NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 18 marzo 2023

L’esilio dell’ultimo Re d’Italia non è ancora finito.


 

di Emilio Del Bel Belluz


Quello che è accaduto al Re Umberto II, non è mai successo a nessun altro personaggio della nostra storia italiana. Fu condannato sia da vivo che dopo la sua morte all’esilio. Il Re Umberto II trascorse ben 37 anni in una terra che non era la sua, a Cascais, in Portogallo ed è sepolto in esilio, ad Hautecombe, in Francia. Fu un periodo molto lungo e durissimo per una persona che nel cuore aveva sempre la sua patria, e l’amore per il suo popolo. Non esistono giustificazioni valide per questo trattamento. 

All’uomo che salvò l’Italia da una guerra civile e da un mare di sangue che si sarebbe altrimenti sparso non gli è stato riconosciuto quell’eroismo che meritava. Dopo il dubbio referendum del 2 giugno del 1946, e dopo i brogli elettorali, il Re vedendo il sangue che era stato versato a Napoli dove alcuni giovani monarchici erano morti con la bandiera Sabauda che sventolavano per manifestare in favore del Re e della monarchia millenaria, preferì lasciare l’Italia. Gli avevano rassicurato che si sarebbe trattato di un tempo limitato, e che quando si fossero calmate le acque avrebbe potuto far rientro nel suo Paese. Nessuno potrà mai dimenticare il volto con un sorriso forzato del sovrano mentre salutava i suoi fedelissimi prima che lo sportello dell’aereo si chiudesse. Nella sua tasca aveva un sacchetto di terra che una donna gli aveva dato affinché l’esilio fosse più lieve. Quella terra che i suoi avi avevano onorato, unificando l’Italia. Da quel momento il Re visse in esilio circondato dalle persone che lo andavano a trovare, quelli che lo amavano, e quei tanti che gli scrivevano delle lettere e che gli chiedevano aiuto. Il suo cuore era sempre rivolto a quelli che soffrivano perché si sentiva alla fine uno di loro. A Cascais, un piccolo paese del Portogallo, aveva condiviso parte della sua vita con i poveri pescatori del posto, unito alla loro semplicità e cercando di soddisfare le loro richieste d’aiuto con amore di Re e di padre. Tutto ciò aiutava a lenire la grande nostalgia che lo perseguitava. Nella sua grande biblioteca passava il tempo a leggere molte opere di scrittori italiani che gli inviavano con dedica. La sua biblioteca di cui era fiero, era colma di questi libri che lo aiutavano a passare il difficile tempo dell’esilio. Questa parola dovrebbe essere cancellata dal vocabolario, perché solo a pronunciarla dona sofferenza. 

Per la prima volta sentii questo termine dalla mia amata maestra che mi parlò dell’esule Re che stava lontano dal cielo dove era nato. Da allora e, sono passati quasi sessant’ anni, m’incupisco quando penso che non ho potuto fare nulla per il mio Re.  Quante volte lo immaginavo davanti al suo mare che osservava le navi in lontananza e sperava che qualcuna andasse a prenderlo per portarlo in Italia. Spesso avrei voluto andare a trovarlo e portargli il sorriso della nostra terra che non lo aveva dimenticato. Allora ero troppo giovane e non avevo le possibilità economiche che mi permettessero di affrontare un lungo viaggio. Passavo il mio tempo a leggere tutto quello che trovavo su di Lui, anche se erano rari gli articoli pubblicati che parlassero della sua vicenda. Da bambino ritagliavo queste pagine e le incollavo su dei quaderni che conservo ancora. Nella mia biblioteca ho una scaffalatura che contiene dei libri che sono usciti su di Lui. Opere che consulto non senza commuovermi. Una volta lessi una citazione di Mattie Brini che recitava: “Non c’è sulla terra un suono più dolce del crepitio di un caminetto: aggiungetegli qualche ramo di pesco o di fico e il fuoco canterà il potere della terra e la triste nostalgia del vento”. Immaginavo Re Umberto II nella sua casa, davanti al caminetto, che mitigava la sua malinconia osservando i bagliori della fiamma e traendo dal profumo della legna un’intensa serenità. 

Dove si accende un fuoco anche il cuore esulta. Spesso rivedevo il Re con un libro in mano che ammirava le foto dei posti più belli della sua Italia. Inoltre, mi piaceva pensare che usasse come segnalibro delle cartoline giunte dalla sua Patria e scritte da persone che non lo avevano dimenticato. La compagnia che non lo abbandonava mai era il fruscio del vento e lo sciabordio delle onde del mare che sentiva giorno e notte.  Un armatore, che aveva portato i libri e i quadri personali del sovrano, ne era talmente innamorato che non aveva voluto nulla in cambio del viaggio che aveva fatto; l’unica cosa che avrebbe desiderato era che il suo rientro in Italia avvenisse con la sua nave. Ma quell’armatore non ebbe mai quel privilegio. Negli ultimi mesi della sua vita aveva domandato di poter morire in Italia, e lo aveva fatto mentre era ricoverato in un ospedale londinese. Sui giornali comparve una foto in cui appariva   irriconoscibile, e con il volto scavato dalla malattia.  Erano passati 37 anni da quando aveva lasciato il suo Paese. L’odio era ancora presente e non c’era stato tempo per quel Re esiliato. La sua colpa si riassumeva in una sola parola “Lealtà” verso sé stesso e verso la nazione. Il Sovrano morì a Ginevra, in Svizzera, il 18 marzo 1983 e pronunciando come ultima volta la parola Italia. Solo Dio aveva potuto sollevarlo dalla pena che gli uomini ingiustamente gli avevano inflitta. Morì da Re come da Re era vissuto.   

Quando il Sovrano morì fui tra quelle migliaia di italiani che con il cuore spezzato dalla tristezza parteciparono ai funerali. Il mio cuore era posseduto anche dalla rabbia che insorge quando si è davanti a una palese ingiustizia; quando il Paese che amavamo ci costringeva ad andare in terra straniera per assistere ai funerali di un uomo che con il suo comportamento era stato un fulgido esempio, che doveva essere insegnato a scuola. Mi venivano in mente le parole di Piero Scanzani: “La solitudine è veramente la regina del mondo. Ognuno è nato solo e solo morirà. Forse, l’unico abitatore d’ogni dove, si sentì solo, e in una vibrazione d’onnipotenza popolò l’universo di creature. Così è cominciato il nostro giorno”. Quelli come me che in una terra lontana lo accompagnavano, sentivano che stavano scrivendo un pezzetto di storia. A quei funerali mancava un rappresentante del governo italiano: un’assenza che feriva la storia di un Paese.  Il Digesto recita: “La giustizia consiste nel rispettare la personalità umana, ossia nel: vivere onestamente, non danneggiare alcuno, dare a ciascuno quel che gli spetta”. 

Quello che spettava a Re Umberto II, da parte dello stato italiano, era il rispetto che si deve a una persona che aveva dato molto e ricevuto ben poco. In questi quarant’ anni le cose non sono cambiate, l’ostracismo della sua sepoltura e quella della consorte Maria José al Pantheon permane.  Ogni Paese si è rappacificato con la sua storia, eccetto il nostro. Un popolo che non dimostra d’aver memoria è destinato a farsi scrivere la storia da altri. I giovani non conoscono la storia di Casa Savoia, né le vicende del Re Umberto II, sono altre le cose che li vengono insegnate. I media del mio Paese hanno dedicato ampio spazio alla morte della Regina d’Inghilterra, ma   spero che non ci sia lo stesso silenzio per i quarant’anni dalla morte di Re Umberto come è stato per i 150 anni dalla nascita della Regina Elena. Penso ad uno scrittore monarchico come fu il buon Giovannino Guareschi, che possedeva una penna meravigliosa per raccontare le vicende del suo Paese. Sarebbe stato bello che fosse ancora tra noi, per vedere in quale modo avrebbe ricordato il caro Sovrano che era stato sempre da lui molto stimato e amato. Da cattolico penso che in cielo si facciano compagnia e magari possano pregare perché il Paese dove sono nati possa migliorare e non essere inghiottito dal pensiero unico dominante. Il 18 marzo 2023, a distanza di quaranta lunghi anni, si ricorderanno ancora una volta di onorare il Re assieme a tutta Casa Savoia, coloro che sono rimasti fedeli alla Monarchia.

Indro Montanelli lo ricordò il giorno successivo alla sua morte nel Giornale con questo articolo: “Nessuno può dire che Re sarebbe stato Umberto di Savoia, se fosse rimasto Re. Nelle poche settimane in cui lo fu, anche i più arrabbiati repubblicani che ebbero a che fare con Lui ne riconobbero l’equilibrio, la correttezza e la lealtà. Chiamato a rispondere di colpe non sue, lo fece senza trincerarsi dietro quelle di suo padre. Mai una parola uscì dalla sua bocca, né allora né poi, contro di Lui. Quando anni dopo gli chiesi a Cascais se era vero che l’otto settembre il Re gli aveva proibito di restare a Roma alla testa delle truppe che dovevano difenderla dai tedeschi - un gesto che forse avrebbe salvato la monarchia - me lo smentì, mentendo. Mi accorsi che non difendeva la memoria di suo padre per affetto di figlio: di affetti nella Case Regnanti ce ne sono sempre pochi e in quella dei Savoia meno delle altre. Difendeva da Re, il Re…  Umberto rimase Re dalla testa ai piedi e lo è stato fino all’ultimo anche – mi dicono- di fronte alla morte…”.




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