Siete cortesemente invitati a un Nostro
Incontro di Studio e di Ricerca,
Siete cortesemente invitati a un Nostro
Incontro di Studio e di Ricerca,
La funzione assimilatrice della Monarchia
Tratto dal quotidiano: IL PICCOLO DELLA SERA, quotidiano di Trieste, del 22 maggio 1922, pag. 4
di Emilio Del Bel Belluz
Nei giorni che seguirono Ludovico era più taciturno,
non aveva più parlato di quella ragazza che aveva conosciuto quella sera della
cena e che lo aveva fatto dormire vicino al fiume, sotto le stelle. Nel lavoro,
invece, dimostrava più impegno e la voglia di approfondire il mestiere di
pescatore. Notai anche che gli bastava un niente per sorridere. Questo
particolare non era sfuggito alla cara Elena che conosceva il segreto di questo
cambiamento: Ludovico si era innamorato, come gli aveva riferito Serena. Erano
bastati alcuni incontri per accendere in loro la passione. Nella vita ci sono
delle persone che vengono trasformate grazie all’amore. Ludovico mi chiedeva,
inoltre, dei consigli su come restaurare la propria casa; forse voleva andarci
a vivere con Serena. Una sera, mentre era a cena da noi, si confidò con tutti,
complice un bicchiere di vino di troppo. Ludovico appariva preoccupato, il
padre di Serena voleva conoscerlo al più presto, come si usava fare in quei
tempi. Il padre era una persona che era stata forgiata dalla vita con
rettitudine ed esigeva che gli fosse chiesto il permesso di poter frequentare
sua figlia. Ludovico temeva che la sua menomazione alla gamba facesse esprimere
un rifiuto da parte del padre. D’altro canto, giocava, a suo favore, il fatto
che il padre aveva molta simpatia per quelli che avevano combattuto per il
Paese. Genoveffa, mentre gli serviva una fetta di torta alle mele, gli batté
una pacca sulla spalla dicendogli di stare tranquillo. Conosceva molto bene il
padre di Serena, e gli disse che nel loro incontro non dimenticasse di
parlargli della guerra di Spagna, della sua partecipazione ad alcune battaglie,
e che gli raccontasse in modo struggente come era stato ferito alla gamba.
Inoltre, doveva elogiare la figura del Duce che era molto amato e stimato dal
padre di Serena. Genoveffa, che dimostrò d’essere ben informata sulla figura
del padre, disse che se avesse seguito i suoi consigli, il vecchio fascista non
gli avrebbe negato l’assenso. Ludovico si rincuorò, acquistò fiducia in sé
stesso e fu allora che raccontò d’amare Serena e che il suo amore fu un colpo
di fulmine. L’incontro con il padre si era svolto come previsto da Genoveffa e
non mancò il suo consenso. Le loro frequentazioni divennero più assidue;
s’incontravano ormai ogni giorno, anche se per poco tempo. Una sera che la luna
splendeva, e si specchiava sulle acque tranquille della Livenza, le aveva
raccontato di quella notte che trascorse vicino al fiume, senza dormire per la
felicità del loro primo incontro. Serena lo abbracciò, commossa. Ludovico
immaginava di costruire al più presto una bella famiglia con lei, anche se
talvolta affiorava la paura di perderla. La serata volgeva al termine e così si
salutarono. Girovagò ancora per un’ora e prima di rientrare a casa, volle
passare davanti alla casa di Serena. Osservò che c’era la luce della sua camera
accesa. Gli sarebbe piaciuto chiamarla, ma non osava disturbarla. Gli aveva
raccontato che le piaceva leggere la sera: aveva una grande passione per la
scrittrice Liala. I racconti erano intessuti d’amore e le erano di grande
compagnia. Una sera gli aveva parlato di questa donna straordinaria capace di
far innamorare molte persone. Le sarebbe piaciuto conoscerla, ma doveva
accontentarsi di leggere i suoi libri che le venivano prestati dalla moglie
dell’oste del paese. Ludovico dopo aver osservato ancora una volta quella
finestra illuminata si allontanò. La strada che aveva fatto mille volte nella
sua vita, gli sembrava quasi nuova, perché lui si sentiva una nuova persona.
Mentre giungeva a casa, incontrò un vecchio che usciva dall’osteria e si notava
che si era innamorato della bottiglia. Ludovico fece un tratto di strada
assieme, era un vecchio che viveva solo, da quando gli era morta la moglie. Da
anni si era abituato alla vita solitaria, ma ogni tanto si concedeva una bevuta
in compagnia. Non la riteneva una cosa così grave, il voler naufragare la sua
tristezza nella bottiglia. Costui disse che aspettava con impazienza di
raggiungere in cielo l’amata moglie. Ludovico ebbe pietà per lui, e fece ancora
un pezzetto di strada assieme. Finalmente arrivò a casa, ma non riusciva a
prendere sonno per cui si mise a leggere una vecchia antologia del 1911 che da
sempre aveva visto nella sua cucina. Davanti al lume a petrolio la sua
attenzione si soffermò su un racconto intitolato:” Sulla riva di un fiume“.
“Ieri sono rimasto a meditare sulla riva di un fiume, che scorreva lento lento
fra meandri ornati di piante verdeggianti. Era un pomeriggio tranquillo
d’ottobre. Il sole era un po’ velato, ed ora appariva più intenso, ed ora era
completamente coperto da grandi nuvoloni, che passavano e si rincorrevano nel
cielo. Che quiete intorno a me! Le acque scorrevano con un mormorio continuo e
monotono, scorrevano senza posa, e scuotevano le foglie delle piante
selvatiche, germoglianti sulle rive, le grandi foglie, che si chinavano per
immergersi nelle acque trasparenti. Io rimasi così a lungo, adagiato sull’erba,
e con gli occhi fissi guardavo le acque che passavano sempre, e una atonia
soave, un bisogno di bontà e di pace mi vinceva, in quella solitudine delle
cose. Ed io pensavo che la vita nostra è come le acque di quel fiume, che
scorrono sempre, e non sanno quale virtù le spinga e quale forza le trascini
verso il mare. Così la vita dell’uomo scorre tra le piante verdeggianti, che
sono le speranze lusinghiere, e non si ferma un attimo solo, né potrebbe per un
solo istante fermarsi nel suo cammino fatale. Quanti ostacoli incontra
quell’acqua lungo il suo corso! Ora sono macigni alti, ora piccoli sassi; ma
quell’acqua non si ferma per questo, ma li sorpassa, e se non può, si piega in
modo da lasciarseli indietro. E quanti inciampi non trova l’uomo
nell’esistenza! Ma se vuole giungere alla meta deve attingere la forza di dominarli
o deve disporre gli eventi in modo da non tener conto di quegli inciampi e
passare innanzi vittoriosamente. Le acque del fiume vanno, vanno, né sanno dove
andranno, né sanno se la loro forza le spinga verso la morte. Eppure esse non
si stancano di cantare, non perdono la loro gaiezza, e vanno sempre. Così
l’uomo deve sempre, anche andando verso una meta oscura, disporre di una grande
tranquillità d’ animo, di una serenità a tutta prova. E la sua vita, in tal
modo, non sarà afflitta da ombre del suo pensiero, né da immaginarie
malinconie. Il sole a poco a poco si chinava verso l’orizzonte. Una velatura
d’ombra si diffondeva nel cielo; le acque del fiume parevano si avvolgessero in
un mistero di pace. Il tramonto a poco a poco scendeva. Ed io, mentre mi
preparavo per il ritorno, sentivo sempre il mormorio delle acque che scorrevano
tra meandri di verde” Alberto Cioci Ordinario di Italiano delle R. Scuole
Tecniche di Roma- Editore Longo e Zoppelli (TV) 1911 La lettura di quel
raccontò l’acquietò ed il sonno ebbe il sopravvento.
di Gianluigi
Chiaserotti
Cade quest’anno
un doppio anniversario per Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, e
precisamente il CL della nascita (1873) ed il CX della morte (1933).
Terzogenito
di Amedeo di Savoia, Re di Spagna, il nostro nacque in Madrid il 29 gennaio
1873. Essendo
il primo figlio maschio nato dopo l’ascesa al trono del padre, viene investito
del titolo di “Infante”, ma la
sua nascita avviene in un momento critico per il regno di Spagna, in una
situazione di massima insicurezza, con il paese sul punto di esplodere. La
solenne cerimonia del suo battesimo è in effetti l’ultimo evento ufficiale a
cui Amedeo I presenzia nel ruolo di re di Spagna: il giorno 11 febbraio,
quando il figlio neonato ha solo quattordici giorni di vita, pone fine al suo
regno breve e tormentato con la propria abdicazione.
La
famiglia rientra quindi a Torino e si
stabilisce nel palazzo Cisterna. Luigi ha poco più di tre anni e mezzo quando
nel novembre 1876 muore, a soli trent’anni, la
madre Maria Vittoria, di salute cagionevole. E ne ha appena sei e mezzo quando
nell’agosto 1879 viene arruolato come mozzo
nella Regia Marina,
per ricevere un’educazione militare, come da tradizione per i principi della
casa reale, destinati a ricoprire alti gradi nelle forze armate.
Luigi
trascorre gran parte delle sue vacanze in montagna, coltivando una passione
condivisa da molti membri della famiglia reale, in particolare dalla principessa Margherita,
dal 1878 regina d’Italia, che dedica una
particolare cura ai tre nipoti rimasti senza madre. Durante l’estate Amedeo
affida i figli allo scienziato e frate barnabita Francesco Denza, che li introduce alla
pratica sportiva dell’alpinismo intesa come strumento didattico per l’apprendimento
delle scienze naturali e l’arricchimento spirituale.
Nel
dicembre 1884 il Duca diviene allievo di prima
classe della Regia Accademia
Navale di Livorno e si imbarca a bordo della fregata “Vittorio
Emanuele”, condividendo studi e addestramento con un altro
figlio illustre, il coetaneo Manlio Garibaldi, figlio dell’eroe risorgimentale,
dimostrandosi un buon allievo, con una media di voti sopra i 16/20.
Nel
luglio 1889, a soli sedici anni, viene
nominato guardiamarina nel
Corpo dello Stato Maggiore generale della Regia Marina e si imbarca sul brigantino “Amerigo
Vespucci”, con cui compie la sua prima navigazione intorno al
mondo, durante la quale conosce il tenente di vascello Umberto Cagni, fedele compagno di quasi
tutte le sue future esplorazioni. Nel febbraio 1891,
al suo rientro in patria dopo un viaggio durato quasi un anno e mezzo, è
diventato sottotenente di
vascello e, in seguito alla morte del padre avvenuta nel
gennaio 1890, è stato nominato da re Umberto I Duca
degli Abruzzi.
Quindi iniziò
la sua carriera di esploratore.
Il 31 luglio
1897 salì, lui per primo, sulla vetta del Monte Sant’Elia (mt. 5512), in
Alaska, avendo come compagni Francesco Gonella, Umberto Cagni, Vittorio Sella e
Filippo de Filippi, il quale poi narrò (1900) la memorabile ascensione.
Il Duca
degli Abruzzi partì quindi (14 giugno 1899) sulla sua nave “Stella Polare”
dal porto di Lauvik, e ciò per esplorare
il Mare Glaciale Artico e con l’intento di raggiungere il Polo.
Erano con
lui Umberto Cagni, il tenente di vascello Francesco Querini, il capitano medico
Achille Cavalli Molinelli, i marinai Giacomo Cardenti e Simone Cànepa, nonché
le guide valdostane Giuseppe Pétigax, Alessandro Fenouillet, Felice Ollier
(scomparso purtroppo col Querini) e Michele Cavoye.
La “Stella
Polare”, attraverso lo stretto di Nachtigall, il Canale britannico, il mare
della Regina Vittoria, toccò Capo Fligely.
La
spedizione svernò nella baia di Teplitz, ove, in un’escursione, Luigi Amedeo
cadde in un crepaccio e ne riportò il congelamento di due dita della mano
sinistra, le cui estremità gli furono amputate.
L’escursione
a N fu affidata al capitano Cagni, il quale rimandò indietro i due gruppi della
spedizione, ed avanzando quindi da solo per il Nord.
Di uno dei
due gruppi, quello comandato dal Querini, non si ebbe più notizia, mentre l’altro,
dopo venti giorni di marcia, raggiunse il Duca degli Abruzzi negli
accampamenti.
Durante
codesta ardita marcia, che ebbe un immenso valore scientifico, il capitano
Cagni si spinse nella direzione del Polo, 20’ più a nord di Nansen, che fino ad
allora aveva raggiunto la massima latitudine, cioè 84’ 34’ (24 aprile 1900) ed
appunto riuscirono a rientrare a Teplitz, ma solo tre mesi dopo.
Luigi
Amedeo, rientrato in Italia (6 settembre 1900), dopo queste gloriose gesta,
scrisse, unitamente al Cagni ed al Cavalli Molinelli, la relazione del viaggio,
volume per il quale ebbe meritati onori (Medaglia d’Oro col Cagni della Società
Geografica Italiana; Socio Nazionale dell’Accademia dei Lincei; dottore “honoris
causa” all’Università di Bologna; Medaglia d’Oro della Società Geografica
di Londra e Grande Medaglia d’Oro della Società Geografica di Berlino).
Il Duca
degli Abruzzi, sempre per il suo innato spirito di scoperta, ma soprattutto di
apprendimento, organizzò una nuova spedizione, però in Africa, scalando, il 18
giugno 1906, la più alta vetta del Ruwenzori.
Di questa
spedizione parlò in due conferenze, una a Roma, e l’altra a Londra e pubblicò
una dettagliata relazione.
Instancabile,
nel 1909 organizzò una spedizione in Asia con l’esplorazione del Karakorum con
la fallita ascesa, e per poco, del K2.
Quindi il
Duca, con il grado di Contrammiraglio, prese parte alla guerra italo-turca e
per la rapidità con cui seppe organizzare i servizi di crociera delle navi
(cacciatorpedinieri e siluranti) al principio delle ostilità italiane contro la
Turchia (Ionio 1911), il 6 aprile 1913 fu insignito, dal Re Vittorio Emanuele
III, della Commenda dell’Ordine Militare di Savoia e da contrammiraglio fu
promosso a vice ammiraglio.
Nel 1915,
nel corso della Prima Guerra Mondiale, fu investito del comando della flotta italiana
nel Mare Adriatico con Capo dello Stato Maggiore l’Ammiraglio Paolo Thaon di
Revel.
Terminata la
Guerra, il Duca degli Abruzzi partì per la Somalia ove andò ad esplicare un’attenta
opera di pioniere per la valorizzazione di quelle terre.
Intraprese,
in seguito, un’operazione di una grande bonifica agraria lungo la valle del
fiume Uebi Scebeli (con coltivazioni e campi sperimentali di agricoltura) di
cui, nel 1928, nel corso dell’ultima esplorazione, il Duca scoprirà le sorgenti.
Il Duca degli Abruzzi muore
il 18 marzo 1933 (esattamente
cinquant’anni prima del Re Umberto II) nel villaggio “Duca degli Abruzzi”
(oggi “Johar”), in Somalia, senza figli.
Sembra che negli ultimi
anni della sua vita, il Duca avesse una relazione con una giovane principessa
somala di nome Faduma Ali.
Secondo le sue volontà
viene lì sepolto, sulle sponde del fiume Uebi Scebeli.
Infatti, alla sua
partenza da Napoli, il 7 febbraio 1933, disse: «Preferisco che intorno alla
mia tomba s’intreccino le fantasie delle donne somale, piuttosto che le
ipocrisie degli uomini civilizzati.».
Terminava così la vita
di questo singolare, ma eccezionale, Principe Sabaudo.
Grazie a
lui, si affermò che furono senza dubbio gli italiani a far conoscere l’Africa
agli aficani.
Il 28 Marzo 2023 ricorre il Centenario della costituzione dell’Aeronautica Militare, istituita come Arma autonoma nel 1923 con il nome di Regia Aeronautica. L’Arma Azzurra è la più giovane delle quattro Forze Armate Italiane, e insieme all’Esercito Italiano, alla Marina Militare e all’Arma dei Carabinieri, viene a costituire la Difesa Nazionale. Per ricordare questo importante anniversario nel 2023 sono previste in Italia numerose iniziative a carattere conoscitivo. Molto atteso è l’Evento celebrativo, che avrà luogo a Roma, nel giorno del Centenario, il 28 Marzo 2023. Dalla scenografica Terrazza del Pincio, a Villa Borghese, dopo la Cerimonia, che avrà inizio alle ore 11, alla presenza delle Alte Autorità dello Stato, con il dispiegamento della Bandiera di Guerra dell’Aeronautica Militare, delle Bandiere di Guerra e d’Istituto di tutti i Reparti della Forza Armata, è in programma un sorvolo aereo sulla città di Roma, con velivoli dell’Aeronautica Militare, che disegneranno il numero 100 in cielo, a cui farà seguito il passaggio delle mitiche Frecce Tricolori.
Inoltre dal 24 al 29 Marzo 2023 a Piazza del Popolo sarà allestito il Villaggio Aeronautico con “velivoli in mostra statica, percorsi esperienziali, incontri informativi e d’intrattenimento, padiglioni promozionali, simulatori ludici, proiezioni, esibizioni musicali e sportive”, al fine di conoscere il passato, il presente e il futuro dell’Arma Azzurra.
[...]
Le Iniziative nella Capitale per i 100 Anni dell'Aeronautica Militare (consulpress.eu)
di Pier Franco Quaglieni
Il 18 marzo del 1983 si spegneva in esilio Re Umberto II, che spirò, come in una romanzesca trama del destino, il giorno dopo l’Anniversario dell’Unità, come in un ultimo e intimo congedo.
Quell’Italia che non avrebbe mai più rivisto oggi ne ricorda la statura e il delicato ruolo istituzionale in un periodo storico denso di trasformazioni radicali.
Oggi, 18 Marzo 2023, è il quarantesimo anno dalla scomparsa in esilio del nostro Re e contemporaneamente il ventesimo della nascita del sito a lui dedicato.
Questo quotidiano è stato conservato gelosamente per circa 70 anni dall’Ingegnere Domenico Giglio, Presidente del Circolo Rex, e da lui trasmessoci.
TESTIMONIANZA
DEL NUNZIO MONS. HEIM
I miei
primi contatti con Re Umberto coincisero con la mia Missione in Egitto nel
1970. Sua Maestà era preoccupata per la tomba di suo padre Re Vittorio Emanuele
III che era morto ad Alessandria.
Il Re
è sepolto nell'altare maggiore della Cattedrale Latina d'Alessandria,
precisamente nella parte posteriore tra due scale che servono per salire ad
accendere e spegnere le candele del monumentale altare. Solo una lastra di
marmo bianco segnala il luogo dove riposa la salma; la lastra non porta che il
nome VITTORIO EMANUELE III e le due cifre 1869/1947.
Ho
visto per la prima volta questo umile monumento il 15 novembre 1969 e, dopo, lo
ho visitato ogni volta che sono andato ad Alessandria. Ho riferito a Re Umberto
che in quel tempo esaminava la possibilità di trovare un posto più degno e meno
nascosto per la tomba.
Ho
discusso la cosa con il Vescovo latino di Alessandria e ho disegnato un
progetto per un monumento nella prima cappella laterale della Basilica. Ho
parlato anche con il Governo Egiziano ed il Segretario di Stato mi ha detto:
"dica al Re che non si preoccupi. Le piramidi sono la prova di quanto sono
rispettate in Egitto le tombe dei monarchi."
Re
Umberto ha poi abbandonato l'idea di far fare un altro sepolcro provvisorio per
suo padre, perché pensava che la salma avrebbe dovuto essere portata al
Pantheon, ma questo finora è stato ostacolato.
Personalmente
ho incontrato Re Umberto per la prima volta nel settembre del 1973 quando, dopo
la Messa Pontificale nella Chiesa Abbaziale di St. Maurice, mi ha rimesso la
Gran Croce dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Durante questa Messa sono
rimasto impressionato dalla profonda religiosità del Re.
Un mio
amico svedese domiciliato a Londra, che all’età di vent'anni da protestante
luterano è diventato cattolico, mi ha scritto: "quando per la prima volta
sono stato ricevuto dal Re nell'Hyde Park Hotel di Londra il Conte Olivieri mi
ha introdotto nel salotto. Il Re si è mostrato gentilmente affabile e
amichevole. Ad un certo momento ha guardato l'orologio dicendo - mi scusi, sono
le sei, Le dispiace se diciamo l'Angelus insieme? - si è alzato ed ha recitato
l'Angelus in latino facendomi segno di unirmi a lui. Ero molto impressionato
dal sentimento religioso del Re che, anche in mezzo ad una conversazione non
voleva rinunciare a questa sua abituale devozione. Dopo ha detto - mi perdoni
di averla interrotto, ora continuiamo.
Questo
mio amico avendo da tempo gravi problemi di salute ha bisogno di speciali
trattamenti in ospedale. Quando Re Umberto ha sentito che si trovava di nuovo
ricoverato ha fatto telefonare dal suo aiutante per sapere se era in difficoltà
finanziarie e per far dire che in tal caso sarebbe stato 'ansioso di aiutarlo.
Un'altra
volta ha fatto telefonare persino da una delle sue figlie Principesse per sapere
se in aggiunta alla fragile salute avesse forse anche problemi materiali. Il
mio amico non aveva bisogno di aiuto, ma fu profondamente impressionato dal
delicato e generoso pensiero di Sua Maestà.
Abbiamo
pure saputo che una volta, a Londra, ha invitato una famiglia di emigrati
italiani che era in gravi difficoltà economiche. Non voleva imbarazzarli, ma
quando stavano lasciando l'Hotel il Conte Olivieri dovette rimettere loro una
busta con un generoso assegno.
Una
volta, passeggiando con quello stesso mio amico, passando davanti ad una
bottega di falegname il Re disse: "che nobile mestiere quello del
falegname, pensando che il Figlio di Dio fu chiamato, ed era in un modo, figlio
del falegname." Infatti Dio, Gesù Cristo e la Madonna erano sempre nella
mente di Re Umberto.
A
Londra, quando una volta la macchina fu bloccata dal traffico l'autista si
scusò per il ritardo, ma il Re disse: "fa niente; qualche volta è bene
essere costretto ad aspettare, ci dà un'occasione inaspettata di pregare."
A
momenti Re Umberto sembrava triste, ma mai mostrava rancore. Uscendo da una
Chiesa si fermò davanti ad un grande Crocifisso e disse: "Cristo ha
accettato il tradimento di amici che sembravano fidati, perché' allora noi
dovremmo essere amareggiati?" Soffrire invece di dover stare lontano dalla
patria, ma era rassegnato pur sapendo, come noi, con quanti trucchi e
irregolarità si arrivò al risultato di quel referendum.
Ogni
volta che Sua Maestà era a Londra mi faceva l'onore di accettare un mio invito.
Nel 1982 poi ho potuto visitarlo più volte nella London Clinic. Mi ha pregato
di portargli la S. Comunione in occasione di future visite e l'ha sempre
ricevuta con edificante devozione.
All'amico
svedese ha detto: "preghi per me", e lui ha risposto: "sicuro
Sire, Lei ha molti amici dappertutto che pregano per Lei". Il Re sorrideva
dicendo: "crede veramente? Con la preghiera si ottiene molto!"
Quando
ho visitato Sua Maestà nella London Clinic il 21 dicembre 1982 ha detto:
"a Natale vorrei venire a Messa in Nunziatura." Era il suo ultimo
Natale. Soffriva molto, ma era molto raccolto ed ha ricevuto la comunione con
grande devozione. Questa ultima uscita dalla clinica gli è costata un grande
sforzo, ma ha pure accettato una leggera colazione.
L'ultima
volta ho visitato il Re alla London Clinic il 7 febbraio 1983. Si era
completamente arreso alla volontà di Dio e mi ha detto che avrebbe voluto farsi
portare a Ginevra per morire più vicino all'Italia. Uscendo dall'infermeria ho
incontrato la Regina; ero afflitto ed ho sentito tragico il fatto che il più
pio e cordiale dei Re Sabaudi, a causa delle macchinazioni di fanatici
antimonarchici, doveva essere l'ultimo.
Nessun
Presidente della Repubblica ha potuto far meglio di quanto avrebbe potuto fare
Re Umberto II che è stato esiliato prima di essere veramente conosciuto.
+
Bruno B. Heim N.A.
di
Emilio Del Bel Belluz
Quello che è accaduto al Re Umberto II, non è mai successo a nessun altro personaggio della nostra storia italiana. Fu condannato sia da vivo che dopo la sua morte all’esilio. Il Re Umberto II trascorse ben 37 anni in una terra che non era la sua, a Cascais, in Portogallo ed è sepolto in esilio, ad Hautecombe, in Francia. Fu un periodo molto lungo e durissimo per una persona che nel cuore aveva sempre la sua patria, e l’amore per il suo popolo. Non esistono giustificazioni valide per questo trattamento.
All’uomo che salvò l’Italia da una guerra civile e da un mare di sangue che si sarebbe altrimenti sparso non gli è stato riconosciuto quell’eroismo che meritava. Dopo il dubbio referendum del 2 giugno del 1946, e dopo i brogli elettorali, il Re vedendo il sangue che era stato versato a Napoli dove alcuni giovani monarchici erano morti con la bandiera Sabauda che sventolavano per manifestare in favore del Re e della monarchia millenaria, preferì lasciare l’Italia. Gli avevano rassicurato che si sarebbe trattato di un tempo limitato, e che quando si fossero calmate le acque avrebbe potuto far rientro nel suo Paese. Nessuno potrà mai dimenticare il volto con un sorriso forzato del sovrano mentre salutava i suoi fedelissimi prima che lo sportello dell’aereo si chiudesse. Nella sua tasca aveva un sacchetto di terra che una donna gli aveva dato affinché l’esilio fosse più lieve. Quella terra che i suoi avi avevano onorato, unificando l’Italia. Da quel momento il Re visse in esilio circondato dalle persone che lo andavano a trovare, quelli che lo amavano, e quei tanti che gli scrivevano delle lettere e che gli chiedevano aiuto. Il suo cuore era sempre rivolto a quelli che soffrivano perché si sentiva alla fine uno di loro. A Cascais, un piccolo paese del Portogallo, aveva condiviso parte della sua vita con i poveri pescatori del posto, unito alla loro semplicità e cercando di soddisfare le loro richieste d’aiuto con amore di Re e di padre. Tutto ciò aiutava a lenire la grande nostalgia che lo perseguitava. Nella sua grande biblioteca passava il tempo a leggere molte opere di scrittori italiani che gli inviavano con dedica. La sua biblioteca di cui era fiero, era colma di questi libri che lo aiutavano a passare il difficile tempo dell’esilio. Questa parola dovrebbe essere cancellata dal vocabolario, perché solo a pronunciarla dona sofferenza.
Per la prima volta sentii questo termine dalla mia amata maestra che mi parlò dell’esule Re che stava lontano dal cielo dove era nato. Da allora e, sono passati quasi sessant’ anni, m’incupisco quando penso che non ho potuto fare nulla per il mio Re. Quante volte lo immaginavo davanti al suo mare che osservava le navi in lontananza e sperava che qualcuna andasse a prenderlo per portarlo in Italia. Spesso avrei voluto andare a trovarlo e portargli il sorriso della nostra terra che non lo aveva dimenticato. Allora ero troppo giovane e non avevo le possibilità economiche che mi permettessero di affrontare un lungo viaggio. Passavo il mio tempo a leggere tutto quello che trovavo su di Lui, anche se erano rari gli articoli pubblicati che parlassero della sua vicenda. Da bambino ritagliavo queste pagine e le incollavo su dei quaderni che conservo ancora. Nella mia biblioteca ho una scaffalatura che contiene dei libri che sono usciti su di Lui. Opere che consulto non senza commuovermi. Una volta lessi una citazione di Mattie Brini che recitava: “Non c’è sulla terra un suono più dolce del crepitio di un caminetto: aggiungetegli qualche ramo di pesco o di fico e il fuoco canterà il potere della terra e la triste nostalgia del vento”. Immaginavo Re Umberto II nella sua casa, davanti al caminetto, che mitigava la sua malinconia osservando i bagliori della fiamma e traendo dal profumo della legna un’intensa serenità.
Dove si accende un fuoco anche il cuore esulta. Spesso rivedevo il Re con un libro in mano che ammirava le foto dei posti più belli della sua Italia. Inoltre, mi piaceva pensare che usasse come segnalibro delle cartoline giunte dalla sua Patria e scritte da persone che non lo avevano dimenticato. La compagnia che non lo abbandonava mai era il fruscio del vento e lo sciabordio delle onde del mare che sentiva giorno e notte. Un armatore, che aveva portato i libri e i quadri personali del sovrano, ne era talmente innamorato che non aveva voluto nulla in cambio del viaggio che aveva fatto; l’unica cosa che avrebbe desiderato era che il suo rientro in Italia avvenisse con la sua nave. Ma quell’armatore non ebbe mai quel privilegio. Negli ultimi mesi della sua vita aveva domandato di poter morire in Italia, e lo aveva fatto mentre era ricoverato in un ospedale londinese. Sui giornali comparve una foto in cui appariva irriconoscibile, e con il volto scavato dalla malattia. Erano passati 37 anni da quando aveva lasciato il suo Paese. L’odio era ancora presente e non c’era stato tempo per quel Re esiliato. La sua colpa si riassumeva in una sola parola “Lealtà” verso sé stesso e verso la nazione. Il Sovrano morì a Ginevra, in Svizzera, il 18 marzo 1983 e pronunciando come ultima volta la parola Italia. Solo Dio aveva potuto sollevarlo dalla pena che gli uomini ingiustamente gli avevano inflitta. Morì da Re come da Re era vissuto.
Quando il Sovrano morì fui tra quelle migliaia di italiani che con il cuore spezzato dalla tristezza parteciparono ai funerali. Il mio cuore era posseduto anche dalla rabbia che insorge quando si è davanti a una palese ingiustizia; quando il Paese che amavamo ci costringeva ad andare in terra straniera per assistere ai funerali di un uomo che con il suo comportamento era stato un fulgido esempio, che doveva essere insegnato a scuola. Mi venivano in mente le parole di Piero Scanzani: “La solitudine è veramente la regina del mondo. Ognuno è nato solo e solo morirà. Forse, l’unico abitatore d’ogni dove, si sentì solo, e in una vibrazione d’onnipotenza popolò l’universo di creature. Così è cominciato il nostro giorno”. Quelli come me che in una terra lontana lo accompagnavano, sentivano che stavano scrivendo un pezzetto di storia. A quei funerali mancava un rappresentante del governo italiano: un’assenza che feriva la storia di un Paese. Il Digesto recita: “La giustizia consiste nel rispettare la personalità umana, ossia nel: vivere onestamente, non danneggiare alcuno, dare a ciascuno quel che gli spetta”.
Quello che spettava a Re Umberto II, da parte dello stato italiano, era il rispetto che si deve a una persona che aveva dato molto e ricevuto ben poco. In questi quarant’ anni le cose non sono cambiate, l’ostracismo della sua sepoltura e quella della consorte Maria José al Pantheon permane. Ogni Paese si è rappacificato con la sua storia, eccetto il nostro. Un popolo che non dimostra d’aver memoria è destinato a farsi scrivere la storia da altri. I giovani non conoscono la storia di Casa Savoia, né le vicende del Re Umberto II, sono altre le cose che li vengono insegnate. I media del mio Paese hanno dedicato ampio spazio alla morte della Regina d’Inghilterra, ma spero che non ci sia lo stesso silenzio per i quarant’anni dalla morte di Re Umberto come è stato per i 150 anni dalla nascita della Regina Elena. Penso ad uno scrittore monarchico come fu il buon Giovannino Guareschi, che possedeva una penna meravigliosa per raccontare le vicende del suo Paese. Sarebbe stato bello che fosse ancora tra noi, per vedere in quale modo avrebbe ricordato il caro Sovrano che era stato sempre da lui molto stimato e amato. Da cattolico penso che in cielo si facciano compagnia e magari possano pregare perché il Paese dove sono nati possa migliorare e non essere inghiottito dal pensiero unico dominante. Il 18 marzo 2023, a distanza di quaranta lunghi anni, si ricorderanno ancora una volta di onorare il Re assieme a tutta Casa Savoia, coloro che sono rimasti fedeli alla Monarchia.
Indro
Montanelli lo ricordò il giorno successivo alla sua morte nel Giornale con
questo articolo: “Nessuno può dire che Re sarebbe stato Umberto di Savoia, se
fosse rimasto Re. Nelle poche settimane in cui lo fu, anche i più arrabbiati
repubblicani che ebbero a che fare con Lui ne riconobbero l’equilibrio, la
correttezza e la lealtà. Chiamato a rispondere di colpe non sue, lo fece senza
trincerarsi dietro quelle di suo padre. Mai una parola uscì dalla sua bocca, né
allora né poi, contro di Lui. Quando anni dopo gli chiesi a Cascais se era vero
che l’otto settembre il Re gli aveva proibito di restare a Roma alla testa
delle truppe che dovevano difenderla dai tedeschi - un gesto che forse avrebbe
salvato la monarchia - me lo smentì, mentendo. Mi accorsi che non difendeva la
memoria di suo padre per affetto di figlio: di affetti nella Case Regnanti ce
ne sono sempre pochi e in quella dei Savoia meno delle altre. Difendeva da Re,
il Re… Umberto rimase Re dalla testa ai
piedi e lo è stato fino all’ultimo anche – mi dicono- di fronte alla morte…”.
di
Emilio Del Bel Belluz
ll 18
marzo 1983 moriva in terra d’esilio, a Ginevra, il Re Umberto II. Aveva
lasciato l’Italia il 13 giugno del 1946, dopo il referendum istituzionale che
vide vincitrice la repubblica per oltre un milione di voti. Dopo i risultati si
parlò subito di brogli elettorali e, a Napoli e in altre città, ci furono degli
incidenti dove morirono alcuni giovani monarchici. Il Re per evitare una guerra
civile, scelse di partire per l’esilio, anche perché gli avevano detto che
sarebbe stato per un periodo limitato, fino a quando le cose si fossero
tranquillizzate. Il Re Umberto II partì per l’esilio, accompagnato
all’aeroporto da alcuni fedelissimi. Non si volle dar pubblicità alla sua
partenza per evitare un bagno di folla che lo salutasse e temendo degli
incidenti. Dalle foto d’epoca e dai filmati lo si vede in alcuni momenti con il
volto sorridente che saluta le poche persone presenti, ma il suo cuore era
rivolto a quei dieci milioni di elettori che avevano scelto di votare per la
monarchia e per i Savoia, la cui storia millenaria aveva fatto l’Unità
d’Italia. Prima di partire una donna si avvicinò al Re con un sacchetto di
terra, dicendo al sovrano di portarla con sé perché era terra italiana e che
forse l’avrebbe fatto sentire meno solo. Il sovrano con la gentilezza che lo
contraddistingueva, accettò questo dono, nato da quei buoni sentimenti che il
popolo italiano ha sempre avuto. Successivamente raccontò a un giornalista che
subito dopo il decollo aveva la morte nel cuore, e le lacrime gli scendevano
copiose sul volto. Qualcuno disse che i Re non possono piangere mai, ma il buon
Re Umberto II comprese benissimo che non avrebbe più rivisto il suo Paese. Il
viaggio verso l’esilio non fu facile: “Il giorno che dovetti abbandonare
l’Italia, sul Mediterraneo trovai un tempo pessimo. L’aereo faceva fatica a
mantenere la rotta, e giunti che fummo sulla Sardegna venne preso come una
foglia in mezzo all’uragano. Più volte passammo tra i fulmini, più volte
credemmo d’essere sul punto di precipitare. Ad un certo momento il pilota gridò
che era impossibile proseguire, che non rimaneva che tentare di tornare
indietro. – Dobbiamo proseguire! – gridai. - Io non posso tornare in Italia -.
E proseguimmo. Ebbene, perché non dirlo? Per religioso ch’io sia, più volte
durante quel viaggio invocai la morte.” (Ezio Saini – Quattro principi in
esilio -). Qualche ora dopo il Re Umberto II giunse a Barcellona dove lo
accolsero le autorità spagnole. Il giorno successivo arrivò a destinazione e
poté riabbracciare la famiglia e i figli. La vita da Re in esilio non fu facile
perché la nostalgia era la sua nemica principale. In un articolo
comparso nelle colonne del Gazzettino il 1° giugno 2019 l’attuale Ministro
della Giustizia, Carlo Nordio scrisse: “- Gentiluomo - Umberto II si comportò
da gentiluomo. Pur contestando l’interferenza di De Gasperi e il risultato
delle urne, si rassegnò alla sconfitta, risparmiando al Paese una ennesima
controversia estenuante ed inutile. Il 13 giugno salutò commosso i suoi
collaboratori, e partì per l’esilio. Non fu ripagato di tanta signorilità. Con
una disposizione assurda quanto meschina, la nuova Costituzione avrebbe
impedito l’accesso in Italia anche dei suoi figli maschi. Comunque, pochi
giorni dopo la Cassazione confermò i numeri di Romita”. Il Re
Umberto II visse la sua vita in esilio in terra portoghese, arrivando al paese
di Cascais che allora era un paese di poveri
pescatori. Divenne amico di quelle umili persone, con quella
gente cercò di dimenticare i dolori che la vita non gli aveva risparmiato. Era
un re cattolico e alla domenica si recava alla Santa Messa nella piccola chiesa
del paese. Si metteva nel primo banco, a destra, vicino alla statua della
Madonna. Quel posto era sempre lasciato libero perché era il posto del Re. Con
sé aveva il libro della messa che sua madre, la Regina Elena gli aveva donato.
Alla fine della cerimonia molti poveri della zona gli chiedevano l’elemosina e
il Re cercava di accontentare tutti. La sua fama di uomo gentile si sparse
nella zona e molti andavano a messa per vederlo. Molte volte ho immaginato il
mio Re in esilio, avvolto da una terribile solitudine e
nostalgia che ognuno prova nell’essere ingiustamente allontanato dalla propria
Patria. In una foto trovata in una libreria d’antiquariato si vedeva il Re che
osservava l’oceano, e sperava che una delle navi viste in lontananza, potesse
raggiungerlo per condurlo in Italia. Sul retro della fotografia vi erano
scritte due frasi che citava spesso: una dello scrittore americano James
Baldwuin:” Una delle ragioni per cui la gente si aggrappa così tenacemente
all’odio è che sembrano avere la sensazione che una volta svanito l’odio gli
resterà solo il vuoto e la pena”. L’altra era del grande scrittore Aldous
Huxley:” Gli uomini non imparano mai nulla dalle lezioni della storia. E questa
è la più importante lezione che la storia ha da
insegnarci”. L’’unica cosa che si poteva imputare a questo Re era di
sicuro il bene che voleva al suo popolo e la generosità che ha sempre
dimostrato nei confronti degli italiani in difficoltà. Non potendo
venire personalmente nel nostro Paese, aveva nominato come suo uomo di fiducia
il Ministro della Reale Casa Savoia, Falcone Lucifero. Costui nei momenti
difficili e nelle tragedie che colpirono l’Italia, portava aiuti economici
donati dal Re. A Motta di Livenza, durante la terribile alluvione
che sommerse il paese, nel novembre 1966, il Re colpito profondamente da questa
tragedia fece arrivare conforti economici alle popolazioni. Questa verità l’ho
trovata scritta in una delle tante lettere di persone che lo ringraziavano per
l’aiuto ricevuto. Nel passare degli anni non mancò mai d’incontrare coloro che
lo andavano a visitare, e si intratteneva con loro come un caro amico. Quando
poi li accompagnava, sentiva più forte la malinconia dell’esilio, perché non
avrebbe potuto seguirli. Dalle cronache del tempo e dai molti racconti sentiti,
la descrizione del Re era sempre quella di un uomo gentile, generoso e leale.
Qualcuno disse che sarebbe stato un buon Re se avesse potuto governare in
Italia. Molti lo amavano talmente tanto che spesso gli scrivevano, e il Re
aiutato dalle persone che gli stavano accanto, rispondeva a tutti. Tanti di
questi italiani gli chiedevano una foto con dedica, e questa richiesta veniva
sempre esaudita. Personalmente ricevetti la foto del Re con una dedica che ho
incorniciato e posta nella mia biblioteca e, alcuni anni dopo, mi fu spedito un
suo libro, sempre con la sua firma. Sono stati dei regali che hanno saputo
rendere felice una persona. La figura del Re veniva rappresentata anche da
questi piccoli gesti. Tacito diceva “Chi è nato da una nobile stirpe anche
nella sventura conserva la nobiltà”. Questa nobiltà la mantenne inalterata per
tutta la vita, anche nei momenti difficili della malattia che sopportò senza
lamentarsi. Da buon cattolico invocava l’aiuto del Signore. Quando
seppe che gli rimanevano solo pochi mesi di vita, chiese ai politici italiani
di poter ritornare nel suo Paese per rivedere i luoghi che tanto amava. Ma il
suo ultimo desiderio non fu esaudito. Penso alla frase del noto giurista
Francesco Carnelutti: “L’Italia è la culla del diritto e la tomba della
giustizia”. Ebbi l’occasione di vedere una foto che lo raffigurava quando era
degente in un ospedale londinese, colpito da un tumore che lo stava lentamente
uccidendo. I suoi occhi nello stesso tempo erano quelli di una persona che non
temeva nulla, eccetto il giudizio di Dio. La morte lo colse in un ospedale
svizzero, e in quel momento lo liberò dai tanti tormenti della vita. Allora fui
tra le migliaia di persone che andarono al suo funerale Francia. Molti
sventolavano la bandiera con lo scudo Sabaudo, ed erano coloro che non si erano
arresi alle difficoltà del duro e lungo viaggio. Fui tra quelli che arrivarono
subito dopo che il corpo del Re era stato esposto nella abbazia di Hautecombe.
La bara era aperta, sopra vi era stesa la bandiera Sabauda, era vestito con
l’uniforme da generale ed il viso era scolpito dalla malattia. L’emozione fu
tanta, come copiose furono le lacrime che versai. Essendo tra i primi che
arrivai nella Savoia a Hautecombe, fui testimone del seguente fatto. Mi trovavo
all’interno dell’abbazia. Mi ero messo a pregare, quando sentii alcune frasi
intercorse tra le due guardie del Pantheon, ignare della mia presenza. Uno dei
due disse che quel gesto non si poteva fare, ma l’altro alla fine si chinò e
fece una carezza al volto del Re. Pensai che era la carezza che gli italiani
avrebbero voluto fare a una persona dal cuore così grande. A Motta di Livenza,
il signore Antonio Carlo Lippi, alla fine della guerra, il 2 giugno, esponeva
dal suo balcone la bandiera Sabauda. Quando lo faceva, mi raccontava
in questi giorni sua figlia Vanda, arrivavano i carabinieri che lo obbligavano
a toglierla, ma lui, subito dopo, la rimetteva. Ogni anno anch’io espongo la
bandiera Sabauda nel giorno dell’anniversario della morte del re ed il 2
giugno, non riconoscendo la festa della repubblica. Dopo la sua morte, sulla
sua scrivania, furono ritrovati due fogli scritti di suo pugno.
«Dal testamento
di San Pietro I Vladika del Montenegro.
"Io
mi avanzo pieno di speranza alle soglie del Tuo Divino Santuario
la cui
fulgida luce ravvisai sul sentiero misurato
dai
miei passi mortali.
Alla
Tua chiamata io vengo tranquillo..." ».
Una
citazione di una lettera di san Paolo ai Corinti, copiata in latino e tradotta
in italiano:
«Mihi
autem pro minimo est ut a vobis iudicer (aut ab humano die). Sed neque me ipsum
iudico. Nihil enim mihi conscius sum sed non in hoc iustificatus sum; qui autem
iudicat me, Dominus est».
Traduzione
del Re:
«Poco
importa a me d'essere giudicato da voi (o da un tribunale di uomini) né mi
giudico da me stesso, poiché non ho coscienza di aver commesso alcunché ma
non per questo sono giustificato: mio giudice è il Signore».
di Gianluigi Chiaserotti
Erano le 15,35 del 18
marzo 1983, quaranta anni or sono, che il Grande Re Umberto II di Savoia ci
lasciava.
Ma il piacere più grande è
quello di ricordarlo, in questa occasione, in cui mi limiterò a tratteggiare, a
grandi linee, e con ricordi personali, la Sua vita di Italiano e di Re.
Nato nel Castello di
Racconigi giovedì 15 settembre 1904, l’allora Principe Ereditario venne al
mondo in silenzio, come in silenzio è stata la sua vita di italiano e di Re; in
silenzio, dicevo, in quanto era in corso uno sciopero generale e proprio per
questo i giornali non furono stampati. Però il lieto evento giunse alle
orecchie del Sindaco di Milano, il quale volle esporre il Tricolore Sabaudo al
balcone del Palazzo Municipale.
Il Principe di Piemonte,
titolo che Gli spettava, ebbe un’infanzia ed un’adolescenza caratterizzate
essenzialmente dalla rigida educazione militare impartitagli dall’Ammiraglio
Attilio Bonaldi. Per cui sveglia all’alba, esercitazioni varie, equitazione,
ginnastica. Molti avversari della Monarchia, inutili e superficiali, hanno
criticato questo; senza però pensare che era necessario, in quanto il Principe
sarebbe dovuto divenire il Sovrano di una Nazione invidiata e nobile come era
la nostra. Terminata la preparazione c. d. bonaldiana, Umberto andò in Ginnasio
e poscia al Collegio Militare di Palazzo Salviati in Roma, nel quale
frequentava le lezioni a carattere scientifico, mentre gli studi classici li
preparava privatamente. Terminato il Liceo si iscrisse alla Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Padova, laureandovisi nel novembre 1925, e
divenendo, contemporaneamente, Tenente della Accademia Militare di Modena.
Dopo gli anni
spensierati della giovinezza, trascorsi soprattutto a Torino, giunse il momento
in cui prevalse la Ragion di Stato poiché Umberto doveva assicurare la
continuità della Dinastia; per cui nel giorno del cinquantasettesimo genetliaco
della Regina Elena (1873-1952), il giorno 8 gennaio 1930, sposò la bellissima
Principessa Reale di Sassonia Coburgo Gotha, Maria Josè del Belgio (1906-2001),
figlia del Re Alberto I.
Siamo così giunti alla
parte del ricordo sul Re Umberto II in cui
è chiamato a reggere le sorti dello Stato. Con l’armistizio di Cassibile
del 4 settembre 1943, il giorno 8, Re e Governo
si trasferirono a Pescara (ho detto “si
trasferirono” e non “fuggirono”,
come qualcuno vorrebbe). Codesto è stato un grande atto di lungimiranza del Re
Vittorio Emanuele III (1869-1947), il quale sapeva che se non fosse giunto a
ciò, non avrebbe assicurato la continuità dello Stato. Dopo un periodo di
governo al Sud, Vittorio Emanuele, alla liberazione di Roma — cioè il 5 giugno
1944 —, nominò Umberto, Luogotenente Generale del Regno. Con questa veste Egli
attuò bene la Sua ottima preparazione a divenire Re, che giunse il 9 maggio
1946, a circa un mese dalla data in cui si era stabilito di svolgere il “referendum” istituzionale, cioè il 2
giugno; “referendum” che il Re e,
ribadiamo, solo il Re indisse con Decreto Legislativo Luogotenziale 16 marzo 1946, N. 98; ed ecco cosa, tra
l’altro, disse Umberto, a Genova, nel Suo proclama del 31 maggio 1946, e,
soprattutto, scevro da ogni interesse dinastico:
“(…) appena la Costituente
avrà assolto il suo compito possa essere ancora una volta sottoposta agli
italiani — nella forma che la rappresentanza popolare volesse proporre — la
domanda cui siete chiamati a rispondere il 2 giugno.”
Dalle urne invece,
purtroppo, uscì l’imbroglio e la truffa. Il 4 giugno aveva vinto la Monarchia;
il 5 giugno mattina la Repubblica. La notte portò “consiglio”. Uscì, sempre dalle urne, il modo non corretto di calcolare le
maggioranze e così via (fatti tutti documentati anche da libri di testo
scolastici stranieri). Anche la Cassazione non si portò come avrebbe dovuto in
quanto non poteva che omologare risultati, e quindi non proclamò nessuna
nascita della Repubblica.
Nel
suo ultimo proclama Umberto dice:
“(…) confido che la Magistratura, le cui tradizioni di
indipendenza e di libertà sono una delle glorie d’Italia, potrà dire la sua
libera parola;”.
Purtroppo nella notte tra
il 12 e il 13 giugno, compiuto, da parte del Governo, un vero e proprio “colpo di Stato” (tacitamente ammesso
anche dalla Gazzetta Ufficiale del 1° luglio 1946, N. 144), alle ore 16 del 13
giugno il Re Umberto di Savoia lasciava la Sua Patria, ed alla radio fu letto
il proclama di protesta, che, tra l’altro, dice:
“(…) Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi
ed
al potere
indipendente e sovrano della Magistratura, il Governo ha compiuto un gesto rivoluzionario
assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario poteri che non gli spettano e mi
ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire
violenza.”.
Il Re, non abdicatario (se
lo avesse fatto avrebbe dovuto riconoscere il sopruso di cui era stato fatto
bersaglio), lasciando la Patria si sacrificò per il bene della medesima. Ma,
pur protestando, sciolse dal giuramento di fedeltà quanti lo avevano prestato
ma “non da quello verso la Patria”.
Ed eccoci all’esilio,
allora (ed ora non più, come vedremo tra poco) sancito dalla XIII Disposizione
Transitoria e Finale della Costituzione della Repubblica italiana, la quale
condannava lui ed i nascituri a questa inumana e mediovale pena. In questo
doloroso periodo della sua vita il Re, dalla villa portoghese, ha voluto essere
sempre presente nelle vicissitudini, liete e tristi, dell’amata e lontana
Patria, rimanendo fedele, naturalmente, alle scelte di principio. Presente nei
suoi tradizionali messaggi di fine d’anno, nei quali ha sempre messo in risalto
l’importanza della pace, della giustizia sociale e dell’unità.
E’ bello e doveroso qui
ricordare che, nell’occasione del Centenario dell’Unità d’Italia - il 17 marzo 1961 - Re Umberto sia stato più
presente di chiunque altro. Infatti alla solenne assise della Consulta dei
Senatori del Regno convocata, per l’occasione, in Torino fu letto il suo
messaggio, che tra l’altro recita:
“(…) L’epica impresa poté grado a grado
raggiungere l’altissimo fine,
perché il Re
Vittorio Emanuele II, con a fianco Camillo di Cavour,
aveva assunto con
mano ferma la direzione
e la
responsabilità del moto nazionale,
coraggiosamente superando difficoltà di ogni genere.
Attorno
ad essi sorsero da ogni parte d’Italia
– magnifico prodigio –
falangi di patrioti, sempre tutti presenti nei
nostri grati cuori.
L’apostolato
di Mazzini e l’eroismo di Garibaldi integrarono l’opera meravigliosa, risultato
di forze confluenti e contrastanti, fuse nella sintesi della Monarchia
nazionale. Discordie e rancori di partiti furono arsi dal sentimento religioso
della Patria: così sorse il Regno d’Italia. (…)”.
Il Re concesse poi
onorificenze sabaude ad illustri personalità e si fece rappresentare dal Duca
di Bergamo, Adalberto di Savoia-Genova (1898-1982) in Teano, per lo storico incontro tra il Re
Vittorio Emanuele II (1820-1878) ed il generale Giuseppe Garibaldi (1807-1882).
Ma oltre a queste presenze
storiche, Egli fu presente, e con aiuti cospicui, in occasione di tutte le tragiche
calamità naturali che hanno colpito la nostra Terra: la sciagura del Vajont del
1963; i numerosi terremoti (Valle del Belice del 1968; Friuli del 1976; Irpinia
del 1980; frana di Ancona del 1982). Fu presente anche con le famiglie di attentati
terroristici, mafiosi e con le vittime di rapimenti. La Sua costante presenza
fu anche graditissima fra i campioni dello sport italiani, succedutisi ed
affermatisi nei lunghi anni di esilio. Ma riteniamo che la presenza più bella,
più significativa era quella per gli italiani che si recavano a trovarLo in
Cascais, e che riceveva con nessuna
formalità od etichetta.
Memorabile fu
l’incontro con il Sovrano a Beaulieu sur Mer del 4 giugno 1978, occasione nella
quale chi scrive, neanche diciottenne,
ebbe l’onore di conoscere e salutare il Re d’Italia, Umberto II di Savoia.
La proposta di legge
costituzionale per l’abrogazione dell’esilio portava la data del 10 marzo 1981.
Proposta che si è iniziata a discutere in aula – dopo che era stata ferma 140
giorni in commissione, solo il giorno 8 marzo 1983, e ciò quando il Re era
grave nell’Ospedale Cantonale di Ginevra, e, purtroppo, si aspettava il peggio.
Durante questa, oseremmo dire, “presa in
giro”, ci fu la gara tra i nostri politici, tranne isolati casi, riguardo
alla faziosità ed al riportare notizie false e tendenziose sulla vita del Re e
su Casa Savoia.
Chi lo avrebbe
detto che avremmo dovuto attendere ancora diciannove anni, e ciò fino al 10
novembre 2002, per assistere – finalmente – all’”esaurimento”, come recita letteralmente la legge costituzionale 23
ottobre 2002, N. 1, degli effetti dei commi primo e secondo della XIII
Disposizione Transitoria e Finale della Costituzione.
Quindi, il 18 marzo 1983,
il Re Umberto ci ha lasciati, e ci ha lasciati lucido, con – sulle labbra - la
parola che più amava, che più sentiva, che è stata la ragione di tutta una
vita: “Italia”.
I solenni funerali si celebrarono, alla
impressionante presenza di tantissimi italiani, nell’Abbazia di Hautecombe, ove
il Re, secondo le Sue ultime volontà,
volle esservi sepolto provvisoriamente, se fosse deceduto lontano da
Cascais, in attesa, naturalmente, della sepoltura nel Pantheon di Roma.
Nell’epilogo
desidero riportare tre significativi pensieri del Re:
“Chi affronta
la responsabilità, le preoccupazioni, gli oneri, i disagi e talora i rischi
della democratica lotta per il ritorno della Monarchia, dà esempio della dote
più bella e più alta dell’Uomo: la fede che vuol dire certezza”;
“La
repubblica è un regime estraneo alle tradizioni nazionali, imposto”
badate bene dice “imposto”
in un momento di generale turbamento”.
Il terzo, scoperto solo il
22 marzo 1983 – a quattro giorni dalla scomparsa – nel Suo scrittoio di
Cascais:
“(…) poco importa a
me d’esser giudicato da un tribunale di uomini… nè mi giudico da me
stesso poiché non ho coscienza di aver commesso alcunché; ma non per questo
sono giustificato: mio Giudice è il Signore”.
“Io mi avanzo pieno di speranza alle Tue soglie del Tuo
divino Santuario la cui fulgida luce ravvisai sul sentiero misurato dai miei
passi mortali.
Alla Tua chiamata, o Signore, io vengo tranquillo”.
Ecco quella
fede, quella speranza, nonché quella religiosità che hanno caratterizzato tutta
la Sua vita e che Gli hanno dato la forza
di sperare nel futuro.
Quindi quei politici che
negarono al Re (nel 1983), dopo 37 anni di esilio - anche con un permesso
straordinario - il sacrosanto rientro ed il Suo desiderio di morire in Italia,
credevano di aver vinto.
Umberto di Savoia,
riposando nella quiete e nella religiosità della Abbazia di Hautecombe, in
quella Savoia, ove mille anni fa Umberto Biancamano fu il Capostipite della
Dinastia - in attesa della giusta sepoltura nel Pantheon di Roma – è, e di gran
lunga, il vincitore in Signorilità, in Fede ed in Amor di Patria.
Così è, così Lo ricordiamo
e così Lo benediremo.