Il
diario Caviglia continua:
«Carboni
esaltava lo sbarco americano a Salerno, che avrebbe costretto i tedeschi, egli
affermava, a ritirarsi subito a nord di Roma.
-
Questa è erba trastulla da propaganda - dissi « Osservai, che lo sbarco degli
alleati a Salerno non portava alcun beneficio per la liberazione di Roma e
dell'Italia dai tedeschi, che solo uno sbarco a nord di Roma avrebbe potuto
essere utile per la liberazione della Capitale e dell'Italia Meridionale.
«Carboni
disse che egli era in buone relazioni di amicizia col colonnello americano
Taylor, e che con lui avrebbe, combinato uno sbarco a nord di Roma. Gli risposi
di andarlo a raccontare alle cameriere degli alberghi. Carboni è frutto dei
tempi — facciatosta; millantatore, pronto ad abbordare le buone posizioni,
'capace di darla ad intendere. Cori altra disciplina e sotto buoni capi, sarebbe diventato un bravo
generale: ha delle qualità » (1). A giudizio di tutti, dunque, Roma non poteva essere difesa. E allora il
Re doveva partire. Nel lasciare la Capitale, su invito del Governo, egli non
faceva che compiere un atto del suo pesante ufficio; tanto più pesante per il
Sovrano che fu tante volte nelle trincee dell'altra guerra e che, anche questa
volta, conoscendo le bizzarre reazioni sentimentali del suo popolo e presagendo
le speculazioni dei demagoghi non voleva in nessun modo allontanarsi dalla sua
sede. È interessante notare che la prima violenta gazzarra contro il Sovrano si
ebbe dai servi dei tedeschi. Furono i vari Romersa a scagliarsi alla radio
contro il tradimento italiano e la fuga di Pescara. Vi fu purtroppo un
maresciallo, per ignote ragioni non ancora processato, il quale iniziò la sua
ultima avventura sotto
panni tedeschi, con un violento atto di accusa contro il suo Re e il suo
Governo. Questo stesso maresciallo — il Graziani — si era congratulato, 24 ore
prima di accettare il suo triste ufficio, con un valoroso generale, il
Grazioli, che si era rifiutato di accettare il comando delle forze armate
repubblicane. La fine di Cavallero gli aveva fatto forse mutare opinione e così
a fondo da indurlo a pronunciare alla radio un discorso che non si ricorda
senza rossore e senza vergogna per lui.Vi fu
dunque tradimento? Tradimento, vogliamo dire, dell'Italia verso la Germania?
L'argomento è quasi ridicolo dopo sei anni di lotta del mondo civile contro un
paese che tradì tutti i suoi patti e mancò a tutti i suoi impegni d'onore, ma
poi che è stato affrontato e l'accusa è stata lanciata dall'uno all'altro lato
della linea del Garigliano e di quella gotica conviene pure parlarne. Per non
fare dell'accademia atteniamoci agli avvenimenti più vicini. L'Italia avrebbe tradito l'alleanza con
la Germania perché il patto d'acciaio non prevedeva una pace separata? Ma
questa è stata la situazione di tutte le alleanze di questa guerra. Neppure la
Francia poteva trattare nel 194= un armistizio separato con i tedeschi.
Churchill si precipitò in Francia a ricordare quell'impegno: offrì perfino
un'unione indivisibile e perenne tra le Nazioni, ma il Governo di Parigi fece a
suo modo, seguì quello che considerò l'interesse supremo del paese pur dopo
soli 4o giorni di vera guerra e si arrese ai tedeschi. Oggi il Governo di
Francia, ha posto tra le maggiori Potenze come se- De Gaulle fosse
al p&tere dal 1940 e non dal 1944. E che dire dell'alleanza anglo-turca
dell'ottobre 1939 e delle sue vicissitudini! La Turchia non aiutò le nazioni
alleate quando l'Italia intervenne portando la guerra nel Mediterraneo, e
neppure quando attaccò la Grecia e neppure quando la Germania occupò la
Jugoslavia, la Grecia, la Romania e la Bulgaria e l'Isola di Creta e minacciò,
con l'Italia, Suez. A un certo punto anzi intervenne un accordo con la
Germania; accordo
divenuto, nei momenti di maggiore potenza dell'Asse, tanto stretto da far
pensare ad un intervento turco a favore della Germania. Se si farà il processo
a von Papen ambasciatore di Hitler ad Ankara ne sentiremo delle belle. E la
Romania e la Finlandia e l'Ungheria non hanno mutato fronte come l'Italia. in
piena guerra? In realtà una alleanza con la Germania, da parte d'un qualsiasi
stato, non è sostenibile, perché essa, tradisce fatalmente i suoi- amici come
i suoi nemici. È un tradimento di natura organica, barbarico e perenne, immanente
e fatale, legato alla natura tedesca che consiste nell'aggredire i vicini per
sedere alla loro tavola. Se non si stringe un patto con lei si è aggrediti per
comprovata ostilità (vedi il caso del Belgio, dell’Olanda, della Norvegia,
della Danimarca) se si stringe un patto si è stritolati dal suo meccanismo (vedi il caso dell'Austria, della
Polonia, della Cecoslovacchia e dell'Italia). Guai a stringere un accordo con
la Germania. Quella diplomazia ne altera immediatamente le formule, ne muta le
interpretazioni, ne dimentica le premesse. Si ricordino le vicende del Patto
d'acciaio. Quel patto fu stipulato dall'Italia per impedire che Hitler creasse
nuovi fatti compiuti come quello di Vienna e di Praga senza consultarci e che
scoppiasse una guerra europea prima di un periodo di tre anni. Ebbene, subito
dopo, nonostante quel patto, la Germania attaccava la Polonia e scatenava il
conflitto.
La
Germania tradita dall'Italia? Non si può trattenere il riso quando l'accusa
viene enunciata, ma poi si finisce con un moto di indignazione e di rancore. Ma
conoscono gli italiani la somma degli inganni, delle falsità, dei raggiri,
delle impronte bugie di un Ribbentrop e di un Hitler? Conoscono le infinite
assicurazioni circa la indipendenza austriaca tra il '933 e il 1937
e ricordano il colpo -di testa dell' Anschluss? Ricordano il Patto di
Monaco e la sua violazione senza un cenno di preavviso e di allarme? Ricordano
la misteriosa e perentoria chiamata del Presidente Hacha a Berlino e. il suo
appello incomprensibile alla protezione tedesca?
E ancora si sente dire che via, a stretto
rigore, sì, andiamo, noi abbiamo tradito i tedeschi. Ma quale esercito ha
sparato per primo? L'italiano o il tedesco? Chi ha fatto ricorso ai più infami
stratagemmi e ai più vieti tranelli nel settembre 1943? Ogni
condizione posta e accettata da un comando all'altro veniva subito smentita;
la stessa tregua con «la città aperta » di Roma immediatamente violata; il suo
comandante arrestato e deportato, la città sfacciatamente invasa: Le divisioni
italiane in Jugoslavia e in Grecia venivano disarmate con promessa di rimpatrio
e poi deportate in Germania. Ogni inganno fu lecito allora, ogni abbandono ogni tradimento era stato possibile
per tre anni su tutti i campi di battaglia comuni, in Africa come in Russia.
No: non vi fu un tradimento italiano verso la Germania, ma una serie di
tradimenti tedeschi verso l'Italia. E solo contro l'Italia? Ma quale paese, la
Germania hitleriana, non ha ingannato; quali patti essa ha rispettato, quali
solenni dichiarazioni e promesse non ha immediatamente smentito con i fatti?
Non c'è terra europea che non abbia sofferto un tradimento germanico e il
processo che si sta facendo ai Goering, ai Ribbentrop e ai von Papen ne dà la
prova.
(1) (1) Il giorno prima il maresciallo aveva già parlato con Carboni che egli
non conosceva. Ecco la sua prima impressione. Si presentò il generale Carboni,
in divisa. Il giorno avanti So-rice, al quale avevo chiesto qualche notizia su
questo generale, mi aveva detto che era molto volitivo, e che si dava molto da
fare. A me pareva di ricordare che fosse uno scrittore di articoli sui
giornali quotidiani. In generale, questi militari giornalisti sanno sfoggiare
il loro genio strategico in forma attraente. Di media statura, ben fatta,
simpatico, Carboni cominciò a dirmi dove erano le sue divisioni, e come la
divisione « Ariete » si trovasse verso Viterbo in contrasto con una panzer
division; che vi era stato uno scontro, che la divisione tedesca aveva
avuto gravi perdite e che egli speculava su questo successo per ottenere da
Kesselring buoni risultati nelle trattative. Mi venne il dubbio che fosse
un bagolone. Dove sono ora le sue divisioni? Erano in movimento ai 4 punti
cardinali intorno a Roma. Io gli feci notare che avrebbero dovuto essere
raccolte nella sua mano. Ma un ordine di Roatta aveva disposto da tempo che le
quattro divisioni dovessero difendere Roma su tutte le strade affluenti alla
Capitale. Pensai che questa disposizione di Roatta fosse un reliquato delle
precauzioni prese da tempo, quando il governo Badoglio temeva che Hitler,
malcontento per la deposizione dal potere di Mussolini, volesse far occupare
Roma dalle truppe germaniche. Non insistetti su quell'ordine, ma chiesi a
Carboni, notizie sullo stato materiale e morale delle sue divisioni. Egli si soffermò
soprattutto sulla divisione «Centauro». Questa era costituita con battaglioni «M», ed era favorevole ai
tedeschi. La comandava il generale Calvi di Bergolo, secondo Carboni,
filotedesco, per esser stato con Rommel in Libia. Anche lo stato maggiore
della «Centauro» era favorevole ai tedeschi. Mi era nota una divergenza di
vedute fra i vari generali ed i vari stati maggiori. Vi erano generali, come Geloso,
e vi erano reggimenti e divisioni che si consideravano fratelli d'armi con le
truppe tedesche. Geloso mi aveva in altra occasione detto : « Un esercito ed
una nazione possono perdere una guerra, ma dopo si rialzano e riprendono il
loro posto nel mondo. Ma quando si perde l'onore, ci vogliono secoli di valore,
di fedeltà, e di onestà per riacquistarlo». Sorice era filoinglese. Egli mi
indicava il colonnello Giaccone, capo di stato maggiore della «Centauro», come
tedescofilo, cosicché, diceva, favoriva le operazioni di Kesselring. Carboni
aveva domandato a Calvi se le sue truppe si sarebbero battute contro i tedeschi,
e Calvi aveva risposto che era molto difficile. Allora Carboni gli aveva
ordinato di lasciare il comando della «Centauro». Come mai Carboni si era
accorto solo in quel momento dello stato d'animo della «Centauro»? A chi
avrebbe dato in quel momento il comando di quella divisione? Bastava questo
cambiamento a mutare l'animo delle truppe? Fortunatamente Calvi non ricevette
l'ordine, e non ne tenne conto. Però questo incidente o qualche altra notizia
avuta successivamente, mi fecero pensare che Carboni non avesse molto autorità,
né prestigio sui suoi divisionari.
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