NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 30 gennaio 2023

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, XII parte

 

Strano e quasi unico momento nella lunghissima vita della Triplice Alleanza, in questa occasione Re Vittorio e Francesco Giuseppe condivisero il medesimo punto di vista verso il bollente Pontefice. Sarà un cardinale ungherese a porre il veto dell'Imperatore d'Austria alla successione di Rampolla e con ciò, il Re d'Italia otteneva dal suo nemico n. 2 un grande servigio contro il nemico n. 1. La definizione di Giolitti «Il principio nostro è questo che lo Stato e la Chiesa sono due parallele che non si debbono mai incontrare» rimase sulla carta. Né Giolitti poteva, quando con qualche candore pronunciava questa massima politica, supporre il gran cammino che l'attivismo cattolico avrebbe compiuto in Italia, sebbene già ai suoi tempi la lotta parlamentare per la istruzione laica nelle scuole elementari, anche esagerata faziosamente, ne mostrava la forza espansiva. I termini del conflitto, permanente e neppure sanato dagli accordi lateranensi, vennero adombrati dal Salandra in un discorso alla Camera del 19 febbraio 1908: «Il cattolicesimo politico si trova in una disgraziata condizione di non poter confessare la sua dipendenza da una volontà, da una potestà la quale si tiene al di fuori e si ritiene al di sopra dello Stato. E quindi lo Stato non potrà mai affidargli né completamente disarmare contro di esso. Inoltre la Curia romana - ha così lungamente peccato contro la Patria per tanto corso di secoli che ora le tocca subire l'espiazione di una lunghissima astinenza da ogni potere politico...».

Insomma si capiva sin da allora che il Papa deciso a non diventare il cappellano di Casa Savoja, come si disse scherzosamente, avrebbe lottato con la pertinacia secolare della sua diplomazia per ottenere un Presidente della Repubblica, scaccino del Vaticano.

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Pure valida e rinnovata la Triplice appariva ad ogni occasione sempre più estenuata. «Il Re d'Italia ne ha abbastanza della nostra alleanza» disse il Kaiser dopo il «lodo» di Algesiras. I rapporti, in quella contingenza, erano tesi al punto che la Principessa di Bulow non andò sino a Roma a visitare la madre, donna Laura Minghetti — amica di Visconti Venosta — ma si contentò di vederla in Riviera. Il Circolo della Caccia respinse la candidatura a socio ordinario dell'ambasciatore Lutzow e non parliamo delle escandescenze del Months, successore di Kinderlan Wachter, che considerava l'Italia, l'alleata, come una terra deliziosa dalla quale andavano urgentemente soppressi gli italiani.

Il Months tuttavia vedeva profeticamente un mondo futuro tutto dominato dall'America, dalla Russia e dall'Inghilterra predicando perciò - a scapito nostro - una intesa diretta tra Francia e Germania. Il coniu
gio Italia-Imperi Centrali, malgrado le teorie di von Bulow, non sarebbe durato a lungo. L'annessione della Bosnia Erzegovina ci liberava per molta parte, le mani. Vittorio Emanuele III potate dire all'indomani del colpo austriaco all'ambasciatore serbo Milanovich: «Noi saremo in questa crisi affianco della Russia e delle potenze occidentali. Tutto ciò che la Russia farà per voi, noi lo faremo, tenetelo per certo». Del resto le Cancellerie alleate sapevano perfettamente che era stato proprio Vittorio Emanuele a mandare Visconti Venosta ad Algesiras al posto del germanofilo Silvestrelli, ambasciatore a Madrid e parente di Tittoni, caduto col gabinetto Fortis e sostituito dal di San Giuliano. Né potevano ignorare che Barrère, dopo le sconfitte russe in Asia si informava assiduamente nelle numerose conversazioni con Vittorio Emanuele sui progetti aggressivi dello Stato Maggiore tedesco e su quel che succedeva a «Via San Domenico». Davvero come aveva detto Goluchowsky, non si andava più avanti. Il conte Months trovava, in un rapporto a Berlino, che Vittorio Emanuele aveva smesso persino il suo «consueto cattivo umore per far festa a Loubet» giungendo a scarrozzarlo per due ore, in tilbury, per i quartieri di Trastevere. E quanto al già richiamato discorso di Alessandro Fortis, nella tornata del 3 dicembre 1908, al punto in cui aveva detto che l'«Italia poteva temere la guerra da potenza alleata e doveva perciò prepararsi alla difesa», sollevando uragani di applausi, ricevette persino le congratulazioni del gelido Giolitti, che ben conosceva il valore del suo gesto.

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