di Aldo A. Mola
Centenario
L'interrogativo è antico: il Paese è migliore
di chi lo rappresenta o viceversa? Si stava meglio quando si stava peggio? Per
uscire dal dubbio, giova confrontare lo spettacolo offerto da tanti
parlamentari odierni con quelli del buon tempo antico. Non è patetica nostalgia
da laudatores temporis acti, una fuga
nel passato per eludere i mutamenti intervenuti negli anni recenti, la
loro presunta necessità (o fatalità) e così sottrarsi all'obbligo di fare i
conti col divenire. La domanda è un'altra: come mai in tempi neppure tanto
remoti e in circostanze niente affatto facili, l'Italia ebbe una dirigenza di
statura europea, invidiabile per preparazione, dedizione e onestà personale?
E' questione di meridiani e di paralleli? O di
natura politica? Di strumenti normativi atti a formare una classe dirigente che
non tragga idee solo dagli album di Topolino, come sarcasticamente avvertito da
Ernesto Galli della Loggia sulla scia di Sabino Cassese, Stefano Folli e altri
costituzionalisti e politologi senza
paraocchi partitici né pregiudiziali ideologiche.
Il confronto tra presente e passato è
indispensabile a cospetto di un presidente del Consiglio, il prof. Giuseppe
Conte, insediato nei giorni turbolenti di richieste di “incriminazione” del
presidente della Repubblica, di gesti scomposti, di un “accordo per il governo”
tra Lega e M5S dai contenuti anche incostituzionali, senza che dal Colle
arrivassero i mòniti necessari a disinnescarne la pericolosità.
Un giureconsulto di talento “prestato” alla
politica
Tra i tanti possibili modelli della dirigenza
dl tempo che fu (e che auspichiamo torni, come sempre è accaduto, sia pure a
distanza di secoli) proponiamo Enrico De
Nicola, che giusto cent'anni fa, il 26 giugno 1920, fu eletto presidente della
Camera dei deputati. Pochi giorni prima, il presidente del Consiglio, Giovanni
Giolitti, lo invitò a casa sua, un appartamento in affitto a Roma, affacciato
su via Cavour, non lontano dalla Stazione Termini. Gli lesse l'elenco dei
ministri del governo che stava per presentare alla Camera. Comprendeva liberali di varia ascrizione,
democratici, ex socialisti riformisti, come Ivanoe Bonomi, ministro della
Guerra, e cattolici, non perché eletti nelle file del Partito popolare italiano
capeggiato da don Luigi Sturzo (“prete intrigante” a giudizio dello Statista)
ma perché patrioti. Non gli disse altro. La sorpresa venne all'apertura della
sessione parlamentare. Su impulso di Giolitti De Nicola fu eletto
presidente con 236 preferenze su 374
presenti. Un plebiscito, visto che gli mancarono solo i suffragi dei socialisti
e dei repubblicani, cioè di partii anti-sistema. De Nicola contava appena 42
anni. Pochi, all'epoca, per una carica così alta. Ma alle spalle aveva già un
lungo e prestigioso cursus honorum e professionale.
Nato a
Napoli il 9 novembre 1877, si laureò in legge a 19 anni. Iscritto per concorso
all'albo degli avvocati dal 1898, si affermò rapidamente. Molti penalisti
dell'epoca erano famosi per le perorazioni infiorate di lenocini retorici,
commentate dal pubblico con tanti “Come ha parlato bene!” ma stroncate dalle
corti che ne condannavano i clienti. De Nicola spiccò invece per sobrietà.
Andava al punto. Era un eccellente “tecnico” del diritto, nella miglior
tradizione della Scuola giuridica partenopea: Enrico Pessina, Giorgio Arcoleo,
Gennaro Marciano, Gaspare Colosimo (tutti politici di rango) e Pietro Rosano.
Questi mostrò la sua tempra d'acciaio quando, appena nominato ministro nel secondo governo
Giolitti, divenne bersaglio di una campagna scandalistica su un suo congiunto.
Nel timore che la diffamazione potesse coinvolgerlo e da lui arrivare a colpire
Giolitti, che dieci anni prima era stato ingiustamente travolto dallo “scandalo
della Banca Romana” (un pasticcio non ancora risolto dalla storiografia), mandò una lettera allo Statista pregandolo di
salutare per lui tutti i colleghi “di una settimana” e di averlo sempre caro e
si sparò. Era il 9 novembre 1903. Aveva
55 anni e una splendida carriera dinnanzi a sé. Uno stoico.
Nel 1907 De Nicola fu eletto consigliere
comunale di Napoli. La città doveva risalire la china, alla luce dell'Inchiesta
condotta dalla Commissione presieduta dal senatore Giuseppe Saredo al quale
Giolitti conferì un mandato preciso: non guardare in faccia nessuno, non cedere
ad alcuna pressione. Come attestano i suoi Atti, ripubblicati dall'Istituto Italiano
per gli Studi Filosofici (Napoli, Palazzo Serra di Cassano, via Monte di Dio
14), ne scaturì il ritratto veridico della corruzione dilagante e dei possibili
rimedi: poiché la camorra era opera dell'uomo, altri uomini potevano
sconfiggerla. Nel 1909 il trentaduenne De Nicola fu eletto deputato dal
collegio di Afragola. Prevalse sul deputato uscente, Luigi Simeoni, che si
presentava come giolittiano. Ma lo Statista non badava alle etichette, bensì
alla sostanza. In Aula il neodeputato parlò solo su questioni di sua sicura
competenza. Interventi brevi, limpidi apprezzati da Giolitti. A un neoeletto
che gli domandò come dovesse condursi lo Statista rispose che doveva alzarsi,
dire quello che doveva e mettersi a sedere. Erano finiti i tempi nei quali i singoli
interventi a volte duravano molte ore, persino in più sedute. I lavori
parlamentari erano “sgrossati” da Uffici e
Commissioni, dalle relazioni di presentazione dei disegni di legge e
dagli allegati di accompagnamento. In Aula bisognava andare al dunque. Il 31
maggio 1912 De Nicola si fece apprezzare per l'intervento sulla riforma del
codice di procedura penale: un tema che non consentiva chiacchiere. Il 29
ottobre dell'anno seguente, quando si sperimentò il suffragio quasi universale
maschile, ma sempre in collegi uninominali
a doppio turno, fu confermato con votazione lusinghiera.
Il 27
novembre Giolitti lo volle sottosegretario al ministero delle Colonie, di
recentissima costituzione. Lo statista assegnò il dicastero a Pietro Bertolini,
che lo aveva affiancato nei mesi difficili della guerra contro l'impero turco
per la sovranità dell'Italia sulla Libia e per la liberazione di Rodi e del
Dodecanneso. Sennonché il titolare di Poste e Telegrafi, Teobaldo Calissano,
morì d'improvviso mentre pronunciava un discorso elettorale nel suo collegio di
Alba. Quel tragico destino mutò l'assegnazione dei titolari dei ministeri ai
quali Giolitti teneva: Gaspare Colosimo
fu promosso da sottosegretario alle Colonie a titolare delle Poste, sino a quel
momento di Calissano, e al suo posto il
27 novembre venne chiamato il
trentacinquenne De Nicola. L'incarico
era delicatissimo perché bisognava dare un ordinamento giuridico d'avanguardia
alla nuova colonia, proprio per mostrare al mondo la modernità del “modello italiano”,
altra cosa rispetto alla colonizzazione ottocentesca ancora praticata da
Portogallo, Spagna, Paesi Bassi e dal pessimo Belgio.
De Nicola dette ottima prova. Come Giolitti, il
conterraneo Benedetto Croce, il vicepresidente del Senato Antonio Cefaly,
calabrese, e altri insigni meridionali anch'egli fu contrario all'intervento
dell'Italia nella Grande Guerra. Se destinate alle armi, le risorse del Paese
sarebbero state sottratte alla lunga e saggia opera di sviluppo delle regioni
più arretrate a tutto danno della vera
unità nazionale e delle istituzioni. Nel Mezzogiorno sarebbero tornati a
soffiare i venti della dissidenza e della sfiducia nello Stato, contro l
monarchia, che contava nemici mortali antichi e nuovi. Nondimeno, quando
l'Italia entrò in guerra, egli ne sostenne lealmente l'impegno sino alla
Vittoria. Non per caso Vittorio Emanuele Orlando lo volle sottosegretario al Tesoro
all'indomani del disastro di Caporetto.
Al di sopra della mischia
Nelle elezioni del 16 novembre 1919, svolte con
la proporzionale, De Nicola fu rieletto nella circoscrizione Campania con il
più alto numero di preferenze tra i candidati liberali.
Da presidente della Camera, in linea con
Giolitti, mirò ad arginare gli opposti estremismi, se non nel Paese, preda
della scioperomania dell'estrema sinistra e poi dell'uso spregiudicato delle
“squadre” da parte di agrari e, dopo l'occupazione delle fabbriche (settembre
1920), anche da parte di industriali, almeno alla Camera. Ne nacque il “patto
di pacificazione” sottoscritto nella
sala del Consiglio dei ministri dai rappresentanti dei fascisti, dei socialisti
e dei sindacati “di sinistra Morgari,
Baldesi e Mussolini , l'ex socialrivoluzionario che si attirò gli strali di
Roberto Farinacci e Dino Gradi: Chi ha tradito, tradirà”. A soianare la via al
patto, d'intesa con De Nicola, furono che il social-utopista Tito Zaniboni
(nessuna prova che fosse affiliato al Grande Oriente d'Italia) e il fascista
Giacomo Acerbo, massone della Gran Loggia d'Italia. De Nicola si valse anche
della abile mediazione del frusinate Achille Visocchi, già suo collega al
Tesoro e poi ministro dell'Agricoltura.
L'esercizio della delicatissima carica lo
sottrasse alla professione forense, sua unica fonte di reddito. All'epoca, va
ricordato, i deputati ricevevano una modesta indennità e viaggiavano gratis
sulle ferrovie dello Stato, senza mai abusarne. Quando una volta scoprì che
alla figlia Enrichetta era stato riservato un posto prepagato in treno,
Giolitti lo fece cancellare perché, osservò rabbuiato, “non esiste la carica di
figlia del presidente del Consiglio”. Severo con sé come con i colleghi, De
Nicola conduceva vita ascetica. Concorse a innovare i lavori parlamentari valorizzando le Commissioni parlamentari, formate non più per
sorteggio ma su indicazione dei gruppi parlamentari. Esse ebbero anche il
potere di chiedere la convocazione della Camera. Se questo fosse stato attivato
nel settembre-ottobre 1922, come reiteratamente chiesto da Vittorio Emanuele
III al presidente del Consiglio Luigi Facta, la crisi politica sarebbe stata
subito instradata sui binari della parlamentarizzazione. Ne scrisse
appassionatamente Mario Viana in “Monarchia e fascismo” (1954). La cosiddetta
“marcia su Roma” non sarebbe stata neppure minacciata. Il 24 ottobre 1922 De
Nicola inviò un telegramma alla riunione dei fascisti al Teatro San Carlo di
Napoli : un messaggio di prammatica, altra cosa rispetto a Benedetto Croce che
andò di persona ad assistere ai lavori con la curiosità dello storico
dell'Italia liberale, attratto dallo “spettacolo”.
All'indomani dell'insediamento del governo di
coalizione statutaria presieduto da Mussolini (31 ottobre 1922), De Nicola fece
ampia apertura di credito al pari di altri liberali, quali Salandra, Orlando e
lo stesso Giolitti. Nel 1924 fu candidato nella Lista nazionale che conquistò
due terzi dei seggi perché ottenne circa il 66% dei suffragi. Li avrebbe avuti
anche senza la nuova legge elettorale,
che li assegnava al partito che avesse raggiunto il 25% dei voti (Mussolini non
credeva al successo straripante, frutto degli umori dell'elettorato già allora vagante dall'uno all'altro
schieramento).
All'ultimo giorno De Nicola si sfilò e non
pronunciò l'atteso discorso, il cui testo, però, uscì a stampa. A suo avviso il
fascismo era sorto “come protesta contro un eccesso di violenza sovvertitrice
della vita nazionale” e si era affermato “come protesta contro un eccesso di
instabilità e di atonia dei governi”. A suo avviso, con il varo del governo
Mussolini il re aveva risparmiato all'Italia
la guerra civile. Da presidente del Consiglio il duce aveva concesso molto al
partito, ma a parole più che ne fatti. Mirò invece a “ottenere dal Parlamento
la legalizzazione del fatto compiuto”.
Vita appartata
Ls svolta venne col delitto Matteotti (10
giugno 1924) e col discorso del 3 gennaio 1925. Mussolini, pur negando ogni
coinvolgimento nella morte del deputato socialista, assunse la responsabilità
politica della “rivoluzione fascista”. Benché convalidato, De Nicola non prestò
giuramento e non si presentò mai in aula. Il 2 marzo 1929, alla vigilia delle
elezioni che il 24 segnarono il trionfo del regime di partito unico, anche per
l'avvenuta Conciliazione tra regno d'Italia e Stato del Vaticano (11 febbraio
1929), egli fu creato senatore. Fu uno dei circa 130 patres vitalizi nominati
in poche settimane: liberali, cattolici, democratici, ex socialriformisti e,
naturalmente, fascisti, nazionalisti, militari, diplomatici..., uomini dello
Stato non di partito.
Non frequentò le sedute della Came a Alta ma
presiedette la commissione ministeriale per la previdenza e l'assistenza
forense che approntò la legge 13 aprile 1933, a beneficio di tanti avvocati in
stato di bisogno.
Il grande Traghettatore
De Nicola ebbe ruolo fondamentale dieci anni
dopo, quando escogitò il trasferimento dei poteri regi da Vittorio Emanuele III
al figlio, Umberto principe di Piemonte, in veste di Luogotenente del regno:
soluzione obtorto collo accettata dal re il 20 febbraio 1944 e infine attuata
il 5 giugno 1944 sotto incalzante pressione degli anglo-americani e dei partiti
antimonarchici al potere sin dal terzo ministero Badoglio e poi nei governi
presieduti da Bonomi, Ferruccio Parri (partito d'azione) e Alcide De Gasperi
(democrazia cristiana). Estraneo a maneggi faziosi, nominato componente della
Consulta Nazionale (1945) De Nicola non si candidò all'Assemblea Costituente.
Questa tuttavia il 28 giugno 1946 lo
elesse presidente della Repubblica benché fosse notoriamente monarchico. Era lo
Statista di garanzia nel difficile traghettamento dell'Italia all'indomani del
referendum che aveva veduto contrapposti monarchici e repubblicani quasi alla
pari e la vittoria della repubblica col magro consenso del 42% degli aventi diritto.
Come ricorda il suo biografo, Tito Lucrezio
Rizzo, in “Parla il Capo dello Stato” (ed. Gangemi), De Nicola non abitò mai al
Quirinale. Attrezzò il suo ufficio a Palazzo Giustiniani, alle spalle del
Senato. Lasciò la carica l'11 maggio 1948. L'indomani gli subentrò Luigi
Einaudi, parimenti liberale e monarchico, piemontese. Così si ripeté
l'alternanza di epoca monarchica, quando il principe ereditario era di volta in
volta “di Piemonte” o “di Napoli.
Presidente del Senato (1951-1952), giudice
costituzionale e ottantenne sempre lucidissimo presidente della Corte
Costituzionale se ne dimise il 27 marzo 1957.
Morì dopo due anni di vita nuovamente
appartata. Si sapeva della sua austerità. Soleva farsi rivoltare il cappotto,
non per avarizia ma per senso del risparmio e per le sue ristrettezze, vissute con dignità.
Dall'attività forense trasse sempre
lustro ma pochi profitti. Come ha ricordato Giovanni Leone, altro presidente
della Repubblica meritevole di rispetto e di memoria, all'indomani della sua
morte (1° ottobre 1959) nel villino di Torre del Greco, privo di riscaldamento,
si scoprì che “in casa sua non c'erano soldi neppure per l'acquisto dei
medicinali. Il grande avvocato, il grande Statista che aveva rinunziato alle
indennità presidenziali mantenendosi
a sue spese a Roma, il danneggiato dalla guerra
mondiale che aveva travolto i suoi risparmi impiegati tutti in titoli di Stato,
ridotti a carta straccia, moriva povero”.
“Il suo senso dello Stato - osserva Rizzo – è l'eredità più preziosa
lasciata ai posteri. L'alternativa alla Religione del Dovere è quella di uno
Stato senza senso”. Vi è motivo di riflettervi a un mese da un referendum, che
potrebbe impoverire più di quanto già non sia il rapporto tra cittadini e
Istituzioni. La civiltà politica dall'Unità al regime resse e crebbe perché
fondata sui collegi uninominali, non su liste di parlamentari predisposte da un
Gran Consiglio (come avvenne dal 1928-1929) o da cupole di “partiti”. E' un
monito che inizia a farsi strada, perché la qualità dei rappresentanti dei
cittadini non è separata dalle norme elettorali.
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