NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 15 marzo 2023

UMBERTO: IL RE E L'AMICO

 

INTERVENTO DI EDGARDO SOGNO AL CONVEGNO

"UMBERTO DI SAVOIA, PRINCIPE DI PIEMONTE A TORINO"




DEL 1 GIUGNO 1993

Devo confessare che nello stendere questi appunti su Re Umberto mi sono più di una volta commosso. Meglio così perché spero che non mi accada più con voi questa sera. Il Principe Umberto, il Principe Ereditario, anzi Sua Altezza Reale il Principe Reale Umberto di Savoia, Principe di Piemonte. Sono questi i titoli con i quali un tempo si usava indicarlo nelle carte ufficiali. E sono certo che tutti coloro che conservano per Umberto II dei sentimenti e dei legami personali preferirebbero ricordarlo soltanto così. Fu il suo periodo felicemente migliore, ma non credo che nel caso di un personaggio che appartiene alla storia il farne soltanto dell'agiografia aulica o sentimentale sarebbe per me e per noi il modo migliore di coltivarne e onorarne la memoria. Dobbiamo ormai affrontare con il distacco e la serenità dei posteri quel complesso destino, fatto come per tutte le figure storiche, di luci e di ombre, di giornate luminose e di momenti oscuri, talvolta tragici e talvolta patetici, ma che concorrono tutti a disegnare un profilo nel quale non trovano posto le passioni politiche contingenti, sempre così decisive nel deformare i giudizi dei contemporanei. Farò dunque lo sforzo, difficile e forse nella sua pienezza ancora impossibile, di vedere questo Re, l'ultimo Re d'Italia, non nella luce affettuosa dell'uomo che in vita abbiamo conosciuto ed amato, ma nella luce impersonale dell'ultimo di una serie di ritratti che, da Umberto Biancamano a Emanuele Filiberto, da Vittorio Amedeo a Vittorio Emanuele II, compongono il millenario medagliere della Casa di Savoia.

Considerando l'arco intero della sua vita cosciente, quella che ha fatto storia e che della storia è sottoposto a giudizio, nella vita di Umberto si possono distinguere nettamente tre periodi. Il primo, quello facile e spensierato di erede di un trono che si riteneva ancora saldo e indiscusso e che, in piena coincidenza con il ventennio mussoliniano, va dal '22 al '43. Un secondo periodo, quello difficile e duro delle responsabilità dirette nei confronti dello Stato italiano e della Dinastia che va dal '43 al '46. Infine quello silenzioso e triste dell'esilio, un periodo lungo quasi quarant'anni, che va dal '46 alla morte senza mai più rivedere l'Italia. Ciascuno di questi tre periodi si svolge in un contesto di circostanze storiche del tutto mutate rispetto alle precedenti, presenta delle caratteristiche proprie per quanto riguarda l'atteggiamento di Umberto e comporta quindi valutazioni e giudizi indipendenti. La mia franchezza in questi giudizi potrà dispiacere a qualcuno e lo comprendo. Ma penso che le vere infedeltà alla Casa e all'amicizia che purtroppo si sono verificate siano di ben altro segno e non abbiano nulla. in comune con la rievocazione lucida di momenti difficili di cui insieme abbiamo sofferto.

Del primo periodo ci ha parlato diffusamente e dottamente Giorgio Lombardi. Osserverò soltanto che si tratta del periodo della giovinezza spensierata, del pensare leggero e lontano dalle responsabilità politiche dirette (i Savoia regnano uno alla volta) ma anche il periodo nel quale ad Umberto risulta affidato, nel gioco delle forze presenti, un compito personale e preciso. Questo compito era di assicurare il miglior possibile collegamento fra la Monarchia e il popolo attraverso un'immagine largamente accettata e diffusa, quella appunto del principe ereditario e futuro sovrano, quella del principe bello e cortese distaccato dalla politica del regime, ma presente nella vita giornaliera del cittadino comune. Di questa sua popolarità e presenza nell'immaginario popolare, ben distinta dai suoi legami diretti con la ristretta cerchia di corte e dei circoli mondani e militari, esistono testimonianze precise che vanno dalle canzoni goliardiche e le fotografie sui campi di corse e sui campi di sci alle comparse nel cine­ma, nella rivista e nel teatro popolare. La più significativa in questo senso la troviamo nel personaggio quasi irreale, nel segno dell'ele­ganza e del successo, che Fellini colloca nel suo film "Amarcord" fra i simboli dominanti della retorica e dell'orgoglio nazionale come il tran­satlantico Rex e l'automobilismo sportivo. Ma non erano tutte rose per Umberto neppure in questo periodo relativamente felice se più tar­di, pensando a Carlo Alberto, dirà in un'inter­vista "Se sapesse quanto è difficile la parte di principe ereditario". In effetti, nel quadro del­la ventennale diarchia, da una parte Re Vitto­rio, chiuso nella sua incomunicabilità, lascia­va che il figlio rappresentasse una parte a lui negata, ma interveniva con rigore sugli even­tuali sbandamenti, come avvenne con il brusco trasferimento da Torino a Napoli negli anni trenta e con la severa tirata di redini nel '43. Dall'altra parte Mussolini che aveva tollerata, utilizzata e ridimensionata la Monarchia, la­sciava fare, ma con scarsa simpatia, collezio­nando ricattatori rapporti di polizia, coltivan­do la relazione speciale con il ramo di Aosta, ideologicamente più vicino, e preparandosi a dire la sua sulla successione al trono con la minacciosa facoltà di veto attribuita al Gran Consiglio. Queste invadenze della dittatura non sfuggivano alla delicata sensibilità del Princi­pe, come provano le sue proteste, riservate agli intimi, contro i molteplici aspetti della prevari­cazione: dalle mancanze di forma come i comu­nicati sul Duce che "ha ricevuto il Principe Umberto" e le visite promozionali della famiglia reale al cimitero di Predappio ("l'omaggio dei Reali ai genitori del Duce") a quelle più sostan­ziali come la parificazione del Duce e del Re nel grado militare di Maresciallo dell'Impero e nel­l'assunzione da parte di Mussolini del comando supremo in guerra che i Savoia, dinastia milita­re, mai fino a quel momento avevano ceduto. Ma nel rilevarlo, in tono talvolta ironico, tal­volta dolente, ma senza oltrepassare i limiti di una sottomessa discrezione, Umberto già rile­vava quella incapacità di rompere di fronte all'inaccettabile, frutto di una ferrea formazio­ne disciplinare, che sarà, nelle prove future, la sua forma caratteriale più evidente. Di questo fare di ogni scelta un piegarsi al dovere, una sottomissione al destino, anzi un'accettazione religiosa e francescana della Provvidenza, re­sta la maggior prova in questo periodo il suo matrimonio. Matrimonio dinastico e di stato, non scelta sua, con una sua pari che invece appassionatamente l’amò, riuscendo, lei sì, per una breve stagione, a fare coincidere scelta e dovere.

Ma veniamo al secondo periodo, quello delle scelte e delle responsabilità. E qui ci troviamo subito di fronte alla domanda fondamentale: quali e quanto grandi sono le responsabilità di Umberto nella caduta della monarchia?

Nell'inverno '42-'43 il cielo del regno d'Ita­lia era basso e grigio e minacciava l'uragano ormai imminente. Il Principe, come la maggio­ranza dei cittadini lo sentiva vicino. Altri mem­bri della famiglia reale, Re Vittorio, la princi­pessa Maria José, già avevano deciso e lavora­vano nell'ombra per una svolta. Nella sua ri­dotta autonomia, sotto l'occhio sospettoso del padre e quello della polizia, il Principe iniziò la sua fronda in una cerchia ristretta di confiden­ti, ma come quasi tutti fu colto di sorpresa dal 25 luglio, poi soprattutto dall' 8 settembre e dall'ordine di lasciare Roma con Re Vittorio e Badoglio. Di ciò che gli accadde la mattina del 9 Re Umberto me ne ha parlato più volte con insistenza, come sentisse il bisogno di giustifi­carsi, e benché' lo abbia già scritto altrove, devo ripeterlo qui. Mi raccontò che la sera dell'8 settembre, dopo la pubblicazione del­l'armistizio, che esponeva immediatamente lo stato italiano all'attacco e alla rappresaglia dei tedeschi, Badoglio se n'era andato irresponsa­bilmente a dormire come se nulla fosse. Alle 2 di quella notte fu sorpreso a letto dai primi colpi di cannone. All'alba Umberto si recò al Mini­stero della Guerra, in via XX Settembre, dove già, sui divani del grande corridoio al primo piano, sedevano il Re, la Regina e Badoglio. Questi poco dopo gli disse che la famiglia reale, con un piccolo seguito di alti gradi militari, stabiliva che la forma istituzionale dello stato sarebbe stata sottoposta a referendum.

Posso comunque testimoniare, per averli vissuti, sul carattere umanamente straziante di certi momenti cruciali della vita di Umberto come luogotenente del Regno, momenti in cui appariva più dolorosa ed insormontabile quella contraddizione fra la disarmata innocenza del­la sua buona volontà e la spietata durezza dell'aggressione politica. Alcuni di questi mo­menti riguardano tempestosi rapporti con la stampa, che spinta dalla passione repubblica­na, distorceva e sfruttava a suo danno ogni meno cauta dichiarazione. Una prova di questa disarmata innocenza la ritrovo nella frase di una sua lettera con la quale mi restituiva il testo di un'intervista opportunamente corretto (di­sastrose esperienze avevano consigliato qual­che prudenza). "Mi sembra così vada bene", scrive Umberto "per le ultime due domande si può forse migliorare ma nel senso semplice e sincero che nulla vuole -nascondere". Ancora candore democratico opposto a brutali distor­sioni.

Un altro momento, l'ultimo di un lungo cal­vario, fu la sera che precedette la partenza per l'esilio. Ci riunimmo al Quirinale, al lume delle candele, in un piccolo Consiglio della Corona, per esaminare ed approvare il testo del messag­gio che Umberto avrebbe diretto, partendo, ai cittadini italiani. Ma, a parte la questione del tono più o meno di rottura da tenere nei con­fronti del Governo De Gasperi, che, forzando i tempi, aveva proclamato la repubblica, la vera domanda che incombeva su di noi era un'altra: se avremmo dovuto incoraggiare o scoraggiare una frattura nel paese sulla questione istituzio­nale. Ma tutti noi sapevamo che Umberto aveva irrevocabilmente scelto e irrevocabilmente abdi­cato: non una sola goccia di sangue italiano si doveva spargere per la sua causa e per causa sua.

La storia non si fa con i se né con le ipotesi gratuite di ciò che non è avvenuto. Ma queste servono talvolta a chiarire come e perché' le cose si sono effettivamente svolte e quali sono le responsabilità dei protagonisti. Nei passaggi storici decisivi, dalla firma del decreto sul referendum alla partenza del '46, Umberto diede prova di comportarsi secondo una logica rigo­rosamente democratica. Ora, al di fuori di ogni mitizzazione, il metodo democratico è il regi­stratore imparziale dell'equilibrio delle forze che esiste in un dato momento e serve a scorag­giare la minoranza dall'affrontare uno scontro fisico in cui sarebbe perdente. Non rientra invece nella logica del metodo democratico un qualsiasi vincolo che escluda futuri cambia­menti nella volontà della maggioranza. Se dun­que la Monarchia è un istituto di natura diver­sa ed autonoma possono i suoi sostenitori ed il suo rappresentante affidarsi nei momenti deci­sivi, e per di più vincolandosi per il futuro, esclusivamente al metodo democratico? Questa è la domanda storica dalla risposta alla quale dipende il giudizio sulle responsabilità di Um­berto nella caduta dell'istituto millenario che gli era affidato. È fuori discussione in ogni modo che i repubblicani, da parte loro, si sono allontanati dal rispetto della logica democrati­ca, tentando di forzarla a proprio vantaggio. La più grave di queste forzature è l'articolo 138 della Costituzione che stabilendo l’irrevocabilità della forma repubblicana, non soltanto ha cancellato la volontà di dieci milioni di votanti, ma ha voluto impedire ogni controllo democra­tico futuro sui possibili cambiamenti di quella maggioranza.

Ancora poche parole sull'ultimo periodo di vita del Re, quello dell'esilio. Buona parte di voi lo ha incontrato e lo ricorda in qualche occasione di questo periodo. Ma come è acca­duto a me ripensando a questi incontri, non ci tornano alla mente quelli in Inghilterra, in America, a Parigi o sulla Costa Azzurra. Ci viene in mente Cascais. Perché' nonostante lo negasse per via di quella sua ritrosia a togliere il velo dai sentimenti, nel costruire la perfetta testimonianza di vita che fu la lunga permanen­za lontano dalla sua terra, Umberto tenne lo sguardo fisso, come a un modello e una guida, in Re Carlo Alberto. Ci sono fra i due personaggi e le loro vicende personali delle impressionanti analogie fisiche e morali, alcune imposte dalla sorte, altre deliberatamente cercate. La grande somiglianza fisica è facile riscontrarla osservando i ritratti e le statue di Carlo Alberto che si conservano a Torino, ma ancora maggiori sono le affinità morali, soprattutto un comune atteggiamento di autoflagellazione. Il dramma dell'esilio, volontario quello di Carlo Alberto, forzato quello di Umberto, si accompagna nei due sovrani, entrambi mossi da un fervente spirito religioso, con un sentimento, anzi con una mistica dell'espiazione di colpe personali e di colpe collettive che, quasi con uno strano compiacimento, hanno fatto proprie. E c’è soprattutto in Umberto la non dichiarata, ma pur chiara volontà di trasformare il sacrificio dell'abdicazione definitiva in apoteosi, l'as­sunzione di un cilicio morale in redenzione storica, la sconfitta in monumento. In una evo­luzione che matura con il tempo anche per Umberto, come già in Carlo Alberto, si fa strada nella condizione dell'esiliato una com­ponente attiva. Da un lato c’è la capacità di assorbire, quasi annullandoli con la propria accettazione pacata, i colpi del destino avverso, dall'altra c’è lo sforzo di sublimare l’avversità di quel destino in un sacrificio personale che si imponga all'attenzione della storia. A mano a mano che la necessità di questo sacrificio si va precisando nella forma di un consolidamento nel paese della scelta repubblicana, Umberto sembra distogliere lo sguardo dal Pantheon e da Superga, che gli sono negati, per fermarlo sulle radici di Hautecombe. E assume a poco a poco, sostanzialmente, ma quasi segretamente l'atteggiamento di ultimo Re della Casa.

Fra le molte pagine che furono scritte sul soggiorno di Umberto in terra portoghese, sul promontorio di Cascais, la punta più occiden­tale del continente, non ne conosco migliori e più autentiche di quelle che Giovanni Mosca ha raccolto sotto il titolo "Il Re in un angolo". Rileggerle oggi è la miglior rievocazione di quell'esilio, è come deporre un fiore sulla sua memoria. Mosca conclude l'introduzione con queste parole: "Se l'uomo è tale che la più efficace delle propagande in suo favore sia la semplice, serena, distaccata descrizione di co­me vive laggiù nella sua solitaria villa in riva all'Atlantico, ebbene, questo raddoppia in me il piacere e l'orgoglio d'essere fedele a una persona per esaltare la quale basta semplice­mente dire la verità".

Edgardo Sogno

 


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