I fatti accaduti spesso
vengono trasformati dagli storici, dai giornalisti, perché sono guidati
dall’ideologia politica. Il mondo muta ogni giorno, vediamo nuove intelligenze
che pensano di sapere tutto di qualsiasi
argomento. Ricordo molto bene che all’Università di Trieste avevo conosciuto un
professore che stimavo molto, si trattava del nobile Fulvio Crosara. Le sue lezioni sarebbero dovute essere
registrate e trascritte direttamente, ogni pagina sarebbe diventata una pagina
di verità. Il vecchio professore era stato in gioventù un buon ufficiale del Re
e ne andava fiero. Ricordo molto bene che una sera dopo che aveva finito la
lezione, mi intrattenni a parlare di
storia. Il professore disse che aveva dedicato l’intera vita allo studio del
Medioevo, ed era convinto d’aver imparato e conosciuto solo una piccola parte.
Aveva la modestia di chi è saggio. In questi giorni dopo aver scritto qualche
pagina sul vile attentato che costò la vita a Re Umberto I, mi venne tra le
mani un giornale che raccontava dell’attentato contro l’allora Principe di Casa
Savoia, Umberto, da parte di Fernando De Rosa. Il principe Umberto non aveva
altro scopo in Belgio che quello di far visita alla sua fidanzata, la
principessa Maria Josè.
Quel giorno aveva voluto anche rendere omaggio al
Milite Ignoto belga. La cerimonia aveva postato numerose persone, che a mala
pena erano state transennate dai militari. Il principe era stato presentato
alla folla ricevendo una grande ovazione, il calore dei belgi si era fatto
sentire. In loro c’era l’orgoglio di imparentarsi con una delle dinastie più vecchie d’Europa: i Savoia che avevano
radici fin dal 1100. Nel momento più importante si è sentito un colpo di
pistola, che ha richiamato l’attenzione. Uno degli agenti presenti con un balzo
si buttò addosso all’attentatore e con un pugno riuscì a far deviare il colpo.
Le cronache dicono che il principe Umberto non si fosse neppure scomposto,
continuò la sua visita e tributò l’onore al Milite Ignoto, come se nulla fosse.
Nessuno può dubitare della lucidità che ebbe Umberto, e quella freddezza che
soli i forti hanno.
Dopo l’attentato, appena giunto a conoscenza il Re del Belgio, Alberto raggiungeva subito il
principe nell’ambasciata d’Italia. Nella rivista socialista La Parola del
Popolo gennaio -marzo 1953 si trovano
scritti l’odio per Casa Savoia, e l’odio per il Principe. Una totale difesa
verso l’attentatore che non meritava l’aureola di santo. Nessuna violenza può
avere delle giustificazioni. Leggendo queste pagine mi sono immerso nel mondo
socialista e ne sono rimasto sconvolto, non riuscendo a capire la difesa
dell’attentatore, anzi del martire che si immola per una giusta causa. Trascrivo
con precisione quello che mi ripugna di più:
“ La prima giornata fu riservata
all’interrogatorio dell’imputato ed alle testimonianze a carico. Quando De Rosa
si alza per parlare l’assemblea è vinta da un senso di commozione e di
simpatia. Le ragioni, egli dice, che il 24 ottobre 1929 mi portarono a
Bruxelles e mi indussero ad agire, ebbero origine da motivi così intimamente
legati ad alcuni avvenimenti della mia
infanzia e della mia adolescenza che non potrei parlare della loro genesi senza
dire in succinto quale è stata la mia vita”
Egli si rifà quindi alla sua adolescenza colpita nell’animo dalla strage
di Torino, che fu la causa e l’inizio del suo antifascismo; la conoscenza di
Gobetti, la sua maturazione socialista, fino alle sue ultime parole attinenti
all’attentato di Bruxelles: “ E’ vero, ho voluto uccidere il principe
ereditario di una Casa Regnante che aveva ucciso la libertà del mio Paese. Ho
sentito che quando questo giovane principe si atteggiava a fascista, concedeva
interviste a giornali Mussoliniani, vestiva l’uniforme fascista, era
apertamente solidale con gli assassini di Matteotti.
I principi ben raramente in Italia partecipavano alle
votazioni politiche, ma per l’ignobile truffa del plebiscito, il principe
Umberto si recò ostentatamente a votare. Ho pensato ai carcerati, agli esuli,
alle vittime ed ho voluto fare giustizia. Ma sono per questo un criminale?
Invito i miei giudici ad uscire dalla tranquillità sociale e di libertà del Belgio. In Italia si
condannano persino i parenti dei coraggiosi che osano protestare, in Italia
un attentato non era possibile senza
sacrificare le persone più care.
L’attentato Zamboni insegna. Quel fatto mi aveva indotto a non parlare
ad alcuno dei miei propositi. Capisco che la violenza è deplorevole in Paese libero; ma dove manca la libertà essa
è sacrosanta. Ho letto in carcere nei libri che nel criminale comune la ragione
lo trattiene mentre l’istinto lo spinge a delinquere. In me l’istinto rifuggiva
con orrore dal fatto di sangue, la ragione me lo imponeva come suprema opera di
giustizia. Così, quando decisi di venire a Bruxelles, sapendo dell’arrivo del
principe dovetti sostenere una lunga lotta con me stesso. Mi vinsi leggendo
alcune pagine di Mazzini sul dovere di abbattere il tiranno, vinsi me stesso
soprattutto pensando che il primo sacrificato sarei stato io. Non credevo di
uscire vivo da quella piazza, non volevo fare altre vittime innocenti. E per
questo che sparai il primo colpo solo per dilagare la folla che stava attorno
al principe e farmi un varco che mi consentisse di avvicinarmi sino a cinque o
sei metri. Non voglio negare nessuna mia
responsabilità. Mi misi a correre in avanti sempre tenendo l’arma in pugno
gridando : viva Matteotti! Uno sgambetto
mi fece cadere, l’arma mi cadde di mano e poi … “ C’ est Tout.” “Pure il Belgio aveva sentito il valore etico
e politico che si sprigionava dal fatto e dal suo autore. Tutti ne parlavano e,
ben diversamente da quanto avveniva in Italia in quel tempo, l’attentatore era
circondato da una simpatia calda e solidale.
Persino i “ benpensanti” erano convinti che se era necessaria una
condanna per salvare il principio nessuno, salvo i pochi fascisti belgi al
seguito di Leon Degrelle, era severo verso questo giovane italiano, nessuno si
rifiutava di ammettere che l’autore, nel compiere il suo gesto, era stato
animato soltanto dall’amore per la libertà del proprio Paese. V’era poi il
dramma intimo che molti intuivano : Fernando De Rosa non aveva voluto uccidere,
ma si dichiarava colpevole e cercava una condanna perché il suo atto
conservasse tutta la potenza dimostrativa, che sarebbe stata diminuita da una
sua assoluzione”. Il De Rosa venne condannato a cinque anni di reclusione, che
si ridurranno poi a uno, con la buona condotta. Le uniche contestazioni al
verdetto furono quelle dei fascisti di Leon Degrelle, che non accettavano il
giudizio così clemente. Per i suoi avvocati era una vittoria dell’antifascismo.
Il futuro Re d’Italia sapeva quale
strada difficile avrebbe dovuto percorrere. Il buon Umberto nel suo cuore
spesso si domandava perché ci fosse tanto odio in certe persone, un sentimento
che lui non aveva mai posseduto. L’odio alberga solo nelle persone povere di
spirito e meschine. La vita del futuro Re non fu facile, e come si recita nella
preghiera “Salve Regina”, anche lui incontrò la valle di lacrime. “ A sua
madre scriveva : abbi coraggio, mia cara, tu devi pensare che non ho
catene ma il calorifero. Nel Belgio si era rinunciato a quell’avanzo del Medio Evo che è lo spirito di vendetta.
Forest può essere considerata come una della migliori prigioni del mondo: il
giornale, le conferenze, la musica ogni domenica e i libri! Non ho nessuna
ragione per posare a martire. E credi tu che a un giovane non sia grande il
conforto di avere veduto le lacrime agli occhi di Turati e tremare d’emozione
Rossetti? L’amicizia di questi uomini valenti e buoni è una grande cosa; ma
soprattutto sono contento perché ho constatato che in questo orribile tempo
d’egoismo vi è ancora chi consacra la vita alla causa e che la nuova
generazione rifiuterà di mangiare il pane della schiavitù”.
Questa lettera fa seguito a una della madre,
a cui va l’amore compreso per il figlio, nessuna madre condannerebbe un proprio
figlio. Una donna che nella sua sofferenza non può trovare risposte. “ Il mio
Fernando”, scrive la signora De Rosa, madre del martire, “ uscito dal carcere
La Forest (Bruxelles) nel marzo 1932, fu ospite dell’avvocato Spaak per due
mesi. Quindi espulso dal Belgio e dalla Francia, si rifugiò in Spagna. Questa fotografia è l’ingrandimento della
piccola fotografia applicata alla tessera
del Partito Socialista nel 1932. Aveva 24 anni.- La mamma .” Torino, 16
settembre 1952”. Quello che non riesco a
capire come mai il De Rosa fosse così amato da essere espulso dal Belgio e
dalla Francia, e quindi dovette
rifugiarsi in Spagna dove partecipò alla guerra civile e vi morì .
Nessun commento:
Posta un commento