NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 28 marzo 2023

Appuntamento culturale a Roma



 Siete cortesemente invitati a un Nostro

 Incontro di Studio e di Ricerca,

dedicato al Patrimonio Storico Italiano, 

con particolare attenzione alla
 
Storia del Regno d'Italia.

Invito alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna

Viale delle Belle Arti 131, Roma

Domenica pomeriggio  2 APRILE 2023 alle ore 16

Prenotazione obbligatoria

offerta libera

Tel3384714674

Durata dell'incontro circa 2 ore

      Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

lunedì 27 marzo 2023

Il De Gasperi che non ti aspetti.

 La funzione assimilatrice della Monarchia


Tratto dal quotidiano: IL PICCOLO DELLA SERA, quotidiano di Trieste, del 22 maggio 1922, pag. 4

domenica 26 marzo 2023

Capitolo XXXV: L’amore di Ludovico

 


 di Emilio Del Bel Belluz

 

Nei giorni che seguirono Ludovico era più taciturno, non aveva più parlato di quella ragazza che aveva conosciuto quella sera della cena e che lo aveva fatto dormire vicino al fiume, sotto le stelle. Nel lavoro, invece, dimostrava più impegno e la voglia di approfondire il mestiere di pescatore. Notai anche che gli bastava un niente per sorridere. Questo particolare non era sfuggito alla cara Elena che conosceva il segreto di questo cambiamento: Ludovico si era innamorato, come gli aveva riferito Serena. Erano bastati alcuni incontri per accendere in loro la passione. Nella vita ci sono delle persone che vengono trasformate grazie all’amore. Ludovico mi chiedeva, inoltre, dei consigli su come restaurare la propria casa; forse voleva andarci a vivere con Serena. Una sera, mentre era a cena da noi, si confidò con tutti, complice un bicchiere di vino di troppo. Ludovico appariva preoccupato, il padre di Serena voleva conoscerlo al più presto, come si usava fare in quei tempi. Il padre era una persona che era stata forgiata dalla vita con rettitudine ed esigeva che gli fosse chiesto il permesso di poter frequentare sua figlia. Ludovico temeva che la sua menomazione alla gamba facesse esprimere un rifiuto da parte del padre. D’altro canto, giocava, a suo favore, il fatto che il padre aveva molta simpatia per quelli che avevano combattuto per il Paese. Genoveffa, mentre gli serviva una fetta di torta alle mele, gli batté una pacca sulla spalla dicendogli di stare tranquillo. Conosceva molto bene il padre di Serena, e gli disse che nel loro incontro non dimenticasse di parlargli della guerra di Spagna, della sua partecipazione ad alcune battaglie, e che gli raccontasse in modo struggente come era stato ferito alla gamba. Inoltre, doveva elogiare la figura del Duce che era molto amato e stimato dal padre di Serena. Genoveffa, che dimostrò d’essere ben informata sulla figura del padre, disse che se avesse seguito i suoi consigli, il vecchio fascista non gli avrebbe negato l’assenso. Ludovico si rincuorò, acquistò fiducia in sé stesso e fu allora che raccontò d’amare Serena e che il suo amore fu un colpo di fulmine. L’incontro con il padre si era svolto come previsto da Genoveffa e non mancò il suo consenso. Le loro frequentazioni divennero più assidue; s’incontravano ormai ogni giorno, anche se per poco tempo. Una sera che la luna splendeva, e si specchiava sulle acque tranquille della Livenza, le aveva raccontato di quella notte che trascorse vicino al fiume, senza dormire per la felicità del loro primo incontro. Serena lo abbracciò, commossa. Ludovico immaginava di costruire al più presto una bella famiglia con lei, anche se talvolta affiorava la paura di perderla. La serata volgeva al termine e così si salutarono. Girovagò ancora per un’ora e prima di rientrare a casa, volle passare davanti alla casa di Serena. Osservò che c’era la luce della sua camera accesa. Gli sarebbe piaciuto chiamarla, ma non osava disturbarla. Gli aveva raccontato che le piaceva leggere la sera: aveva una grande passione per la scrittrice Liala. I racconti erano intessuti d’amore e le erano di grande compagnia. Una sera gli aveva parlato di questa donna straordinaria capace di far innamorare molte persone. Le sarebbe piaciuto conoscerla, ma doveva accontentarsi di leggere i suoi libri che le venivano prestati dalla moglie dell’oste del paese. Ludovico dopo aver osservato ancora una volta quella finestra illuminata si allontanò. La strada che aveva fatto mille volte nella sua vita, gli sembrava quasi nuova, perché lui si sentiva una nuova persona. Mentre giungeva a casa, incontrò un vecchio che usciva dall’osteria e si notava che si era innamorato della bottiglia. Ludovico fece un tratto di strada assieme, era un vecchio che viveva solo, da quando gli era morta la moglie. Da anni si era abituato alla vita solitaria, ma ogni tanto si concedeva una bevuta in compagnia. Non la riteneva una cosa così grave, il voler naufragare la sua tristezza nella bottiglia. Costui disse che aspettava con impazienza di raggiungere in cielo l’amata moglie. Ludovico ebbe pietà per lui, e fece ancora un pezzetto di strada assieme. Finalmente arrivò a casa, ma non riusciva a prendere sonno per cui si mise a leggere una vecchia antologia del 1911 che da sempre aveva visto nella sua cucina. Davanti al lume a petrolio la sua attenzione si soffermò su un racconto intitolato:” Sulla riva di un fiume“. “Ieri sono rimasto a meditare sulla riva di un fiume, che scorreva lento lento fra meandri ornati di piante verdeggianti. Era un pomeriggio tranquillo d’ottobre. Il sole era un po’ velato, ed ora appariva più intenso, ed ora era completamente coperto da grandi nuvoloni, che passavano e si rincorrevano nel cielo. Che quiete intorno a me! Le acque scorrevano con un mormorio continuo e monotono, scorrevano senza posa, e scuotevano le foglie delle piante selvatiche, germoglianti sulle rive, le grandi foglie, che si chinavano per immergersi nelle acque trasparenti. Io rimasi così a lungo, adagiato sull’erba, e con gli occhi fissi guardavo le acque che passavano sempre, e una atonia soave, un bisogno di bontà e di pace mi vinceva, in quella solitudine delle cose. Ed io pensavo che la vita nostra è come le acque di quel fiume, che scorrono sempre, e non sanno quale virtù le spinga e quale forza le trascini verso il mare. Così la vita dell’uomo scorre tra le piante verdeggianti, che sono le speranze lusinghiere, e non si ferma un attimo solo, né potrebbe per un solo istante fermarsi nel suo cammino fatale. Quanti ostacoli incontra quell’acqua lungo il suo corso! Ora sono macigni alti, ora piccoli sassi; ma quell’acqua non si ferma per questo, ma li sorpassa, e se non può, si piega in modo da lasciarseli indietro. E quanti inciampi non trova l’uomo nell’esistenza! Ma se vuole giungere alla meta deve attingere la forza di dominarli o deve disporre gli eventi in modo da non tener conto di quegli inciampi e passare innanzi vittoriosamente. Le acque del fiume vanno, vanno, né sanno dove andranno, né sanno se la loro forza le spinga verso la morte. Eppure esse non si stancano di cantare, non perdono la loro gaiezza, e vanno sempre. Così l’uomo deve sempre, anche andando verso una meta oscura, disporre di una grande tranquillità d’ animo, di una serenità a tutta prova. E la sua vita, in tal modo, non sarà afflitta da ombre del suo pensiero, né da immaginarie malinconie. Il sole a poco a poco si chinava verso l’orizzonte. Una velatura d’ombra si diffondeva nel cielo; le acque del fiume parevano si avvolgessero in un mistero di pace. Il tramonto a poco a poco scendeva. Ed io, mentre mi preparavo per il ritorno, sentivo sempre il mormorio delle acque che scorrevano tra meandri di verde” Alberto Cioci Ordinario di Italiano delle R. Scuole Tecniche di Roma- Editore Longo e Zoppelli (TV) 1911 La lettura di quel raccontò l’acquietò ed il sonno ebbe il sopravvento.

LUIGI AMEDEO DI SAVOIA – DOPPIO ANNIVERSARIO



di Gianluigi Chiaserotti

 

Cade quest’anno un doppio anniversario per Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, e precisamente il CL della nascita (1873) ed il CX della morte (1933).

Terzogenito di Amedeo di Savoia, Re di Spagna, il nostro nacque in Madrid il 29 gennaio 1873. Essendo il primo figlio maschio nato dopo l’ascesa al trono del padre, viene investito del titolo di “Infante”, ma la sua nascita avviene in un momento critico per il regno di Spagna, in una situazione di massima insicurezza, con il paese sul punto di esplodere. La solenne cerimonia del suo battesimo è in effetti l’ultimo evento ufficiale a cui Amedeo I presenzia nel ruolo di re di Spagna: il giorno 11 febbraio, quando il figlio neonato ha solo quattordici giorni di vita, pone fine al suo regno breve e tormentato con la propria abdicazione.

La famiglia rientra quindi a Torino e si stabilisce nel palazzo Cisterna. Luigi ha poco più di tre anni e mezzo quando nel novembre 1876 muore, a soli trent’anni, la madre Maria Vittoria, di salute cagionevole. E ne ha appena sei e mezzo quando nell’agosto 1879 viene arruolato come mozzo nella Regia Marina, per ricevere un’educazione militare, come da tradizione per i principi della casa reale, destinati a ricoprire alti gradi nelle forze armate.

Luigi trascorre gran parte delle sue vacanze in montagna, coltivando una passione condivisa da molti membri della famiglia reale, in particolare dalla principessa Margherita, dal 1878 regina d’Italia, che dedica una particolare cura ai tre nipoti rimasti senza madre. Durante l’estate Amedeo affida i figli allo scienziato e frate barnabita Francesco Denza, che li introduce alla pratica sportiva dell’alpinismo intesa come strumento didattico per l’apprendimento delle scienze naturali e l’arricchimento spirituale.

Nel dicembre 1884 il Duca diviene allievo di prima classe della Regia Accademia Navale di Livorno e si imbarca a bordo della fregata “Vittorio Emanuele”, condividendo studi e addestramento con un altro figlio illustre, il coetaneo Manlio Garibaldi, figlio dell’eroe risorgimentale, dimostrandosi un buon allievo, con una media di voti sopra i 16/20.

Nel luglio 1889, a soli sedici anni, viene nominato guardiamarina nel Corpo dello Stato Maggiore generale della Regia Marina e si imbarca sul brigantino “Amerigo Vespucci”, con cui compie la sua prima navigazione intorno al mondo, durante la quale conosce il tenente di vascello Umberto Cagni, fedele compagno di quasi tutte le sue future esplorazioni. Nel febbraio 1891, al suo rientro in patria dopo un viaggio durato quasi un anno e mezzo, è diventato sottotenente di vascello e, in seguito alla morte del padre avvenuta nel gennaio 1890, è stato nominato da re Umberto I Duca degli Abruzzi.

Quindi iniziò la sua carriera di esploratore.

Il 31 luglio 1897 salì, lui per primo, sulla vetta del Monte Sant’Elia (mt. 5512), in Alaska, avendo come compagni Francesco Gonella, Umberto Cagni, Vittorio Sella e Filippo de Filippi, il quale poi narrò (1900) la memorabile ascensione.

Il Duca degli Abruzzi partì quindi (14 giugno 1899) sulla sua nave “Stella Polare dal porto di Lauvik, e ciò per esplorare il Mare Glaciale Artico e con l’intento di raggiungere il Polo.

Erano con lui Umberto Cagni, il tenente di vascello Francesco Querini, il capitano medico Achille Cavalli Molinelli, i marinai Giacomo Cardenti e Simone Cànepa, nonché le guide valdostane Giuseppe Pétigax, Alessandro Fenouillet, Felice Ollier (scomparso purtroppo col Querini) e Michele Cavoye.

La “Stella Polare”, attraverso lo stretto di Nachtigall, il Canale britannico, il mare della Regina Vittoria, toccò Capo Fligely.

La spedizione svernò nella baia di Teplitz, ove, in un’escursione, Luigi Amedeo cadde in un crepaccio e ne riportò il congelamento di due dita della mano sinistra, le cui estremità gli furono amputate.

L’escursione a N fu affidata al capitano Cagni, il quale rimandò indietro i due gruppi della spedizione, ed avanzando quindi da solo per il Nord.

Di uno dei due gruppi, quello comandato dal Querini, non si ebbe più notizia, mentre l’altro, dopo venti giorni di marcia, raggiunse il Duca degli Abruzzi negli accampamenti.

Durante codesta ardita marcia, che ebbe un immenso valore scientifico, il capitano Cagni si spinse nella direzione del Polo, 20’ più a nord di Nansen, che fino ad allora aveva raggiunto la massima latitudine, cioè 84’ 34’ (24 aprile 1900) ed appunto riuscirono a rientrare a Teplitz, ma solo tre mesi dopo.

Luigi Amedeo, rientrato in Italia (6 settembre 1900), dopo queste gloriose gesta, scrisse, unitamente al Cagni ed al Cavalli Molinelli, la relazione del viaggio, volume per il quale ebbe meritati onori (Medaglia d’Oro col Cagni della Società Geografica Italiana; Socio Nazionale dell’Accademia dei Lincei; dottore “honoris causa” all’Università di Bologna; Medaglia d’Oro della Società Geografica di Londra e Grande Medaglia d’Oro della Società Geografica di Berlino).

Il Duca degli Abruzzi, sempre per il suo innato spirito di scoperta, ma soprattutto di apprendimento, organizzò una nuova spedizione, però in Africa, scalando, il 18 giugno 1906, la più alta vetta del Ruwenzori.

Di questa spedizione parlò in due conferenze, una a Roma, e l’altra a Londra e pubblicò una dettagliata relazione.

Instancabile, nel 1909 organizzò una spedizione in Asia con l’esplorazione del Karakorum con la fallita ascesa, e per poco, del K2.

Quindi il Duca, con il grado di Contrammiraglio, prese parte alla guerra italo-turca e per la rapidità con cui seppe organizzare i servizi di crociera delle navi (cacciatorpedinieri e siluranti) al principio delle ostilità italiane contro la Turchia (Ionio 1911), il 6 aprile 1913 fu insignito, dal Re Vittorio Emanuele III, della Commenda dell’Ordine Militare di Savoia e da contrammiraglio fu promosso a vice ammiraglio.

Nel 1915, nel corso della Prima Guerra Mondiale, fu investito del comando della flotta italiana nel Mare Adriatico con Capo dello Stato Maggiore l’Ammiraglio Paolo Thaon di Revel.

Terminata la Guerra, il Duca degli Abruzzi partì per la Somalia ove andò ad esplicare un’attenta opera di pioniere per la valorizzazione di quelle terre.

Intraprese, in seguito, un’operazione di una grande bonifica agraria lungo la valle del fiume Uebi Scebeli (con coltivazioni e campi sperimentali di agricoltura) di cui, nel 1928, nel corso dell’ultima esplorazione, il Duca scoprirà le sorgenti.

Il Duca degli Abruzzi muore il 18 marzo 1933 (esattamente cinquant’anni prima del Re Umberto II)  nel villaggio “Duca degli Abruzzi” (oggi “Johar), in Somalia, senza figli.

Sembra che negli ultimi anni della sua vita, il Duca avesse una relazione con una giovane principessa somala di nome Faduma Ali.

Secondo le sue volontà viene lì sepolto, sulle sponde del fiume Uebi Scebeli.

Infatti, alla sua partenza da Napoli, il 7 febbraio 1933, disse: «Preferisco che intorno alla mia tomba s’intreccino le fantasie delle donne somale, piuttosto che le ipocrisie degli uomini civilizzati.».

Terminava così la vita di questo singolare, ma eccezionale, Principe Sabaudo.

Grazie a lui, si affermò che furono senza dubbio gli italiani a far conoscere l’Africa agli aficani.

 

venerdì 24 marzo 2023

IL VOLO CENTENARIO DELL’ ARMA AZZURRA: LE INIZIATIVE NELLA CAPITALE

 


Il 28 Marzo 2023 ricorre il Centenario della costituzione dell’Aeronautica Militare, istituita come Arma autonoma nel 1923 con il nome di Regia Aeronautica. L’Arma Azzurra è la più giovane delle quattro Forze Armate Italiane, e insieme all’Esercito Italiano, alla Marina Militare e all’Arma dei Carabinieri, viene a costituire la Difesa Nazionale. Per ricordare questo importante anniversario nel 2023 sono previste in Italia numerose iniziative a carattere conoscitivo. Molto atteso è l’Evento celebrativo, che avrà luogo a Roma, nel giorno del Centenario, il 28 Marzo 2023. Dalla scenografica Terrazza del Pincio, a Villa Borghese, dopo la Cerimonia, che avrà inizio alle ore 11, alla presenza delle Alte Autorità dello Stato, con il dispiegamento  della Bandiera di Guerra dell’Aeronautica Militare, delle Bandiere di Guerra e d’Istituto di tutti i Reparti della Forza Armata,  è in programma un sorvolo aereo sulla città di Roma, con velivoli dell’Aeronautica Militare, che disegneranno il numero 100 in cielo, a cui farà seguito il passaggio delle mitiche Frecce Tricolori.
Inoltre dal 24 al 29 Marzo 2023 a Piazza del Popolo sarà allestito il Villaggio Aeronautico con “velivoli in mostra statica, percorsi esperienziali, incontri informativi e d’intrattenimento, padiglioni promozionali, simulatori ludici, proiezioni, esibizioni musicali e sportive”, al fine di conoscere il passato, il presente e il futuro dell’Arma Azzurra.

[...]

Le Iniziative nella Capitale per i 100 Anni dell'Aeronautica Militare (consulpress.eu)

lunedì 20 marzo 2023

Umberto, il Re dei miei verd’anni

di Pier Franco Quaglieni


Ricorrono i quarant’anni dalla morte dell’ultimo Re d’Italia mancato a Ginevra nel 1983. Quando seppi della sua morte rimasi in silenzio, memore di quello che ha rappresentato anche per la mia generazione. Scrissi  su di lui un articolo su “Stampa sera“ solo un anno dopo. Fu il Re dei miei verd’anni, per usare un verso di Carducci rivolto a Carlo Alberto. Nel 1961 mio padre mi accompagnò a Cascais a Villa Italia per farmi conoscere il  successore  del Re galantuomo  quasi totalmente dimenticato nel centenario del Regno e dell’ Unità. L’ho rivisto più volte e all’atto del mio matrimonio il Re mi mandò dei gemelli in dono. Ragioni di disguidi  burocratici del Comune di Torino  mi impedirono di averlo testimone alle mie nozze, dove sarebbe stato rappresentato dall’amico Umberto di Collegno, collare dell’ Annunziata. Conservo tanti suoi biglietti e anche dei ricordi gentili e affettuosi che mi mandava tramite il ministro della Real Casa Falcone Lucifero. Scrissi su “Stampa sera“  un articolo contro la norma costituzionale transitoria dell’esilio, che venne affiancato da un articolo, favorevole all’esilio, di un signore destinato a diventare incredibilmente niente meno che il  presidente di una consulta dei senatori del Regno , si fa per dire , copiando quella originale.  Tal personaggio pretese persino  di decidere  anche il futuro di una dinastia millenaria, scegliendo da Torre San Giorgio , provincia di Cuneo, il futuro pretendente al trono anche se fu implacabile giacobino nel sostenere l’esilio del Re. Oggi sarò a ricordare Umberto II a Racconigi dove il Re nacque il 15 settembre 1904. E’ un grande onore che mi è stato concesso. Racconigi gli ha dedicato un monumento, Roma uno largo a  lui intitolato. Forse anche Torino dovrebbe fare qualcosa per ricordare il Principe di Piemonte che amò profondamente Torino dove visse probabilmente la stagione più bella della sua vita. Ad Umberto II gravemente malato fu negato di rivedere l’ultima volta la sua Patria. Ricordo la faziosità meschina e miserevole  di Riccardo Lombardi contro il Re. Qualcuno mi ha scritto chiedendomi perché vado a ricordarlo. Gli ho risposto ricordando che il Re scelse di partire dall’Italia il 13 giugno 1946 per evitare una seconda guerra civile. Ma i motivi per ricordarlo sono molti altri. Il suo richiamo <<L’Italia innanzi tutto >> resta più attuale che mai anche oggi. L’ultima parola pronunciata dal Re prima di morire fu <<Italia >>, una parola non retorica pronunciata in punto di morte dall’esule che sarebbe potuto essere un grande Re di una nuova Italia democratica, simbolo della migliore storia italiana. Ho appreso da un’amica che ci sarà una mostra torinese su Umberto. Ne sono lieto, ma certo, se fosse ancora in vita il generale Cravarezza, non lo avrei saputo per via indiretta come mi è accaduto ieri. Cravarezza fu con me dieci anni fa a ricordare Umberto a Torino ed Alassio. Lo ricorderemo il 16  marzo a Palazzo  Cisterna senza di lui, ma io non tralascerò di ricordare anche il Generale di Corpo d’Armata dell’esercito repubblicano che conservava con cura a casa sua la bandiera tricolore con lo scudo sabaudo.

domenica 19 marzo 2023

Umberto II di Savoia, la messa a Hautecombe per i quarant’anni dalla scomparsa del Re

 


Il 18 marzo del 1983 se ne andava l’ultimo sovrano italiano. Oggi 18 marzo 2023, a quarant’anni di distanza, la famiglia Savoia riunita lo ricorda nell'abbazia reale di Hautecombe dove è sepolto insieme alla Regina Maria Josè.

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Umberto II: l’eredità dell’ultimo Re d’Italia



 di Alarico Lazzaro

18 Marzo 2023 

Quarant’anni or sono si chiudeva la storica epopea della Monarchia di Casa Savoia, fautrice dell’unificazione del Regno d’Italia sotto un unico vessillo nel 1861, dopo secoli di frammentazione e dominazioni straniere.

Il 18 marzo del 1983 si spegneva in esilio Re Umberto II, che spirò, come in una romanzesca trama del destino, il giorno dopo l’Anniversario dell’Unità, come in un ultimo e intimo congedo. 

Quell’Italia che non avrebbe mai più rivisto oggi ne ricorda la statura e il delicato ruolo istituzionale in un periodo storico denso di trasformazioni radicali.


Umberto, che fu Luogotenente generale del Regno dal giugno del 1944 al maggio 1946, aveva già di fatto sostituto nell’immaginario generale dei monarchici il padre Vittorio Emanuele III.

[...]

sabato 18 marzo 2023

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II



Oggi, 18 Marzo 2023, è il quarantesimo anno dalla scomparsa in esilio del nostro Re e contemporaneamente il ventesimo della nascita del sito a lui dedicato.


Oggi vogliamo ricordare quei giorni amarissimi in cui fummo costretti a varcare le frontiere italiane per rendere omaggio al Sovrano scomparso.
La commozione e lo sgomento per l’inutile crudeltà esercitata nei confronti del nostro Re e di tutti noi sono rimasti gli stessi nel corso di questi 40 anni.

In questo giorno lo ricordiamo con una particolarissima intervista in 4 puntate comparsa, molto stranamente, su un quotidiano notoriamente repubblicano e di sinistra nel 1952, Paese Sera.

Questo quotidiano è stato conservato gelosamente per circa 70 anni dall’Ingegnere Domenico Giglio, Presidente del Circolo Rex, e da lui trasmessoci.


www.reumberto.it





UMBERTO II UOMO DI FEDE

 



TESTIMONIANZA DEL NUNZIO MONS. HEIM

I miei primi contatti con Re Umberto coincisero con la mia Missione in Egitto nel 1970. Sua Maestà era preoccupata per la tomba di suo padre Re Vittorio Emanuele III che era morto ad Alessandria.

Il Re è sepolto nell'altare maggiore della Cattedrale Latina d'Alessandria, precisamente nella parte posteriore tra due scale che servono per salire ad accendere e spegnere le candele del monumentale altare. Solo una lastra di marmo bianco segnala il luogo dove riposa la salma; la lastra non porta che il nome VITTORIO EMANUELE III e le due cifre 1869/1947.

Ho visto per la prima volta questo umile monumento il 15 novembre 1969 e, dopo, lo ho visitato ogni volta che sono andato ad Alessandria. Ho riferito a Re Umberto che in quel tempo esaminava la possibilità di trovare un posto più degno e meno nascosto per la tomba.

Ho discusso la cosa con il Vescovo latino di Alessandria e ho disegnato un progetto per un monumento nella prima cappella laterale della Basilica. Ho parlato anche con il Governo Egiziano ed il Segretario di Stato mi ha detto: "dica al Re che non si preoccupi. Le piramidi sono la prova di quanto sono rispettate in Egitto le tombe dei monarchi."

Re Umberto ha poi abbandonato l'idea di far fare un altro sepolcro provvisorio per suo padre, perché pensava che la salma avrebbe dovuto essere portata al Pantheon, ma questo finora è stato ostacolato.

Personalmente ho incontrato Re Umberto per la prima volta nel settembre del 1973 quando, dopo la Messa Pontificale nella Chiesa Abbaziale di St. Maurice, mi ha rimesso la Gran Croce dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Durante questa Messa sono rimasto impressionato dalla profonda religiosità del Re.

Un mio amico svedese domiciliato a Londra, che all’età di vent'anni da protestante luterano è diventato cattolico, mi ha scritto: "quando per la prima volta sono stato ricevuto dal Re nell'Hyde Park Hotel di Londra il Conte Olivieri mi ha introdotto nel salotto. Il Re si è mostrato gentilmente affabile e amichevole. Ad un certo momento ha guardato l'orologio dicendo - mi scusi, sono le sei, Le dispiace se diciamo l'Angelus insieme? - si è alzato ed ha recitato l'Angelus in latino facendomi segno di unirmi a lui. Ero molto impressionato dal sentimento religioso del Re che, anche in mezzo ad una conversazione non voleva rinunciare a questa sua abituale devozione. Dopo ha detto - mi perdoni di averla interrotto, ora continuiamo.

Questo mio amico avendo da tempo gravi problemi di salute ha bisogno di speciali trattamenti in ospedale. Quando Re Umberto ha sentito che si trovava di nuovo ricoverato ha fatto telefonare dal suo aiutante per sapere se era in difficoltà finanziarie e per far dire che in tal caso sarebbe stato 'ansioso di aiutarlo.

Un'altra volta ha fatto telefonare persino da una delle sue figlie Principesse per sapere se in aggiunta alla fragile salute avesse forse anche problemi materiali. Il mio amico non aveva bisogno di aiuto, ma fu profondamente impressionato dal delicato e generoso pensiero di Sua Maestà.

Abbiamo pure saputo che una volta, a Londra, ha invitato una famiglia di emigrati italiani che era in gravi difficoltà economiche. Non voleva imbarazzarli, ma quando stavano lasciando l'Hotel il Conte Olivieri dovette rimettere loro una busta con un generoso assegno.

Una volta, passeggiando con quello stesso mio amico, passando davanti ad una bottega di falegname il Re disse: "che nobile mestiere quello del falegname, pensando che il Figlio di Dio fu chiamato, ed era in un modo, figlio del falegname." Infatti Dio, Gesù Cristo e la Madonna erano sempre nella mente di Re Um­berto.

A Londra, quando una volta la macchina fu bloccata dal traffico l'autista si scusò per il ritardo, ma il Re disse: "fa niente; qualche volta è bene essere costretto ad aspettare, ci dà un'occasione inaspettata di pregare."

A momenti Re Umberto sembrava triste, ma mai mostrava rancore. Uscendo da una Chiesa si fermò davanti ad un grande Crocifisso e disse: "Cristo ha accettato il tradimento di amici che sembravano fidati, perché' allora noi dovremmo essere amareggiati?" Soffrire invece di dover stare lontano dalla patria, ma era rassegnato pur sapendo, come noi, con quanti trucchi e irregolarità si arrivò al risultato di quel referendum.

Ogni volta che Sua Maestà era a Londra mi faceva l'onore di accettare un mio invito. Nel 1982 poi ho potuto visitarlo più volte nella London Clinic. Mi ha pregato di portargli la S. Comunione in occasione di future visite e l'ha sempre ricevuta con edificante devozione.

All'amico svedese ha detto: "preghi per me", e lui ha risposto: "sicuro Sire, Lei ha molti amici dappertutto che pregano per Lei". Il Re sorri­deva dicendo: "crede veramente? Con la pre­ghiera si ottiene molto!"

Quando ho visitato Sua Maestà nella Lon­don Clinic il 21 dicembre 1982 ha detto: "a Natale vorrei venire a Messa in Nunziatura." Era il suo ultimo Natale. Soffriva molto, ma era molto raccolto ed ha ricevuto la comunione con grande devozione. Questa ultima uscita dalla clinica gli è costata un grande sforzo, ma ha pure accettato una leggera colazione.

L'ultima volta ho visitato il Re alla London Clinic il 7 febbraio 1983. Si era completamente arreso alla volontà di Dio e mi ha detto che avrebbe voluto farsi portare a Ginevra per morire più vicino all'Italia. Uscendo dall'in­fermeria ho incontrato la Regina; ero afflitto ed ho sentito tragico il fatto che il più pio e cordia­le dei Re Sabaudi, a causa delle macchinazioni di fanatici antimonarchici, doveva essere l'ul­timo.

Nessun Presidente della Repubblica ha po­tuto far meglio di quanto avrebbe potuto fare Re Umberto II che è stato esiliato prima di essere veramente conosciuto.

+ Bruno B. Heim N.A.


L’esilio dell’ultimo Re d’Italia non è ancora finito.


 

di Emilio Del Bel Belluz


Quello che è accaduto al Re Umberto II, non è mai successo a nessun altro personaggio della nostra storia italiana. Fu condannato sia da vivo che dopo la sua morte all’esilio. Il Re Umberto II trascorse ben 37 anni in una terra che non era la sua, a Cascais, in Portogallo ed è sepolto in esilio, ad Hautecombe, in Francia. Fu un periodo molto lungo e durissimo per una persona che nel cuore aveva sempre la sua patria, e l’amore per il suo popolo. Non esistono giustificazioni valide per questo trattamento. 

All’uomo che salvò l’Italia da una guerra civile e da un mare di sangue che si sarebbe altrimenti sparso non gli è stato riconosciuto quell’eroismo che meritava. Dopo il dubbio referendum del 2 giugno del 1946, e dopo i brogli elettorali, il Re vedendo il sangue che era stato versato a Napoli dove alcuni giovani monarchici erano morti con la bandiera Sabauda che sventolavano per manifestare in favore del Re e della monarchia millenaria, preferì lasciare l’Italia. Gli avevano rassicurato che si sarebbe trattato di un tempo limitato, e che quando si fossero calmate le acque avrebbe potuto far rientro nel suo Paese. Nessuno potrà mai dimenticare il volto con un sorriso forzato del sovrano mentre salutava i suoi fedelissimi prima che lo sportello dell’aereo si chiudesse. Nella sua tasca aveva un sacchetto di terra che una donna gli aveva dato affinché l’esilio fosse più lieve. Quella terra che i suoi avi avevano onorato, unificando l’Italia. Da quel momento il Re visse in esilio circondato dalle persone che lo andavano a trovare, quelli che lo amavano, e quei tanti che gli scrivevano delle lettere e che gli chiedevano aiuto. Il suo cuore era sempre rivolto a quelli che soffrivano perché si sentiva alla fine uno di loro. A Cascais, un piccolo paese del Portogallo, aveva condiviso parte della sua vita con i poveri pescatori del posto, unito alla loro semplicità e cercando di soddisfare le loro richieste d’aiuto con amore di Re e di padre. Tutto ciò aiutava a lenire la grande nostalgia che lo perseguitava. Nella sua grande biblioteca passava il tempo a leggere molte opere di scrittori italiani che gli inviavano con dedica. La sua biblioteca di cui era fiero, era colma di questi libri che lo aiutavano a passare il difficile tempo dell’esilio. Questa parola dovrebbe essere cancellata dal vocabolario, perché solo a pronunciarla dona sofferenza. 

Per la prima volta sentii questo termine dalla mia amata maestra che mi parlò dell’esule Re che stava lontano dal cielo dove era nato. Da allora e, sono passati quasi sessant’ anni, m’incupisco quando penso che non ho potuto fare nulla per il mio Re.  Quante volte lo immaginavo davanti al suo mare che osservava le navi in lontananza e sperava che qualcuna andasse a prenderlo per portarlo in Italia. Spesso avrei voluto andare a trovarlo e portargli il sorriso della nostra terra che non lo aveva dimenticato. Allora ero troppo giovane e non avevo le possibilità economiche che mi permettessero di affrontare un lungo viaggio. Passavo il mio tempo a leggere tutto quello che trovavo su di Lui, anche se erano rari gli articoli pubblicati che parlassero della sua vicenda. Da bambino ritagliavo queste pagine e le incollavo su dei quaderni che conservo ancora. Nella mia biblioteca ho una scaffalatura che contiene dei libri che sono usciti su di Lui. Opere che consulto non senza commuovermi. Una volta lessi una citazione di Mattie Brini che recitava: “Non c’è sulla terra un suono più dolce del crepitio di un caminetto: aggiungetegli qualche ramo di pesco o di fico e il fuoco canterà il potere della terra e la triste nostalgia del vento”. Immaginavo Re Umberto II nella sua casa, davanti al caminetto, che mitigava la sua malinconia osservando i bagliori della fiamma e traendo dal profumo della legna un’intensa serenità. 

Dove si accende un fuoco anche il cuore esulta. Spesso rivedevo il Re con un libro in mano che ammirava le foto dei posti più belli della sua Italia. Inoltre, mi piaceva pensare che usasse come segnalibro delle cartoline giunte dalla sua Patria e scritte da persone che non lo avevano dimenticato. La compagnia che non lo abbandonava mai era il fruscio del vento e lo sciabordio delle onde del mare che sentiva giorno e notte.  Un armatore, che aveva portato i libri e i quadri personali del sovrano, ne era talmente innamorato che non aveva voluto nulla in cambio del viaggio che aveva fatto; l’unica cosa che avrebbe desiderato era che il suo rientro in Italia avvenisse con la sua nave. Ma quell’armatore non ebbe mai quel privilegio. Negli ultimi mesi della sua vita aveva domandato di poter morire in Italia, e lo aveva fatto mentre era ricoverato in un ospedale londinese. Sui giornali comparve una foto in cui appariva   irriconoscibile, e con il volto scavato dalla malattia.  Erano passati 37 anni da quando aveva lasciato il suo Paese. L’odio era ancora presente e non c’era stato tempo per quel Re esiliato. La sua colpa si riassumeva in una sola parola “Lealtà” verso sé stesso e verso la nazione. Il Sovrano morì a Ginevra, in Svizzera, il 18 marzo 1983 e pronunciando come ultima volta la parola Italia. Solo Dio aveva potuto sollevarlo dalla pena che gli uomini ingiustamente gli avevano inflitta. Morì da Re come da Re era vissuto.   

Quando il Sovrano morì fui tra quelle migliaia di italiani che con il cuore spezzato dalla tristezza parteciparono ai funerali. Il mio cuore era posseduto anche dalla rabbia che insorge quando si è davanti a una palese ingiustizia; quando il Paese che amavamo ci costringeva ad andare in terra straniera per assistere ai funerali di un uomo che con il suo comportamento era stato un fulgido esempio, che doveva essere insegnato a scuola. Mi venivano in mente le parole di Piero Scanzani: “La solitudine è veramente la regina del mondo. Ognuno è nato solo e solo morirà. Forse, l’unico abitatore d’ogni dove, si sentì solo, e in una vibrazione d’onnipotenza popolò l’universo di creature. Così è cominciato il nostro giorno”. Quelli come me che in una terra lontana lo accompagnavano, sentivano che stavano scrivendo un pezzetto di storia. A quei funerali mancava un rappresentante del governo italiano: un’assenza che feriva la storia di un Paese.  Il Digesto recita: “La giustizia consiste nel rispettare la personalità umana, ossia nel: vivere onestamente, non danneggiare alcuno, dare a ciascuno quel che gli spetta”. 

Quello che spettava a Re Umberto II, da parte dello stato italiano, era il rispetto che si deve a una persona che aveva dato molto e ricevuto ben poco. In questi quarant’ anni le cose non sono cambiate, l’ostracismo della sua sepoltura e quella della consorte Maria José al Pantheon permane.  Ogni Paese si è rappacificato con la sua storia, eccetto il nostro. Un popolo che non dimostra d’aver memoria è destinato a farsi scrivere la storia da altri. I giovani non conoscono la storia di Casa Savoia, né le vicende del Re Umberto II, sono altre le cose che li vengono insegnate. I media del mio Paese hanno dedicato ampio spazio alla morte della Regina d’Inghilterra, ma   spero che non ci sia lo stesso silenzio per i quarant’anni dalla morte di Re Umberto come è stato per i 150 anni dalla nascita della Regina Elena. Penso ad uno scrittore monarchico come fu il buon Giovannino Guareschi, che possedeva una penna meravigliosa per raccontare le vicende del suo Paese. Sarebbe stato bello che fosse ancora tra noi, per vedere in quale modo avrebbe ricordato il caro Sovrano che era stato sempre da lui molto stimato e amato. Da cattolico penso che in cielo si facciano compagnia e magari possano pregare perché il Paese dove sono nati possa migliorare e non essere inghiottito dal pensiero unico dominante. Il 18 marzo 2023, a distanza di quaranta lunghi anni, si ricorderanno ancora una volta di onorare il Re assieme a tutta Casa Savoia, coloro che sono rimasti fedeli alla Monarchia.

Indro Montanelli lo ricordò il giorno successivo alla sua morte nel Giornale con questo articolo: “Nessuno può dire che Re sarebbe stato Umberto di Savoia, se fosse rimasto Re. Nelle poche settimane in cui lo fu, anche i più arrabbiati repubblicani che ebbero a che fare con Lui ne riconobbero l’equilibrio, la correttezza e la lealtà. Chiamato a rispondere di colpe non sue, lo fece senza trincerarsi dietro quelle di suo padre. Mai una parola uscì dalla sua bocca, né allora né poi, contro di Lui. Quando anni dopo gli chiesi a Cascais se era vero che l’otto settembre il Re gli aveva proibito di restare a Roma alla testa delle truppe che dovevano difenderla dai tedeschi - un gesto che forse avrebbe salvato la monarchia - me lo smentì, mentendo. Mi accorsi che non difendeva la memoria di suo padre per affetto di figlio: di affetti nella Case Regnanti ce ne sono sempre pochi e in quella dei Savoia meno delle altre. Difendeva da Re, il Re…  Umberto rimase Re dalla testa ai piedi e lo è stato fino all’ultimo anche – mi dicono- di fronte alla morte…”.




A quarant’ anni dalla morte del Re Umberto II

 


di Emilio Del Bel Belluz

ll 18 marzo 1983 moriva in terra d’esilio, a Ginevra, il Re Umberto II. Aveva lasciato l’Italia il 13 giugno del 1946, dopo il referendum istituzionale che vide vincitrice la repubblica per oltre un milione di voti. Dopo i risultati si parlò subito di brogli elettorali e, a Napoli e in altre città, ci furono degli incidenti dove morirono alcuni giovani monarchici. Il Re per evitare una guerra civile, scelse di partire per l’esilio, anche perché gli avevano detto che sarebbe stato per un periodo limitato, fino a quando le cose si fossero tranquillizzate. Il Re Umberto II partì per l’esilio, accompagnato all’aeroporto da alcuni fedelissimi. Non si volle dar pubblicità alla sua partenza per evitare un bagno di folla che lo salutasse e temendo degli incidenti. Dalle foto d’epoca e dai filmati lo si vede in alcuni momenti con il volto sorridente che saluta le poche persone presenti, ma il suo cuore era rivolto a quei dieci milioni di elettori che avevano scelto di votare per la monarchia e per i Savoia, la cui storia millenaria aveva fatto l’Unità d’Italia. Prima di partire una donna si avvicinò al Re con un sacchetto di terra, dicendo al sovrano di portarla con sé perché era terra italiana e che forse l’avrebbe fatto sentire meno solo. Il sovrano con la gentilezza che lo contraddistingueva, accettò questo dono, nato da quei buoni sentimenti che il popolo italiano ha sempre avuto. Successivamente raccontò a un giornalista che subito dopo il decollo aveva la morte nel cuore, e le lacrime gli scendevano copiose sul volto. Qualcuno disse che i Re non possono piangere mai, ma il buon Re Umberto II comprese benissimo che non avrebbe più rivisto il suo Paese. Il viaggio verso l’esilio non fu facile: “Il giorno che dovetti abbandonare l’Italia, sul Mediterraneo trovai un tempo pessimo. L’aereo faceva fatica a mantenere la rotta, e giunti che fummo sulla Sardegna venne preso come una foglia in mezzo all’uragano. Più volte passammo tra i fulmini, più volte credemmo d’essere sul punto di precipitare. Ad un certo momento il pilota gridò che era impossibile proseguire, che non rimaneva che tentare di tornare indietro. – Dobbiamo proseguire! – gridai. - Io non posso tornare in Italia -. E proseguimmo. Ebbene, perché non dirlo? Per religioso ch’io sia, più volte durante quel viaggio invocai la morte.” (Ezio Saini – Quattro principi in esilio -). Qualche ora dopo il Re Umberto II giunse a Barcellona dove lo accolsero le autorità spagnole. Il giorno successivo arrivò a destinazione e poté riabbracciare la famiglia e i figli. La vita da Re in esilio non fu facile perché la nostalgia era la sua nemica principale.  In un articolo comparso nelle colonne del Gazzettino il 1° giugno 2019 l’attuale Ministro della Giustizia, Carlo Nordio scrisse: “- Gentiluomo - Umberto II si comportò da gentiluomo. Pur contestando l’interferenza di De Gasperi e il risultato delle urne, si rassegnò alla sconfitta, risparmiando al Paese una ennesima controversia estenuante ed inutile. Il 13 giugno salutò commosso i suoi collaboratori, e partì per l’esilio. Non fu ripagato di tanta signorilità. Con una disposizione assurda quanto meschina, la nuova Costituzione avrebbe impedito l’accesso in Italia anche dei suoi figli maschi. Comunque, pochi giorni dopo la Cassazione confermò i numeri di Romita”.  Il Re Umberto II visse la sua vita in esilio in terra portoghese, arrivando al paese di Cascais che allora era un paese di poveri pescatori.   Divenne amico di quelle umili persone, con quella gente cercò di dimenticare i dolori che la vita non gli aveva risparmiato. Era un re cattolico e alla domenica si recava alla Santa Messa nella piccola chiesa del paese. Si metteva nel primo banco, a destra, vicino alla statua della Madonna. Quel posto era sempre lasciato libero perché era il posto del Re. Con sé aveva il libro della messa che sua madre, la Regina Elena gli aveva donato. Alla fine della cerimonia molti poveri della zona gli chiedevano l’elemosina e il Re cercava di accontentare tutti. La sua fama di uomo gentile si sparse nella zona e molti andavano a messa per vederlo. Molte volte ho immaginato il mio Re in esilio, avvolto da una   terribile solitudine e nostalgia che ognuno prova nell’essere ingiustamente allontanato dalla propria Patria. In una foto trovata in una libreria d’antiquariato si vedeva il Re che osservava l’oceano, e sperava che una delle navi viste in lontananza, potesse raggiungerlo per condurlo in Italia. Sul retro della fotografia vi erano scritte due frasi che citava spesso: una dello scrittore americano James Baldwuin:” Una delle ragioni per cui la gente si aggrappa così tenacemente all’odio è che sembrano avere la sensazione che una volta svanito l’odio gli resterà solo il vuoto e la pena”. L’altra era del grande scrittore Aldous Huxley:” Gli uomini non imparano mai nulla dalle lezioni della storia. E questa è la più importante lezione che la storia ha da insegnarci”.  L’’unica cosa che si poteva imputare a questo Re era di sicuro il bene che voleva al suo popolo e la generosità che ha sempre dimostrato nei confronti degli italiani in difficoltà.  Non potendo venire personalmente nel nostro Paese, aveva nominato come suo uomo di fiducia il Ministro della Reale Casa Savoia, Falcone Lucifero. Costui nei momenti difficili e nelle tragedie che colpirono l’Italia, portava aiuti economici donati dal Re.  A Motta di Livenza, durante la terribile alluvione che sommerse il paese, nel novembre 1966, il Re colpito profondamente da questa tragedia fece arrivare conforti economici alle popolazioni. Questa verità l’ho trovata scritta in una delle tante lettere di persone che lo ringraziavano per l’aiuto ricevuto. Nel passare degli anni non mancò mai d’incontrare coloro che lo andavano a visitare, e si intratteneva con loro come un caro amico. Quando poi li accompagnava, sentiva più forte la malinconia dell’esilio, perché non avrebbe potuto seguirli. Dalle cronache del tempo e dai molti racconti sentiti, la descrizione del Re era sempre quella di un uomo gentile, generoso e leale. Qualcuno disse che sarebbe stato un buon Re se avesse potuto governare in Italia. Molti lo amavano talmente tanto che spesso gli scrivevano, e il Re aiutato dalle persone che gli stavano accanto, rispondeva a tutti. Tanti di questi italiani gli chiedevano una foto con dedica, e questa richiesta veniva sempre esaudita. Personalmente ricevetti la foto del Re con una dedica che ho incorniciato e posta nella mia biblioteca e, alcuni anni dopo, mi fu spedito un suo libro, sempre con la sua firma. Sono stati dei regali che hanno saputo rendere felice una persona. La figura del Re veniva rappresentata anche da questi piccoli gesti. Tacito diceva “Chi è nato da una nobile stirpe anche nella sventura conserva la nobiltà”. Questa nobiltà la mantenne inalterata per tutta la vita, anche nei momenti difficili della malattia che sopportò senza lamentarsi. Da buon cattolico invocava l’aiuto del Signore.  Quando seppe che gli rimanevano solo pochi mesi di vita, chiese ai politici italiani di poter ritornare nel suo Paese per rivedere i luoghi che tanto amava. Ma il suo ultimo desiderio non fu esaudito. Penso alla frase del noto giurista Francesco Carnelutti: “L’Italia è la culla del diritto e la tomba della giustizia”. Ebbi l’occasione di vedere una foto che lo raffigurava quando era degente in un ospedale londinese, colpito da un tumore che lo stava lentamente uccidendo. I suoi occhi nello stesso tempo erano quelli di una persona che non temeva nulla, eccetto il giudizio di Dio. La morte lo colse in un ospedale svizzero, e in quel momento lo liberò dai tanti tormenti della vita. Allora fui tra le migliaia di persone che andarono al suo funerale Francia. Molti sventolavano la bandiera con lo scudo Sabaudo, ed erano coloro che non si erano arresi alle difficoltà del duro e lungo viaggio. Fui tra quelli che arrivarono subito dopo che il corpo del Re era stato esposto nella abbazia di Hautecombe. La bara era aperta, sopra vi era stesa la bandiera Sabauda, era vestito con l’uniforme da generale ed il viso era scolpito dalla malattia. L’emozione fu tanta, come copiose furono le lacrime che versai. Essendo tra i primi che arrivai nella Savoia a Hautecombe, fui testimone del seguente fatto. Mi trovavo all’interno dell’abbazia. Mi ero messo a pregare, quando sentii alcune frasi intercorse tra le due guardie del Pantheon, ignare della mia presenza. Uno dei due disse che quel gesto non si poteva fare, ma l’altro alla fine si chinò e fece una carezza al volto del Re. Pensai che era la carezza che gli italiani avrebbero voluto fare a una persona dal cuore così grande. A Motta di Livenza, il signore Antonio Carlo Lippi, alla fine della guerra, il 2 giugno, esponeva dal suo balcone la bandiera Sabauda.  Quando lo faceva, mi raccontava in questi giorni sua figlia Vanda, arrivavano i carabinieri che lo obbligavano a toglierla, ma lui, subito dopo, la rimetteva. Ogni anno anch’io espongo la bandiera Sabauda nel giorno dell’anniversario della morte del re ed il 2 giugno, non riconoscendo la festa della repubblica. Dopo la sua morte, sulla sua scrivania, furono ritrovati due fogli scritti di suo pugno. 

 

«Dal testamento di San Pietro I Vladika del Montenegro.

"Io mi avanzo pieno di speranza alle soglie del Tuo Divino Santuario

la cui fulgida luce ravvisai sul sentiero misurato

dai miei passi mortali.

Alla Tua chiamata io vengo tranquillo..." ».

 

Una citazione di una lettera di san Paolo ai Corinti, copiata in latino e tradotta in italiano:

«Mihi autem pro minimo est ut a vobis iudicer (aut ab humano die). Sed neque me ipsum iudico. Nihil enim mihi conscius sum sed non in hoc iustificatus sum; qui autem iudicat me, Dominus est».

Traduzione del Re:

«Poco importa a me d'essere giudicato da voi (o da un tribunale di uomini) né mi giudico da me stesso, poiché non ho coscienza di aver commesso alcunché ma non per questo sono giustificato: mio giudice è il Signore».


RICORDO DEL RE UMBERTO II DI SAVOIA

 



di Gianluigi Chiaserotti

 

Erano le 15,35 del 18 marzo 1983, quaranta anni or sono, che il Grande Re Umberto II di Savoia ci lasciava.           

Ma il piacere più grande è quello di ricordarlo, in questa occasione, in cui mi limiterò a tratteggiare, a grandi linee, e con ricordi personali, la Sua vita di Italiano e di Re.

Nato nel Castello di Racconigi giovedì 15 settembre 1904, l’allora Principe Ereditario venne al mondo in silenzio, come in silenzio è stata la sua vita di italiano e di Re; in silenzio, dicevo, in quanto era in corso uno sciopero generale e proprio per questo i giornali non furono stampati. Però il lieto evento giunse alle orecchie del Sindaco di Milano, il quale volle esporre il Tricolore Sabaudo al balcone del Palazzo Municipale.

Il Principe di Piemonte, titolo che Gli spettava, ebbe un’infanzia ed un’adolescenza caratterizzate essenzialmente dalla rigida educazione militare impartitagli dall’Ammiraglio Attilio Bonaldi. Per cui sveglia all’alba, esercitazioni varie, equitazione, ginnastica. Molti avversari della Monarchia, inutili e superficiali, hanno criticato questo; senza però pensare che era necessario, in quanto il Principe sarebbe dovuto divenire il Sovrano di una Nazione invidiata e nobile come era la nostra. Terminata la preparazione c. d. bonaldiana, Umberto andò in Ginnasio e poscia al Collegio Militare di Palazzo Salviati in Roma, nel quale frequentava le lezioni a carattere scientifico, mentre gli studi classici li preparava privatamente. Terminato il Liceo si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova, laureandovisi nel novembre 1925, e divenendo, contemporaneamente, Tenente della Accademia Militare di Modena.

Dopo gli anni spensierati della giovinezza, trascorsi soprattutto a Torino, giunse il momento in cui prevalse la Ragion di Stato poiché Umberto doveva assicurare la continuità della Dinastia; per cui nel giorno del cinquantasettesimo genetliaco della Regina Elena (1873-1952), il giorno 8 gennaio 1930, sposò la bellissima Principessa Reale di Sassonia Coburgo Gotha, Maria Josè del Belgio (1906-2001), figlia del Re Alberto I.

Siamo così giunti alla parte del ricordo sul Re Umberto II in cui  è chiamato a reggere le sorti dello Stato. Con l’armistizio di Cassibile del 4 settembre 1943,  il giorno 8, Re e Governo si trasferirono a Pescara (ho detto “si trasferirono” e non “fuggirono”, come qualcuno vorrebbe). Codesto è stato un grande atto di lungimiranza del Re Vittorio Emanuele III (1869-1947), il quale sapeva che se non fosse giunto a ciò, non avrebbe assicurato la continuità dello Stato. Dopo un periodo di governo al Sud, Vittorio Emanuele, alla liberazione di Roma — cioè il 5 giugno 1944 —, nominò Umberto, Luogotenente Generale del Regno. Con questa veste Egli attuò bene la Sua ottima preparazione a divenire Re, che giunse il 9 maggio 1946, a circa un mese dalla data in cui si era stabilito di svolgere il “referendum” istituzionale, cioè il 2 giugno; “referendum” che il Re e, ribadiamo, solo il Re indisse con Decreto Legislativo Luogotenziale  16 marzo 1946, N. 98; ed ecco cosa, tra l’altro, disse Umberto, a Genova, nel Suo proclama del 31 maggio 1946, e, soprattutto, scevro da ogni interesse dinastico:

 

“(…) appena la Costituente avrà assolto il suo compito possa essere ancora una volta sottoposta agli italiani — nella forma che la rappresentanza popolare volesse proporre — la domanda cui siete chiamati a rispondere il 2 giugno.”

 

Dalle urne invece, purtroppo, uscì l’imbroglio e la truffa. Il 4 giugno aveva vinto la Monarchia; il 5 giugno mattina la Repubblica. La notte portò “consiglio”. Uscì, sempre dalle urne,  il modo non corretto di calcolare le maggioranze e così via (fatti tutti documentati anche da libri di testo scolastici stranieri). Anche la Cassazione non si portò come avrebbe dovuto in quanto non poteva che omologare risultati, e quindi non proclamò nessuna nascita della Repubblica.

Nel suo ultimo proclama Umberto dice:

 

“(…) confido che la Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola;”.

 

Purtroppo nella notte tra il 12 e il 13 giugno, compiuto, da parte del Governo, un vero e proprio “colpo di Stato” (tacitamente ammesso anche dalla Gazzetta Ufficiale del 1° luglio 1946, N. 144), alle ore 16 del 13 giugno il Re Umberto di Savoia lasciava la Sua Patria, ed alla radio fu letto il proclama di protesta, che, tra l’altro, dice:

 

“(…) Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi ed

al potere indipendente e sovrano della Magistratura, il Governo  ha compiuto un gesto rivoluzionario assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario poteri che non gli spettano e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire violenza.”.

 

Il Re, non abdicatario (se lo avesse fatto avrebbe dovuto riconoscere il sopruso di cui era stato fatto bersaglio), lasciando la Patria si sacrificò per il bene della medesima. Ma, pur protestando, sciolse dal giuramento di fedeltà quanti lo avevano prestato ma “non da quello verso la Patria”.

Ed eccoci all’esilio, allora (ed ora non più, come vedremo tra poco) sancito dalla XIII Disposizione Transitoria e Finale della Costituzione della Repubblica italiana, la quale condannava lui ed i nascituri a questa inumana e mediovale pena. In questo doloroso periodo della sua vita il Re, dalla villa portoghese, ha voluto essere sempre presente nelle vicissitudini, liete e tristi, dell’amata e lontana Patria, rimanendo fedele, naturalmente, alle scelte di principio. Presente nei suoi tradizionali messaggi di fine d’anno, nei quali ha sempre messo in risalto l’importanza della pace, della giustizia sociale e dell’unità.

E’ bello e doveroso qui ricordare che, nell’occasione del Centenario dell’Unità d’Italia  - il 17 marzo 1961 - Re Umberto sia stato più presente di chiunque altro. Infatti alla solenne assise della Consulta dei Senatori del Regno convocata, per l’occasione, in Torino fu letto il suo messaggio, che tra l’altro recita:

(…) L’epica impresa poté grado a grado raggiungere l’altissimo fine,

 perché il Re Vittorio Emanuele II, con a fianco Camillo di Cavour,

 aveva assunto con mano ferma la direzione

 e la responsabilità del moto nazionale,

coraggiosamente superando difficoltà di ogni genere.

Attorno ad essi sorsero da ogni parte d’Italia

 – magnifico prodigio –

 falangi di patrioti, sempre tutti presenti nei nostri grati cuori.

L’apostolato di Mazzini e l’eroismo di Garibaldi integrarono l’opera meravigliosa, risultato di forze confluenti e contrastanti, fuse nella sintesi della Monarchia nazionale. Discordie e rancori di partiti furono arsi dal sentimento religioso della Patria: così sorse il Regno d’Italia. (…).

Il Re concesse poi onorificenze sabaude ad illustri personalità e si fece rappresentare dal Duca di Bergamo, Adalberto di Savoia-Genova (1898-1982)  in Teano, per lo storico incontro tra il Re Vittorio Emanuele II (1820-1878) ed il generale Giuseppe Garibaldi (1807-1882).

Ma oltre a queste presenze storiche, Egli fu presente, e con aiuti cospicui, in occasione di tutte le tragiche calamità naturali che hanno colpito la nostra Terra: la sciagura del Vajont del 1963; i numerosi terremoti (Valle del Belice del 1968; Friuli del 1976; Irpinia del 1980; frana di Ancona del 1982). Fu presente anche con le famiglie di attentati terroristici, mafiosi e con le vittime di rapimenti. La Sua costante presenza fu anche graditissima fra i campioni dello sport italiani, succedutisi ed affermatisi nei lunghi anni di esilio. Ma riteniamo che la presenza più bella, più significativa era quella per gli italiani che si recavano a trovarLo in Cascais, e che  riceveva con nessuna formalità od etichetta.

Memorabile fu l’incontro con il Sovrano a Beaulieu sur Mer del 4 giugno 1978, occasione nella quale chi scrive, neanche diciottenne, ebbe l’onore di conoscere e salutare il Re d’Italia, Umberto II di Savoia.

La proposta di legge costituzionale per l’abrogazione dell’esilio portava la data del 10 marzo 1981. Proposta che si è iniziata a discutere in aula – dopo che era stata ferma 140 giorni in commissione, solo il giorno 8 marzo 1983, e ciò quando il Re era grave nell’Ospedale Cantonale di Ginevra, e, purtroppo, si aspettava il peggio. Durante questa, oseremmo dire, “presa in giro”, ci fu la gara tra i nostri politici, tranne isolati casi, riguardo alla faziosità ed al riportare notizie false e tendenziose sulla vita del Re e su Casa Savoia.

Chi lo avrebbe detto che avremmo dovuto attendere ancora diciannove anni, e ciò fino al 10 novembre 2002, per assistere – finalmente – all’”esaurimento”, come recita letteralmente la legge costituzionale 23 ottobre 2002, N. 1, degli effetti dei commi primo e secondo della XIII Disposizione Transitoria e Finale della Costituzione.

Quindi, il 18 marzo 1983, il Re Umberto ci ha lasciati, e ci ha lasciati lucido, con – sulle labbra - la parola che più amava, che più sentiva, che è stata la ragione di tutta una vita: “Italia”.

 I solenni funerali si celebrarono, alla impressionante presenza di tantissimi italiani, nell’Abbazia di Hautecombe, ove il Re, secondo le Sue ultime volontà,  volle esservi sepolto provvisoriamente, se fosse deceduto lontano da Cascais, in attesa, naturalmente, della sepoltura nel Pantheon di Roma.

Nell’epilogo desidero riportare tre significativi pensieri del Re: 

“Chi affronta la responsabilità, le preoccupazioni, gli oneri, i disagi e talora i rischi della democratica lotta per il ritorno della Monarchia, dà esempio della dote più bella e più alta dell’Uomo: la fede che vuol dire certezza”;

“La repubblica è un regime estraneo alle tradizioni nazionali, imposto”

badate bene dice “imposto

in un momento di generale turbamento”.

Il terzo, scoperto solo il 22 marzo 1983 – a quattro giorni dalla scomparsa – nel Suo scrittoio di Cascais:

“(…) poco importa a  me d’esser giudicato da un tribunale di uomini… nè mi giudico da me stesso poiché non ho coscienza di aver commesso alcunché; ma non per questo sono giustificato: mio Giudice è il Signore”.

“Io mi avanzo pieno di speranza alle Tue soglie del Tuo divino Santuario la cui fulgida luce ravvisai sul sentiero misurato dai miei passi mortali.

Alla Tua chiamata, o Signore, io vengo tranquillo”.

Ecco quella fede, quella speranza, nonché quella religiosità che hanno caratterizzato tutta la Sua vita  e che Gli hanno dato la forza di sperare nel futuro.

Quindi quei politici che negarono al Re (nel 1983), dopo 37 anni di esilio - anche con un permesso straordinario - il sacrosanto rientro ed il Suo desiderio di morire in Italia, credevano di aver vinto.

Umberto di Savoia, riposando nella quiete e nella religiosità della Abbazia di Hautecombe, in quella Savoia, ove mille anni fa Umberto Biancamano fu il Capostipite della Dinastia - in attesa della giusta sepoltura nel Pantheon di Roma – è, e di gran lunga, il vincitore in Signorilità, in Fede ed in Amor di Patria.

Così è, così Lo ricordiamo e così Lo benediremo.