NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 30 dicembre 2019

Margherita di Savoia, la Regina che fece l'Italia


Figura poco studiata dagli storici, fu fondamentale ai fini della «nazionalizzazione» della Monarchia

Uno dei più popolari scrittori italiani della prima metà del Novecento, Salvator Gotta (1887-1980), l'autore del celeberrimo Il piccolo alpino e dei romanzi della «Saga dei Vela», ripercorrendo ormai anziano, in un gustoso almanacco autobiografico, gli incontri più significativi della sua lunga vita, volle ricordare l'impressione che fece a lui, allora bambino di appena otto anni, la vista della Regina Margherita e di Re Umberto.
Era l'estate del 1895 e la coppia reale era giunta a cacciare il camoscio in Valle dell'Orco dove anche i Gotta, originari della zona, stavano villeggiando. A distanza di tanti decenni alla mente dello scrittore tornava come «un'immagine non fissa ma vaporosa e cangiante, più sogno che materia» quella della Regina che «nel pieno fulgore della sua bellezza, vestiva un abito grigio perla» e i cui «capelli biondi, il suo viso chiaro e sorridente» gli apparvero «come trascolorati dai copiosi veli perlacei, lievissimi, che ornavano il suo grande cappello di paglia».
Il fatto che quel bambino, destinato a diventare un narratore famoso, fosse rimasto colpito dalla sovrana ormai quarantaquattrenne fino al punto di fissarne le fattezze in maniera indelebile nella memoria, è indicativo del fascino che Margherita di Savoia (Torino, 1851 - Bordighera, 1926) esercitò sui contemporanei. Un fascino del quale, per inciso, rimase vittima, al solo ammirarla da lontano, anche il poeta repubblicano e massone Giosuè Carducci, che ne divenne un cantore appassionato.
Che Margherita, la bella figlia di Elisabetta di Sassonia sposata al cugino Umberto I di Savoia in base a un matrimonio combinato, fosse riuscita a conquistare il cuore degli italiani lo dimostrò bene il trasporto delle sue spoglie da Bordighera a Roma - siamo nel 1926 - su un treno che impiegò quasi ventiquattro ore per giungere a destinazione e dovette fermarsi novantadue volte per consentire agli abitanti dei paesi attraversati di rendere l'ultimo omaggio alla prima regina d'Italia. Non a caso il più importante quotidiano del tempo scrisse che la sua salma era assurta a simbolo di italianità.
A questa figura, poco indagata dalla storiografia, Luciano Regolo ha dedicato una voluminosa e accurata biografia dal titolo Margherita di Savoia. I segreti di una regina (Edizioni Ares, pagg. 824, euro 29,90) che non soltanto ne ricostruisce con puntigliosa meticolosità la vita, utilizzando una grande messe di materiale documentario anche inedito, ma che, soprattutto, consente di coglierne appieno l'importanza storica.
Margherita, in effetti, fu importante nella storia dell'Italia unita non soltanto perché fu la prima, e certo la più amata, delle sovrane, ma soprattutto perché svolse un ruolo fondamentale ai fini della «nazionalizzazione» della monarchia dei Savoia. In un'epoca, quella liberale, nella quale la politica era elitaria e lontana dal popolo, ella si rese conto che, nell'interesse dinastico e per il prestigio della Corona, era necessario ottenere il consenso delle masse popolari e dei ceti borghesi oltre che degli ambienti colti. Con le sue tante iniziative conquistò il favore del Paese e sedusse molti intellettuali, anche di estrazione repubblicana, avvicinandoli alle istituzioni. Sotto questo profilo fu una sovrana che seppe ritagliarsi un vero e proprio ruolo politico in un'epoca e in un modo ancora incapaci di accettare anche solo l'idea o la parvenza della emancipazione femminile. Il lavoro di Luciano Regolo sottolinea, per esempio, il contributo di Margherita, credente e praticante, al disgelo dei rapporti tra i Savoia e la Chiesa dopo la presa di Porta Pia.
Quando la coppia reale, Umberto e Margherita, giunsero a Roma era il primo pomeriggio del 23 gennaio 1871: brutto tempo, pioggia battente, gente assiepata ai lati del corteo con i corazzieri, i lancieri, gli staffieri in livrea rossa. La regina volle «conquistare» la folla curiosa di vedere lei più che Umberto e ordinò di scoprire la carrozza. Fu un gesto che entusiasmò i romani, come narrano i resoconti e le cronache d'epoca. Gli applausi durarono a lungo e i principi, giunti al Quirinale, furono costretti ad affacciarsi più volte.
Ci fu, però, da parte di Margherita un'altra e ben più importante «conquista di Roma». Ella si propone subito di attirare attorno a sé ma di fatto attorno alla dinastia l'aristocrazia romana. Ecco dunque gli inviti al Quirinale per la cosiddetta «nobiltà nera», che, magari, a mezzogiorno era papalina ma la sera, a Corte, si scopriva «savoiarda». Ecco, poi, la valorizzazione della Corte con ricevimenti, feste e balli. Non si trattava di frivolezza fine a se stessa, ma di un investimento politico di immagine che avrebbe dovuto portare la Corte sabauda a un livello di dignità pari a quello delle altre Corti europee. Anche nella scelta delle dame di Corte Margherita operò una rivoluzione. Le nuove dame di Corte avevano sì requisiti araldici, ma soprattutto erano donne colte. Non basta. Prima erano solo piemontesi, adesso, rappresentavano tutta l'Italia: c'erano tre romane, due napoletane, una siciliana, una lombarda e una sola piemontese.
Tutto ciò mostra che Margherita, come scrive Regolo, «non fu di certo estranea alla politica» come sarebbe stato invece il caso di Elena, la moglie di Vittorio Emanuele III, ma, al tempo stesso «non giunse neppure a sfidare apertamente l'establishment del suo tempo come fece invece la moglie di Umberto II, Maria José, capace di piani golpisti contro la dittatura fascista dalla fine degli anni Trenta in poi». Un atteggiamento del genere per lei «avrebbe infranto il senso della regalità al quale aveva improntato la condotta di una vita» e avrebbe nuociuto all'immagine della dinastia della cui storia era diventata una appassionata cultrice.
Circolava a Corte una battuta secondo la quale Umberto sarebbe stato «il principe consorte della Regina Margherita». Ma era una battuta, pur arguta, lontanissima dalla realtà. La Regina diceva di se stessa di essere attratta più dalla poesia che dalla politica e di non avere conoscenze sufficienti. Aveva però un forte sentimento dinastico e un forte spirito nazionalistico unito a una vera e propria passione per i militari. La verità è che, per usare le parole di Regolo, la regina nella politica «mise grazia e prudenza». E ciò anche se, al momento dell'avvento del fascismo e poi durante il regime, lei che ammirava l'«uomo forte» Francesco Crispi e non sopportava Giovanni Giolitti e che era ormai relegata nel ruolo di «Regina madre», attenta a sostenere il mito del «Re martire», il ricordo cioè del marito, il «Re buono» assassinato dall'anarchico Bresci all'inizio del secolo in più occasioni manifestò simpatia per Mussolini e per il fascismo nel quale vedeva un movimento d'ordine, una specie di assicurazione contro il pericolo delle rivoluzioni e dell'anarchia.
Donna di intelligenza vivace, forte di carattere, con una passione per i castelli, le parate militari, le uniformi e la storia dei Savoia, era anche più colta di quanto si pensi: amava la poesia, i classici, traduceva in francese i versi di Elisabeth Browning, discuteva di Dante, Shakespeare, Hugo e godeva fama, forse esagerata, di poetessa. Ma era anche una donna moderna come dimostra il fatto che fu tra le prime a guidare l'auto. Il volume di Luciano Regolo ne offre un ritratto affascinante, a tutto tondo, inserito in un grande affresco della storia dell'Italia dei primi decenni del Novecento.


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giovedì 26 dicembre 2019

Il veleno per dire di una mostra su Re Vittorio Emanuele III


Vittorio Emanuele III era più bravo a dipingere che a regnare in Italia

Secondo Degas «il disegno è l' espressione più diretta e spontanea dell' artista: una specie di scrittura che rivela - meglio della pittura - la sua vera personalità». Ecco perché rivestono un interessante valore documentale i disegni da poco ritrovati e che vi presentiamo in esclusiva: sono i lavori del giovane Vittorio Emanuele III di Savoia, da lui realizzati tra i dodici e i diciotto anni di età. Un carattere schivo, diffidente e malinconico quello del "Re soldato", amante di discipline "da biblioteca", come storia, geografia e numismatica. Non è difficile immaginarlo da ragazzo, mentre riprendeva dal vero i suoi paesaggi nella beata solitudine campestre. Sulla sua figura di monarca la storia ha espresso giudizi pesanti - per il voltafaccia dell' 8 settembre e lo sbando cui furono abbandonati i nostri militari - che hanno spazzato via i suoi primi discreti anni di regno e il merito di aver vinto la Grande Guerra. Il dileggio si è poi spesso accanito sull'unica cosa della quale non aveva colpa, ovvero il suo aspetto fisico. Forse a causa della consanguineità dei suoi genitori, Umberto I e Margherita di Savoia-Genova, cugini fra loro, o forse per via di un parto difficile, crebbe di statura solo fino ai 153 cm.

CAPRO ESPIATORIO
Per via di questi e altri fattori, la storiografia non lo ha mai molto considerato, ritenendolo una figura mediocre. Per larga parte degli ambienti monarchici e per storici più di nicchia, invece, è stato un personaggio molto travisato, che ha fatto ciò che poteva in una situazione di grave difficoltà, poi divenuto un capro espiatorio per coprire altri e maggiori responsabili. Fatto sta che quando il sovrano, nel 1946, abdicò e scelse l' esilio, non poteva portare tutto con sé e donò parte dei suoi archivi e dei suoi averi, tra cui uniformi e decorazioni, a funzionari e cortigiani fedeli. 
Parte di questo materiale è stato acquisito recentemente da un collezionista e, dato che era già molto ben catalogato, è stato da poco esposto a Roma, nel 150° della sua nascita, presso il Museo dei Granatieri di Sardegna. Diretto dal tenente colonnello Bruno Camarota, insieme all' appena riaperto Museo della Fanteria, quello dei Granatieri è una realtà molto attiva e da alcuni anni propone ricche e frequenti mostre su personaggi storici di primo piano.

Le fotografie del Savoia, per grandissima parte completamente inedite, erano già ordinate in buste divise per soggetto e situazione: vi sono quelle relative ai figli, alla consorte regina Elena, a scene di quella intimità familiare che regalò a Vittorio Emanuele i pochi momenti davvero felici della sua esistenza. Vi è persino una busta del medico personale del Re, conte Quirico, che, tra le altre cose, custodisce ancora gli aghi utilizzati per le vaccinazioni del sovrano e dei suoi figli. Si può dire, quindi, che l' esposizione al Museo dei Granatieri conserva anche un campione del Dna della famiglia reale.

Una componente cospicua del materiale cartaceo è costituita da sessantanove, tra acquerelli e disegni a matita, che ritraggono paesaggi, castelli, capanne contadine, ponticelli, rovine romanticheggianti.
«Mentre i dipinti di Hitler», commenta Vittorio Sgarbi, «stupiscono di più, per il solo fatto che una personalità come quella del dittatore tedesco amasse la pittura e l' arte, i lavori di Vittorio Emanuele III sostanzialmente confermano un' individualità "diminutiva" e poco originale, certamente bene educata, col suo vedutismo alla Massimo d' Azeglio, o le copie accademiche di ritratti forse ripresi da Benozzo Gozzoli o da qualche altro pittore fiorentino. Del resto, Casa Savoia è stata grande fino a Umberto I, ma con Vittorio Emanuele III ha segnato la sua fine».

PROSPETTIVA
Un accademismo scolastico non privo di qualche pregio, tuttavia. Secondo il pittore Giorgio Dante, affermato esponente del figurativismo contemporaneo: «Sebbene di qualità variabile, i disegni sono interessanti e ben fatti, quasi certamente eseguiti dal vero e denotano un ottimo studio prospettico delle complesse architetture. Le poche cancellature mostrano una mano sicura, il segno nitido e leggero è attento al rispetto delle luci. Nonostante il soggetto difficile, l' acquerello monocromo è un bellissimo lavoro. Certamente il giovane principe assorbì i dettami di un' Accademia che, a fine '800, era giunta al culmine della tecnica». La grafologa Marilena Cremaschini, specializzata nell' analisi delle personalità attraverso il disegno, offre questa interpretazione: «I disegni evocano momenti di pace al volgersi della sera, come a voler ricercare la lentezza e la serenità dopo le avversità del giorno. Colpisce l' assenza assoluta di figure umane nei suoi paesaggi, espressione di un bisogno di ritirarsi proprio dal contatto con gli altri. Questa esigenza di privacy emerge anche dalla "insularità" dei disegni, raccolti e concentrati al centro del foglio con un ampio margine bianco intorno. I soggetti riguardano spesso edifici antichi, o rovine, segno che i fatti del passato erano davvero importanti per il futuro Re.
L' uso dei colori o della scala di grigi denota una spiccata sensibilità, ma il chiaroscuro è molto controllato come se tutto quello che lui avrebbe voluto fare od essere fosse stato impedito dal suo ruolo, o forse anche dalla sua fisicità».
Che siano artisticamente validi, o meno, su quei fogli ingialliti, rimangono fissate le luci e le ombre - per quanto tenui - di una personalità che ha tenuto in mano le sorti della Patria per ben 46 anni e che per questo meriterebbe di essere studiata più a fondo.

di Andrea Cionci


mercoledì 25 dicembre 2019

Il primo Natale del Re d’Italia Umberto II in esilio.


 di Emilio Del Bel Belluz

Il Natale 1946 fu il primo Santo Natale che il Re d’Italia passò in Portogallo dopo la sua partenza per l’esilio. Nella vita di ognuno ci sono dei periodi particolari che non si dimenticano mai, specialmente quando si deve cambiare vita completamente, come lasciare il proprio Paese natio.  
L’esilio avrebbe dovuto finire dopo qualche tempo come gli era stato promesso, invece durò trentasette anni. Il sovrano aveva lasciato l’Italia per evitare la guerra civile. Il Re che era un galantuomo, un uomo d’onore e leale si era fidato. 
Quel Natale non fu lo stesso per molti che amavano i Savoia, perché si sentivano truffati dal risultato del referendum e dal modo in cui il Re era stato allontanato dall’Italia. 
Difficile comprendere e sentire quello che provano gli altri, ma immagino che la malinconia nel cuore del sovrano fosse grande. La terra del Portogallo fu ospitale per Umberto II, la gente incominciò subito ad amarlo, specialmente le persone più bisognose che avevano saputo che il Sovrano aveva un grande cuore e  vedeva in loro l’immagine del Signore. 
Il primo Natale da esule non lo avrebbe mai dimenticato, perché le ferite inferte dal destino lasciano una traccia. In questi giorni ho trovato grazie al mio amico Umberto un articolo scritto dal giornalista Luis C. Lupi nel settimanale Oggi del 7 gennaio 1947 che ripropongo: “ Primo Natale in esilio di Umberto II” “Non c’è stato sciampagna il giorno di Natale alla mensa dei sovrani d’Italia; e nemmeno vino o cibi italiani. Il cuoco portoghese ha preparato per i bambini i caratteristici canditi locali e paste dolci; biscotti e vino di Porto per gli altri commensali.« Tuttavia è stato un giorno lieto per tutti , specie per i bimbi», ha detto il generale Graziani, che fa parte della casa del Re. 
« Essi erano in grande felicità per i giocattoli e i regalini che hanno ricevuto; ed anche il re non nascondeva la gioia per un messaggio che gli era pervenuto dai suoi congiunti in Egitto; i quali hanno pure inviato alcuni doni ai nipotini». La principessa Maria Pia e il principe Vittorio Emanuele hanno voluto essi stessi partecipare alla preparazione dell’albero natalizio che era stato regalato loro da un gentile signore di Cintra ove sono i più grandi boschi di pini del Portogallo. Essi stessi vi hanno attaccato le candeline, i calendarietti e tutti i ninnoli che costituiscono la ricchezza e l’ornamento di ogni albero natalizio.I principini hanno ricevuto in questi giorni affettuose lettere di augurio dai loro piccoli amici italiani, e la principessa Maria Pia, in particolare, dalle amichette con le quali prestava servizio nelle “Guide”. 
Il mattino di Natale i quattro figli di Umberto e di Maria José sono entrati nella stanza ov’era allestito l’albero tutto illuminato. I doni erano disposti su quattro tavolinetti; uno per ciascun bambino. Su tutti e quattro c’era una piccola lampada da letto regalata dal padre, poi Vittorio Emanuele ha avuto una scatola di compassi dalla mamma e un impermeabile giunto con un pacco di doni dai nonni paterni. A Maria Pia il babbo ha regalato una sciarpa da collo, la mamma un pullover e una sciarpa: ma anch’essa ha avuto dai nonni un impermeabile. A Maria Gabriella è toccata una minuscola vestaglia da camera, mentre alla più piccola, Maria Beatrice, che ha soltanto tre anni, il babbo ha regalato una bambola e la mamma una carrozzina. Anche la nonna, Elisabetta del Belgio, che da qualche giorno si trova non molto lontano dalla figliola, a Monteroil, ha fatto a ciascuno dei nipotini un piccolo dono. 
Ma un regalo, che si può dire simbolico, come ha detto il generale Graziani e che tale doveva certamente essere nell’intenzione del donatore, è giunto a tutta la famiglia da parte di un ricco italiano, da molti anni residente in Portogallo, ove si è acquistata una posizione preminente: si tratta di una minuscola gabbia dalla quale sei rondini con un nastro azzurro al collo, spiccano il volo per ritornare al nido.

«Sei sono anche gli esiliati », ha commentato il generale Graziani, «e tutti sperano ancora di far ritorno, un giorno, in patria». Nella settimana di Natale i principini hanno chiuso i loro libri ed hanno avuto vacanza, anche perché la loro istitutrice italiana ha subito nei giorni scorsi una leggera operazione ed è ancora in convalescenza. Il mattino della vigilia essi sono scesi ad Estoril per acquistare doni da scambiarsi tra loro o da inviare ai loro piccoli amici. Nel pomeriggio, accompagnati dai loro genitori, sono andati tutti insieme a far visita ai quattro figli del conte e dalla contessa di Barcellona, che li hanno accolti intorno al loro albero ed hanno offerto a ciascuno di loro un regalino. 
La sera hanno partecipato al pranzo della vigilia tra il babbo, la mamma e la nonna Elisabetta. Un padre italiano dei Salesiani, che vive ad Estoril, ha celebrato nella minuscola cappella della villa la messa di mezzanotte, cui hanno assistito, oltre Umberto e Maria José, anche Elisabetta del Belgio, il duca e la duchessa di Genova, giunti poco prima da Estoril ove normalmente risiedono, le tre o le quattro persone del seguito e tutto il personale di servizio. Nella giornata di Natale  ̶  una bellissima luminosa giornata dal cielo intensamente azzurro come quello italiano  ̶  il Re si è alzato, come consueto, di buon’ora. Alle 8,30 coi figli Maria Pia, Vittorio Emanuele e Gabriella si è recato a messa nella chiesa di Cascais, ove la principessa Maria Pia ha fatto anche la comunione. 
Quindi, dopo una rapida colazione, tutti i principini, accompagnati da miss Smith, la istitutrice inglese, hanno fatto una lunga passeggiata fin oltre la “Bocca dell’inferno”, seguiti da Boneca e Cintra, i due cani, fedeli compagni inseparabili dei loro giochi. Sotto queste alture, a cavaliere della baia di Cascais, poco lungi dal gaio e notissimo centro internazionale di Estoril, si trova la nuova dimora che ospita gli ex reali d’Italia nel loro esilio portoghese: un castello, già di proprietà del primo ministro conte di Montereale, un autentico borghese che mostrò gran talento, durante la vita, nell’accumulare un’immensa fortuna con danari di tutti i paesi, ma che non rivelò altrettanta disposizione nel formare la sua sensibilità artistica. Ad ogni modo la nuova abitazione degli ex sovrani d’Italia è certamente assai più comoda della casa della marchesa di Cavadal, nella quale essi avevano trovato ospitalità al loro giungere in Portogallo. 
La casa di Colares era ricca di tradizioni; ma questa è ben più vasta, ha una grande sala centrale da pranzo ed una incantevole veduta di tutta la baia. I pescatori, che tengono le loro barche nella minuscola spiaggia sottostante al castello, hanno ormai imparato a conoscere la famiglia; e, sia Umberto che i figli, sono già popolari tra la gente del villaggio. 
In questo ambiente sereno e riposante è trascorsa la festività del Natale. Unici ospiti del tradizionale pranzo natalizio sono stati il duca e la duchessa di Genova. Nel pomeriggio i tre principini più grandi, accompagnati da miss Smith, sono scesi ad Estoril per salutare, nella clinica ov’è ricoverata, la loro istitutrice italiana, e portarle qualche piccolo dono. Sono tornati stanchi e ridenti, come tutti i bambini dopo le emozioni di un giorno tanto atteso. Gli ospiti erano partiti. 
Nella semplice sala da pranzo, intorno alla tavola modesta, la sera di Natale è trascorsa nella più assoluta intimità familiare: Umberto, Maria José ed i loro quattro figlioli.

martedì 24 dicembre 2019

Sì, questo è un uomo

di Marcello Veneziani

I baffoni di Peppone, lo spirito di don Camillo, l’ardore di ambedue. E dietro di loro i baffoni di Stalin e la voce di Gesù che parla al parroco esuberante.

Siamo a Natale del 1954. Giovannino Guareschi è in carcere per aver diffamato Alcide De Gasperi. Stette più di un anno in gattabuia. Quel Natale del ’54 non era il primo dei suoi Natali trascorso in carcere. Undici anni prima aveva passato un altro Natale in prigionia, nel campo di concentramento di Benyaminòv in Polonia e poi in Germania; vi rimase ben due anni, assieme agli altri soldati italiani. Era stato deportato perché come ufficiale d’artiglieria non aveva aderito alla Repubblica sociale ed era rimasto fedele al giuramento al Re e al Regno d’Italia.

In quel Natale da deportato aveva composto un testo tenero e struggente, Favola di Natale, in cui sognava il suo ritorno a casa, tra i suoi cari. Tornò dal lager stremato dopo quella lunga prigionia, pesava quaranta chili. Ma nel dopoguerra fondò il settimanale Candido e per il suo anticomunismo, il suo amor patrio, per giunta cattolico, fu accusato di fascismo… Destino cinico e beffardo.

[…]

lunedì 23 dicembre 2019

Io difendo la Monarchia - Cap VIII - 3

Con ciò non si vuole negare il contributo certo notevole, nella maturazione dello stato d'animo avverso al fascismo, del movimento clandestino delle opposizioni.

Nacquero giornaletti stampati e diffusi alla macchia come l'Italia Libera, l'Avanti!, L'Unità e Ricostruzione.

Antiche tendenze e correnti politiche rimaste a scorrere segretamente neI sottosuolo della vita italiana degli ultimi tre lustri, tornarono a farsi sentire, ríapparvero d'improvviso alla luce e i loro fautori venivano giustamente giudicati come spiriti illuminati e coraggiosi. Ma anche questi gruppi, meno il partito d'azione, contavano sul l'intervento del Sovrano per eliminare Mascolini. Essi non rifuggivano dal compromesso. La rosalìa repubblicana è venuta in seguito: dopo che la Monarchia a proprio rischio e pericolo, aveva compiuto la sua parte il 25 luglio. E’ venuta dopo nella corsa dei vari gruppi al palio delle riforme demagogiche con quello spregiudicato cinismo e machiavellismo che gli inglesi hanno bollato ai Comuni, una volta per tutte, nel conte Carlo Sforza. Anche Mussolini, che nella notte tra il 25 e il 26 luglio si proclamava nella sua lettera a Badoglio, «fedele e devoto servitore della Monarchia » e che nei suoi colloquì con l'Ammiraglio Maugeri (1) riconosceva

che egli era finito per la politica attiva e che mai avrebbe compiuto l'errore e il delitto di valersi dell'appoggio tedesco per tentare di tornare alla direzione della cosa pubblica, anche Mussolini dimenticava quelle assicurazioni e quei buoni propositi per instaurare, in goffa concorrenza con l'antifascismo, la Repubblica Sociale italiana, dimenticando per l'occasione perfino il fascismo.

Triste demagogia, dunque, e nulla più: fatuo mimetismo che a tutto guarda. a tutto provvede, a tutto mira fuor che al bene comune. 

Ma al disopra delle congiure dei gruppi clandestini, più forte d'ogni volontà generale, premeva ormai una drammatica realtà. L'Esercito era finito. In Africa nella lunga ritirata da El Alamein a Tunisi aveva avuto più nemico il tedesco che l'inglese. Il rapporto del generale Messe sulla battaglia- del Mareth dal 14 al 24 marzo, conteneva molti elogi al nemico e aperti rimproveri all'alleato. Rommel che era apparso un salvatore nel gennaio 1941, era giudicato da tutti, ora, il peggiore dei malanni capitatici in guerra. Dopo avere causato la distruzione dell'armata tedesca e di quella italiana, si involerà dall'Africa per subire, un anno dopo, la sconfitta ultima e definitiva sul vallo atlantico (2). Perdute tutte le posizioni in Africa, distrutta l'armata italiana in Russia, l'esercito italiano non contava più in Patria, che poche unità veramente efficienti. Il soldato continuava a ripetere che il suo armamento era inadatto alla guerra moderna, che, soprattutto. la continuazione della guerra

era inutile, era anzi dannosa, vera e propria follia e aveva finito col non combattere più. Cosi si spiega l'occupazione di Pantelleria avvenuta quasi senza, colpo ferire, lo sbarco pressoché incontrastato in Sicilia e la rapida occupazione di due terzi dell'Isola, lo sbarco sulla costa calabrese. Tre anni di guerra impopolare senza una sola vittoria, avevano determinato. ormai, lo scollamento dell'Esercito. Le due ultime fiammate, del valore Italiano furono la battaglia di Tunisia e la ritirata dall'ansa del Don. Poi non vi sarà più un esercito italiano. Nel guardare, più tardi, al fatti dell’otto settembre bisogna avere presente questa condizione di cose. I comunicati mussoliniani, vuoti e ampollosi,redatti all'inizio - a sentire lui - nell'intento di non nascondere mai la verità al popolo italiano, erano divenuti falsi e retorici, magnificavano un ardimento che non esisteva, esaltavano una difesa, come ad Augusta e a Pantelleria che lo stesso Mussolini accuserà più tardi ed avrà torto ancora una volta - di tradimento.

Il demagogo non trovava più una sola nota giusta. Dall'inizio della guerra egli confesserà - nessun avvenimento sarà più propizio al suoi disegni. Tentava allora di correggere la sorte avversa con l’ostinazione e non faceva che raddoppiare ed esasperare gli errori. I due convegni dell'aprile e del luglio, a Salisburgo e a Feltre, tra Mussolini e Hitler non mutarono la situazione. Dal 7 al 10 aprile ì due dittatori si incontravano a Klessheim, presso Salisburgo. Questa volta Ciano era stato sostituito da Bastardini, Cavallero da Ambrosio.

Bastianini cercò di portare nel convegno un'idea nuova. Egli ricordava la massima dì Clausewitz che quando la sorte delle armi è contraria bisogna ricorrere all'arte della politica. Sperava quindi di determinare un nuovo orientamento nella politica europea dei due Stati dell'Asse. La Germania e l'Italia non dovevano tanto preoccuparsi di affermare le ragioni del loro spazio vitale quanto di ottenere la solidarietà delle nazioni del Continente in un programma di collaborazione. Non si Poteva costruire la nuova Europa con la schiavitù degli europei. Tornavano così in onore vecchi motivi del 19,9, soffocati e respinti dalla dottrina della razza superiore e del Lebensraum. Ribbentrop respinse subito il progetto di Bastianini. Quanto a Hitler non ebbe nessun agio dí ascoltarlo. Egli pronunciò in questo, come in ogni altro convegno, deí lunghi monologhi che Mussolìni ascoltava da solo senza testimoni e senza interprete. Poiché la sua conoscenza del tedesco non era perfetta non sì è mai saputo che cosa egli comprendesse delle parole di HitIer. Era però avvenuto un fatto nuovo. Da quando gli avvenimenti militari e politici non erano più favorevoli al dittatore italiano, questi si trovava in istato di palese, inferiorità rispetto al tedesco. Era ormai lontano il tempo di Monaco in cui Mussolini appariva ancora il maestro e HitIer il discepolo: (il primo parlava seduto con autorità e sufficienza e l'altro ascoltava in piedi in atteggiamento deferente e quasi desideroso di apprendere). Ora Hitler si era fatto aspro e non rifuggiva dal paragonare lo sforzo bellico tedesco con quello italiano e di lamentare lo scarso spirito combattivo del nostro esercito e la mancanza di disciplina e dì spirito di sacrificio del nostro popolo. La lentezza del governo italiano nell'applicare il sistema di razionamento per la distribuzione dei viveri e dei tessuti, aveva colpito tutti ì tedeschi. Essi si fingevano furiosi allo spettacolo delle vetrine dei nostri negozi, ma ne profittavano per saccheggiare allegramente quelle già scarse risorse.

Ci fu ancora un tentativo di chiarire la situazione con i tedeschi. in un convegno presso Feltre (19 luglio) nel castello del senatore Gaggia. Anche questa volta accompagnarono Mussolini il generale Ambrosio. il Sottosegretario Bastianini e l'Ambasciatore italiano a Berlino, Alfieri. Da parte tedesca vi erano Rìbbentrop, Keitel e l'ambasciatore a Roma Mackensen. Fu un convegno frettoloso e inconcludente durato poche ore e ridotto a una sola seduta plenaria. E in questa seduta non vi fu che un solo discorso di Hitler. Voleva Mussolini in quel convegno mettere finalmente i punti sugli “i”? Il Maresciallo Badoglio lo ha affermato nel suo discorso aglì Ufficialì in Agro dí San Gíorgio Jonico. Sia il Sottosegretario agli esteri Bastianini che il Capo dì Stato Maggiore Generale Ambrosio, desideravano da tempo una franca spiegazione e facevano molte pressioni su Mussolini in tal senso. 

Ma il «duce» era ormai intimidito dal Fuehrer. Egli si recava al convegni con la cattiva coscienza del peccatore perché non poteva sbandierare come avrebbe voluto una qualche vittoria o almeno un qualche successo. Si trovava quindi in una situazione di inferiorità che gli toglieva l'iniziativa e la parola. Ascoltava le orazioni del Fuehrer, si proponeva di rispondere, di mettere in chiaro ma poi e non osava, attendeva sempre un'occasione migliore; un momento più propizio, una carta anche minima nel proprio giuoco.

(1) MAUGERI: Mussolini mi ha detto , nella rivista “politica estera”, 1944, n. 7-8.
(2) Da rivelazioni recenti attribuite dalla stampa al figlio sembra che Rommel non sia morto per le ferite riportate, ma sia stato costretto a suicidarsi.

domenica 22 dicembre 2019

Milano, la rivoluzione dei cretini: "Indietro, Savoia!"

La trovata del "genio" che cambierà in meglio le sorti d'Italia


Milano, la rivoluzione dei creativi: "Indietro, Savoia!"

Un’agenzia di comunicazione lancia la proposta di “sfrattare“ i reali da vie e piazze per intitolarle ai contemporanei "in base al merito"

di Giulia Bonezzi

Milano, 21 dicembre 2019 - Se corso Vittorio Emanuele fosse all’improvviso rinominato a Enzo Jannacci? E la Galleria, sempre Vittorio Emanuele II, a Gaber? La statua a cavallo in piazza Duomo sostituita da una scultura di Bruno Munari? Gian Maria Volonté potrebbe scippare piazzale Cadorna al generale del Regio Esercito ricordato, tutto sommato, per la disfatta di Caporetto. 

L’idea di convertire i nomi di vie, strade e piazze dedicate ai reperti dell’Italia monarchica nel segno della meritocrazia contemporanea – cioè ad artisti, scienziati, persino politici, e anche viventi – è venuta a un gruppo di creativi milanesi, che l’ha consegnata all’AdnKronos.
[...]

Un dono per noi

Dal nostro infaticabile Waldimaro Fiorentino abbiamo ricevuto una copia della sua opera più recente dedicata alla Regina Elena.
Oltre che una bella strenna natalizia per noi è un dono a tutto il mondo monarchico ed alla cultura italiana.

In un periodo oscuro della nostra storia, dove più che mai la nostra nazione merita di essere appellata "nave senza nocchiere in gran tempesta", dove dei cosiddetti "creativi" altro non hanno da "creare" che l'idea di rimuovere i nomi dei Re dalla toponomastica cittadina nel tentativo di rimuoverli anche dalla storia d'Italia, questo libro ripercorre agevolmente tutte le tappe importanti della vita della Regina d'Italia che si spese unicamente per la pace e per il bene dei popoli, non solo quello italiano,  e della Sua famiglia.

Una Donna della cui memoria la Nazione dovrebbe essere custode e che molti vogliono elevata alla gloria degli altari.
" In occasione del 50° anniversario della morte della Regina Elena il Vescovo di Montpellier diede ufficialmente inizio alla causa di canonizzazione della "Serva di Dio Elena di Savoia, laica della diocesi di Montpellier e del vicariato di Roma, sposata, Regina d'Italia. Una Causa che inspiegabilmente non è mai giunta a conclusione".

Noi coltiviamo questa speranza.







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sabato 21 dicembre 2019

Lo zampognaro della Regina Margherita


di Emilio Del Bel Belluz

Anche per me, come per tutti, gli anni passano e i ricordi prendono il sopravvento. Sento di avere l’obbligo di raccontare degli episodi di cui sono venuto a conoscenza, affinché ne rimanga traccia.  
Proprio in questi giorni che precedono il Natale, mi è tornata in mente la storia di uno zampognaro. Per tanti anni ho vissuto a Villanova di Motta, un piccolo paese del Veneto che si raccoglie attorno alla chiesa e alla canonica del parroco. 
Un tempo il sacerdote era una persona di riferimento per tutti i parrocchiani.  Era assistito nel suo operato dal sacrestano, figura ormai scomparsa. Allora la mia famiglia gestiva un’osteria, con annesso un piccolo negozio di generi alimentari. 
Una vigilia di Natale, entrò nell’osteria uno zampognaro e avvicinatosi al presepe che avevamo allestito dentro il locale, si mise a suonare. Quella sera nell’osteria c’ero io, mio padre e il sacrestano del paese che attendevamo per andare ad assistere alla Santa Messa. Mio padre era stato una persona che aveva molto sofferto nella vita: la guerra, la dura prigionia e tante altre sconfitte che ha dovuto superare. 
Ci sono uomini che, essendo stati duramente provati dalla vita, diventano duri e spietati, ma ce ne sono altri che mantengono il cuore buono e disponibile verso il prossimo. Elso, mio padre, aveva una speciale venerazione per i poveri, e cercava per quello che poteva di aiutarli. Lo zampognaro che aveva suonato davanti al presepe non era una persona fortunata. 
Aveva camminato per tanti chilometri, visto molti paesi, ma non era riuscito a guadagnare molto. Lo zampognaro era un vecchio con la barba fluente, gli occhi stanchi e i vestiti logori. Mancavano due ore alla mezzanotte, io dissi a mio padre che bisognava dargli da mangiare, e subito andai in cucina e vi discesi con una minestra di fagioli, un pezzetto di carne e del vino che avrebbe resuscitato anche un morto. 
L’uomo iniziò a raccontare la sua vita. Era rimasto vedovo da alcuni anni e non aveva avuto figli. Ogni anno partiva da un paesino vicino al confine austriaco e scendeva a valle per suonare nei vari paesi. Anche suo padre aveva fatto lo zampognaro, e sin da piccolo gli era entrato nel cuore il suono delle ciaramelle. Il vecchio dopo essersi rifocillato, raccontò che gli era piaciuta l’osteria di mio padre, e aveva scelto di entrarvi perché un uomo lungo la strada gli aveva parlato di lui, dicendogli che sicuramente l’avrebbe aiutato. Lo zampognaro chiese a mio padre se poteva trovargli un giaciglio per dormire, e un boccone per l’indomani. Elso non ci pensò due volte, e l’accomodò in una stanza che tenevamo come ripostiglio, dove c’era una branda con delle coperte. 
Gli occhi del vecchio s’illuminarono, e disse che gli zampognari furono amati anche dalla regina d’Italia, Margherita di Savoia. Dalla tasca della logora giacca tolse il suo portafoglio. Vi trasse un foglio di giornale e, senza dire che cosa contenesse, lo lesse tutto d’un fiato. “Giggi il Moro, zampognaro della Regina e modello di fama internazionale, è stato certo il più bell’uomo di Anticoli, e ne è oggi il più bel vecchio. I magnifici occhi neri, il profilo purissimo, la figura tuttora diritta e signorile, gli atteggiamenti pieni di dignità, il suo procedere lento e maestoso, colpiscono ancor oggi profondamente. Ma anche per lui i tempi sono brutti. Poco lavoro sia come modello, sia come zampognaro, ché negli alberghi di Roma, dov’era spesso chiamato dai forestieri, c’è ormai poco o nulla da fare. 
Zampognaro di classe, vincitore ― nientemeno ― di un primo premio al veglione del Costanzi quaranta o cinquant’anni fa. ― Quella sera ― egli racconta, mentre la fiamma del camino illumina il bel volto abbronzato ― tornando a casa si vide correre incontro la moglie, la quale, tutta ansimante, lo avvertì che c’eran le guardie ad aspettarlo. “E che me servono a me le guardie?” fu la risposta di Giggi, che aveva la coscienza tranquilla. Le guardie dovevano condurlo a Palazzo Reale: la Regina Margherita, che era intervenuta al veglione, voleva risentire lo zampognaro di Anticoli. E andò così, vestito com’era, con la fascia rossa alla vita e le cioce con le stringhe, “che parevo Gasparone!”Da quella notte, Giggi il Moro, per quindici anni, ad ogni vigilia di Natale varcò la soglia del bel palazzo di via Veneto e accanto al Presepio suonò sulla sua zampogna le dolci arie di Natale, alla presenza della Regina e di tutta la Corte.
 “Ma una volta s’inquietò con me, la Regina tanto bella e buona e che mi chiedeva sempre: ― Come stai, zampognaro? ― seguita a raccontare Giggi, ormai tutto preso dai ricordi di un tempo felice. ― Nevicava e così, invece delle cioce e dei guardiamacchia (calzoni corti di pelle di pecora, usati dai pastori) avevo messo le scarpe e i calzoni lunghi. Quando la Regina mi vide, ― Non farlo più! ― mi disse seria. ― Se ci tieni proprio alle scarpe e al resto, porta almeno con te il costume per indossarlo qui ― . Cento lire per volta, mi davano ― sospira Giggi ― e poi l’albero di Natale aveva sempre un regalo anche per me. Un anno, una “cuccuma”, quella...” E il bellissimo vecchio si alza, la tira fuori con grande cura da una credenzetta, e me la porge, accarezzandola quasi con lo sguardo. L’argentea “cuccuma” della Regina fa una figura veramente regale tra i pochi cocci che costituiscono le misere stoviglie familiari “. Alla fine  della lettura si bevette un sorso di vino, ogni volta che gli capitava di raccontare questa storia si commuoveva, perché quel racconto glielo narrava sempre suo padre che era morto. 
Lo invitammo alla messa di mezzanotte, e il vecchio acconsentì. La gente del piccolo paese di Villanova era felice nel vedere che uno zampognaro partecipava alla Santa messa. Alla fine della cerimonia, il vecchio parroco lo chiamò davanti al presepe a suonare alcune melodie natalizie. Quella notte di Natale una figura del presepe l’ avevamo portata nella nostra casa e nella nostra vita. L’indomani con la bisaccia piena di provviste riprese la via di casa. Prima di andarsene mi regalò quell’articolo, e mi chiese di non dimenticare lo zampognaro della regina. 
Quel foglio l’ho conservo da tanti anni tra i miei più cari ricordi di un  tempo.

giovedì 19 dicembre 2019

Re Umberto e il suo "no" a Superga

Cari amici,

ricorre in questi giorni il secondo anniversario della traslazione di Re Vittorio Emanuele e della Regina Elena a Vicoforte.
A suo tempo ci siamo detti molto delusi dalla scelta. Il santuario, bellissimo e quanto mai all’altezza dell’onore di ospitare i nostri Sovrani, non era e non è, a nostro modestissimo giudizio, la naturale destinazione della salme Reali.
Abbiamo comprensione per il verosimile stato di necessità in cui si è agito e riteniamo valida ogni motivazione diversa dalla nostra.

Un ex maoista a capo del Governo quale Gentiloni, il terrorismo islamico sempre più minaccioso verso i luoghi di culto cristiani in Egitto e tanti altri fattori di cui è stato dato conto hanno sicuramente indotto alla soluzione del male minore.

Tuttavia, noi che inseguiamo nelle biblioteche di tutta Italia, e talvolta all’estero, ogni parola pronunciata dal Re non abbiamo mai dimenticato, e non dimentichiamo, con quanta fermezza il Sovrano si sia espresso in senso contrario a qualunque soluzione non fosse il Pantheon di Roma.

L’occasione di un ulteriore ricordo ci viene dal resoconto di questa “visita di cortesia” di un giornalista della Domenica del Corriere a Cascais nel 1973, del tutto in sintonia con quanto già riferito al nostro Giovanni Mosca nello stesso periodo e che mettiamo a disposizione dei nostri amici monarchici.



Le parole del Re, a nostro giudizio impegnano a non considerare definitiva la sepoltura a Vicoforte ed a tendere in ogni modo a rendere giustizia alla Storia ed alla memoria della nostra Nazione.

Non ce ne voglia S.A.R. la Principessa Maria Gabriella. Non ce ne voglia il Professor Mola. Non ce ne voglia nessuno che, amando il Re, la pensi diversamente da noi.

Sul sito dedicato a Re Umberto l'intervista del 73.



martedì 17 dicembre 2019

Natale in Casa Savoia: Racconigi si racconta il 26 dicembre


Come accadeva almeno dal primo Novecento, la città di Racconigi rinnova l’abitudine di ricordare, festeggiare e raccontare ciò che ruotava intorno al Castello senza dimenticare la propria storia e le tradizioni locali.

Giovedì 26 dicembre, la visita al Castello si arricchisce di curiosità riguardanti le festività natalizie. La residenza racconigese non fu mai frequentata in inverno, ma di sicuro offre spunti per raccontare aneddoti poco noti che riguardano la vita privata della famiglia Reale specie tra fine ‘800 ed inizio ‘900 quando le feste erano divise tra momenti pubblici e privati e lo scambio di regali era un rito atteso e un modo per i Sovrani per mostrare la loro attenzione verso le persone che stavano loro accanto e verso le classi sociali più povere.

Se volete sapere se i Savoia preferivano l’albero o il presepe, non vi resta che partecipare alla visita. La proposta rientra nel progetto “Prendici gusto!” candidato da ATL Cuneese al bando 2019 L.R 14/2016 art.21 della Regione Piemonte.

Per farvi avvolgere completamente nell’atmosfera natalizia suggeriamo di approfittare delle aperture straordinarie dei Presepi di San Domenico e della Chiesa del Gesù nonché dell’allestimento a tema nella Confraternita di San Giovanni Decollato con i quadri del maestro Carlo Sismonda.

ORARI VISITE GUIDATE: 11:00.14:30-16:00

COSTI VISITE:
Intero 5,00 E; Ridotto 3,00 E ragazzi 13-17 anni e Racconigesi; Gratuito minori di 12 anni

Riduzioni per chi acquista on line o prenota entro il 23/12. Consultate il sito di Cuneo Alps:
https://www.cuneoalps.it/eventi/speciale-tour-guidati/tour-guidati-cuneo-alps

Prenotazioni:
Conitours – 0171 696206 – info@cuneoalps.it

Informazioni:
Ufficio Turistico di Racconigi – 3920811406 – visitracconigi@gmail.com

Appuntamento:
Racconigi, presso Ufficio Turistico, Palazzo Comunale (di fronte al Castello).

Per informazioni sui costi dei biglietti d’ingresso al Castello:
http://polomusealepiemonte.beniculturali.it/index.php/musei-e-luoghi-della-cultura/castello-di-racconigi/visita-il-castello-di-racconigi/



fonte: ideawebtv

Libia, incontro a Catania sul ritorno della Monarchia


Libia, un vicino caro e prezioso” è il titolo dell’incontro svoltosi nell’Ostello degli elefanti di via Etnea a Catania e organizzato dal circolo etneo “Italia di Tripoli” e dal meetup “Attiviamo Catania”.


La manifestazione ha visto la partecipazione del principe Hashem el Senussi, nipote del deposto re Idris e cugino del principe ereditario, di studiosi ed esponenti del Movimento cinque stelle, come l’ex senatrice Ornella Bertorotta (che ha ricordato la propria richiesta all’Ue di lavorare per riportare la pace in Libia), e poi Souadou Lagdaf (docente di Storia dei Paesi islamici dell’Università di Catania, che ha auspicato l’individuazione da parte dell’Onu di una figura super partes), il giornalista Antonello Longo (che ha ricordato l’importanza di riportare la pace anche per combattere la tratta di esseri umani), e Arturo Pellegrino, presidente del circolo “Italia di Tripoli” di Catania.

“Il 15 novembre del 2017 – ha ricordato Pellegrino, promotore dell’incontro – pubblicammo un documento in cui auspicavamo un ritorno in Libia di una monarchia costituzionale, di un re come garante super partes, che potesse evitare gli scontri tra le kabile, le tribù libiche. Ho vissuto in Libia fino all’età di vent’anni e sono convinto che, restaurando la monarchia, questo assurdo conflitto si sarebbe potuto concludere con un solo vincitore: il popolo libico”.


[...]

fonte: qds

lunedì 16 dicembre 2019

Due anni dopo. Il racconto del Professor Mola della sepoltura dei Reali nel santuario di Vicoforte.

Re Vittorio Emanuele III e la Regina Elena a Vicoforte

di Aldo A. Mola

Requiescant in pace...

Finalmente insieme. Finalmente in Italia. Finalmente in pace. Era il 15-17 dicembre del 2017, due anni orsono. Tre governi fa. Presidente del Consiglio era Paolo Gentiloni, ora l'italiano più rappresentativo nella Commissione europea. Da quei giorni di due anni fa le salme di Vittorio Emanuele III e di Elena di Savoia sono congiunte ai lati dell'altare nella Cappella San Bernardo del Santuario-Basilica di Vicoforte, diocesi di Mondovì, provincia di Cuneo, cuore del “Vecchio Piemonte” a loro particolarmente caro. Era la terra incontaminata, quella delle rare intense “vacanze”, tra Racconigi e Pollenzo, Sant'Anna di Valdieri e la miriade di “piccoli borghi” che alla Regina ricordavano il suo originario Montenegro.

Una luce nella notte: la Regina da Montpellier  a Vicoforte
Per primo arrivò il sarcofago della Regina, quasi il Consorte le avesse dato la precedenza, con l'eleganza che le usava nella consuetudine di Casa, quando le recava mazzi di viole campestri da lui stesso raccolte, al di fuori del protocollo di Stato. Era ormai buio fitto quando il furgone funerario giunse da Montpellier il 15 dicembre 2017. La sua estumulazione era iniziata alle 7.30 nel cimitero Saint-Lazare alla presenza di Luca Fucini, componente della Consulta dei senatori del Regno, appositamente delegato, e del “maire” Philippe Saurel, che sul feretro racchiudente la cassa di zinco appose la coccarda francese e la targa “Reine Elena di Savoia, 1873-1952”. Venne chiesto un minuto di silenzio “à la mémoire de la Reine”. Fu l'omaggio della città alla Regina d'Italia che, vedova dal 1947, vi aveva trascorso gli ultimi tempi della lunga vita dedicata alla beneficenza, agli studi, alle arti a fianco del Consorte, Vittorio Emanuele (11 novembre 1869-28 dicembre 1947). All'epoca principe di Napoli, il futuro re d'Italia, ottenuto il placet da Umberto I come da “regie patenti”, nella lontana estate del 1896 l'aveva chiesta in sposa al padre, Nicola Petrovic-Niegos, principe e poi re del Montenegro, di osservanza ortodossa. Cresciuta a contatto con la corte dello zar di Russia, nel viaggio dalla terra nativa a Bari la principessa Elena aveva optato per la confessione cattolica apostolica romana, “sola religione dello Stato” in forza dello Statuto promulgato da Carlo Alberto di Sardegna il 4 marzo 1848. L'estumulazione fu ripresa dalle reti televisive “France 3” e da “Monpellier Actualité”, presenti cronisti informati dalla “mairie”, anche in vista di una conferenza stampa indetta dal sindaco, opportunamente fatta differire alle 18.
Quasi otto ore dopo la partenza, la salma fu accolta a Vicoforte dal conte Federico Radicati di Primeglio, nell'agosto precedente delegato dalla Famiglia Savoia “per tutti gli atti necessari a estumulazione, traslazione e ritumulazione” delle salme di Vittorio Emanuele III e della Regina “in Italia”: un funerale privato, per motivi comprensibili e condivisi tutelato dal massimo riserbo. Presenti il sindaco di Vicoforte, Valter Roattino, l'architetto Claudio Bertano (al quale si deve il disegno delle arche funerarie, approvato dalla Sovrintendenza competente), uno storico da anni dedito alla complessa impresa e un Consigliere che non era osservatore ma tramite di alta volontà, il Rettore del Santuario monsignor Meo Bessone impartì la benedizione.  L'impresa funebre di Flavio Tallone (che scoprì solo leggendo le lapidi delle arche quali “personaggi” stessero arrivando) provvide alla laboriosa estrazione del sarcofago dalla cassa appositamente predisposta, la sua deposizione nell'avello e la sovrapposizione dell'arca sovrastata dalla Stella d'Italia. “Libro sacro” alla mano, nel silenzio degli astanti il Rettore ricordò i motivi profondi dell'accoglienza dovuta alla regina, ornata dalla Rosa d'Oro della Cristianità conferitale da papa Pio XI. Altri, di seguito, disse che per essere lieti dell'evento non è necessario essere monarchici, basta sentirsi italiani, perché il ricongiungimento delle salme del Re e della Regina in patria alimenta la consapevolezza del passato e la concordia nazionale nella visione solenne e pacificante della Storia. “Quod erat in votis” da anni e fu possibile per congiunzione astrale. “Non nobis, Domine, sed Nomini tuo...” dicevano i Templari.

La Principessa e il Presidente
Informata dell'imminente arrivo della salma della Nonna da Montpellier a Vicoforte, la Principessa Maria Gabriella di Savoia comunicò all'Ansa (sede di Parigi): “A nome e per conto dei discendenti dei Sovrani che vissero cinquantun anni di matrimonio in unione con gli Italiani nella buona e nella cattiva sorte e mentre ricordo mia zia Mafalda, morta tragicamente nel campo di concentramento in Germania, ove era stata deportata dai nazisti, esprimo profonda gratitudine al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha propiziato la traslazione delle Salme dei Nonni in Italia, in prossimità del 70° della morte di Vittorio Emanuele III avvenuta in Alessandria d'Egitto il 28 dicembre 1947 e nel centenario della Grande Guerra, per la composizione della memoria nazionale”.
Del tutto inattesa, la “notizia” irruppe in Italia e aprì i telegiornali, a conferma che l' “evento” non era affatto “marginale”. Era storia. Ma, ... e il Re? Era ancora tumulato nel retro dell'altare della chiesa di Santa Caterina ad Alessandria d'Egitto o era già alla volta della patria? I “media” dettero per scontato che la traslazione della sua salma fosse ormai in corso. Così avveniva, in effetti, con una lotta contro il tempo perché a Montpellier era stato rotto il riserbo. La mattina del 17 dicembre sul sagrato del Santuario-Basilica di Vicoforte, dinnanzi all'immensa suggestiva Palazzata, si affollarono giornalisti e operatori di reti radio-televisive nazionali e locali. Molti vi arrivarono per la prima volta e ne rimasero affascinati. Non trapelò alcuna informazione precisa (il feretro sarebbe giunto, e a quale ora, a Genova? A Cameri? In realtà l'aereo atterrò a Levaldigi) sino a quando, verso le 12, in una luce vivida per il contrasto tra l'azzurro del cielo e la neve e il verde della cupola di rame della Basilica, giunse il furgone con il feretro di Vittorio Emanuele III, subito avvolto nella bandiera sabauda, recata da Maurizio Bettoja, membro della Consulta dei senatori del regno e cavaliere melitense, che, in vista di un futuro eventuale regio funerale, era casualmente a Vicoforte con i paramenti indispensabili per le esequie regali.
Seguito dal prefetto vicario di Cuneo, Maria Antonietta Bambagiotti e dal “consulente”, in pochi minuti il sarcofago fu recato nella Cappella San Bernardo, adagiato su manto aureo sormontato da corona posta su cuscino purpureo e vegliato da quattro Carabinieri, con assistenza del delegato della Famiglia, conte Radicati, a sua volta in arrivo da Alessandria d'Egitto (ove si era tempestivamente recato da Vicoforte), presenti due Consiglieri aulici.
Mentre le spoglie del re venivano calate nell'avello alla destra dell'altare della Cappella, un caporale della Fanfara della Brigata Alpina “Taurinense” suonò il “Silenzio”: onori militari dovuti al re d'Italia, capo delle forze di terra e di mare, cittadino italiano morto all'estero nella pienezza dei suoi diritti civili e politici il 28 dicembre 1947.

Un percorso di sette anni
La tumulazione delle salme dei Reali d'Italia fu il punto di arrivo di un lungo percorso. Il 19 marzo 2011, 150° della proclamazione del regno d'Italia, il Santuario-Basilica di Vicoforte venne individuato quale sede idonea ad accoglierle le spoglie dei sovrani nel corso di una seduta della Consulta nel Palazzo della Provincia di Roma, presente e annuente la Principessa Maria Gabriella di Savoia, sua componente. Il 22 aprile 2013, sentiti il consiglio di amministrazione del Santuario e il rettore, mons. Bessone, il vescovo di Mondovi, Luciano Pacomio, rispose alla proposta di accogliere le salme presentatagli il 10 gennaio precedente dalla Principessa e dal presidente della Consulta. Ricordato che a volere l'edificazione del Santuario quale mausoleo della Casa nel 1596 era stato Carlo Emanuele I, duca di Savoia dal 1580 al 1630, e che esso “è un insigne monumento nel panorama artistico del nostro paese e a livello internazionale, alle cui origini è doveroso iscrivere l'intervento fattivo e a più riprese manifestato della famiglia Savoia, il vescovo, teologo e prestigioso storico del catechismo, accolse l'“aspirazione a riunire le Salme dei Reali, mantenendo il profilo strettamente privato della traslazione, così come manifestato nella richiesta citata e in sintonia con le finalità spirituali della Basilica”. Suggellò l'assenso e avvalorò l'iniziativa alla luce del Salmo 39,13: “Siamo tuoi ospiti, pellegrinanti, come tutti i padri nostri”.
Nell'aprile 2017, anche a nome delle sorelle, Vittorio Emanuele di Savoia, principe di Napoli, e la principessa Maria Gabriella espressero al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il desiderio che le salme dei nonni fossero congiunte “in Italia”. Chi era stato sovrano di circa 8.000 comuni poteva trovar pace in qualunque lembo di un Paese che egli aveva perlustrato da un capo all'altro e conosceva a menadito, con memoria formidabile di ogni suo campanile. La stessa dedicata al “Corpus nummorum italicorum” e agli studi di storia e geografia, che lo accreditarono ripetutamente arbitro di complesse controversie internazionali.
I fati vollero che la disponibilità della Cappella coincidesse con la decisione del Presidente della Repubblica di propiziare la traslazione nei modi a suo tempo indicati dal vescovo Luciano Pacomio: un “gesto umanitario” e, al tempo stesso, un funerale “privato”, dalle procedure complesse e impegnative, sia perché le spoglie giacevano in due Paesi di due diversi continenti (Alessandria d'Egitto da tempo era teatro di assalti di fondamentalisti islamici a chiese di rito copto), sia per le impegnative norme preposte per la sepoltura di “resti di persone meritevoli di speciali onoranze” al di fuori dei cimiteri comunali e di cappelle private, sia perché nulla doveva turbare il funerale “dovuto” e al tempo stesso riservato. Quanti si adoperarono per il suo buon esito erano consapevoli che il re era (e rimane) al centro di valutazioni disparate, anche polemiche e persino di invettive.
Di lì l'assoluto riserbo mantenuto nei preparativi e nell'attuazione. Nulla di “occulto”, nessuna “cospirazione”, solamente il rispetto che si deve ai defunti.

Lo Stellone d'Italia  al di là delle prevedibili “reazioni”
Come previsto, l'“evento” suscitò onde polemiche. Alcuni “istituti di storia” e taluni portavoce di comunità religiose ribadirono la “damnatio memoriae” del sovrano e deplorarono che le salme fossero state revocate dall'“esilio” al quale il re e la regina erano stati condannati. In verità, come già detto, Vittorio Emanuele III morì tre giorni prima che entrasse in vigore la Costituzione (1° gennaio 1948) e quindi da cittadino di pieno diritto, inclusi gli onori dovuti a tutti i militari, ovunque morti.
Più acri furono le animadversioni dichiarate da “monarchici” secondo i quali Vicoforte (“chiesetta di campagna” a detta di qualcuno che non l'aveva mai veduta neppure in cartolina) sarebbe una locazione “provvisoria”e le salme dovrebbero essere tumulate al Pantheon, quasi il Tempio di Menenio Agrippa non sia esso stesso tomba a suo tempo scelta per ospitare le spoglie di Vittorio Emanuele II (“Padre della patria”) e di Umberto I (assassinato a Monza nel 1900) in mancanza in Roma di un Mausoleo dei re, quale poi fu il Vittoriano, completato nel 1927 ed elevato ad Altare della Patria dopo la Grande Guerra con la deposizione del Milite Ignoto.
Più incomprensibili risultarono le riserve di chi, con concezione curiosa della devozione, dichiarò che non si sarebbe mai più recato a pregare a Vicoforte e di taluni che lamentarono di non essere stati preventivamente informati della traslazione, invero avvenuta in assenza di chi, come la Principessa, aveva dedicato anni alla sua realizzazione. I naviganti andarono nella direzione giusta guardando la Stella incisa sulle Arche dei sovrani. Come la Polare, a volte appena si intravvede. Ma è sempre là, per chi ha a cuore la continuità dell'“Italia”, la sua solennità e le sue tante traversie dalla recente costituzione: lo “Stato” giovane nel quale prese forma una “nazione” antica, l'“Itala gente da le molte vite”, come scrisse Giosue Carducci, che a Vicoforte andò con Umberto I allo scoprimento del monumento di Carlo Emanuele I. Lì si respira l'aria pulita che da ventiquattro mesi circonda la cappella di San Bernardo e assicura ai sovrani il silenzio, il raccoglimento, la serenità che deve circondare chi fu protagonista della Storia: un Uomo che fu ed è misura di tutte le cose, di quelle che sono per quello che sono e di quelle che non sono perché non sono.
Aldo A. Mola