ascenda presto alla Beatitudine del Regno dei Cieli, onde intercedere presso di Te per la grandezza del Regno d'Italia.
Così sia. Con l’approvazione ecclesiastica Giuseppe Gagnor Vescovo di Napoli, 18 novembre 1945.

giovedì 27 agosto 2020

Gioacchino Volpe nel ricordo delll'Ingegnere Giglio, Presidente del Circolo Rex


Ho letto ed apprezzato il ricordo del grande storico Gioacchino Volpe, ma avendolo conosciuto di persona ed essere stato onorato della sua benevolenza desidero aggiungere un ricordo personale ed alcune considerazioni. 
La conoscenza risale al 1957, quando, come responsabile nazionale dei giovani del Partito Nazionale Monarchico andai a visitarlo a casa. Volpe abitava a Roma, in una zona boscosa (incredibile!), che si raggiungeva con uno stradello che si dipartiva da via Aldrovandi, alle spalle del grande edificio della galleria Nazionale d’Arte Moderna, ed al centro di uno spiazzo sorgeva un casale rustico (oggi scomparso, insieme con strada e boschetto)), la sua abitazione, lontana dai rumori della città e del suo traffico. Nel corso di ripetute visite Gioacchino Volpe si mostrò sempre disponibile alle esigenze di noi giovani, inserendosi nella vita del partito monarchico, al quale aveva aderito, presente a conferenze e conferenziere. 
Le sue convinzioni monarchiche risorgimentali e sabaude, erano fermissime, per cui nel tragico 1943-1945 rimase, senza esitazione, alle stesse fedele. Certamente fu considerato un maestro anche da altri giovani di destra che, ricordo, raccolsero molti suoi scritti, in un volume ciclostilato (?), intitolato “Saluto ad un maestro”. 
Senza dubbio la sua produzione storica è talmente vasta, che sarebbe troppo lungo trascriverla, ma oltre quanto già citato nell'articolo, vorrei ricordare “Il Medioevo”, “L’Italia in Cammino” e soprattutto i tre volumi della sua opera più importante, “L’Italia Moderna”, sulla quale mi onorò di una sua affettuosa dedica, come fece anche per il suo ultimo libro, edito da “Il Borghese”, nel 1961, “L’Italia che fu”, raccolta di articoli e saggi, dove mi scrisse: ”Lieto che l’ingegnere Giglio metta la sua giovinezza ed il suo fervore al servizio di una causa che è sua e mia. Bene auguro e saluto – Gioacchino Volpe – 21 novembre 1961”. 
Quanto alla casa editrice citata nell'articolo, la stessa fu opera non sua, ma del suo primogenito, l’ingegnere Giovanni, scomparso poi prematuramente, ideologicamente non del tutto eguale al padre. 
Quanto infine alla barriera contro il comunismo non dimentichiamo proprio l’istituto monarchico, per cui il partito comunista, fu tra i principali fautori della scelta repubblicana, che non avrebbe mai vinto se non ci fossero stati i voti del PCI, che, non dimentichiamo, raccolse milioni di voti, e fu il più forte partito comunista del mondo occidentale. 
Questo per completare la figura del nostro grande Gioacchino Volpe.

mercoledì 26 agosto 2020

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II

Un messaggio ad Alfredo Covelli per le elezioni politiche del 1968 dove i monarchici si presentarono con il nome di PDUM ovvero Partito di Unità Monarchica, ottenuto dalla fusione di PMP e PNM nel 1959 dopo le divisioni di pochi anni prima.



In quelle elezioni il PDUM ottenne 6 seggi alla Camera e, purtroppo, solo due al Senato.



Il Re non mancò di far sentire il suo incoraggiamento a coloro che a viso aperto si erano sempre battuti per la Monarchia.


martedì 25 agosto 2020

Gioacchino Volpe

di Emilio del Bel Belluz

Gioacchino Volpe nacque nel 1876 a Paganica (L’Aquila ), e morì nel 1971 a Santarcangelo di Romagna. 
Fu uno dei più grandi storici che l’Italia abbia mai avuto. Uno studioso che dedicò con entusiasmo il suo tempo alle patrie istituzioni, all’insegnamento e all’educazione dei giovani.  
Mi è difficile pensare che molti studenti si interessino a questo grande personaggio. Dopo la morte di uno scrittore inizia per lui una nuova vita, fatta spesso di silenzi. E gli studenti d’oggi non sono motivati nello studiare i segni che uno scrittore lascia nel suo percorso umano. Questi segni sono gli articoli, i libri, le pubblicazioni, che ha lasciato. 
Non è stato possibile pubblicare il tanto materiale che ha scritto questo studioso. Le sue tante ricerche riguardano l’età medievale, e in modo particolare la civiltà dei Comuni. 
E’ doveroso, anche, ricordare che Gioacchino Volpe indossò l’uniforme del Regio Esercito nella Grande Guerra, meritandosi la medaglia d’argento a dimostrazione che il suo cuore di soldato non si sottrasse al pericolo per difendere la sua Patria. Il sentimento di patriottismo era molto forte allora, debolissimo adesso. 
Un breve cenno sulla sua vita: “Dal 1906 professore di storia moderna alla Regia Accademia scientifico-letteraria di Milano; dal 1924 alla  Facoltà di scienze politiche presso la Regia Università di Roma. Combattente decorato nella guerra italo-austriaca (1915-1918). Deputato al  Parlamento dal 1924-1929. “  Dal 1929, Accademico d’Italia. 
L’Accademia voluta da Mussolini includeva le persone più valide del mondo culturale italiano. In lui Mussolini trovò un validissimo storico che onorò quella nomina con grande tenacia e fu tra i fondatori della Enciclopedia Treccani. Un tempo era un grande lusso possedere questa opera monumentale, solo nelle Università e nelle grandi famiglie si poteva trovare. 
Quanti studenti si sono formati, studiando e consultando quella enciclopedia. Credo sia difficile elencare tutta la sua produzione, ci servirebbero delle pagine intere, come credo sia difficile pensare che qualcuno abbia raccolto i suoi scritti, ci vorrebbe una biblioteca per contenerli. 
In un articolo pubblicato nella rivista Bibliografia Fascista del marzo 1941, Adelmo Cicogna scrive: “ Gioacchino Volpe scrisse per un’enciclopedia, ed ora ha raccolto in volume ampliando il testo d’una appendice documentaria, un bel saggio sul regno di Vittorio Emanuele III, sintetizzando, con quella attitudine che è in lui singolare, la vicenda lunga e varia del quarantennio di regno.  Ma alla vicenda del regno, ha, opportunamente, premesso alcuni capitoli, tra i migliori del libro, in cui si ricorda succintamente la situazione politica, sociale, economica, morale e culturale, dell’Italia, di fresco uscita dalle lotte per l’unità e tuttora affaticata a risolvere i più gravi problemi dell’assestamento unitario, sul finire dell’Ottocento; si espongono i ricordi della giovinezza studiosa, ma anche ricca di un’eredità guerriera, del futuro re; si mostrano mentre questa giovinezza ancor è nel suo fiore, il rinnovarsi, per effetto dello slargarsi del suffragio  e per il primo farsi avanti della “Sinistra”, come per contingenze diverse. Il rinnovarsi della politica italiana, sia interna, come estera. Fondamento essenziale per la costruzione del nuovo Stato, ed anche quando sarà iniziato per il nuovo regno”.  
Nel libro  Vittorio Emanuele III, scritto da Volpe nel 1939,  uscito in una pregevole edizione, e fu capace di dare all’italiano la vera ed intima dimensione del Re. La sua analisi parte proprio dal momento in cui il sovrano sale al trono. Era uno dei  momenti più difficili dell’Italia,  dopo l’uccisione del Re Umberto I, da parte dell’anarchico Bresci. Il principe Vittorio Emanuele III si trovava con la principessa, sua consorte, in crociera, e venne avvertito dell’uccisione del padre.  Immagino la tristezza che accompagnò tale notizia, e il senso di paura che sentì in quel momento.  Fortunatamente gli era accanto l’amata Elena, una futura regina che avrebbe sempre trovato la forza per affrontare qualsiasi difficoltà, rimanendogli accanto con una fedeltà assoluta. Li univa anche la fede nel buon Dio. Gli avversari del re furono pronti a buttargli addosso del fango, con il risultato che il fango inzacchera chi lo butta, non chi lo riceve. Gioacchino Volpe fu uno studioso coraggioso e vero che non venne mai meno ai suoi principi ed il libro su Vittorio Emanuele ne è testimonianza. A nulla valgono i giudizi sommari e lapidari di quelli che sanno solo giudicare con disprezzo. 
Nel libro Vittorio Emanuele III si dice: “Bellissima pagina nella vita del Re, questa sua partecipazione alla guerra. Aveva animo di mettersi, a modo antico, alla testa dell’esercito e andare avanti. Volle invece che il comando supremo fosse affidato al Capo di Stato Maggiore, generale Cadorna. Ma per quattro anni, Vittorio Emanuele svolse opera assiduissima di vigilanza, di controllo, di consiglio, di eccitamento delle forze morali. 
Fu sempre presente fra i combattenti, in trincea o nei posti di osservazione, durante la battaglia o negli ospedali, ad animare, premiare, consolare, dare quotidiano esempio di coraggio e di tolleranza dei disagi, mettendo a profitto quella robustezza fisica, quella sobrietà, quelle buone doti di montanaro che erano suo patrimonio. La sua mensa era sempre di una frugalità spartana, chiunque vi partecipasse, e modestissima quella Villa Italia, immutata nel nome, anche se mutò il luogo e l’edificio, dove Egli alloggiava”.  Qualcuno potrà chiedersi cosa abbia rappresentato Gioacchino Volpe per la destra  italiana, quella destra coraggiosa di un tempo, nata grazie a quelli che non si sono arresi. Penso a Giorgio Almirante e a Pino  Romualdi,  uomini capaci di costruire  una barriera al comunismo, in momenti molto difficili come quelli del dopoguerra. Questi  uomini si sono sacrificati per un grande ideale, che in questi anni qualcuno ha calpestato. In quel tempo gli intellettuali erano vicini anche a Gioacchino Volpe, che anche se aveva aderito al partito monarchico, si era mosso nel campo della cultura, fondando le Edizioni Volpe. Un tentativo di far conoscere la cultura di destra e far riemergere degli autori conservatori che sarebbero rimasti sconosciuti. I libri delle Edizioni Volpe erano molto eleganti, dei piccoli tesori. 
Qualcuno scrisse: “ I libri hanno valore solo se guidano alla vita, se sanno servirla e giovarle. E’sprecata ogni ora di lettura  se da essa non scaturisce per il lettore una scintilla di energia, un senso di rinnovamento, un alito di nuova freschezza”. (Gianfranco Ravasi - L’Avvenire)  
Uno storico inglese altresì diceva che esistono i libri di ora e i libri di sempre. Quelle meravigliose Edizioni di Gioacchino Volpe sono i libri di sempre, sia quelli che ha scritto, sia quelli che ha pubblicato nella sua casa Editrice. Una delle riviste più importanti per quelli della mia generazione fu Intervento. Purtroppo una delle tante riviste di destra che hanno finito il loro percorso lasciando una voragine, uno spazio vuoto. Gioacchino Volpe aveva capito l’importanza che hanno i letterati, quella di lasciare una scia per molti intellettuali. Infatti,  ancora oggi lo rimpiangono a  quasi cinquant’anni dalla sua morte. Trascrivo una delle frasi di Machiavelli che Volpe citava: “Regolarsi su tutto ciò che gli altri fanno e da questo trarne lumi sui ciò che dobbiamo fare noi”.
E’ importante ricordare ciò che Gianluigi Chiaserotti scriveva: ”Il Re Umberto II (1904-1983) insignì  Gioacchino Volpe dell'Ordine Civile di Savoia il 15 settembre 1961, e lo creò conte il 16 febbraio 1967. In occasione del novantesimo compleanno (16 febbraio 1966), il Re, tramite il Ministro Falcone Lucifero (1898-1997), gli inviò il seguente telegramma: “Sovrano desidera Le giungano vive felicitazioni particolarmente affettuose ricorrenza Suo novantesimo genetliaco ricordando eminenti servigi resi da Vostra Eccellenza alla patria in una nobile vita di studio e di lavoro et formula fervidi voti perché Ella continui per lunghi anni ancora a servire et onorare l’Italia.”. Il nostro fu anche membro della Consulta dei Senatori del Regno dal 12 maggio 1960 e Presidente Onorario del Circolo di Cultura e di Educazione Politica Rex dal novembre 1968 fino alla morte, circolo dove fu un ricercato conferenziere su svariati argomenti. Gioacchino Volpe fu, senza dubbio, uno storico di ampi interessi e di tempra notevolissima. Qualità codeste che fanno di lui uno dei maggiori rappresentanti della cultura italiana del secolo XX.“

lunedì 24 agosto 2020

La lezione etica e politica di Enrico De Nicola monarchico, liberale, napoletano


di Aldo A. Mola

Centenario                     

L'interrogativo è antico: il Paese è migliore di chi lo rappresenta o viceversa? Si stava meglio quando si stava peggio? Per uscire dal dubbio, giova confrontare lo spettacolo offerto da tanti parlamentari odierni con quelli del buon tempo antico. Non è patetica nostalgia da laudatores temporis acti, una fuga  nel passato per eludere i mutamenti intervenuti negli anni recenti, la loro presunta necessità (o fatalità) e così sottrarsi all'obbligo di fare i conti col divenire. La domanda è un'altra: come mai in tempi neppure tanto remoti e in circostanze niente affatto facili, l'Italia ebbe una dirigenza di statura europea, invidiabile per preparazione, dedizione e onestà personale?
E' questione di meridiani e di paralleli? O di natura politica? Di strumenti normativi atti a formare una classe dirigente che non tragga idee solo dagli album di Topolino, come sarcasticamente avvertito da Ernesto Galli della Loggia sulla scia di Sabino Cassese, Stefano Folli e altri costituzionalisti e  politologi senza paraocchi partitici né pregiudiziali ideologiche. 
Il confronto tra presente e passato è indispensabile a cospetto di un presidente del Consiglio, il prof. Giuseppe Conte, insediato nei giorni turbolenti di richieste di “incriminazione” del presidente della Repubblica, di gesti scomposti, di un “accordo per il governo” tra Lega e M5S dai contenuti anche incostituzionali, senza che dal Colle arrivassero i mòniti necessari a disinnescarne la pericolosità. 
 
Un giureconsulto di talento “prestato” alla politica

Tra i tanti possibili modelli della dirigenza dl tempo che fu (e che auspichiamo torni, come sempre è accaduto, sia pure a distanza di secoli) proponiamo  Enrico De Nicola, che giusto cent'anni fa, il 26 giugno 1920, fu eletto presidente della Camera dei deputati. Pochi giorni prima, il presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, lo invitò a casa sua, un appartamento in affitto a Roma, affacciato su via Cavour, non lontano dalla Stazione Termini. Gli lesse l'elenco dei ministri del governo che stava per presentare alla Camera.  Comprendeva liberali di varia ascrizione, democratici, ex socialisti riformisti, come Ivanoe Bonomi, ministro della Guerra, e cattolici, non perché eletti nelle file del Partito popolare italiano capeggiato da don Luigi Sturzo (“prete intrigante” a giudizio dello Statista) ma perché patrioti. Non gli disse altro. La sorpresa venne all'apertura della sessione parlamentare. Su impulso di Giolitti De Nicola fu eletto presidente  con 236 preferenze su 374 presenti. Un plebiscito, visto che gli mancarono solo i suffragi dei socialisti e dei repubblicani, cioè di partii anti-sistema. De Nicola contava appena 42 anni. Pochi, all'epoca, per una carica così alta. Ma alle spalle aveva già un lungo e prestigioso cursus honorum e professionale.
  Nato a Napoli il 9 novembre 1877, si laureò in legge a 19 anni. Iscritto per concorso all'albo degli avvocati dal 1898, si affermò rapidamente. Molti penalisti dell'epoca erano famosi per le perorazioni infiorate di lenocini retorici, commentate dal pubblico con tanti “Come ha parlato bene!” ma stroncate dalle corti che ne condannavano i clienti. De Nicola spiccò invece per sobrietà. Andava al punto. Era un eccellente “tecnico” del diritto, nella miglior tradizione della Scuola giuridica partenopea: Enrico Pessina, Giorgio Arcoleo, Gennaro Marciano, Gaspare Colosimo (tutti politici di rango) e Pietro Rosano. Questi mostrò la sua tempra d'acciaio quando, appena  nominato ministro nel secondo governo Giolitti, divenne bersaglio di una campagna scandalistica su un suo congiunto. Nel timore che la diffamazione potesse coinvolgerlo e da lui arrivare a colpire Giolitti, che dieci anni prima era stato ingiustamente travolto dallo “scandalo della Banca Romana” (un pasticcio non ancora risolto dalla storiografia),  mandò una lettera allo Statista pregandolo di salutare per lui tutti i colleghi “di una settimana” e di averlo sempre caro e si sparò. Era il 9 novembre 1903.  Aveva 55 anni e una splendida carriera dinnanzi a sé. Uno stoico.
Nel 1907 De Nicola fu eletto consigliere comunale di Napoli. La città doveva risalire la china, alla luce dell'Inchiesta condotta dalla Commissione presieduta dal senatore Giuseppe Saredo al quale Giolitti conferì un mandato preciso: non guardare in faccia nessuno, non cedere ad alcuna pressione. Come attestano i suoi Atti, ripubblicati dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (Napoli, Palazzo Serra di Cassano, via Monte di Dio 14), ne scaturì il ritratto veridico della corruzione dilagante e dei possibili rimedi: poiché la camorra era opera dell'uomo, altri uomini potevano sconfiggerla. Nel 1909 il trentaduenne De Nicola fu eletto deputato dal collegio di Afragola. Prevalse sul deputato uscente, Luigi Simeoni, che si presentava come giolittiano. Ma lo Statista non badava alle etichette, bensì alla sostanza. In Aula il neodeputato parlò solo su questioni di sua sicura competenza. Interventi brevi, limpidi apprezzati da Giolitti. A un neoeletto che gli domandò come dovesse condursi lo Statista rispose che doveva alzarsi, dire quello che doveva e mettersi a sedere. Erano finiti i tempi nei quali i singoli interventi a volte duravano molte ore, persino in più sedute. I lavori parlamentari erano “sgrossati” da Uffici e  Commissioni, dalle relazioni di presentazione dei disegni di legge e dagli allegati di accompagnamento. In Aula bisognava andare al dunque. Il 31 maggio 1912 De Nicola si fece apprezzare per l'intervento sulla riforma del codice di procedura penale: un tema che non consentiva chiacchiere. Il 29 ottobre dell'anno seguente, quando si sperimentò il suffragio quasi universale maschile, ma sempre in collegi uninominali  a doppio turno, fu confermato con votazione lusinghiera.
   Il 27 novembre Giolitti lo volle sottosegretario al ministero delle Colonie, di recentissima costituzione. Lo statista assegnò il dicastero a Pietro Bertolini, che lo aveva affiancato nei mesi difficili della guerra contro l'impero turco per la sovranità dell'Italia sulla Libia e per la liberazione di Rodi e del Dodecanneso. Sennonché il titolare di Poste e Telegrafi, Teobaldo Calissano, morì d'improvviso mentre pronunciava un discorso elettorale nel suo collegio di Alba. Quel tragico destino mutò l'assegnazione dei titolari dei ministeri ai quali Giolitti teneva:  Gaspare Colosimo fu promosso da sottosegretario alle Colonie a titolare delle Poste, sino a quel momento di Calissano,  e al suo posto il 27 novembre venne  chiamato il trentacinquenne  De Nicola. L'incarico era delicatissimo perché bisognava dare un ordinamento giuridico d'avanguardia alla nuova colonia, proprio per mostrare al mondo la modernità del “modello italiano”, altra cosa rispetto alla colonizzazione ottocentesca ancora praticata da Portogallo, Spagna, Paesi Bassi e dal pessimo Belgio.  
De Nicola dette ottima prova. Come Giolitti, il conterraneo Benedetto Croce, il vicepresidente del Senato Antonio Cefaly, calabrese, e altri insigni meridionali anch'egli fu contrario all'intervento dell'Italia nella Grande Guerra. Se destinate alle armi, le risorse del Paese sarebbero state sottratte alla lunga e saggia opera di sviluppo delle regioni più arretrate  a tutto danno della vera unità nazionale e delle istituzioni. Nel Mezzogiorno sarebbero tornati a soffiare i venti della dissidenza e della sfiducia nello Stato, contro l monarchia, che contava nemici mortali antichi e nuovi. Nondimeno, quando l'Italia entrò in guerra, egli ne sostenne lealmente l'impegno sino alla Vittoria. Non per caso Vittorio Emanuele Orlando  lo volle sottosegretario al Tesoro all'indomani del disastro di Caporetto.
Al di sopra della mischia
Nelle elezioni del 16 novembre 1919, svolte con la proporzionale, De Nicola fu rieletto nella circoscrizione Campania con il più alto numero di preferenze tra i candidati liberali.
Da presidente della Camera, in linea con Giolitti, mirò ad arginare gli opposti estremismi, se non nel Paese, preda della scioperomania dell'estrema sinistra e poi dell'uso spregiudicato delle “squadre” da parte di agrari e, dopo l'occupazione delle fabbriche (settembre 1920), anche da parte di industriali, almeno alla Camera. Ne nacque il “patto di pacificazione” sottoscritto  nella sala del Consiglio dei ministri dai rappresentanti dei fascisti, dei socialisti e dei sindacati “di sinistra  Morgari, Baldesi e Mussolini , l'ex socialrivoluzionario che si attirò gli strali di Roberto Farinacci e Dino Gradi: Chi ha tradito, tradirà”. A soianare la via al patto, d'intesa con De Nicola, furono che il social-utopista Tito Zaniboni (nessuna prova che fosse affiliato al Grande Oriente d'Italia) e il fascista Giacomo Acerbo, massone della Gran Loggia d'Italia. De Nicola si valse anche della abile mediazione del frusinate Achille Visocchi, già suo collega al Tesoro e poi ministro dell'Agricoltura.
L'esercizio della delicatissima carica lo sottrasse alla professione forense, sua unica fonte di reddito. All'epoca, va ricordato, i deputati ricevevano una modesta indennità e viaggiavano gratis sulle ferrovie dello Stato, senza mai abusarne. Quando una volta scoprì che alla figlia Enrichetta era stato riservato un posto prepagato in treno, Giolitti lo fece cancellare perché, osservò rabbuiato, “non esiste la carica di figlia del presidente del Consiglio”. Severo con sé come con i colleghi, De Nicola conduceva vita ascetica. Concorse a innovare  i lavori parlamentari valorizzando le  Commissioni parlamentari, formate non più per sorteggio ma su indicazione dei gruppi parlamentari. Esse ebbero anche il potere di chiedere la convocazione della Camera. Se questo fosse stato attivato nel settembre-ottobre 1922, come reiteratamente chiesto da Vittorio Emanuele III al presidente del Consiglio Luigi Facta, la crisi politica sarebbe stata subito instradata sui binari della parlamentarizzazione. Ne scrisse appassionatamente Mario Viana in “Monarchia e fascismo” (1954). La cosiddetta “marcia su Roma” non sarebbe stata neppure minacciata. Il 24 ottobre 1922 De Nicola inviò un telegramma alla riunione dei fascisti al Teatro San Carlo di Napoli : un messaggio di prammatica, altra cosa rispetto a Benedetto Croce che andò di persona ad assistere ai lavori con la curiosità dello storico dell'Italia liberale, attratto dallo “spettacolo”.
All'indomani dell'insediamento del governo di coalizione statutaria presieduto da Mussolini (31 ottobre 1922), De Nicola fece ampia apertura di credito al pari di altri liberali, quali Salandra, Orlando e lo stesso Giolitti. Nel 1924 fu candidato nella Lista nazionale che conquistò due terzi dei seggi perché ottenne circa il 66% dei suffragi. Li avrebbe avuti anche senza la nuova  legge elettorale, che li assegnava al partito che avesse raggiunto il 25% dei voti (Mussolini non credeva al successo straripante, frutto degli umori dell'elettorato  già allora vagante dall'uno all'altro schieramento).
All'ultimo giorno De Nicola si sfilò e non pronunciò l'atteso discorso, il cui testo, però, uscì a stampa. A suo avviso il fascismo era sorto “come protesta contro un eccesso di violenza sovvertitrice della vita nazionale” e si era affermato “come protesta contro un eccesso di instabilità e di atonia dei governi”. A suo avviso, con il varo del governo Mussolini il re  aveva risparmiato all'Italia la guerra civile. Da presidente del Consiglio il duce aveva concesso molto al partito, ma a parole più che ne fatti. Mirò invece a “ottenere dal Parlamento la legalizzazione del fatto compiuto”.

Vita appartata
Ls svolta venne col delitto Matteotti (10 giugno 1924) e col discorso del 3 gennaio 1925. Mussolini, pur negando ogni coinvolgimento nella morte del deputato socialista, assunse la responsabilità politica della “rivoluzione fascista”. Benché convalidato, De Nicola non prestò giuramento e non si presentò mai in aula. Il 2 marzo 1929, alla vigilia delle elezioni che il 24 segnarono il trionfo del regime di partito unico, anche per l'avvenuta Conciliazione tra regno d'Italia e Stato del Vaticano (11 febbraio 1929), egli fu creato senatore. Fu uno dei circa 130 patres vitalizi nominati in poche settimane: liberali, cattolici, democratici, ex socialriformisti e, naturalmente, fascisti, nazionalisti, militari, diplomatici..., uomini dello Stato non di partito.
Non frequentò le sedute della Came a Alta ma presiedette la commissione ministeriale per la previdenza e l'assistenza forense che approntò la legge 13 aprile 1933, a beneficio di tanti avvocati in stato di bisogno.

Il grande Traghettatore
De Nicola ebbe ruolo fondamentale dieci anni dopo, quando escogitò il trasferimento dei poteri regi da Vittorio Emanuele III al figlio, Umberto principe di Piemonte, in veste di Luogotenente del regno: soluzione obtorto collo accettata dal re il 20 febbraio 1944 e infine attuata il 5 giugno 1944 sotto incalzante pressione degli anglo-americani e dei partiti antimonarchici al potere sin dal terzo ministero Badoglio e poi nei governi presieduti da Bonomi, Ferruccio Parri (partito d'azione) e Alcide De Gasperi (democrazia cristiana). Estraneo a maneggi faziosi, nominato componente della Consulta Nazionale (1945) De Nicola non si candidò all'Assemblea Costituente. Questa tuttavia  il 28 giugno 1946 lo elesse presidente della Repubblica benché fosse notoriamente monarchico. Era lo Statista di garanzia nel difficile traghettamento dell'Italia all'indomani del referendum che aveva veduto contrapposti monarchici e repubblicani quasi alla pari e la vittoria della repubblica col magro consenso del  42% degli aventi diritto.
Come ricorda il suo biografo, Tito Lucrezio Rizzo, in “Parla il Capo dello Stato” (ed. Gangemi), De Nicola non abitò mai al Quirinale. Attrezzò il suo ufficio a Palazzo Giustiniani, alle spalle del Senato. Lasciò la carica l'11 maggio 1948. L'indomani gli subentrò Luigi Einaudi, parimenti liberale e monarchico, piemontese. Così si ripeté l'alternanza di epoca monarchica, quando il principe ereditario era di volta in volta “di Piemonte” o “di Napoli.
Presidente del Senato (1951-1952), giudice costituzionale e ottantenne sempre lucidissimo presidente della Corte Costituzionale se ne dimise il 27 marzo 1957.
Morì dopo due anni di vita nuovamente appartata. Si sapeva della sua austerità. Soleva farsi rivoltare il cappotto, non per avarizia ma per senso del risparmio e per le sue  ristrettezze, vissute con dignità. Dall'attività forense trasse  sempre lustro ma pochi profitti. Come ha ricordato Giovanni Leone, altro presidente della Repubblica meritevole di rispetto e di memoria, all'indomani della sua morte (1° ottobre 1959) nel villino di Torre del Greco, privo di riscaldamento, si scoprì che “in casa sua non c'erano soldi neppure per l'acquisto dei medicinali. Il grande avvocato, il grande Statista che aveva rinunziato alle indennità presidenziali mantenendosi
a sue spese a Roma, il danneggiato dalla guerra mondiale che aveva travolto i suoi risparmi impiegati tutti in titoli di Stato, ridotti a carta straccia, moriva povero”.
“Il suo senso dello Stato  - osserva Rizzo – è l'eredità più preziosa lasciata ai posteri. L'alternativa alla Religione del Dovere è quella di uno Stato senza senso”. Vi è motivo di riflettervi a un mese da un referendum, che potrebbe impoverire più di quanto già non sia il rapporto tra cittadini e Istituzioni. La civiltà politica dall'Unità al regime resse e crebbe perché fondata sui collegi uninominali, non su liste di parlamentari predisposte da un Gran Consiglio (come avvenne dal 1928-1929) o da cupole di “partiti”. E' un monito che inizia a farsi strada, perché la qualità dei rappresentanti dei cittadini non è separata dalle norme elettorali. 


         


                      

Il libro azzurro sul referendum - XX cap - 1


Capitolo XX
Osservazioni di giuristi sul criterio adottato per stabilire la maggioranza e sul numero dei votanti in rapporto alla popolazione



La maggioranza del referendum (1)



1) La dottrina è di opposto parere della decisione della Corte di Cassazione circa il significato della parola «votanti» che «sono tutti coloro che hanno esercitato il diritto di voto deponendo materialmente una scheda nell'urna».

2) «Chi vota scheda. bianca non si astiene dall'esprimere nelle forme di legge la propria volontà, ma anzi esprime una particolare volontà e dichiara nelle forme prescritte di non consentire o di astenersi dal consentire ad ognuna delle soluzioni proposte».

3) La interpretazione del Bracci «elevato a ruolo di tecnico di questioni costituzionalistiche che la parola tecnica, che designa tutti coloro che prendono materialmente parte al voto, è quella di elettori è una «grossa svista sulla quale non vale la pena di soffermarsi». Gli elettori sono le persone iscritte nelle liste elettorali o coloro che hanno diritto ad esservi iscritti (2). 

4) La maggioranza semplice dei voti espressi validamente per la determinazione delle forme istituzionali dello Stato esclude che il numero e la quantità degli annullamenti dei singoli voti per copiosi che siano possano influire sulla validità od efficacia della votazione. Una soluzione per il solo fatto che raggiunga maggiore consenso di un'altra si impone all'intero popolo anche se non raggiunga il consenso della maggioranza del popolo che si è recato alle urne.

5) Un referendum nel quale vengono annullati tanti voti che non sia possibile di stabilire se alcune delle soluzioni abbia raggiunto la maggioranza nel procedimento di votazione non è un «referendum» conclusivo, che dà luogo alla formazione di una volontà certa che possa essere proclamata con certezza».

6) È materia opinabile se in decisione di così grave momento come quella della scelta da parte del popolo delle istituzioni dello Stato non sia preferibile stabilire la necessità di una maggioranza qualificata (3).

7) in ogni modo «il principio democratico che impone di lasciare alla sola maggioranza la decisione impone anche che si controlli che il procedimento attraverso cui si è formata la maggioranza non sia in tanta parte nullo da doversi escludere le sue concludenze».

8) «La prassi del plebiscito internazionale in concreto offre un argomento a forziori in favore ».

9) « Chi ritenga che, oltre le classi e le fazioni, esista un popolo (per es. il popolo italiano) e che solo allora esiste regime democratico quando questo popolo è arbitro  del proprio destino, sarà di parere opposto... a che la classe, il gruppo, la fazione più numerosa abbia il diritto di imporre all'intero popolo le proprie idee e la propria volontà e ritenga irrilevante ricercare quale seguito abbia tra il popolo la parte più numerosa... e richiederà che ogni decisione sia rimessa alla maggioranza del popolo e non alla prevalenza di una fazione sull'altra».

10) Il decreto 219 considerato dalla Corte «la fonte esclusiva per il computo dei risultati del «referendum» (art. I i, 16, 17) non consta solo dì questi articoli e le sue disposizioni «devono essere interpretate nell'armonia del sistema» e hanno tanto valore quanto non può essere riconosciuto da un decreto che prima della cessazione della Con­sulta, sia stato emesso senza sentire la Consulta»; ciò vale a sostenere «il parere precisamente opposto» a quello della Corte ». Innanzi tutto si rileva che l'art. 1 del D.L.L. 5 aprile 1945, n. 146 sulla Consulta sottoponeva al parere di quell'organo rappresentativo le leggi elettorali; e che nella specie la Consulta non è stata udita; e che le lacune nel procedimento degli atti aventi forza di legge, provate testual­mente dalle formule di promulgazione dell'atto, invalidano l'atto stes­so. Perciò «se il decreto n. 219 fosse lo statuto esclusivo del referen­dum sarebbe legge elettorale invalida».

(11) «La necessità di conferire ai giudici, e in particolare alla Corte di Cassazione, funzione di controllo e di proclamazione, imponeva che queste norme di .attuazione fossero rese nella forma del decreto legislativo, invece che col decreto del Presidente del Consiglio previsto dall'art. 8 del decreto n. 98 (non essendo possibile, senza esplicita formale delega, che nella specie mancava, disporre della competenza dei giudici e dare ad essi nuove funzioni)».

12) «La interpretazione autentica della parola votante si sarebbe dovuta ricerca se mai nel decretlìo legge Di marzo 1946 n. 74. Quest'ultimo esplicitamente agli art. 50-52 sanciva che per votanti si intendono tutti coloro che hanno partecipato alla votazione con voto valido o nullo e all'articolo 57 designava i voli validi con l'espressione voti «validi».

13)    La funzione giuridica della Corte non è naturalmente quella di far somme ma di proclamare l’esito del referendum, compiendo tutte le operazioni materiali necessarie all'adempimento della funzione». Attribuire alla interpretazione dell'articolo 17 un compito semplicemente enumerativo ed esclusivo di ogni altra operazione aritmetica e materiale «significherebbe il divieto alla Corte del confronto mediato dei risultati delle somme con il numero dei votanti (necessario per stabilire se sia stata raggiunta la maggioranza assoluta) ma anche il confronto immediato necessario per attribuire ad una delle soluzioni la maggioranza relativa».

14) L’ordinanza della Corte ha negato a quelle leggi il loro maggior merito (tradurre in atto il principio che la forza istituzionale dello Stato fosse scelta dal popolo) ed ha forzato la lettera della legge per negarne lo spirito animatore».



(1) La maggioranza nel referendum, Prof. Carlo Esposito ordinario di diritto costituzionale nell'Università di Padova (estratto dalla Giurisprudenza Italiana, 1946, Disp. li, parte I, Sez. 1.

(2) Bracci, Storia di una settimana, in «Il Ponte», II, 1948, pag. 605.

(3) Il precedente del referendum belga è sintomatico; Re Leopoldo Ottenne il 57% dei voti: l'interpretazione del Ministro Spaak fu un'offesa alla concezione democratica e la piazza prevalse sul diritto per lo spirito di abnegazione del Re.



domenica 23 agosto 2020

Fernando De Rosa, l’attentatore del Principe Umberto di Savoia nel 1929


 di Emilio Del  Bel Belluz .

I fatti accaduti spesso vengono trasformati dagli storici, dai giornalisti, perché sono guidati dall’ideologia politica. Il mondo muta ogni giorno, vediamo nuove intelligenze che pensano di sapere  tutto di qualsiasi argomento. Ricordo molto bene che all’Università di Trieste avevo conosciuto un professore che stimavo molto, si trattava del nobile Fulvio Crosara.  Le sue lezioni sarebbero dovute essere registrate e trascritte direttamente, ogni pagina sarebbe diventata una pagina di verità. Il vecchio professore era stato in gioventù un buon ufficiale del Re e ne andava fiero. Ricordo molto bene che una sera dopo che aveva finito la lezione, mi intrattenni  a parlare di storia. Il professore disse che aveva dedicato l’intera vita allo studio del Medioevo, ed era convinto d’aver imparato e conosciuto solo una piccola parte. Aveva la modestia di chi è saggio. In questi giorni dopo aver scritto qualche pagina sul vile attentato che costò la vita a Re Umberto I, mi venne tra le mani un giornale che raccontava dell’attentato contro l’allora Principe di Casa Savoia, Umberto, da parte di Fernando De Rosa. Il principe Umberto non aveva altro scopo in Belgio che quello di far visita alla sua fidanzata, la principessa Maria Josè. 
Quel giorno aveva voluto anche rendere omaggio al Milite Ignoto belga. La cerimonia aveva postato numerose persone, che a mala pena erano state transennate dai militari. Il principe era stato presentato alla folla ricevendo una grande ovazione, il calore dei belgi si era fatto sentire. In loro c’era l’orgoglio di imparentarsi con una delle dinastie  più vecchie d’Europa: i Savoia che avevano radici fin dal 1100. Nel momento più importante si è sentito un colpo di pistola, che ha richiamato l’attenzione. Uno degli agenti presenti con un balzo si buttò addosso all’attentatore e con un pugno riuscì a far deviare il colpo. Le cronache dicono che il principe Umberto non si fosse neppure scomposto, continuò la sua visita e tributò l’onore al Milite Ignoto, come se nulla fosse. Nessuno può dubitare della lucidità che ebbe Umberto, e quella freddezza che soli i forti hanno. 
Dopo l’attentato, appena giunto a conoscenza il  Re del Belgio, Alberto raggiungeva subito il principe nell’ambasciata d’Italia. Nella rivista socialista La Parola del Popolo  gennaio -marzo 1953 si trovano scritti l’odio per Casa Savoia, e l’odio per il Principe. Una totale difesa verso l’attentatore che non meritava l’aureola di santo. Nessuna violenza può avere delle giustificazioni. Leggendo queste pagine mi sono immerso nel mondo socialista e ne sono rimasto sconvolto, non riuscendo a capire la difesa dell’attentatore, anzi del martire che si immola per una giusta causa. Trascrivo con precisione quello che mi ripugna di più:

  “ La prima giornata fu riservata all’interrogatorio dell’imputato ed alle testimonianze a carico. Quando De Rosa si alza per parlare l’assemblea è vinta da un senso di commozione e di simpatia. Le ragioni, egli dice, che il 24 ottobre 1929 mi portarono a Bruxelles e mi indussero ad agire, ebbero origine da motivi così intimamente legati ad alcuni avvenimenti  della mia infanzia e della mia adolescenza che non potrei parlare della loro genesi senza dire in succinto quale è stata la mia vita”  Egli si rifà quindi alla sua adolescenza colpita nell’animo dalla strage di Torino, che fu la causa e l’inizio del suo antifascismo; la conoscenza di Gobetti, la sua maturazione socialista, fino alle sue ultime parole attinenti all’attentato di Bruxelles: “ E’ vero, ho voluto uccidere il principe ereditario di una Casa Regnante che aveva ucciso la libertà del mio Paese. Ho sentito che quando questo giovane principe si atteggiava a fascista, concedeva interviste a giornali Mussoliniani, vestiva l’uniforme fascista, era apertamente solidale con gli assassini di Matteotti. 
I principi  ben raramente in Italia partecipavano alle votazioni politiche, ma per l’ignobile truffa del plebiscito, il principe Umberto si recò ostentatamente a votare. Ho pensato ai carcerati, agli esuli, alle vittime ed ho voluto fare giustizia. Ma sono per questo un criminale? Invito i miei giudici ad uscire dalla tranquillità  sociale e di libertà del Belgio. In Italia si condannano persino i parenti dei coraggiosi che osano protestare, in Italia un  attentato non era possibile senza sacrificare le persone più care.  
L’attentato Zamboni insegna. Quel fatto mi aveva indotto a non parlare ad alcuno dei miei propositi. Capisco che la violenza è deplorevole  in Paese libero; ma dove manca la libertà essa è sacrosanta. Ho letto in carcere nei libri che nel criminale comune la ragione lo trattiene mentre l’istinto lo spinge a delinquere. In me l’istinto rifuggiva con orrore dal fatto di sangue, la ragione me lo imponeva come suprema opera di giustizia. Così, quando decisi di venire a Bruxelles, sapendo dell’arrivo del principe dovetti sostenere una lunga lotta con me stesso. Mi vinsi leggendo alcune pagine di Mazzini sul dovere di abbattere il tiranno, vinsi me stesso soprattutto pensando che il primo sacrificato sarei stato io. Non credevo di uscire vivo da quella piazza, non volevo fare altre vittime innocenti. E per questo che sparai il primo colpo solo per dilagare la folla che stava attorno al principe e farmi un varco che mi consentisse di avvicinarmi sino a cinque o sei metri. Non voglio negare  nessuna mia responsabilità. Mi misi a correre in avanti sempre tenendo l’arma in pugno gridando : viva Matteotti!  Uno sgambetto mi fece cadere, l’arma mi cadde di mano e poi … “ C’ est Tout.”  “Pure il Belgio aveva sentito il valore etico e politico che si sprigionava dal fatto e dal suo autore. Tutti ne parlavano e, ben diversamente da quanto avveniva in Italia in quel tempo, l’attentatore era circondato da una simpatia calda e solidale.  
Persino i “ benpensanti” erano convinti che se era necessaria una condanna per salvare il principio nessuno, salvo i pochi fascisti belgi al seguito di Leon Degrelle, era severo verso questo giovane italiano, nessuno si rifiutava di ammettere che l’autore, nel compiere il suo gesto, era stato animato soltanto dall’amore per la libertà del proprio Paese. V’era poi il dramma intimo che molti intuivano : Fernando De Rosa non aveva voluto uccidere, ma si dichiarava colpevole e cercava una condanna perché il suo atto conservasse tutta la potenza dimostrativa, che sarebbe stata diminuita da una sua assoluzione”. Il De Rosa venne condannato a cinque anni di reclusione, che si ridurranno poi a uno, con la buona condotta. Le uniche contestazioni al verdetto furono quelle dei fascisti di Leon Degrelle, che non accettavano il giudizio così clemente. Per i suoi avvocati era una vittoria dell’antifascismo. 
Il futuro Re d’Italia sapeva  quale strada difficile avrebbe dovuto percorrere. Il buon Umberto nel suo cuore spesso si domandava perché ci fosse tanto odio in certe persone, un sentimento che lui non aveva mai posseduto. L’odio alberga solo nelle persone povere di spirito e meschine. La vita del futuro Re non fu facile, e come si recita nella preghiera “Salve Regina”, anche lui incontrò la valle di lacrime.  “ A sua  madre scriveva : abbi coraggio, mia cara, tu devi pensare che non ho catene ma il calorifero. Nel Belgio si era rinunciato a quell’avanzo del  Medio Evo che è lo spirito di vendetta. Forest può essere considerata come una della migliori prigioni del mondo: il giornale, le conferenze, la musica ogni domenica e i libri! Non ho nessuna ragione per posare a martire. E credi tu che a un giovane non sia grande il conforto di avere veduto le lacrime agli occhi di Turati e tremare d’emozione Rossetti? L’amicizia di questi uomini valenti e buoni è una grande cosa; ma soprattutto sono contento perché ho constatato che in questo orribile tempo d’egoismo vi è ancora chi consacra la vita alla causa e che la nuova generazione rifiuterà di mangiare il pane della schiavitù”.  
Questa lettera fa seguito a una della madre, a cui va l’amore compreso per il figlio, nessuna madre condannerebbe un proprio figlio. Una donna che nella sua sofferenza non può trovare risposte. “ Il mio Fernando”, scrive la signora De Rosa, madre del martire, “ uscito dal carcere La Forest (Bruxelles) nel marzo 1932, fu ospite dell’avvocato Spaak per due mesi. Quindi espulso dal Belgio e dalla Francia, si rifugiò in Spagna.  Questa fotografia è l’ingrandimento della piccola fotografia applicata alla tessera  del Partito Socialista nel 1932. Aveva 24 anni.- La mamma .” Torino, 16 settembre 1952”.  Quello che non riesco a capire come mai il De Rosa fosse così amato da essere espulso dal Belgio e dalla Francia, e  quindi dovette rifugiarsi in Spagna dove partecipò alla guerra civile e vi morì .

venerdì 14 agosto 2020

14 agosto 1897: un duello dimenticato


di Domenico Giglio

Tra le tristi conseguenze della battaglia d’Adua del 1 marzo 1896 vi furono le migliaia di soldati italiani prigionieri degli abissini ed i commenti sfavorevoli nei loro confronti della stampa straniera, specie francese forse dimentica dei rovesci subiti in altre battaglie da truppe francesi ed inglesi in Africa. Uno dei commenti meno nobili fu scritto dal principe Enrico d’Orleans e pubblicato dall'importante quotidiano francese “Figaro”, il 21 aprile 1897. Ora non poteva rimanere senza risposta questa ignobile offesa ai soldati italiani e fu un principe di Casa Savoia (dinastia la peggiore in Europa come decenni dopo ebbe la sfrontatezza di scrivere un certo Romita!), Vittorio Emanuele, Conte di Torino, nipote del Re Umberto, in quanto figlio del fratello, Amedeo, Duca d’Aosta, ad esigere la riparazione, sfidando a duello, era l’uso dell’epoca, il principe francese. Dopo tutti i preliminari, secondo le regole cavalleresche, magistralmente riportati, dagli originali manoscritti nel volume fuori commercio, edito da Mondadori (senza data) grazie al contributo di Lucio Zanon di Valgiurata, dopo avere avuto l’autorizzazione alla pubblicazione da parte del Re, la mattina alle 5 del 14 agosto 1897, nel “Bois des Marechaux”, località vicino Parigi, avvenne lo scontro alla spada tra i due Principi. Dopo una scalfittura per parte al quinto assalto, la spada del Conte di Torino procurò unna ferita, non mortale, all’addome del principe francese, subito soccorso dai medici presenti, come riportato nel verbale “ayant reçu dans la parti inferieur droit de l’adomen un coup d’epeè”. Così con la vittoria del Principe Sabaudo terminò il duello che ebbe ampio risalto sulla stampa estera e nazionale, restituendo così onore al soldato italiano e prestigio al Regno d’Italia ed alla Casa Regnante, “lezione di onore di italianità, data da un Savoia”..


domenica 9 agosto 2020

Io difendo la Monarchia Cap IX - 7


Il diario Caviglia continua:
«Carboni esaltava lo sbarco americano a Salerno, che avrebbe costretto i tedeschi, egli affermava, a ritirarsi subito a nord di Roma.
- Questa è erba trastulla da propaganda - dissi « Osservai, che lo sbarco degli alleati a Salerno non portava alcun beneficio per la liberazione di Roma e dell'Italia dai tedeschi, che solo uno sbarco a nord di Roma avrebbe potuto essere utile per la liberazione della Capitale e dell'Italia Meridionale.
«Carboni disse che egli era in buone relazioni di amicizia col colonnello americano Taylor, e che con lui avrebbe, combinato uno sbarco a nord di Roma. Gli risposi di andarlo a raccontare alle cameriere degli alberghi. Carboni è frutto dei tempi — facciatosta; millantatore, pronto ad abbordare le buone posizioni, 'capace di darla ad intendere. Cori altra disciplina e sotto buoni capi, sarebbe diventato un bravo generale: ha delle qua­lità » (1). A giudizio di tutti, dunque, Roma non poteva essere difesa. E allora il Re doveva partire. Nel lasciare la Ca­pitale, su invito del Governo, egli non faceva che com­piere un atto del suo pesante ufficio; tanto più pesante per il Sovrano che fu tante volte nelle trincee dell'altra guerra e che, anche questa volta, conoscendo le bizzarre reazioni sentimentali del suo popolo e presagendo le spe­culazioni dei demagoghi non voleva in nessun modo allontanarsi dalla sua sede. È interessante notare che la prima violenta gazzarra contro il Sovrano si ebbe dai servi dei tedeschi. Furono i vari Romersa a scagliarsi alla radio contro il tradimento italiano e la fuga di Pe­scara. Vi fu purtroppo un maresciallo, per ignote ragioni non ancora processato, il quale iniziò la sua ultima avventura sotto panni tedeschi, con un violento atto di ac­cusa contro il suo Re e il suo Governo. Questo stesso maresciallo — il Graziani — si era congratulato, 24 ore prima di accettare il suo triste ufficio, con un valoroso generale, il Grazioli, che si era rifiutato di accettare il comando delle forze armate repubblicane. La fine di Cavallero gli aveva fatto forse mutare opinione e così a fondo da indurlo a pronunciare alla radio un discorso che non si ricorda senza rossore e senza vergogna per lui.Vi fu dunque tradimento? Tradimento, vogliamo di­re, dell'Italia verso la Germania? L'argomento è quasi ridicolo dopo sei anni di lotta del mondo civile contro un paese che tradì tutti i suoi patti e mancò a tutti i suoi impegni d'onore, ma poi che è stato affrontato e l'accusa è stata lanciata dall'uno all'altro lato della linea del Garigliano e di quella gotica conviene pure parlarne. Per non fare dell'accademia atteniamoci agli avvenimenti più vicini. L'Italia avrebbe tradito l'alleanza con la Germania perché il patto d'acciaio non prevedeva una pace separata? Ma questa è stata la situazione di tutte le alleanze di questa guerra. Neppure la Francia poteva trattare nel 194= un armistizio separato con i tedeschi. Churchill si precipitò in Francia a ricordare quell'impe­gno: offrì perfino un'unione indivisibile e perenne tra le Nazioni, ma il Governo di Parigi fece a suo modo, seguì quello che considerò l'interesse supremo del paese pur dopo soli 4o giorni di vera guerra e si arrese ai te­deschi. Oggi il Governo di Francia, ha posto tra le mag­giori Potenze come se- De Gaulle fosse al p&tere dal 1940 e non dal 1944. E che dire dell'alleanza anglo-turca dell'ottobre 1939 e delle sue vicissitudini! La Turchia non aiutò le nazioni alleate quando l'Italia intervenne portando la guerra nel Mediterraneo, e neppure quando attaccò la Grecia e neppure quando la Germania occupò la Jugoslavia, la Grecia, la Romania e la Bulgaria e l'Isola di Creta e minacciò, con l'Italia, Suez. A un certo punto anzi intervenne un accordo con la Germania; accordo divenuto, nei momenti di maggiore potenza del­l'Asse, tanto stretto da far pensare ad un intervento turco a favore della Germania. Se si farà il processo a von Papen ambasciatore di Hitler ad Ankara ne senti­remo delle belle. E la Romania e la Finlandia e l'Un­gheria non hanno mutato fronte come l'Italia. in piena guerra? In realtà una alleanza con la Germania, da parte d'un qualsiasi stato, non è sostenibile, perché essa, tra­disce fatalmente i suoi- amici come i suoi nemici. È un tradimento di natura organica, barbarico e perenne, im­manente e fatale, legato alla natura tedesca che consiste nell'aggredire i vicini per sedere alla loro tavola. Se non si stringe un patto con lei si è aggrediti per comprovata ostilità (vedi il caso del Belgio, dell’Olanda, della Norvegia, della Danimarca) se si stringe un patto si è stritolati dal suo meccanismo (vedi il caso dell'Austria, della Polonia, della Cecoslovacchia e dell'Italia). Guai a strin­gere un accordo con la Germania. Quella diplomazia ne altera immediatamente le formule, ne muta le interpre­tazioni, ne dimentica le premesse. Si ricordino le vicende del Patto d'acciaio. Quel patto fu stipulato dall'Italia per impedire che Hitler creasse nuovi fatti compiuti co­me quello di Vienna e di Praga senza consultarci e che scoppiasse una guerra europea prima di un periodo di tre anni. Ebbene, subito dopo, nonostante quel patto, la Germania attaccava la Polonia e scatenava il conflitto.
La Germania tradita dall'Italia? Non si può tratte­nere il riso quando l'accusa viene enunciata, ma poi si finisce con un moto di indignazione e di rancore. Ma co­noscono gli italiani la somma degli inganni, delle falsità, dei raggiri, delle impronte bugie di un Ribbentrop e di un Hitler? Conoscono le infinite assicurazioni circa la indipendenza austriaca tra il '933 e il 1937 e ricordano il colpo -di testa dell' Anschluss? Ricordano il Patto di Monaco e la sua violazione senza un cenno di preavviso e di allarme? Ricordano la misteriosa e perentoria chia­mata del Presidente Hacha a Berlino e. il suo appello in­comprensibile alla protezione tedesca?
E ancora si sente dire che via, a stretto rigore, sì, andiamo, noi abbiamo tradito i tedeschi. Ma quale eser­cito ha sparato per primo? L'italiano o il tedesco? Chi ha fatto ricorso ai più infami stratagemmi e ai più vieti tranelli nel settembre 1943? Ogni condizione posta e ac­cettata da un comando all'altro veniva subito smentita; la stessa tregua con «la città aperta » di Roma imme­diatamente violata; il suo comandante arrestato e de­portato, la città sfacciatamente invasa: Le divisioni ita­liane in Jugoslavia e in Grecia venivano disarmate con promessa di rimpatrio e poi deportate in Germania. Ogni inganno fu lecito allora, ogni abbandono ogni tradimento era stato possibile per tre anni su tutti i campi di battaglia comuni, in Africa come in Russia. No: non vi fu un tradimento italiano verso la Germania, ma una serie di tradimenti tedeschi verso l'Italia. E solo contro l'Italia? Ma quale paese, la Ger­mania hitleriana, non ha ingannato; quali patti essa ha rispettato, quali solenni dichiarazioni e promesse non ha immediatamente smentito con i fatti? Non c'è terra eu­ropea che non abbia sofferto un tradimento germanico e il processo che si sta facendo ai Goering, ai Ribbentrop e ai von Papen ne dà la prova.


(1)   (1) Il giorno prima il maresciallo aveva già parlato con Car­boni che egli non conosceva. Ecco la sua prima impressione. Si presentò il generale Carboni, in divisa. Il giorno avanti So-rice, al quale avevo chiesto qualche notizia su questo generale, mi aveva detto che era molto volitivo, e che si dava molto da fare. A me pareva di ricordare che fosse uno scrittore di arti­coli sui giornali quotidiani. In generale, questi militari giorna­listi sanno sfoggiare il loro genio strategico in forma attraente. Di media statura, ben fatta, simpatico, Carboni cominciò a dir­mi dove erano le sue divisioni, e come la divisione « Ariete » si trovasse verso Viterbo in contrasto con una panzer division; che vi era stato uno scontro, che la divisione tedesca aveva avuto gravi perdite e che egli speculava su questo successo per ottenere da Kesselring buoni risultati nelle trattative. Mi ven­ne il dubbio che fosse un bagolone. Dove sono ora le sue divi­sioni? Erano in movimento ai 4 punti cardinali intorno a Roma. Io gli feci notare che avrebbero dovuto essere raccolte nella sua mano. Ma un ordine di Roatta aveva disposto da tempo che le quattro divisioni dovessero difendere Roma su tutte le strade affluenti alla Capitale. Pensai che questa disposizione di Roatta fosse un reliquato delle precauzioni prese da tempo, quando il governo Badoglio temeva che Hitler, malcontento per la deposizione dal potere di Mussolini, volesse far occupare Roma dalle truppe germaniche. Non insistetti su quell'ordine, ma chiesi a Carboni, notizie sullo stato materiale e morale delle sue divisioni. Egli si soffermò soprattutto sulla divisione «Centauro». Questa era costituita con battaglioni «M», ed era fa­vorevole ai tedeschi. La comandava il generale Calvi di Bergolo, secondo Carboni, filotedesco, per esser stato con Rommel in Li­bia. Anche lo stato maggiore della «Centauro» era favorevole ai tedeschi. Mi era nota una divergenza di vedute fra i vari generali ed i vari stati maggiori. Vi erano generali, come Ge­loso, e vi erano reggimenti e divisioni che si consideravano fra­telli d'armi con le truppe tedesche. Geloso mi aveva in altra occasione detto : « Un esercito ed una nazione possono perdere una guerra, ma dopo si rialzano e riprendono il loro posto nel mondo. Ma quando si perde l'onore, ci vogliono secoli di valore, di fedeltà, e di onestà per riacquistarlo». Sorice era filoinglese. Egli mi indicava il colonnello Giaccone, capo di stato maggiore della «Centauro», come tedescofilo, cosicché, diceva, favoriva le operazioni di Kesselring. Carboni aveva domandato a Calvi se le sue truppe si sarebbero battute contro i tedeschi, e Calvi aveva risposto che era molto difficile. Allora Carboni gli aveva ordinato di lasciare il comando della «Centauro». Come mai Carboni si era accorto solo in quel momento dello stato d'ani­mo della «Centauro»? A chi avrebbe dato in quel momento il comando di quella divisione? Bastava questo cambiamento a mutare l'animo delle truppe? Fortunatamente Calvi non rice­vette l'ordine, e non ne tenne conto. Però questo incidente o qualche altra notizia avuta successivamente, mi fecero pensare che Carboni non avesse molto autorità, né prestigio sui suoi divisionari.