NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 30 gennaio 2023

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, XII parte

 

Strano e quasi unico momento nella lunghissima vita della Triplice Alleanza, in questa occasione Re Vittorio e Francesco Giuseppe condivisero il medesimo punto di vista verso il bollente Pontefice. Sarà un cardinale ungherese a porre il veto dell'Imperatore d'Austria alla successione di Rampolla e con ciò, il Re d'Italia otteneva dal suo nemico n. 2 un grande servigio contro il nemico n. 1. La definizione di Giolitti «Il principio nostro è questo che lo Stato e la Chiesa sono due parallele che non si debbono mai incontrare» rimase sulla carta. Né Giolitti poteva, quando con qualche candore pronunciava questa massima politica, supporre il gran cammino che l'attivismo cattolico avrebbe compiuto in Italia, sebbene già ai suoi tempi la lotta parlamentare per la istruzione laica nelle scuole elementari, anche esagerata faziosamente, ne mostrava la forza espansiva. I termini del conflitto, permanente e neppure sanato dagli accordi lateranensi, vennero adombrati dal Salandra in un discorso alla Camera del 19 febbraio 1908: «Il cattolicesimo politico si trova in una disgraziata condizione di non poter confessare la sua dipendenza da una volontà, da una potestà la quale si tiene al di fuori e si ritiene al di sopra dello Stato. E quindi lo Stato non potrà mai affidargli né completamente disarmare contro di esso. Inoltre la Curia romana - ha così lungamente peccato contro la Patria per tanto corso di secoli che ora le tocca subire l'espiazione di una lunghissima astinenza da ogni potere politico...».

Insomma si capiva sin da allora che il Papa deciso a non diventare il cappellano di Casa Savoja, come si disse scherzosamente, avrebbe lottato con la pertinacia secolare della sua diplomazia per ottenere un Presidente della Repubblica, scaccino del Vaticano.

*

Pure valida e rinnovata la Triplice appariva ad ogni occasione sempre più estenuata. «Il Re d'Italia ne ha abbastanza della nostra alleanza» disse il Kaiser dopo il «lodo» di Algesiras. I rapporti, in quella contingenza, erano tesi al punto che la Principessa di Bulow non andò sino a Roma a visitare la madre, donna Laura Minghetti — amica di Visconti Venosta — ma si contentò di vederla in Riviera. Il Circolo della Caccia respinse la candidatura a socio ordinario dell'ambasciatore Lutzow e non parliamo delle escandescenze del Months, successore di Kinderlan Wachter, che considerava l'Italia, l'alleata, come una terra deliziosa dalla quale andavano urgentemente soppressi gli italiani.

Il Months tuttavia vedeva profeticamente un mondo futuro tutto dominato dall'America, dalla Russia e dall'Inghilterra predicando perciò - a scapito nostro - una intesa diretta tra Francia e Germania. Il coniu
gio Italia-Imperi Centrali, malgrado le teorie di von Bulow, non sarebbe durato a lungo. L'annessione della Bosnia Erzegovina ci liberava per molta parte, le mani. Vittorio Emanuele III potate dire all'indomani del colpo austriaco all'ambasciatore serbo Milanovich: «Noi saremo in questa crisi affianco della Russia e delle potenze occidentali. Tutto ciò che la Russia farà per voi, noi lo faremo, tenetelo per certo». Del resto le Cancellerie alleate sapevano perfettamente che era stato proprio Vittorio Emanuele a mandare Visconti Venosta ad Algesiras al posto del germanofilo Silvestrelli, ambasciatore a Madrid e parente di Tittoni, caduto col gabinetto Fortis e sostituito dal di San Giuliano. Né potevano ignorare che Barrère, dopo le sconfitte russe in Asia si informava assiduamente nelle numerose conversazioni con Vittorio Emanuele sui progetti aggressivi dello Stato Maggiore tedesco e su quel che succedeva a «Via San Domenico». Davvero come aveva detto Goluchowsky, non si andava più avanti. Il conte Months trovava, in un rapporto a Berlino, che Vittorio Emanuele aveva smesso persino il suo «consueto cattivo umore per far festa a Loubet» giungendo a scarrozzarlo per due ore, in tilbury, per i quartieri di Trastevere. E quanto al già richiamato discorso di Alessandro Fortis, nella tornata del 3 dicembre 1908, al punto in cui aveva detto che l'«Italia poteva temere la guerra da potenza alleata e doveva perciò prepararsi alla difesa», sollevando uragani di applausi, ricevette persino le congratulazioni del gelido Giolitti, che ben conosceva il valore del suo gesto.

lunedì 23 gennaio 2023

Giovanni Giolitti: come nacque e pensò uno statista

di Aldo A. Mola


Oggi tanti rimpiangono i “partiti”. Si dimentica che in principio vi era lo Stato, la monarchia costituzionale, che si valeva di una dirigenza sin dall'infanzia formata all'idea di operare per l'Italia: diplomatici, militari, docenti, scienziati, artisti, ecclesiastici soccorrevoli e una miriade di funzionari e impiegati pubblici di condizioni modeste ma fieri della propria missione civile. Il piemontese Giovanni Giolitti ne è un esempio illustre. Memore del proprio lungo “apprendistato”, quando fu al governo rispettò sempre i talenti dei Travèt, ai quali non venne mai né chiesta né imposta una “tessera” ma solo la fedeltà al servizio dello Stato. Merita di essere meglio conosciuto.      

 

Candidato alla Camera a sua insaputa, eletto e dichiarato ineleggibile

Nelle Memorie della mia vita Giovanni Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842-Cavour, 17 luglio 1928) scrisse di aver appreso di essere candidato alla Camera dalla “lettera circolare” in cui Antonio Riberi, deputato uscente, comunicò che non si sarebbe ripresentato e “senza dir(gli) niente” avanzò il suo nome. Aggiunse: «Fui appoggiato anche dagli altri due deputati che si ritiravano [Luigi Ranco, ingegnere, e Spirito Riberi, avvocato, NdA]; ma, non tenendoci molto, rifiutai di andare a fare il solito giro di campagna elettorale.» La realtà fu del tutto diversa da come la narrò. Va ricordata perché essa incise sulla maturazione di Giolitti dall'alta burocrazia alla politica e lo segnò per sempre. La sua candidatura venne affacciata il 9 settembre 1882 in una riunione di notabili confluiti dal Piemonte a Dronero per lo scoprimento del monumento di Gustavo Ponza di San Martino, giureconsulto e ministro del regno di Sardegna. Lì il munifico conte Deodato Pallieri, che da vent'anni propiziava la burocratica carriera di Giolitti (entrato in magistratura a vent'anni e dal 1869 “prestato” al ministero delle Finanze, ove collaborò con Quintino Sella) assicurò a Riberi la nomina a senatore se avesse rinunciato alla Camera. A volerlo deputato fu anzitutto il presidente del Consiglio Agostino Depretis, massone, che il 21 agosto, in vista delle elezioni lo nominò consigliere di Stato ponendolo al riparo dall'estrazione a sorte tra i deputati eccedenti il numero riservato ai pubblici dipendenti e di decadere, come era accaduto a Giosuè Carducci nel 1876.

    Il  16  settembre  Francesco Blanchi , fratello di un prestigioso notaio locale, propose a Giolitti la candidatura. Altri seguirono. Sondati alcuni deputati e notabili, egli accettò ma, fiero della “storia di famiglia” e di quanti ne avevano propiziato l'ascesa (a cominciare dagli zii materni, Melchior e Luigi, magistrati, e Alessandro Plochiù, generale: tutti scapoli) precisò che non intendeva “fare fiasco” e rischiare “una meschina figura”. A istruirlo e a dettargli quasi parola per parola la lettera programmatica agli elettori del Collegio di Cuneo furono alcuni amici influenti: Angelo Garelli, procuratore del Re, l'ex deputato Agostino Moschetti e Nicolò Vineis, massone e direttore del quotidiano cuneese “La Sentinella delle Alpi”, che da quasi trent'anni era il regista delle elezioni parlamentari locali. Dopo turbinosa altalena di candidature Giolitti scese in campo in una terna comprendente Sebastiano Turbiglio, massone, docente di storia della filosofia alla “Sapienza” di Roma, e Luigi Roux, direttore della “Gazzetta Piemontese” (futura “La Stampa”) di Torino, contro il quale si schierò Vittorio Bersezio, già direttore dello stesso quotidiano, storico e autore delle celebri Miserie 'd Monsù travet.

   Il 15 ottobre Giolitti vergò laboriosamente la “lettera agli elettori” e la mandò a Garelli che ne cancellò un paio di frasi a suo avviso controproducenti e la affidò alla “Sentinella”. Su suggerimento di Moschetti l'aspirante deputato scrisse l'inciso famoso: «Allorché gli uomini di Stato più eminenti e gli operai sono concordi in un programma, vi ha la certezza che questi risponde ai veri bisogni del Paese». Dall'esordio Giolitti si mostrò dunque “politico” autentico: capace di ascolto, di sintesi e animato da princìpi saldi e condivisi. Non si mosse da Roma ma sollecitò il sostegno di decine di notabili (sindaci, pretori, farmacisti, militari, il padre di un parroco della sua valle Maira...) con lettere personali. sollecitandone il sostegno. Alle 19 del 29 ottobre il procuratore Garelli gli telegrafò: era il primo eletto con 5310 preferenze su 6864 votanti. Un successo clamoroso, superiore alle sue prudenti previsioni.

   Sennonché il 13 marzo 1883 la Giunta permanente sulle ineleggibilità e incompatibilità parlamentari, formata dai deputati più prestigiosi, stabilì che era ineleggibile perché retribuito dall'erario con propine per le sue funzioni di consigliere di Stato. Giolitti se ne adontò perché percepì che la pronuncia ne metteva in discussione l'onestà morale prima che politica, quasi avesse truffato gli elettori, candidandosi benché ineleggibile. Approntò scrupolosamente la difesa. Il 21 aprile la illustrò in Aula. Aveva percepito 20 lire per ogni pratica esaminata, ma le aveva sbrigate quasi sempre a casa propria facendo risparmiare allo Stato “le spese di locale, carta, oggetti di cancelleria, lumi e simili”. Richiesti di approvare “per alzata” la proposta di decadenza i presenti rimasero seduti.

   Per un soffio l'Italia rischiò di non averlo deputato, né capofila dell'opposizione piemontese al governo Depretis nel 1886, né ministro del Tesoro e delle Finanze nel governo presieduto da Francesco Crispi (1889-1891), né cinque volte presidente del Consiglio e ministro dell'Interno tra il 1892 e il 1921, né altro ancora. Gli otto mesi dalla candidatura alla Camera alla conferma dell'elezione a deputato di “homines abhorrentes servitium et amatores libertatis inctintu naturali” (come gli aveva scritto Pallieri) furono per lui di noviziato alla “politica” e innervarono la sobria “retorica” dei suoi interventi in Parlamento sino al 16 marzo 1928. Meritano di essere riletti.

 

Amministratori e politici? “Una riunione di amici”

Per comprendere la sua concezione della politica, dell'esercizio del mandato parlamentare e la sua coerenza di monarchico e liberale al servizio dello Stato nelle Aule parlamentari in continuità con gli uffici di pubblico impiegato ai ministeri di Grazia e Giustizia e delle Finanze, giova passare in rassegna i pochi discorsi da lui pronunciati al di fuori delle Camere dal 1886 al 1899 (anche per difendere il suo onore dalle accuse mossegli in connessione con lo “scandalo della Banca Romana” che nel 1893 gli costò le dimissioni da presidente del governo), specie nel Consiglio provinciale di Cuneo di cui fu componente dal 1886 al 1925.

  Lasciata il 16 marzo 1905 la guida del governo, per seri motivi di salute, il 14 agosto Giolitti fu eletto presidente del Consiglio provinciale di Cuneo. In tale veste espose la sua visione di “buona amministrazione”: «Il nostro consesso – disse – non è che una riunione di amici che si stimano e si amano, animati dal solo intento di procurare il bene degli amministrati, non divisi da dissensi di natura politica, poiché tutti sono devoti alle patrie istituzioni; e, se qualche volta vi è lotta, ciò dipende unicamente dal fatto che ognuno vede le cose dal proprio punto di vista.»

   Il 2 ottobre 1910 pronunciò poche eloquenti parole all’inaugurazione della nuova sede della Cassa di Risparmio di Cuneo. Mentre a Roma, da lui propiziato e assecondato, era sindaco Ernesto Nathan, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia, e alla guida di comuni e province si moltiplicavano i “blocchi popolari” di liberalprogressisti, radicali e socialriformisti, nel silenzio “ossequioso e ammirante” dei presenti Giolitti scandì che la Cassa era il punto di convergenza e di collaborazione “delle idee clericali e socialiste, moderate e radicali”. «La questione sociale – aggiunse – noi la risolviamo elevando le classi più umili a livello di quelle più ricche”.

   Pochi giorni prima era stato ricevuto segretamente da Vittorio Emanuele III nel Castello di Racconigi. Si avvicinavano le celebrazioni del cinquantesimo del regno. Urgeva un cambio al vertice del governo. Da Cuneo Giolitti fece sapere di non aver preconcetti nei confronti di chi aveva veduto in Luigi Luzzatti l’argine laico contro l’avanzata dei cattolici deputati. Al tempo stesso non coltivava alcun altro pregiudizio: «Ognuno valga per ciò che sa e per il lavoro che compie.» Le ideologie appartenevano al passato remoto, anche perché premevano impegni che nessuno dei presenti immaginava, a cominciare dall’impresa di Libia. Non solo Marx era stato mandato in soffitta (o così gli pareva o sperava). La “pace sociale” era premessa indispensabile per affrontare nuove e severe prove, giacché «nessuna guerra moderna può svolgersi senza la decisa volontà del popolo che la fa», lontano dal “Paese che lavora. Il 30 marzo 1911, dopo il cinquantenario della proclamazione di Roma a capitale d’Italia (lasciata celebrare a Luzzatti) Vittorio Emanuele III gli affidò per la quarta volta il governo del Paese.

   All’inaugurazione della prima Camera eletta col suffragio quasi universale maschile (1913), dopo  circa tre lustri di governo, Giolitti non fu affatto scosso da chi, come il socialista Giuseppe Raimondo, ne annunciava il tramonto o, come Arturo Labriola (futuro ministro del Lavoro nel suo V governo, 1920-1921), sentenziava che vi era «da una  parte un’Italia rivoluzionaria nazionalista e dall’altra un’Italia socialista, ma non c’e(ra) più un’Italia giolittiana». Lo statista sapeva bene che vi era la cattolica, maggioritaria nel Paese, e che solo il cosiddetto “patto Gentiloni”, approdo della sospensione non expedit da parte di Pio X sin dal 1904 (come chiarito da Gianpaolo Romanato nella biografia di Pio X), aveva scongiurato divenisse più clericale di quanto, per contrapposti motivi, molti volevano. Conscio che l’Italia aveva necessità di riforme profonde nell’amministrazione della giustizia, nel sistema scolastico e nei rapporti tra capitale e lavoro, lo statista affermò che esse andavano varate subito ma avrebbero dato frutti solo sul lungo periodo. Per evitare che «il partito monarchico divent(asse) in molta parte d’Italia una minoranza» occorrevano però misure immediate e incisive. I fasci siciliani, i moti di Lunigiana del 1894 e la vasta sommossa/insurrezione del 1898 avevano indicato la via maestra: il riordino completo della fiscalità per scongiurare il declino della piccola proprietà, che costituiva «la più valida difesa dell’ordine sociale». Le classi dirigenti dovevano persuadersi che «senza qualche sacrificio esse non possono sperare durevole quella pace sociale senza cui non vi è sicurezza né per le persone né per gli averi». Lanciò un monito severo: «Io deploro quanto altri mai la lotta di classe; ma, siamo giusti, chi l’ha iniziata?».

 

Venti di guerra, tra irredentismo, espansione coloniale e crisi europea

Nel primo decennio del Novecento, mentre una moltitudine di movimenti, gruppi ideologici, circoli letterari, artistici e riviste davano voce alla “rivolta ideale” e dai salotti molti si appellavano alla “piazza” contro il grigiore del governo, Giolitti varò leggi speciali per accelerare il risanamento di regioni e plaghe arretrate. Al conterraneo Luigi Facta spiegò che l'Italia doveva evitare di avventurarsi in una guerra con l'impero austro-ungarico perché avrebbe dovuto dirottarvi le sue risorse e sottrarle allo sviluppo del Mezzogiorno, interrompendo l'unificazione effettiva, così provocando la rivoluzione e la crisi della monarchia: obiettivo dei repubblicani che, fece notare, erano i precipui alfieri dell'irredentismo.

   Il 28 luglio 1911 il ministro degli Esteri Antonino Paternò Castello di San Giuliano mandò a Giolitti e al sovrano il “memoriale” segretissimo sulla “probabilità” che entro pochi mesi l’Italia potesse essere “costretta a compiere la spedizione militare in Tripolitania”. Ne nasceva la «probabilità (probabilità non certezza) che il successo di tale spedizione darebbe al prestigio dell’Impero Ottomano, spinga all’azione contro di esso i popoli balcanici, entro e fuori l’impero, oggi più che mai irritati contro il regime centralista giovane-turco, ed affretti una crisi, che potrebbe determinare e quasi costringere l’Austria ad agire nei Balcani». All’orizzonte gonfiava la tempesta della guerra europea, temuta, schivata, sempre incombente. Chi avrebbe dato fuoco alla miccia?

   Il programma del settembre 1900 per l’unione dei partiti liberali giunse a una seconda svolta. Dopo l'incontro segreto del 16 settembre nel Castello di Racconigi, ove il re fissò con lui l'agenda dell'impresa di Libia, e dopo la dichiarazione di guerra all'impero turco ottomano, il 7 ottobre 1911 Giolitti ne spiegò i motivi al Teatro Regio di Torino: «Politica democratica non è sinonimo di politica fiacca, di politica impotente; la storia di tutti i popoli e gli avvenimenti che succedono sotto i nostri occhi dimostrano invece che i governi i quali sanno di rappresentare tutte le classi sociali sono i più gelosi custodi dei grandi interessi del loro paese; appunto perché non rappresentano interessi di persone o di limitate classi, ma quelli di tutto il popolo, essi sentono più vivamente il dovere di non pensare solamente alle questioni di immediato interesse, ma di assicurare anche il lontano avvenire del paese. La politica estera non può, come la politica interna, dipendere interamente dalla volontà del governo e del Parlamento ma, per assoluta necessità, deve tenere conto di avvenimenti e di situazioni che non è in poter nostro di modificare e talora neanche di accelerare o ritardare. Vi sono fatti che si impongono come una vera fatalità storica, alla quale un popolo non può sottrarsi senza compromettere in modo irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del governo di assumere tutte le responsabilità, poiché una esitazione o un ritardo può segnare l’inizio della decadenza politica, producendo conseguenze che il popolo deplorerà per lunghi anni, e talora per secoli.» 

   Profondamente radicato nella tradizione del Vecchio Piemonte, ove il lavoro era terreno di sfida civile dai tempi delle Associazioni agrarie di metà Ottocento, animato da una visione biblica del cammino dei popoli, all'inaugurazione dell'ospedale per l'infanzia “Regina Elena” in Cuneo il 14 agosto 1914 Giolitti meditò ad alta voce. Bisognava «procurare alla Patria cittadini futuri sani ed equilibrati, perché bastano due generazioni ben curate e ben educate a far rifiorire i destini di una Nazione». Lo stesso giorno, «in un momento angoscioso per tutta l’Europa e grave per il nostro Paese», dal seggio di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo egli dichiarò la solidarietà al governo presieduto da Antonio Salandra: «Senza distinzione di partiti, appoggeremo lealmente e fortemente in quella via che creda di seguire per la tutela dei nostri diritti e per assicurare all’Italia il posto che le spetta nel mondo.» Non era un’apertura di credito illimitata. Cinque giorni prima aveva infatti confidato al ministro degli Esteri, San Giuliano, la priorità di «coltivare i nostri buoni rapporti con l’Inghilterra, e fare quanto ci è possibile per limitare o abbreviare la durata e le conseguenze del conflitto». Senza entrarvi. Gli eventi ebbero tutt’altro corso: la firma dell'arrangement di Londra all’insaputa del Parlamento e del governo stesso (26 aprile 1915), la denuncia dell'alleanza con Berlino e Vienna (3 maggio), la dichiarazione di guerra contro l’Impero austro-ungarico in nome del “sacro egoismo” (23 maggio con effetto dall'indomani).

   Da quando il 17 maggio 1915 dovette lasciare precipitosamente Roma perché il governo non ne garantiva l’incolumità da un attentato mortale ormai in corso di attuazione, lo statista riparò a Cavour. Al di là di quanto disse nello scambio epistolare e in confidenze anziché dal seggio di deputato, Giolitti parlò dallo scranno di presidente del consiglio provinciale. Il 5 luglio 1915 dichiarò: «Quando il Re chiama il paese alle armi, la provincia di Cuneo, senza distinzioni di parti e senza riserve, è unanime nella devozione al Re, nell’appoggio incondizionato al Governo, nell’illimitata fiducia nell’esercito e nell’armata», impegnati in un conflitto dal quale dipendeva «l’avvenire dell’Italia per un lungo periodo della sua storia». Ma a differenza di Salandra e del ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, aveva chiaro che la guerra sarebbe durata anni. Nella forzata solitudine constatava l’imparità dei governi al “più grave disastro dell'umanità dopo il diluvio universale” anche a giudizio del premier britannico David Lloyd George. Chi avrebbe riacceso i lumi sull'Europa? La sua vita di statista era finita?


domenica 22 gennaio 2023

Capitolo XXXI: Il crocefisso dei Carlisti

 


 di Emilio Del Bel Belluz

 

Passarono le settimane e la primavera era arrivata. Il risveglio della natura era un miracolo che puntualmente si presentava ogni anno, grazie al buon Dio. Mi era accorto che sui rami degli alberi stavano spuntando le gemme, e l’erba verdeggiante era punteggiata da timide pratoline. Il viso era accarezzato da un’aria frizzante che mi invogliava a fare di più. L’acqua era diventata più limpida e trasparente. Da una settimana non pioveva e non avevo visto i soliti pezzi di tronco che la corrente trasportava a valle. Questo era un buon segno, infatti, spesso avevo rovinato la barca con un tronco spezzato. La corrente in certi punti del Livenza è particolarmente veloce. Quella mattina mi ero alzato fischiettando e continuai anche dopo essere salito in barca. Avevo in cuore una grande felicità che non potevo dire ancora ad alcuno. Elena gli aveva detto sorridendo che stava aspettando una nuova creatura. Dopo questo annuncio e ricolmo di gioia, l’abbracciai fortemente. Desiderammo entrambi un altro figlio e il buon Dio ci aveva ascoltato. La famiglia si allargava, e bisognava aggiungere un nuovo posto a tavola. Elena dal canto suo aveva sperato tanto nel miracolo della nascita di una nuova creatura. Quando lo aveva confidato al marito, aveva sentito una gioia grande come la prima volta in cui era nato un figlio. Aveva un grande istinto materno che la portava ad amare tutti i bambini e si sentiva realizzata nell’essere madre. Mentre calavo le reti, mi sentivo euforico come se avessi sorseggiato del vino. Quel giorno decisi che avrei finito prima il lavoro per tornare a casa, volevo ancora una volta abbracciare mia moglie. Volli andare alla bottega per comprare qualcosa da donare alla cara Elena. Non disponevo di molto denaro, ma nel caso avrei chiesto al padrone di accendere un debito, una pazzia la si poteva fare, si dice, una volta all’anno. Quando entrai nella bottega c’erano alcune donne che salutarono allegramente, stavamo misurando una stoffa dal colore cangiante che era appena arrivata dalla città. Aspettai che le donne se ne andassero e acquistai della stoffa per un vestito. I soldi mi bastarono anche per bere un goccetto di prugna, con della grappa. La testa poco dopo mi girava leggermente perché non avevo mangiato nulla da ore. Alla fine non mi importava nulla, ero solo a poca strada dalla mia casa. Quel giorno la tavola era tutta apparecchiata, i bambini stavano già mangiando. Il pacchetto che avevo sottobraccio fu subito notato da Elena che comprese che qualcosa di bello doveva contenere. Vittorio non riuscì a non dire nulla come aveva promesso, e quando i bambini seppero dell’arrivo del nuovo fratellino si misero a battere le mani. La bambina più piccola disse che ormai la cicogna conosceva la strada e non aveva nessun motivo di sbagliare. Alla sua battuta tutti si misero a ridere. Ed aggiunse che la cicogna avrebbe potuto portare due bambini così la famiglia sarebbe arrivata a nove. Risposi che in quel caso il grande volatile avrebbe fatto del lavoro straordinario. Il pranzo fu allietato da una decisione, il materiale per il vestito di Elena sarebbe stato utilizzato per fare due vestitini per i figli, se avessero fatto i bravi nelle prossime settimane. La più piccola disse che aveva letto una storia che narrava di una vecchia cicogna che non potendo più portare dei bambini si era fermata in una casa che conosceva per rimanere fino al momento in cui il cielo l’avrebbe presa. Nei giorni che seguirono in casa continuava ad esserci un clima natalizio, perché il presepe non era stato rimosso dalla stanza; si decise che sarebbe stato in quel cantuccio fino alla nascita del bambino. Questa notizia venne accolta da tutti con molto entusiasmo, soprattutto dai bambini che lo volevano tenere a lungo. La Natività era il simbolo della famiglia con la F maiuscola in cui regnava l’amore reciproco. La bambina più piccola disse che si sarebbe dovuto acquistare un nuovo Bambinello che doveva rappresentare il fratellino in arrivo. La mattina dopo tornai al lavoro e mentre stavo liberando la barca dalla catena, vidi una persona che si stava avvicinando. Costui zoppicava vistosamente e si sorreggeva su un bastone di legno. Quando mi raggiunse lo riconobbi, era stato un mio compagno di scuola. Da anni non ci vedevamo e iniziai a parlare con lui. Ludovico era sempre stato un creativo, allergico alle costrizioni. Non s’era sposato e visse a lungo con la madre, finché quella non morì. Ludovico mi chiese se poteva accompagnarmi a pescare qualche volta. Acconsentii con piacere perché due braccia in più mi potevano tornare utili. Ludovico ebbe bisogno d’aiuto per salire in barca. Le dolci acque del Livenza li accompagnarono, e Ludovico si mise a raccontare che era appena tornato dalla Guerra di Spagna dove aveva combattuto alcuni mesi. Si era deciso di arruolarsi perché aveva letto che cercavano dei volontari disposti ad andare in Spagna a combattere il comunismo. Le cose si stavano mettendo male per i seguaci di Franco. I rossi avevano messo in atto delle cose terribili, avevano ammazzato migliaia di persone, tra cui molti religiosi e distrutto le loro chiese. In quel Paese stava accadendo quello che era successo in Russia con la rivoluzione d’ottobre che portò alla nascita del comunismo. Ludovico disse che aveva sentito il dovere d’ andare ad aiutare i nazionalisti. Era giunto in Spagna da solo, in modo rocambolesco e lì chiese di entrare a far parte dell’esercito Carlista. Non conoscevo cosa fosse il Carlismo e Ludovico mi spiegò che i Carlisti erano quasi tutti cattolici che combattevano nel nome di Dio e del Re. Era stata una foto apparsa su un giornale che lo aveva fatto fare questa scelta: raffigurava un soldato carlista che avanzava davanti alle truppe, portando un Crocefisso. Per mesi e mesi si prodigò a sconfiggere i rossi e venne ferito in modo serio ad una gamba. I suoi camerati lo portarono in un vecchio convento saccheggiato e distrutto prima dai rossi. Vi erano alcune parti rimaste in piedi in modo miracoloso e lì fu curato da alcune suore. Per delle settimane rimase in quel luogo, dove un sacerdote veniva ogni sera a pregare con i soldati feriti. In quel ricovero benedetto da Dio ritrovò la forza di rimettersi in piedi. La sua vita sarebbe stata insostenibile se non gli avessero insegnato ad accettare quello che gli era capitato. Le cure amorevoli che quelle suore gli avevano prestato lo convinsero che doveva reagire, che la vita valeva la pena d’essere vissuta, anche se doveva convivere una grande menomazione. Il suo comandante carlista gli volle conferire un’ onorificenza che orgogliosamente mostrò a Vittorio. Mentre la barca solcava il fiume, il soldato carlista chiese se poteva avere un po’ di pesce da consumare nei giorni successivi. Molto volentieri divisi parte del pescato con Ludovico, dato che la pesca di quel giorno era stata molto fortunata. Inoltre, lo invitai a restare a cena da me. Elena, una persona molto generosa e sensibile, sarebbe stata contenta di ospitarlo per mangiare in loro compagnia con la speranza di farlo sentire meno solo. 

sabato 21 gennaio 2023

In ricordo di Luigi XVI

A duecentotrenta anni dalla morte



 Gianluigi Chiaserotti 


Il 21 gennaio 1793, duecentotrenta anni fa, il Re di Francia, Luigi XVI di Borbone (nato nel 1754) affrontava con dignitosa fermezza l’esecuzione della sua condanna a morte, a mezzo di ghigliottina, in Place de la Concorde a Parigi.

In questo atroce modo terminava la vita di un Re che cercò di venire incontro alle richieste dei suoi concittadini.

La sua semplicità di vita, l’onestà dei costumi suscitarono le migliori speranze, quando, nel 1774, Luigi XVI ascese al trono.

Gli storici riconoscono nel Re una mancanza di energia che emerse già nei primi atti di governo, con l’imprudente restaurazione dei parlamenti ed il debole appoggio che concesse a Anne-Robert Jacques Turgot (1727-1781) ed a Jacques Necker (1732-1804), permettendo in tal modo che costoro fossero rovesciati dalla  coalizione degli interessi danneggiati dalle tentate riforme, e sostituiti da uomini che non riuscirono ad avere la fiducia dei c.d. “ceti privilegiati” come Charles-Alexandre de Calonne (1734-1802) (novembre 1783) e Etienne-Charles de Loménie de Brienne (1727-1794) (maggio 1787).

Ed il prestigio della monarchia fu molto scosso (1787) grazie purtroppo al debole atteggiamento del Re durante il conflitto dei parlamenti.

Una nuova ondata di fiducia parve investire la Monarchia con il richiamo di Necker (agosto 1788) e quindi la convocazione degli Stati Generali (maggio 1789). Ma nel conflitto presto delineatosi fra i privilegiati ed il Terzo Stato, Luigi XVI svolse un’azione quanto mai incerta, opponendosi appunto al Terzo Stato stesso che reclamava il voto individuale, e non più per ordine, come conseguenza logica del raddoppio della sua rappresentanza, deciso dal Re pochi mesi prima.

L’allontanamento di Necker (11 luglio) fu una delle cause della presa della Bastiglia; il rifiuto di sanzionare la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e l’abolizione del regime feudale provocò una nuova esplosione di rivolta popolare (5/6 ottobre 1789).

Siamo quindi agli inizi di quel periodo che la Storia denomina Rivoluzione Francese ed i numerosi tentativi del Re di cercar di salvare la Monarchia furono vani.

Il 10 agosto 1792, il Re e tutta la sua famiglia fu imprigionata nella prigione del Tempio ed il 21 settembre veniva dichiarata decaduta la Monarchia. 

Si arrivò così al processo di Luigi XVI (se, a mio modesto parere, c’era da processare qualcosa),  e fu condotto nell’aula della Convenzione con il semplice nome di “Luigi Capeto”.

Il 13 novembre 1792 si aprì la discussione ed il giorno 11 dicembre ebbe luogo interrogatorio del Re, il quale si difese abilmente.

E sappiamo come il dibattimento terminò (387 voti per la morte contro 334 per la detenzione).

Luigi XVI fu ricondotto nella prigione del Tempio, ove il 25 dicembre 1792 scrisse un capolavoro di sentimenti, di religione, di intenti. Il Suo Testamento, che così inizia: «Nel nome della Santissima Trinità, Padre, Figliuolo, e Spirito Santo. Oggi 25 Dicembre 1792. Io Luigi XVI di nome, Re di Francia, chiuso da più di quattro mesi colla mia Famiglia nel Tempio a Parigi da coloro ch'eran miei sudditi, privo di ogni comunicazione qualunque, e dagli undici in qua del corrente fino colla mia stessa Famiglia, implicato di più in un processo, di cui è impossibile prevederne l'uscita a motivo delle passioni degli Uomini, e di cui non si trova né pretesto, né mezzi di alcuna legge esistente, non avendo che Dio per testimonio dè miei pensieri, a cui possa rivolgermi: Io dichiaro qui in sua presenza le mie ultime volontà, e sentimenti.

Lascio la mia Anima a Dio mio Creatore, pregandolo ad accoglierla nella sua misericordia, di non giudicarla secondo i suoi meriti, ma da quelli bensì del nostro Signor Gesù Cristo che si è offerto in sacrifizio a Dio suo Padre per noi altri Uomini, benché ne fossimo indegni, ed io più di tutti.

Muojo nell'unione della nostra Santa Madre la Chiesa Cattolica, Apostolica, e Romana, che ha la sua Podestà per una successione non mai interrotta dopo S. Pietro, a cui Gesù Cristo l'ha confidata. […]»

Termina così: «[…] Finisco con dichiarare innanzi a Dio, e pronto a comparire alla sua presenza, ch'io non mi rimprovero alcun dei delitti che mi si sono opposti.»

Anni fa colloquiavo con un monarchico o sedicente tale (puo’ darsi anche massone), il quale disse che “liberté, égalité, fraternité” è il motto proprio della monarchia. 

Al che gli risposi, al grido di detto motto il 21 gennaio 1793 cadde la testa di un Re. E conclusi che se un monarchico la pensa così, non lo è tale, ma è un regicida. 

Un’ultima considerazione mi viene alla memoria.

Le rivoluzioni sono sicuramente animate da uomini di varii sentimenti, che, per raggiungere un fine sembrano, soprattutto agli inizi, tutti uniti.

Poi interessi di parte, storicamente e naturalmente, sfociano in contrasti e chi ha la meglio esclude anche i suoi primitivi amici.

E puntualmente le rivoluzioni si “rimangiano i loro stessi figli”. 

Ed accadde anche in Francia. La Convenzione condannò a morte il Re, ma tra coloro che decisero ciò, ce ne furono molti che fecero la sua stessa atroce fine.

E ciò sono i corsi ed i ricorsi storici che il buon Giambattista Vico (1668-1744) ci ha mirabilmente tramandato.


Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, XI parte

 


Per quanto poco valesse, quella terra era li: aperta a chi la prendesse. La Germania che, fallito il colpo di Agadir, e pur avendone cavato i compensi al Camerun non dimetteva l'idea di creare nel Mediterraneo una sua base, trattava sottomano con la Turchia per l'affitto di novant'anni; limitato alla Cirenaica e, potremo dire, al porto di Tobruk: imprendibile piazzaforte. Il Re e Giolitti capirono, dopo questo, la «fatalità» dell'impresa e la vararono.

Una difficile lotta (non conchiusa o solo apparentemente conchiusa con gli accordi lateranensi e il concordato del 1929 sosteneva, poi, Vittorio Emanuele per rendere indipendente il Paese dalle più forti e sensibili influenze della Chiesa Romana. Egli seguì, in sostanza, il sentiero della rivoluzione liberale: coerente anche in questo; temperando l'atteggiamento dello Stato nei confronti della Fede cattolica, nella quale era nato e allevato, e molte volte opponendosi agli zelatori di drastiche misure anticlericali. Ma l'indirizzo era quello e non poteva mutare coerentemente con i fatti del XX settembre 1870. La classe dirigente democratica e laica gli suggeriva di opporre ostilità a ostilità, ed egli pur profondamente convinto di non poter accedere, per la contradizione che non consentiva, alla intransigenza vaticana si rendeva conto della forza con la quale aveva da combattere. Solo al principio del Regno e sotto la preponderante influenza del massone Zanardelli (1902) si risolse ad una aperta e persino troppo scoperta avversione alla Santa Sede, minacciando di toccare uno degli istituti fondamentali della Chiesa, l'indissolubilità del matrimonio. Il Papa Leone XIII da parte sua lo accusò di mettersi persino contro il dettame dell'Evangelo; ma le manifestazioni di quel grande Pontefice, data la personalità veneranda e il particolare momento non richiamarono reazioni uguali e contrarie da parte sua. Con grande saggezza e misura Egli proclamò di voler «confinata nel santuario "l'influenza del clero e di "professare il più illimitato rispetto, serbando inflessibilmente incolumi le prerogative della potestà civile e dei diritti della sovranità nazionale, per la religione e la libertà di coscienza». Sapeva di non poter combattere l'influenza della Chiesa sulle anime dei credenti e non trovava saggio combatterla, questa influenza, in un paese come l'Italia sede della Cattedra di Pietro e centro della Cristianità. L'anticattolicesimo del suo Regno, sebbene di altra natura, non poteva paragonarsi a quello, accanito e settario, dei tempi di Re Umberto, che fu massone. Anche perché i successi personali, le buone fortune e gli esiti favorevoli della sua politica esterna e interna allontanavano velocemente dalla Monarchia il pericolo di crollare sotto gli scioperi e le sconfitte militari o le oscure influenze per le quali Crispi aveva potuto dire: «Leone XIII è inquieto; l'ambizione lo rode: egli si darebbe al diavolo per diventare Re». In qualche modo la Segreteria di Stato, obbediente all'intolleranza del Pontefice, operava nel senso, se pure con evidente esagerazione, detto da Crispi. Il Vaticano aveva taciuto sulle stragi degli armeni e dei candioti, per opportunità politica verso la Sublime Porta (tacerà anche per le stragi del 1945 in Italia settentrionale, per opportunità politica verso gli alleati di Potsdam). Seguendo un suo segreto disegno Leone XIII impose la repubblica massonica e anticlericale di Francia ai cattolici francesi, buttando a mare la Monarchia «primogenita della Chiesa»; ed era un gioco assai sottile e complicato questo di far leva su Parigi per ottenerne la tradizionale protezione militare, cercando poi di disgregare la Triplice abbandonando l'Austria mentre la Francia avrebbe potuto come aveva proposto Napoleone III a Villafranca, abbattere la Monarchia italiana sostituendola con una Repubblica federale praticamente capeggiata dal Pontefice. S'era diffusa la voce, inoltre, che ricevendo Guglielmo II, il vecchissimo strenuo difensore dei diritti al Soglio gli avesse detto: «Rendetemi Rom».

La Questione romana pungeva nel fianco del Regno e la freccia tratto tratto era agitata nella profonda ferita. Si vide con la venuta di Loubet e con la tempesta che seguì all'astensione del presidente francese dal rendere omaggio a Colui che riteneva non estinto il suo principato su Roma. La nota inviata dal Papa Leone ai rappresentanti delle potenze accennava persino al particolare che l'incontro ira il Re d'Italia e Loubet fosse avvenuto nell'istesso « palazzo apostolico » (il Quirinale) occupato da «colui che contro ogni diritto detiene la sovranità civile». L'autore della terribile sfuriata era il Papa ma l'estensore, sì disse, il Merry del Val. I fatti vennero tradotti in termini espliciti al Parlamento francese: «Il Papa ci ha detto che abbiamo avuto l'impudenza di far visita a un ladro che ci ha ricevuto in una casa rubata a Pietro». A questa buriana s'aggiunga il tremendo malumore di Guglielmo II a placare il quale il Re spedì Giolitti a Bad Hamburg, dove Bulow faceva una cura, per chiarirgli che quelle feste e quel chiasso encomiastico s'era fatto per l'«eliminazione delle ultime velleità del potere temporale».

domenica 15 gennaio 2023

Capitolo XXX: La figlia del soldato e la Regina Elena.

di Emilio Del Bel Belluz  

Vittorio aveva portato a termine un’altra giornata di pesca, era allo stremo delle forze perché aveva dovuto fare dei lavori che lo avevano impegnato moltissimo. La sua barca si era rotta dopo la collisione con un tronco e con l’aiuto di un suo amico aveva dovuto lavorare per rimediare al guasto. Dopo il lavoro era passato in osteria con il suo amico ed avevano bevuto  una buonissima grappa che li aveva riscaldati. Il Natale era vicino e c’era nell’aria quella serenità di chi aspetta qualcosa di bello. Aveva avuto dall’oste alcuni giornali che un cliente forestiero aveva lasciato sul tavolo. L’oste sapeva che Vittorio volentieri leggeva, era un suo modo per tenersi aggiornato sulle notizie del mondo. 

Rientrato a casa ad ora tarda, e non essendoci  nessuno alzato, si era messo a leggere i giornali, inforcando gli occhiali. Venne colpito da un tema che una bambina aveva scritto a scuola e che la maestra aveva mandato a Roma, alla Famiglia Savoia, e precisamente alla regina Elena, conosciuta da tutti per la sua infinita bontà. La bambina nel tema raccontava che nella sua famiglia era arrivata la triste notizia della morte del padre, caduto in combattimento in Spagna. 

La giovane narrava della disperazione della madre e delle lacrime versate da tutti i componenti della famiglia, ma anche della speranza che il buon Dio li aiutasse a superare quel triste momento. Con loro vivevano anche i nonni paterni, che nonostante l’età avanzata, riuscivano ancora ad aiutare nel lavoro dei campi.  Vittorio ricordava di un vecchio che ogni anno giungeva in paese con la sua famiglia, con una carovana trainata da un cavallo. Costui veniva dal Montenegro e gli raccontò della Regina Elena che un tempo abitava a Cettigne, proprio vicino al suo paese e una volta l’aveva vista prima che divenisse  regina. Allora era la principessa Elena, figlia del Re Nicola I ed era conosciuta al suo Paese per la sua generosità ed il suo altruismo verso i poveri ed i bisognosi.  

Narrò ancora che un giorno donò ad una famiglia povera del paese, tutti i pesci che aveva pescato ed il pane di cui doveva cibarsi .Anche la bambina raccontò nel suo tema dell’uomo della carovana che le mostrò la foto della Principessa, un ritratto simile era appeso ad una parete della classe. L’uomo originario del Montenegro aveva definito la Regina una donna molto buona, una persona speciale che Dio aveva creato per aiutare e sostenere le persone povere. La maestra non si aspettava nulla dall’invio del tema e nella lettera di accompagnamento aveva solo descritto l’affetto che la bambina provava per la Regina, e l’amore  per il padre scomparso in guerra. Nella rivista si raccontava che la Regina d’Italia, avendo ricevuto quel tema, volle fare qualcosa di speciale per la bambina. 

Non avrebbe potuto restituirle il padre, un eroe di guerra come lo definì la Regina nella lettera. In un pacco che arrivò qualche giorno prima di Natale, la Sovrana  faceva giungere alla famiglia dei viveri, oltre a qualche capo d’abbigliamento e una coperta. Conteneva anche una enciclopedia per ragazzi che avrebbe potuto utilizzare per i suoi studi. Nella lettera  acclusa c’era pure una foto  della Regina con dedica. In quella famiglia provata duramente dalla scomparsa di una persona cara, il dono della Regina, fu come uno spiraglio di luce. 



Fu un Natale diverso, nella piccola cucina vicino alla foto del padre in divisa posero quella della Regina. Il vecchio della carovana aveva detto la verità, quella Sovrana aveva un cuore d’oro come quello dei Santi. Vittorio pensò che quel giornale era stato volontariamente abbandonato in osteria affinché altri potessero leggere la storia della Regina buona. Umberto dopo aver letto l’articolo di giornale si commosse, lo ritagliò e lo incollò nel suo quaderno dedicato ai Savoia.













giovedì 12 gennaio 2023

A TESTA ALTA 1943-1945 CONTINUITÀ E RISCOSSA

 

di Aldo A. Mola

La resa del 2-29 settembre 1943 non fu “la disfatta”

   “A testa alta” è l'insegna del “CalendEsercito 2023” (ed. Giunti) per l'80° dell'estate 1943, «uno dei momenti più tragici della storia nazionale». Fotografie e documenti scandiscono i mesi dalla firma della resa a Cassibile (3 settembre) alla co-belligeranza dell'Italia a fianco delle Nazioni Unite e alle due battaglie di Monte Lungo che videro in campo il I Raggruppamento Motorizzato del Regio Esercito a fianco degli Alleati. Come scrive il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, generale di CdA Pietro Serino, «in soli 98 giorni l'Esercito italiano seppe reagire, tornare a combattere e a vincere per liberare il proprio Paese, dimostrando una saldezza morale che ci fa dire, con orgoglio, A testa alta!». Pubblicato con la direzione del Colonnello Giuseppe Cacciaguerra, molto più che mero “almanacco” il “CalendEsercito 2023” è una miniera di informazioni e di spunti per ricerche e approfondimenti. Ricorda al lettore i combattimenti di Porta San Paolo a Roma, ove i civili affiancarono le Divisioni “Granatieri di Sardegna” e “Sassari”, mentre a Monterotondo reparti della “Piave” e della “Re” contrastavano l'aviolancio di paracadutisti tedeschi, e la lunga serie di combattimenti su tutto il territorio nazionale, in Sardegna, Corsica, oltre che nelle regioni quasi subito libere (Puglia e Calabria) a prezzo di duri combattimenti e l'impegno ovunque possibile oltre confine. Documenta inoltre il Fronte Militare Clandestino del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, caduto prigioniero, torturato a via Tasso, assassinato alle Fosse Ardeatine con tanti altri militari,via via sino alla Riscossa, che dà titolo alle Memorie del generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà, punto di arrivo del coordinamento tra Regio Esercito e formazioni partigiane unite “dal” e “nel” Tricolore.

   A differenza di quanto talvolta è stato scritto, in quei frangenti non morì affatto la Patria. La direttiva del capo del governo, Pietro Badoglio, all'annuncio dell'armistizio per i militari era chiaro: le forze armate italiane cessavano «ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».

 

   Come avvenne la Riscossa e chi la guidò? In Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio (il Mulino, 2021) Paolo Cacace conferma che la revoca di Benito Mussolini da capo del governo e la sua sostituzione con il maresciallo Badoglio furono iniziativa personale di Vittorio Emanuele III, assecondato dal ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone e dalla ristretta cerchia di militari di sua assoluta fiducia, a cominciare da Giuseppe Castellano. Il 25 luglio il Gran Consiglio del fascismo a maggioranza “esortò” il re a esercitare i poteri statutari, senza però mettere in discussione il regime. Perciò Mussolini chiese udienza al re e nel pomeriggio si recò a Villa Savoia convinto che quasi nulla sarebbe cambiato. Fu la Corona a decidere tempi e modi della “svolta”, anche sbrigativi, come il “fermo” del duce, che si dichiarò pronto a collaborare con Badoglio. Come osservò Luigi Einaudi, citato dal presidente Sergio Mattarella a Dogliani il 12 maggio 2018, chi detiene la somma dei poteri può lasciarli apparentemente dormienti per vent'anni, salvo valersene quando percepisce che è giunto il momento di usarli. Così fece il re.

Di seguito fu lui ad autorizzare la ricerca del contatto con il Comando nemico per ottenere che all'Italia, ormai in un tunnel dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, fosse concessa la “resa senza condizione”, deliberata dagli anglo-americani a carico dei vinti nella Conferenza di Casablanca su richiesta ultimativa di Stalin. L'obiettivo fu raggiunto in meno di un mese con la firma a Cassibile della resa (surrender), documentata da Elena Aga Rossi in L'inganno reciproco (ACS, 1982). Lo strumento sottoscritto dal generale Giuseppe Castellano, datato “Sicilia, 3 settembre 1943” è esplicito: la resa fu concessa (o imposta) al “governo del Re”, ovvero a Vittorio Emanuele stesso. Il “Comandante in capo” dei vincitori si riservò di stabilire «un Governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell'interesse militare delle Nazioni alleate» e di dettare «altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario che l'Italia dovrà impegnarsi ad eseguire», analiticamente contenute nell'“armistizio lungo” consegnato dal generale Dwight Eisenhower a Badoglio a Malta il 29 settembre 1943. Però con la resa la monarchia ottenne tre vantaggi preziosi per l'Italia: lo Stato non fu debellato ma riconosciuto; a differenza della sorta poi toccata alla Germania, non ne venne previsto lo smembramento; la sua forma istituzionale non fu messa in discussione. Per gli inglesi, al riguardo più lungimiranti degli americani, la monarchia costituiva una garanzia.

Il verbale del colloquio svoltosi il 29 settembre a margine della firma precisò la cornice degli eventi successivi. Il vincitore incitò il vinto a dichiarare guerra alla Germania, a «immettere nuovi elementi nel suo governo», previo il placet del generale Mason Mac Farlane e, “parlando da soldato”, a destinare alla lotta contro la Germania le “divisioni migliori”. Badoglio precisò che «per la legge italiana solo il re può dichiarare guerra» e scegliere i nuovi membri del governo. Assicurò la massima collaborazione anche in vista dell'ingresso in Roma (dato per imminente da Eisenhower, ma avenuto otto mesi dopo), accolse con freddezza l'annuncio del ritorno in Italia del “conte” Carlo Sforza, gran collare della SS. Annunziata e senatore ma accesamente repubblicano, auspicò di essere considerato “un collaboratore completo” e, su direttiva del Re, che lo aveva avuto aiutante di campo, chiese di «prendere contatto col maresciallo Messe, ora prigioniero di guerra in Inghilterra». Ne ha scritto brillantemente il generale Antonio Zerrillo nel volume Il lungo regno di Vittorio Emanuele III (BastogiLibri, 2021).

 

I punti di debolezza: il CLN contro la monarchia

Lo scenario istituzionale e politico italiano era però profondamente diverso da quello ventilato dal Comandante alleato. Il Comitato dei partiti antifascisti operante clandestinamente in Roma da metà agosto 1943, contrario a condividere il “passivo” della guerra e deciso a scaricarne la peso esclusivamente sulla Corona, assunto il nome di Comitato (Centrale) di liberazione nazionale tra fine settembre e inizio ottobre, rifiutò ogni collaborazione con il governo Badoglio, riservando gelida accoglienza alla proposta di collaborazione avanzata dal colonnello Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo. Lo ricorda Ivanoe Bonomi in Diario di un anno, 2 giugno 1943-10 giugno 1944. Il CLN propugnò l'immediata abdicazione del re, la rinuncia del principe Umberto alla successione e il conferimento della Corona al principe di Napoli, Vittorio Emanuele, di appena sette anni, sotto tutela di un reggente di nomina politica, contro la lettera dello Statuto. Anche molti liberali si accodarono e per bocca di Carandini fecero sapere di essere per «assemblea costituente più abdicazione».

   Per decretazione d'urgenza varata da Badoglio a inizio agosto furono sciolti il Partito nazionale fascista, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, il Gran consiglio del fascismo e tutte le organizzazioni del passato regime, ma anche la Camera dei fasci e delle corporazioni in vista dell’elezione di una nuova Camera dei deputati entro quattro mesi dalla fine della guerra. Pertanto, data la natura bicamerale del Parlamento, il Senato fu paralizzato e il re risultò istituzionalmente sovraesposto. La “monarchia rappresentativa”, fondata sull'equilibrio tra i poteri, risultò sospesa.

Sotto il profilo politico la parola passò dalle istituzioni vigenti a forze autoconvocate, come il congresso dei CLN, radunatosi a Bari il 28-29 gennaio 1944. Nel suo corso venne ribadita la richiesta di immediata abdicazione di Vittorio Emanuele III, da alcuni liberali liquidato addirittura come “cencio sporco”. Per gli anglo-americani, pur diversi nella loro grammatica politico-istituzionale, lo Stato d'Italia era quello impersonato dal re e dal governo di sua nomina. Se mai avessero avuto motivo di dubitarne (ma non ne esistono documenti probanti) a rafforzarli nella loro posizione fu la costituzione della Repubblica sociale italiana incardinata su Mussolini e succuba della Germania. Malgrado tutto, all'indomani della resa e del trasferimento del re, del principe ereditario e del governo da Roma a Brindisi, nei modi che tante polemiche hanno suscitato e ancora sollevano, i vertici delle Forze Armate furono a fianco del sovrano. Il 26 settembre 1943 Vittorio Emanuele III ordinò l'organizzazione del Raggruppamento “Piemonte”: un primo nucleo di circa 5.000 uomini. Cinque giorni dopo la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre), lo passò in rassegna nei pressi di Manduria. La riorganizzazione dell'Esercito molto deve alla tenacia di Giovanni Messe, ultimo Maresciallo d'Italia, biografato da Luigi Emilio Longo nel volume pubblicato dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito (2006) e, successivamente, dal già citato generale Zerrillo.

Il 15 novembre il Raggruppamento fu autorizzato a muovere verso la linea del fronte di combattimento. Sulle fiancate degli automezzi il colonnello Valfrè di Bonzo fece istoriare lo scudo sabaudo. A inizio dicembre venne aggregato alla 36^ divisione statunitense del II corpo d'armata e (come scrisse Gabrio Lombardi) fu incaricato di espugnare il «dosso allungato, scoperto e roccioso, spezzato in una lunga serie di ondulazioni di altezza crescente»: Montelungo. Lì, l'8 e il 16 dicembre 1944, ebbero luogo le sue prime prove con attacchi ripetuti a reparti della divisione “Goering”. Subì pesanti perdite. Il primo giorno perse 4 dei 5 ufficiali in linea. Mostrò che «l'antiquo valore/ne l'italici cor non [era] ancor morto». Lo stesso principe Umberto di Piemonte si levò in volo di ricognizione per fornire precise informazioni sul nemico, meritandosi la Silver Star, la prima delle due onorificenze conferitegli dagli anglo-americani, i quali gli attribuirono poi anche la Legion of Merit.

La riorganizzazione delle Forze Armate, a cominciare dal Regio Esercito, avvenne in quei mesi difficili per tutti. Il motto del Re e del Principe ereditario, dal 5 giugno 1944 Luogotenente del Regno, fu “Viva l'Italia”. Continuò a garrire il tricolore che dal 1848 ne aveva guidato la lunga marcia verso l'indipendenza e l'unità nazionale, come ha scritto lo storico militare gen. Oreste Bovio nell’insuperata Storia dell'Esercito italiano e in In alto la Bandiera.

 

Per saperne di più: mostre, convegni, studi...

Dal rovesciamento del regime fascista all’instaurazione dalla Repubblica (19 giugno 1946) si susseguirono sei diversi governi. Nell'ordine, il maresciallo Pietro Badoglio ne presiedette tre diversi dal 25 luglio 1943 al 18 giugno 1944; Ivanoe Bonomi (ex socialista riformista, democratico, esponente della Democrazia del lavoro) ne guidò due sino al 21 giugno 1945. A lui seguì il breve governo presieduto da Ferruccio Parri, comandante delle formazioni partigiane “Giustizia e libertà”, esponente del Partito d'azione, dal quale si separò nel congresso del febbraio 1946 per dar vita alla Concentrazione democratica repubblicana con Ugo La Malfa. Il 10 dicembre gli subentrò il democristiano Alcide De Gasperi, a capo di un governo formato da ministri dei sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale (comunisti, socialisti, azionisti, democratici del lavoro, democristiani, liberali), con esclusione del Partito repubblicano italiano capitanato da Randolfo Pacciardi.

   Al ministero della Guerra si susseguirono nell'ordine i generali Antonio Sorice e Taddeo Orlando con Badoglio; il liberale Alessandro Casati con Bonomi, il democristiano Stefano Jacini con Parri e il repubblicano e massone Cipriano Facchinetti con De Gasperi. Nello stesso arco di tempo si susseguirono due soli Capi di Stato Maggiore Generale: il maresciallo d'Italia Giovanni Messe dal 18 novembre 1943 al 1° maggio 1945, quando gli subentrò il generale designato d'armata Claudio Trezzani. Capi di stato maggiore dell'Esercito furono i generali Mario Roatta sino al 18 novembre 1943; Paolo Berardi fino al 10 febbraio 1945, quando assunse il comando delle Forze Armate in Sicilia per contrastare l'Esercito volontario per l'indipendenza dell'isola; Ercole Ronco e infine il generale di divisione Raffaele Cadorna, già comandante del Corpo Volontari della Libertà, figlio di Luigi Cadorna, comandante supremo durante la Grande Guerra (su cui fa luce il volume Luigi e Carlo Cadorna, Caporetto? Risponde Cadorna, BastogiLibri, 2021).

   Capo di Stato Maggiore della Marina (carica abbinata a quella di sottosegretario della Marina) fu l'ammiraglio Raffaele De Courten; a Capo di Stato Maggiore dell'Areonautica si susseguirono i generali Pietro Piacentini e Mario Aymone Cat. Quattro furono i comandati generali dei Carabinieri: i generali Angelo Cerica fino al 9 settembre 1943, Giuseppe Pièche dal 15 novembre 1943 al 20 luglio 1944, Taddeo Orlando e dal 7 marzo 1945 Brunetto Brunetti. La loro opera si coniugò a quella dei comandanti del Corpo Italiano di Liberazione e, di seguito, dei Gruppi di Combattimento “Cremona” (gen. Clemente Primieri), “Friuli” (gen. Arturo Scattini), “Folgore” (Giorgio Morigi), “Legnano”, “Mantova”, “Piceno (gen. Emanuele Beraudo di Pralormo), impegnati nell'avanzata verso il Nord.

   “Nel decennale della Resistenza e del ritorno alla democrazia” il loro fondamentale contributo alla ricostruzione dell'Italia è stato documentato dal gen. Primieri in Il Secondo Risorgimento (Roma, Poligrafico dello Stato, 1955, con contributi di Aldo Garosci, Raffaele Cadorna, Costantino Mortati e altri) e, sulla scorta di ampia documentazione, dal generale Pierluigi Bertinaria nel convegno internazionale di studi (Milano 17-19-maggio 1984) La cobelligeranza italiana nella lotta di Liberazione dell'Europa, i cui atti sono stati pubblicati dal Ministero della Difesa-Comitato storico “Forze Armate e Guerra di Liberazione” (Roma, 1986).

   La complessa evoluzione dal Raggruppamento “Savoia” al CIL e ai Gruppi di Combattimento è stata documentata dalla Mostra al Mastio della Cittadella di Torino (C.so Galileo Ferraris), allestita dal 22 al 30 aprile per iniziativa di illustri personalità (i generali Pastorello, Cinaglia, Uzzo, Puliatti e altri) di concerto con il Museo Storico Nazionale di Artiglieria e l'Associazione Nazionale Artiglieri d'Italia. La Mostra è stata accompagnata da un minuzioso catalogo che, come ribadito dal “CalendEsercito 2023”, illustra la continuità dell'Esercito italiano dalla sua costituzione (1861) a oggi, evidenziando anche il ruolo svolto per 19 mesi dalle forze armate italiane, giunte a contare 450.000 uomini tra reparti combattenti e ausiliari; senza dimenticare gli 80.000 militari che operarono nelle formazioni partigiane sorte nell'Italia centro-settentrionale: non solo in quelle dichiaratamente monarchiche ma anche nelle file di Garibaldini, Giustizia e libertà, Matteotti e nelle brigate “bianche”, cioè di ispirazione democristiana o genericamente “cattolica”. Il panorama del contributo dato dai militari alla “Riscossa” (come Raffaele Cadorna intitolò le sue Memorie) non sarebbe completo se non venisse tenuto conto anche degli Internati Militari Italiani (la loro storia è stata recentemente documentata da Avagliano e Palmieri (ed. Mondadori) e dei prigionieri italiani negli USA e Gran Bretagna.

A ottant'anni dai “fatti”, la svolta voluta e attuata da Vittorio Emanuele III nell'estate 1943 viene ricomposta alla luce meridiana della verità storica. Meriterà di essere ulteriormente approfondita e soprattutto proposta all'attenzione di docenti e studenti anche attraverso programmi radiotelevisivi, che mettano a frutto le decine di volumi di Atti dei convegni promossi dagli Uffici storici militari e dall'Archivio Centrale dello Stato e i Verbali dei governi da Badoglio a De Gasperi curati da Aldo G. Ricci.

 

Aldo A. Mola

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, X parte

 


 Si credette (citiamo il fatto perché riflette quanta legittima e fondata convinzione di «non far nulla per nulla» dominasse la democrazia italiana di allora) a grandi compensi ottenuti da Tittoni. Per la stipula della Triplice, nel 1882, ci s'era promesso la restituzione di Trento; si pensò, dunque, a quella promessa mancata. Si trattava invece di ben poco: rinunzia alla guarnigione austriaca a Novi Bazar e annessione al Montenegro del Porto di Antivari e del litorale, con limitazioni strategiche. Fu l'opposizione repubblicana a brillare in quell'occasione e sarebbe ancora oggi istruttivo, specie per i repubblicani, rileggere i discorsi di Barzilai e di Fortis. È vero che Barzilai e Fortis giuravano al Re che, probabilmente, taluni dei loro discorsi dovette ispirare. Del resto il 23 marzo 1911 Bissolati andò al Quirinale, lui che dieci anni prima aveva gridato «Abbasso il Re». La Monarchia, scrisse la «Propaganda», credette di aver «aggiogate le tigri», ma non era poi la Monarchia ad averlo fatto, era l'Italia. Il fenomeno si ripeterà dopo Caporetto nel gran moto di energia nazionale opposto, da ogni settore dell'opinione, compresa quella dei socialisti, all'accettazione del disastro.

* * *

Il cinquantenario del Regno, lo scoprimento della Mole sacconiana a Piazza Venezia, l'inaugurazione dell'Istituto internazionale di Agricoltura, il Congresso dell'Emigrazione presieduto da Marconi (siamo nel 1911) concludevano nella floridità delle finanze e nelle speranze e impulsi del nazionalismo nascente la bella stagione del regno di Vittorio Emanuele III. La politica estera ch'egli o ispirava o attuava la riassunse Giolitti alla Camera riconfermando la «fedeltà nelle alleanze e nelle amicizie», una politica del piede di casa, se si vuole, poiché in casa si trattava di fare ordine, pacificare le masse proletarie, comporre gli interessi della mano d'opera con quelli del capitale terriero e industriale, incrementare i grandi servizi pubblici, guidare la finanza dello stato. Né era tenero quel Governo Giolitti con gli imprudenti: si mise fulmineamente a riposo il generale Asinari di Bernezzo, un combattente di Custoza che l'Il novembre del 1909 consegnando una bandiera al reggimento di cavalleria di Brescia additò le « colline bagnate di sangue di tanti martiri e di là, non troppo lontano, le terre irredenti le quali attendono l'opera vostra».

Per quanto i nazionalisti e i futuristi e i dannunziani tempestassero e vedessero l'Italia « ridotta ad affittacamere dell'Europa spendereccia » l'unica politica estera     possibile e di maggior frutto era quella seguita fino allora.

Corradini aveva formulato le fondamentali proposizioni nazionalistiche, una delle quali affermava che se l'Italia era una nazione proletaria rispetto alle altre in Europa, il suo socialismo doveva essere il nazionalismo. L'« Idea Nazionale » uscì il giorno anniversario della battaglia di Adua e cominciò subito la campagna per la spedizione di Tripoli. Tuttavia né gli articoli di giornali, né i drammi di Corradini (in generale i nazionalisti ebbero fama di mediocri letterati passati alla politica, in busca di miglior fortuna),   né i disegni di Fortunino Matania (uno, col marinaio che rileva l'antica daga romana dalla salma rivestita di armatura d'un legionario, fu celebre) bastavano a convincere contadini e operai. Mussolini incitava le donne a stendersi attraverso i binari dei treni militari.

Circa la sponda africana, poi, i pareri e le notizie contrastavano quasi si trattasse d'una ultima irraggiungibile Thule. Corradini andava esaltandone clima e fertilità sulla scorta di Erodoto; Frassati mandò Bevione sul posto a scrivere articoli entusiastici, poiché l'impresa stava molto a cuore all'industria piemontese; Nitti, al solito, mostri parere contrario. Già nel 1907 aveva scritto: «Non vi è nessun impero da conquistare, non vi è che l'avvenire da compromettere». Poi troverà la famosa definizione della Libia: «lo scatolone di sabbia » mentre Turati disse l'altra:«l'inutile oceano di mortifere arene».

RICORDO DI COSTANTINO II DI GRECIA



di Gianluigi Chiaserotti

Il 10 gennaio 2023, è deceduto in Atene, Costantino II, Re degli Elleni, che era nato a Psichiko (in lingua greca “Ψυχικό”) il 2 giugno 1940.

Fu Re di Grecia dal 6 marzo 1964 al giorno 1 giugno 1973. 

Fu conosciuto anche con il nome di Costantino XIII [dato che l’ultimo imperatore fu Costantino XI Paleologo (1405-1453)], in quanto l’avo paterno del Nostro, Costantino I (1868-1923), aveva preso il nome di Costantino XII al fine di proclamarsi così continuatore della dinastia regnante dell’Impero Romano d’Oriente. 

Costantino di Grecia è il secondogenito, e unico figlio maschio, del Re Paolo (1901-1964) e di Federica di Hannover (1917-1981). 

Diciannove mesi prima della sua nascita era venuta al mondo la Regina Madre del Regno di Spagna,  Sofia (1938- ) e, nel maggio 1942, la Principessa Irene. 

Costantino aveva appena un anno quando la Grecia venne invasa dalle truppe tedesche e fu costretto a vivere l’esperienza dell’esilio, prima in Egitto e poi in Sudafrica. 

Rientrò in Grecia nel 1945, e, due anni dopo, diviene erede al trono in seguito alla morte dello zio Giorgio II (1890-1947) ed alla proclamazione di Paolo come Re.

Costantino fu educato come si conveniva ad un erede al trono. 

Frequentò scuole preparatorie e college importanti, ottenendo risultati brillanti, nonché la Scuola Speciale d’Armi della NATO in Germania Ovest. 

Costantino è stato anche uno sportivo di rilievo: nel 1960 partecipò alle Olimpiadi di Roma, vincendo la medaglia d’oro nella vela (classe Dragoni). 

Il 6 marzo 1964 il padre muore, ed il principe Costantino, all’età di 24 anni, sale sul trono greco. Il 18 settembre dello stesso anno sposa la principessa danese Anna Maria (1946- ), figlia del re Federico IX di Danimarca (1899-1972), appena diciottenne, ad Atene, nella Cattedrale metropolitana dell’Annunciazione.

Annamaria è la sorella della attuale Regina di Danimarca, Margherita (1940- ).

Nell’aprile 1967 una giunta militare si impadronisce del potere e, dopo un fallito contro colpo di Stato, in dicembre il Re Costantino e la Famiglia Reale prendono volontariamente la via dell’esilio, che li porta prima a Roma, poi - per un breve periodo - nella terra natia della regina Anna Maria, la Danimarca, ed infine a Londra. 

Solo il giorno 1 giugno 1973 il sovrano è formalmente deposto dalla giunta militare, che proclamò la repubblica in Grecia. La scelta è confermata da due referendum, uno nel luglio successivo e l’altro nel dicembre 1974, dopo il ritorno della democrazia (69% dei voti). 

Il Re Costantino  nel corso dell’esilio, ebbe il permesso di tornare in Atene, una prima volta, nel febbraio 1981, acclamato da una immensa folla di fedeli alla Monarchia, per i funerali della madre Federica, e, una seconda volta, nel 2004, durante le Olimpiadi, come membro del Comitato olimpico internazionale.

Solo nel 2013 la coppia reale tornò a stabilirsi in Grecia, precisamente a Porto Heli (in lingua greca “Πόρτο Χέλι”).

Il Re Costantino e la Regina Anna Maria di Danimarca hanno avuto cinque figli: Alessia (1965-), Paolo (1967- ), erede al trono, Nicola (1969- ), Teodora (1983- ) e Filippo (1986- ). 

Personalmente ebbi l’onore di ossequiarlo a Roma in occasione di una riunione di monarchici.

Fu una bella figura di Re.

Un punto di riferimento per parte della popolazione greca, ma soprattutto tenne molto unita la Sua famiglia, che volle allargare nel corso dell’esilio, e ciò con la principessa Teodora ed il principe Filippo.

Ora sarà sicuramente sepolto nella tenuta di Tatoi (in lingua greca “Τατόι”), il Pantheon greco, accanto ai Suoi Avi.

Ed ora tocca al Principe Paolo con la Sua forza, la Sua determinazione, che Gli permetteranno di continuare la  missione della Sua Dinastia al servizio del Suo Paese, come solo un Re o un Principe possono fare.

 


domenica 8 gennaio 2023

Un anniversario importante

E' iniziato il 2023. In questo anno ricorre il quarantesimo anniversario della morte in esilio di Re Umberto II

Per il poco che possiamo faremo in modo che questo anniversario, infausto, triste, in cui il dolore si ravviva per la distanza che ancora separa Umberto II dalla sua Capitale cui fatalmente deve ritornare con gli Onori che gli spettano in quanto Re ed in quanto Italiano tra i più grandi, non passi inosservato. 

Lo faremo dal nostro blog e cercheremo di farlo tra la gente, sui social media, per strada con i manifesti come si faceva una volta.

Inizieremo ripubblicando un articolo, che ci fu dato dal Nostro Domenico Giglio, di venerata memoria, prima della sua scomparsa, che fu pubblicato nel decimo anniversario della scomparsa del Re. 
Da allora sono pochi i miglioramenti e se ne può tenere buona un'ottima parte. 

Da questo blog cercheremo di raccogliere e segnalare le migliori iniziative perché il nostro Re venga ricordato e cessi l'infamia di un esilio infinito. 
Ove possibile ne saremo promotori noi stessi.

A quanti vorranno contribuire spalancheremo porte e stenderemo tappeti rossi.

Perché Re Umberto merita che noi ci battiamo per la sua Augusta e Venerata Memoria e perché abbia, almeno in morte, un po' della giustizia che non ebbe in vita.

Quest'anno ricorre inoltre il ventesimo anniversario del sito dedicato a Re Umberto II, www.reumberto.it iniziato empiricamente, cresciuto in documentazione e consistenza, e che ha fatto centinaia di migliaia di visite nonostante l'indifferenza dei siti e dei movimenti monarchici e che costituisce in rete la maggiore fonte di documentazione sulla vita e sul pensiero del nostro Sovrano. 

Da questo sito per la prima volta è stata messa in rete la voce del Sovrano.

Da questo sito sono state pubblicate in maniera sistematica le interviste, di cui moltissime sottratte all'oblio, ed i messaggi agli italiani. 

Crediamo che Re Umberto II lo avrebbe apprezzato.