NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 30 luglio 2018

Dall‘Impero dello Zar alla Federazione Russa sorvolando l’Unione Sovietica

La chiara simpatia che alcune parti politiche, giunte oggi al Governo, nutrono per il presidente russo Putin, non so quanto provenga dalla conoscenza della storia russa da Pietro il Grande ( 1672-1725) ad oggi, intrecciata con quella europea, quanto dall’autoritarismo dell’attuale leader, sia pure derivante dal voto popolare ottenuto in elezioni abbastanza regolari. Che questo atteggiamento contrasti con la posizione ufficiale del governo italiano fino ad oggi e con le sanzioni economiche verso la Russia non deve fare velo al nostro giudizio perché che l’odierna Russia vada recuperata all’Europa, nel nostro interesse, credo sia una esigenza storica, tanto più urgente, anche da un punto di vista strettamente numerico, in quanto i suoi circa 150 milioni di abitanti, con il suo P.I.L., andrebbe a sommarsi ai 515 milioni dell’Unione Europea, in evidente crisi demografica, surclassati dall’Africa e l’Asia, con i due giganti Cina ed India, ciascuno con oltre un miliardo di abitanti, e facenti parte di quel gruppo di paesi, il BRICS, le cui economie sono pure in sviluppo.
Guardare anche oggi sulla carta geografica la Russia estesa per migliaia di chilometri con la Siberia confinante in particolare con la Cina, anche se la popolazione di quella vasta area è meno di un terzo di quella complessiva, ed anche l’economia è ancora poco sviluppata ed i trasporti terrestri si reggono ancora sulla centenaria Transiberiana, potrebbe dare all’Europa una certa tranquillità, anche sul terreno economico se avvenisse un maggiore sfruttamento di parte di queste enormi estensioni. Ma recuperare e reinserire la Russia, fermo restando le nostre tradizionali alleanze e la NATO,sarebbe il ritorno a quel grande concerto europeo dove l’impero zarista ebbe, fino al tragico 1917, un ruolo estremamente importante toccando il culmine nel 1815 con la sconfitta di Napoleone, l’ingresso a Parigi dell’Imperatore Alessandro I ( 1777-1828 ) ed il successivo Congresso di Vienna, per non parlare delle sue vittoriose guerre contro l’Impero Ottomano, che portarono alla indipendenza della Grecia, della Serbia, della Bulgaria,dell’Albania e della Romania, tutte via via sottratte al dominio turco nel corso dell’ottocento. Ruolo imperiale e di patrocinio su tutto il mondo slavo ed ortodosso, che fu in parte bloccato dalle altre potenze europee, vedi la guerra di Crimea, nella quale seppe intelligentemente inserirsi anche il Regno di Sardegna, gelose di una eccessiva espansione russa e di un suo sbocco nel Mediterraneo, ma che dopo il 1878 ed il Congresso di Berlino assicurò all’Europa fino al 1914, 36 anni di pace e di sviluppo in tutti i settori.
Ed in questo periodo coincidente con il XIX secolo, la sua cultura, specie nel campo letterario e musicale si intreccia con le altre culture europee, avendo autori la cui fama oltrepassa le frontiere ed i suoi Puskin (1799-1837), Gogol’ (1809-1851), Turgenev ( 1818-1883), Dostoevskj (1821-1881 ), e poi Tolstoi (1828-1910) e Cechov ( 1860-1904), forse superano anche i grandi contemporanei inglesi, francesi e tedeschi, come romanzieri e commediografi, ed egualmente i Glinka (1804-1857), Borodin (1833-1887 ), Balakirev (1837-1910 ),Cajkovskj (1840-1893), Musorgskj ( 1839-1881 ), e poi Rimskj – Korssakov (1844-1908) e infine Stravinskij (1882- 1917) nel campo musicale si battono quasi alla pari con i musicisti francesi, italiani e tedeschi.
 Solo con la caduta dello Zar ed il sanguinoso avvento del comunismo, la Russia divenuta Unione Sovietica, esce dal concerto europeo, ne diventa estranea, anzi avversaria, costituisce una alternativa ed una minaccia alle altre potenze ed anche quando deve nuovamente allearsi nel 1941 con Regno Unito e Stati Uniti, per respingere l’offensiva hitleriana, dopo l’ alleanza del 1939, e vinta la guerra allarga il suo potere dispotico sull’Europa Orientale compreso anche parte della Germania ponendosi dovunque nel mondo,come rivale degli USA, divenuti potenza egemone dell’Occidente.
La caduta del regime sovietico, nel 1991, perciò ha riaperto la possibilità di questi rapporti, anche se dobbiamo riconoscere la difficoltà, dopo 74 anni di comunismo, di una vita parlamentare e democratica eguale a quella dei principali paesi europei. Inoltre per capire il suo attuale nazionalismo è da considerare lo “shock” subito dal normale cittadino russo, dopo il 1991, con la libertà ed indipendenza ripresasi dalle tre repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia,Lituania, che avevano vissuto appena un ventennio da stati sovrani dal 1918 al 1939, la indipendenza di alcuni antichi stati caucasici cristiani, nonché delle repubbliche mussulmane, vecchio frutto delle conquiste zariste, il distacco successivo, ancor più doloroso, della Ukraina e le rivolte terroristiche e secessioniste della Cecenia, di fronte alle quali non poteva non esserci una durissima repressione da parte del governo.
E’ invece da apprezzare e sottolineare che in Russia, caduto il regime comunista, i resti della Famiglia Imperiale Romanov, lo Zar Nicola II, la Zarina Alessandra Fedorovna, lo Zarevic Alessio,di 14 anni, e le quattro principesse Olga, Tatiana, Maria ed Anastasia, sono stati dissepolti da Ekaterinburg, dove erano stati trucidati dai bolscevichi il 17 luglio 1918 e solennemente traslati e sepolti a San Pietroburgo, nella Cattedrale dei SS. Pietro e Paolo,evento che andrebbe ricordato a questi loro amici italiani.
Su di un altro piano a non facilitare i rapporti si sono aggiunte più recentemente il distacco della Crimea dall’Ukraina, la lacerazione nella stessa Ukraina tra fautori della indipendenza e nostalgici dell’antica unione, alcuni attentati alla vita di oppositori della attuale presidenza, ma tutto questo se non va sottovalutato e se deve essere rimarcato, non può e non deve impedire il discorso a più largo raggio per il ritorno a rapporti amicali con la Russia, che non deve sentirsi assediata ad Occidente quando ha da sorvegliare migliaia di chilometri di frontiere ad Oriente.
Domenico Giglio
P.S. Il recente incontro ad Helsinski Trump - Putin potrebbe essere un inizio di distensione nella quale l’Unione Europea dovrebbe inserirsi

domenica 29 luglio 2018

Regina dell'eleganza

ABITI DI CORTE DI MARIA JOSÉ DI SAVOIA

Comunicato stampa Giunta regionale Valle d'Aosta


Castello Reale di Sarre dal 5 agosto al 23 settembre

L’Assessorato dell’Istruzione e cultura della Regione autonoma Valle d’Aosta e il Comune di Sarre presentano al Castello Reale di Sarre, dal 5 agosto al 23 settembre 2018, l’esposizione Reine de l’élégance. Abiti di corte di Maria José di Savoia, realizzata grazie alla collaborazione con la Fondazione Umberto II e Maria José di Savoia di Ginevra e all’apporto delle delegazioni FAI della Valle d’Aosta e della Svizzera.


L’Amministrazione regionale — sottolinea l’assessore all’Istruzione e Cultura Paolo Sammaritani — con questo evento intende arricchire ulteriormente la proposta culturale del Castello Reale di Sarre, in quanto residenza musealizzata dedicata al rapporto tra Casa Savoia e la Valle d’Aosta, attraverso l’esposizione di preziosi abiti legati alla vita di corte e ai momenti più ufficiali di Maria José di Savoia. La sovrana, che nel corso dei suoi numerosi soggiorni estivi ebbe modo di affezionarsi al territorio valdostano e alle sue montagne, rimase nel cuore della popolazione locale, come dimostrato in occasione della sua ultima visita al castello di Sarre il 15 maggio 1998. Il castello diventa la sede più appropriata per raccontare sfumature di storia di Casa Savoia poco note ai valdostani, emblematiche di momenti di vita ufficiale e di eleganza regale.


Per l’occasione, la Fondazione Umberto II e Maria José di Savoia, presieduta da S.A.R. la Principessa Maria Gabriella, ha concesso in prestito una selezione di superbi manti e di splendidi abiti provenienti dal guardaroba dell’ultima Regina d’Italia, già esposti a Venaria reale, Parigi e Istanbul. Maria José aveva con il castello e con la comunità di Sarre un legame privilegiato, poiché dal 1936 al 1942 i Principi di Piemonte trascorsero la villeggiatura estiva nell’austera dimora di caccia di Vittorio Emanuele II e di Umberto I di Savoia.
Confezionati dalle più prestigiose case italiane secondo i dettami dell'ultima moda di Parigi, questi preziosi capi esaltavano il ruolo regale della sovrana e al tempo stesso attestavano sin da quell’epoca l’eccellenza dell’alta sartoria di cui ancora oggi l’Italia va fiera. Alcuni di essi furono fatti realizzare da Umberto II per dotare la futura sposa di un prestigioso corredo nuziale tutto “made in Italy”, di cui la Principessa si sarebbe fatta ambasciatrice nel mondo. Dopo l’esito del referendum a favore della repubblica, Maria José e Umberto lasciarono immediatamente l’Italia; partendo per l’esilio, e la “Regina di maggio” portò con sé gli abiti più belli del suo guardaroba, passati in seguito alla Fondazione ginevrina.
Oltre agli abiti di corte, in mostra si potranno ammirare anche la divisa da crocerossina di Maria José, che si adoperò per la riorganizzazione del Corpo Nazionale della Croce Rossa e durante la guerra prestò la sua opera presso i reparti italiani al fronte, e due uniformi degli uscieri di corte dell'epoca di Carlo Alberto.
Nel Cabinet des Estampes saranno esposte varie fotografie di Maria José a Sarre, sia del periodo d’anteguerra, sia delle visite ufficiali compiute nel 1989 e nel 1998. Al materiale iconografico si aggiungeranno alcuni documenti del carteggio privato tra Maria José e il parroco Aimé-Samuel Chatrian (1960-2004), donato di recente all’Académie Saint-Anselme, della quale Maria José era membro d’onore. Il canonico Chatrian ha intrattenuto fino all’ultimo stretti rapporti con la famiglia Reale: aveva presenziato, tra l’altro, al battesimo del principino Emanuele Filiberto IV e concelebrato le esequie di Umberto II nel 1983 e di Maria José nel 2001.
A corredo della mostra, curata da Sandra Barberi, è prevista la pubblicazione di una brochure illustrata trilingue.
Afferma nell’introduzione alla brochure Viviana Maria Vallet, responsabile dell’Ufficio Patrimonio storico-artistico della Soprintendenza regionale per i Beni e le attività culturali e dell’allestimento museale del castello di Sarre: Il rapporto tra i preziosi vestiti esposti e la dimora valdostana, molto amata dalla principessa, non è certamente diretto. Durante i soggiorni in Valle d’Aosta, nell’abbigliamento Maria José si mostra donna sportiva e moderna indossando abiti comodi e pratici, in grado di consentire libertà di movimento ma sempre contraddistinti dal suo stile e da un tipico tocco di charme: un cappello, una morbida stola o semplicemente un foulard.
Con questa iniziativa – spiega il Sindaco di Sarre Massimo Pepellin – il Comune di Sarre si propone di contribuire a far conoscere ai suoi concittadini, ai Valdostani e ai turisti le bellezze del suo castello, valorizzandone una delle caratteristiche che lo rende, assieme a Castel Savoia di Gressoney, unico in Valle d’Aosta: quella di essere "castello reale". L’amministrazione comunale intende a questo scopo dare risalto a momenti della vita dei personaggi di Casa Savoia che nel corso del tempo hanno utilizzato e abitato il castello, ricordando il forte legame che si era instaurato tra la dinastia sabauda e la cittadina di Sarre.
Sabato 4 agosto alle 18.00 avrà luogo l’inaugurazione della mostra, seguita da un aperitivo con accompagnamento musicale nel giardino del castello a cura della Pro loco di Sarre.
L’esposizione sarà aperta dal 5 agosto al 23 settembre 2018, tutti i giorni dalle 9.00 alle 19.00 (visita ogni mezz'ora, ultimo ingresso alle 18.30).
La mostra  temporanea Reine de l'élégance. Abiti di corte di Maria José di Savoia è compresa nel percorso di visita e nel biglietto d’ingresso al castello.
Si segnala inoltre che, per tutta la durata della mostra, nel museo parrocchiale di Sarre sarà esposta la pianeta donata da Umberto II nel 1978, per la celebrazione della messa di suffragio in occasione del centenario della morte di Vittorio Emanuele II di Savoia.

Per ulteriori informazioni:
Castello Reale di Sarre
Tel. 0165.257539

29 Luglio


sabato 28 luglio 2018

Commemorazioni alla sala storica del Convegno di Peschiera



Oggi, con la premessa del Ministro Lucifero, cominciamo la pubblicazione di una serie di conferenze tenute dal Professor Mario Baccalaro presso la Sala Storica del Convegno di Peschiera in cui l'8 Novembre 1917, subito dopo Caporetto, si decisero le sorti della Nazione Italiana. 
In quel Convegno con gli alleati inglesi e francesi il Re d'Italia parlando in francese, in inglese, in italiano garantì per tutta la Nazione che l'Esercito ed il popolo d'Italia avrebbero fatto il loro dovere contenendo il nemico sul Piave.
La figura del Re  uscì, e tuttora rimane, gigantesca da quel convegno in cui dimostrò smisurati amore e fiducia nel proprio popolo.
Siamo particolarmente orgogliosi di condividere, con cadenza più o meno bisettimanale, i testi delle conferenze con i nostri amici che ci seguono anche in queste torride giornate estive.

Il messaggio che vorremmo che mai si perdesse, il motivo principale delle nostre ricerche, è che noi monarchici siamo destinatari di una infinita eredità culturale e storica che ha saputo far nascere e rendere grande l'Italia che amiamo "innanzitutto", come il Re ci ha insegnato.
E di questo andiamo fierissimi.

Lo Staff


Commemorazioni trascritte dai nastri su cui sono state registrate



A S.M. Umberto II, Re d’Italia, come umile atto d’omaggio alla grandezza dei Suoi Augusti Genitori.


Premessa

Essere Re costituzionale, e tale è stato Vittorio Emanuele III, limita le occasioni nelle quali il Sovrano debba assumere le responsabilità in prima persona e uscire dal riserbo esponendo il proprio pensiero.
La magistratura di un Re costituzionale è fatta più di consiglio che di decisioni perentorie e la sua azione mediatrice si esplica in contatti, interventi e stimoli che non appaiono: è insomma un fiume sotterraneo che percorre tutta la durata del regno, nella sua vita istituzionale e politica, venendo raramente allo scoperto.
Tuttavia Vittorio Emanuele III nel Suo lungo regno ha avuto diverse occasioni nelle quali la Sua personale decisione ha inciso profondamente nella storia nazionale, divenendone l’indiscusso protagonista.
Uno di questi è appunto l’incontro di Peschiera dell’8 novembre 1917 tra il Re, accompagnato da Orlando e Sonnino, "testimoni muti”, ed i capi dei governi francese e inglese.
Non ripeterò quanto così bene e dettagliatamente esposto dall’Autore, con ricchezza di citazioni e di riferimenti storici e con chiara obiettività, se non per sottolineare l'essenzialità, la concretezza, la limpidezza di pensiero, la semplicità di Re Vittorio che era uomo non soltanto di grande intelletto, ma anche di sentimenti ed affetti profondi, difficilmente tuttavia destinati ad affiorare nella Sua ricca e complessa personalità. Tra questi la passione nazionale, il sentirsi erede per la carne e per lo spirito dei Suoi Avi, da Carlo Alberto, che levò primo il vessillo tricolore del Risorgimento a Vittorio Emanuele II che lo portò a Roma, realizzando, dopo secoli di divisione e di schiavitù, l'unità d'Italia nella libertà.
Per Vittorio Emanuele III la guerra del “15-18, non è la "grande" guerra o la I guerra mondiale, ma è la IV guerra del Risorgimento, la conclusione dell'epopea nazionale con il raggiungimento dei confini naturali e storici
della nazione italiana e la riunione di Trento e di Trieste.

Questa notazione, che risuonò chiara e forte nel proclama reale del 24 maggio 1915, è la chiave per comprendere come Vittorio Emanuele III, all'indomani di Caporetto, gettasse tutto se stesso nella difesa dell'edificio unitario, convinto della forza morale fino all'eroismo del Suo popolo, della capacità di ripresa e di lotta del Suo Esercito.
Bene ha fatto perciò il professor Mario Baccalaro, nelle diverse rievocazioni tenute a Peschiera in successivi anni e qui raccolte, a legare l'incontro del novembre 1917 con la precedente riunione di Rapallo, a livello dei soli esponenti politici e negativamente conclusasi, e con le successive fasi della resistenza sul Piave; dalla felice scelta di Diaz, (fatta personalmente dal Re) fino alla battaglia decisiva e conclusiva di Vittorio Veneto che giusto un anno dopo Caporetto avrebbe costretto quello che era stato uno dei più superbi eserciti del mondo "a risalire in disordine e senza speranza" le valli discese con orgogliosa sicurezza.
Quanto mai opportuno infine mettere accanto la rievocazione dell’incontro di Peschiera con la commemorazione di Colei che per 51 anni fu di Vittorio Emanuele la compagna fedele: madre e sposa esemplare, Elena, Regina.
Abbiamo accennato ai sentimenti ed agli affetti di Re Vittorio Emanuele: fra questi, fondamentali, sono quelli che ebbe per la Sua Sposa, ricambiati e rafforzati in un legame indissolubile, così autentico che, al di là d'ogni retorica, nemmeno la morte poté sciogliere.
L’avere uniti nel ricordo il Re Soldato e la Signora della Carità, il Re che in "panni bigi" divise per quattro anni la vita dei soldati, primo nel dolore ultimo nella gioia, e la Regina che negli stessi drammatici anni, vestita l’uniforme crocerossina, trasformò in ospedale la reggia del Quirinale, è opera assai meritoria.
Comunque, questo libro stabilisce verità storiche e riuscirà caro a tutti gli Italiani non immemori.

Falcone Lucifero

martedì 24 luglio 2018

18 aprile 1948: cosa ricorda? Alcune considerazioni



Il silenzio sulle elezioni del 18 aprile 1948, di cui pure ricorreva il settantesimo anniversario mi spinge ad alcune considerazioni su tale data, quasi dimenticata anche perché in questa ricorrenza ben poche voci si sono levate a ricordare questo evento fondamentale per la nostra libertà, per la scelta occidentale e per la conferma delle istituzioni democratiche e parlamentari.
Ripartiamo dal 2 giugno 1946 ed ai risultati elettorali dei partiti per la Costituente : primo partito la Democrazia Cristiana,( voti 8.101.004 – 35,21% -seggi 207), secondo partito il Partito Socialista di Unità Proletaria,( voti 4.758.129 -20,68%- seggi 115), terzo partito il Partito Comunista Italiano,( voti 4.356.686 -18,93%- seggi 194), seguiti poi dall’Unione Democratica Nazionale ( Liberali e demo laburisti), Uomo Qualunque, Partito Repubblicano, Blocco Nazionale della Libertà ( monarchici) e Partito d’Azione. Come si vede la somma dei voti dei due partiti di sinistra, pari a 9.114.815, sopravanzava di oltre un milione la Democrazia Cristiana, e l’organizzazione del PCI, ed il suo numero di iscritti era superiore a quello di qualsiasi altro partito. Perciò essendo uniti PCI e PSIUP da un patto d’unità d’azione la possibilità di una conquista democratica del potere non era da escludersi. Inoltre Togliatti, aveva ben presente il successo dei Fronti Popolari di cui avevano fatto parte i partiti comunisti, avvenuto in Francia e Spagna prima della guerra, politica impostata da Stalin per raggiungere il potere, per cui per il 18 aprile lanciò anche in Italia questa formula, con un simbolo non partitico, ma di grande effetto propagandistico, cioè il ritratto di Garibaldi. Credo sia qui inutile spiegare il fascino del nome, che oltre al suo significato storico risorgimentale e popolare, si ricollegava ai ben più recenti eventi della Resistenza, dove alle formazioni militari organizzate dal partito comunista,era stato dato appunto il nome di “Garibaldi”.
Vi era stata però una scissione nel PSIUP, perché un gruppo minoritario, ma rispettabile per il nome ed il prestigio del suo leader, Saragat, aveva abbandonato il vecchio partito creandone uno nuovo, per cui i voti socialisti sarebbero fatalmente diminuiti, cosa che in effetti avvenne. Per rimpolpare i possibili elettori del Fronte Democratico Popolare, Togliatti, inventò gli “indipendenti di sinistra”, razza estintasi solo recentemente, cioè personalità genericamente di sinistra,anche e specie del periodo prefascista, alle quali il PCI assicurava il seggio, senza chiedere l’iscrizione, veri “specchietti per le allodole”, ovvero per gli elettori.
Una serena valutazione del voto del 1946 avrebbe dovuto dare una certa tranquillità all’elettorato non comunista, in quanto PSIUP e PCI erano sotto il 40% dei votanti,ma il frazionamento elettorale del centrodestra, nonché dall’altra parte la capacità propagandistica capillare degli “agit prop” del PCI,spaventò il predetto elettorato, facendo affluire il voto della stragrande maggioranza dei non comunisti ed anticomunisti sulla Democrazia Cristiana, alle cui mancanze organizzative supplirono i Comitati Civici con Luigi Gedda, nonché anche Sacerdoti, come Padre Lombardi, definito “microfono di Dio “ ! Vi furono anche lettere di italiani all’estero che scrivevano ad amici e parenti perché non si facessero ingannare dal viso di Garibaldi, ed un giornalista, Guareschi, con il settimanale “Il Candido”, che coniò gli slogan anticomunisti più felici, ripresi nei manifesti affissi in tutta Italia, tipo “nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no”, personaggio il Guareschi, difficilmente contestabile da parte comunista, in quanto era stato uno dei 600.000 soldati italiani, rinchiusi nei lager nazisti, dopo l’8 settembre 1943,per non aver voluto rinnegare il giuramento di fedeltà fatto al Re.
I risultati elettorali furono superiori alle stesse aspettative, ed evento non più ripetuto vigendo il sistema elettorale proporzionale, la Democrazia Cristiana, con il 48,5% dei voti popolari, pari 12.740.042, raggiunse da sola, con 305 seggi su 574, la maggioranza nella Camera dei Deputati, mentre il Fronte Democratico Popolare, si fermò al 30,98% pari a 8.136.637 voti e 183 seggi,per cui De Gasperi continuò a governare fino al 7 giugno 1953, quando invece la DC ebbe un forte salasso di votanti, che affluirono ai partiti di destra, particolarmente al Partito Nazionale Monarchico,i cui elettori avevano il precedente 18 aprile, accantonato le proprie idealità e le giuste rivendicazioni referendarie per convergere sulla DC, ritenendola il solo argine al comunismo, argine che poi si rivelò molto poco solido.
Il confronto di questi dati numerici dei voti avuti dalla Democrazia Cristiana e dal Fronte social comunisti, con quelli due anni prima, 2 giugno 1946, relativi al referendum istituzionale tra Monarchia e Repubblica, dimostrano che la scelta democratica ed occidentale dell’Italia è avvenuta grazie ai voti di coloro che avevano votato per la Monarchia, mentre la quasi totalità dei voti dati al Fronte appartengono ai sostenitori della scelta repubblicana, che se il Fronte avesse prevalso,avrebbero portato gli italiani nel blocco sovietico, come Germania Est, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria,Jugoslavia, con tutte le relative conseguenze e per cinquant’anni, fino alla caduta del “muro” di Berlino, sarebbero stati soggetti a regimi polizieschi, nemici della libertà, dispotici, violenti ed oppressivi.La scelta del 18 aprile 1948, anche dopo 70 anni, deve rimanere una scelta irreversibile.

Domenico Giglio

domenica 22 luglio 2018

”Storia in Rete” in edicola: “Italiani, ci siete ed è ora di battere un colpo”

da Alberto Lancia

Gli italiani esistono da 21 secoli, solo che spesso se lo dimenticano. E si fanno raccontare i casi loro dagli altri. Così fra eclissi (temporanea…) degli Stati-nazione, narrazioni interessate degli stranieri e autolesionismo tutto nostrano, spesso l’identità italiana viene dimenticata dai suoi stessi portatori. Il numero di “Storia in Rete” in edicola in questi giorni apre al dibattito sull'identità italiana: multiforme, sfuggente, sicuramente contraddittoria. Ma innegabile.
Nell’era in cui secondo certi politici basta il tifo calcistico a fare un italiano, la lettura di questo numero della rivista diretta da Fabio Andriola è una boccata d’aria fresca e una stella polare per orientarsi dopo anni di mistificazioni e destrutturazione della nostra autocoscienza nazionale. Scopriamo, per esempio, che è una balla che l’italiano come lingua sia un’invenzione post-unitaria, e che un piemontese e un pugliese non riuscissero a comunicare fra di loro prima del Risorgimento o – addirittura – della Grande Guerra.
[…]
Poi, tre salti nel dopoguerra. Il primo con un estratto da un saggio di Giulio Vignoli sul lento declino della Monarchia in Italia durante il dignitoso ma sterile politicamente esilio di Umberto II. Aldo Ricci racconta l’attentato a Togliatti di settant’anni fa e il “niet” di Stalin a una seconda guerra civile in Italia (ma la base non lo sapeva…).
[...]



Come già altre volte segnaliamo senza per questo condividere in toto.
Buona, eventuale, lettura.

Giovannino Guareschi e il Re d’Italia Umberto II


di Emilio Del Bel Belluz

Il 22 luglio 2018 si ricorderà il cinquantesimo anniversario dalla morte di uno dei più grandi scrittori che questo Paese abbia mai avuto: Giovannino Guareschi.
In questi giorni per caso mi è venuta tra le mani una sua bella citazione dedicata ai soldati caduti in guerra: “ Quando un soldato italiano muore le stellette della giubba si staccano e salgono in cielo ad aumentare di due piccole gemme il firmamento. Per questo forse il nostro cielo è il più stellato del mondo”. Queste parole sono state scritte da quel galantuomo di Guareschi che non ha mai dimenticato i suoi commilitoni morti durante la guerra e nello stesso campo di prigionia in Germania.
Alla sua morte qualcuno che non lo amava disse che non era morto uno scrittore. Ebbene di quel qualcuno non si parla mai, ma Giovannino si ricorda sempre attraverso i suoi libri che sono diffusi e tradotti in tutte le parti del mondo.
Guareschi era un uomo tenace che non si era mai arreso alle avversità della vita anche quando dovette rimettere quelle poche cose nello zaino e ritornare in un carcere. La fede alle proprie idee gli fece conoscere anche la dura esperienza del carcere.
Guareschi aveva un grande ammiratore nell’ultimo Re d’Italia che gli era grato perché nei momenti di tristezza, attingendo a quelle pagine così belle che Guareschi aveva scritto, si sentiva per un attimo lontano dalla tenaglia della nostalgia per la sua patria.
Il Re amava Giovannino perché sapeva che su di lui si poteva contare come su un soldato fedele che mai avrebbe dimenticato il giuramento fatto al Re. Umberto II, il 22 luglio 1968, si rese conto d’aver perduto un caro e fraterno amico, e che la sua solitudine non sarebbe più stata allietata da quelle pagine che il Guareschi di sicuro avrebbe continuato a scrivere fino all’ultimo giorno della sua vita.
Il Re sapeva quanto nobile d’animo fosse il suo amico. Ogni pagina della vita di Guareschi era vicina ai Savoia. Giovannino era come un faro per il suo sovrano.
Guareschi conservava una foto con dedica del suo Re, che metteva in bella mostra a quelli che andavano a trovarlo. Il Re, a suo modo, gli fu vicino nei momenti tristi della vita, come la perdita della madre dello scrittore cui era molto affezionato. In questi giorni che precedono l’anniversario mi trovo a Sequals, il paese di primo Carnera.
Se il buon Giovannino fosse stato presente al trofeo Primo Carnera avrebbe scritto un articolo per i due pugili che si sono sfidati per la conquista del titolo italiano dei pesi massimi. La sfida è avvenuta tra un pugile cattolico osservante, che ha nel cuore la fede e si potrebbe paragonare al buon Don Camillo, e l’altro al buon Peppone. A una conferenza ho voluto parlare di Guareschi, l’ho citato davanti ai due avversari: Fabio Tuiach, triestino, e Sergio Romano , napoletano. Tuiach, nei momenti di dura lotta non ha mai abbandonato la rotta che il Signore gli aveva tracciato.
Ha una famiglia con quattro figli e l’amata moglie che gli danno la voglia di vivere. Cosa rara di questi tempi in cui la crisi familiare è molto diffusa. Penso che a Guareschi sarebbe piaciuta la sua storia. Anche la tenacia con la quale ha saputo diventare per la terza volta campione italiano dei pesi massimi. Guareschi avrebbe anche scritto che quando Tuiach combatteva sul ring, la moglie Cristina che, ironia della sorte, si chiama come la maestra di uno dei personaggi più amati da Guareschi, allattava l’ultimogenita, Stefania.
Una bella immagine di vita che mi ha commosso, come mi ha emozionato quando Tuiach ha alzato le braccia in segno di vittoria e le sue possenti mani trattenevano il terzogenito, Jesus.
Allo stesso tempo il buon Guareschi avrebbe scritto qualcosa dell’avversario Peppone che in realtà è un buon pugile dal cuore grande che prima di salire sul ring ha dato un bacio a sua moglie, e alla figlioletta. Anche questo è il mondo della boxe, un mondo che tra le corde si sprigiona la lotta, ma una volta finito il match i due avversari si abbracciano.
Sergio Romano ha condotto il suo combattimento meglio che poteva, come vive dando il meglio di se stesso alle persone che ama. Il buon Don Camillo, sarebbe salito sul ring ad abbracciare entrambi i contendenti. Allo stesso tempo avrebbe preso la parola per ricordare il campione Primo Carnera che è sempre stato d’esempio anche nella vita. Un pugile che aveva lottato tanto per dare ai figli la possibilità di studiare.
Il buon Guareschi avrebbe magari additato ad esempio il pugile che aveva lottato in tutte le parti del mondo e aveva sentito la nostalgia di venir a morire nella sua terra. Proprio come un albero che sa dove nasce e dove muore. Un grosso albero quello di Carnera capace di superare le tante difficoltà che la vita gli ha fatto trovare davanti.
Quel Carnera che non dimenticava mai i poveri, quelli che avevano avuto meno fortuna di lui. Un sorriso e una pacca sulla spalla non si negano a nessuno. Basti pensare che aveva pietà anche per quelli che gli avevano fatto del male.” La vita è una bestia che t’insegue e poi ti morde, come fosse un avversario sulle le corde”, cantava Goran Kusminac, per descrivere il viaggio esistenziale di Primo. In questi tempi così difficili avremmo bisogno di un Carnera e di uno scrittore come Guareschi per mitigare la tristezza che ognuno incontra nella propria vita.

sabato 21 luglio 2018

Ricordato a Cavour Il 90° della morte di Giovanni Giolitti



(Cavour, Torino, 17 luglio 2018) – Alle ore 18 di martedì 17 luglio Giovanni Giolitti, lo Statista della Nuova Italia, è stato ricordato a Cavour nel 90° della morte, per iniziativa della Associazione di Studi Storici a lui intitolata. Dinnanzi alla tomba Giolitti- Plochiù, nel cimitero comunale, deposta una corona di alloro, il presidente dell’Associazione (ASSGG) Alessandro Mella ed il presidente onorario avv. Giovanna Giolitti hanno invitato i presenti a raccogliersi in silenzio per un minuto. Il direttore scientifico prof. Aldo A. Mola ne ha brevemente rievocato la figura: monarchico, liberale, riformatore, cinque volte presidente del Consiglio dei ministri (1892-1921), Collare della SS. Annunziata, Statista eminente al pari di Camillo Cavour e Luigi Einaudi, come ricordato recentemente dal Presidente Sergio Mattarella. La visione politica di Giolitti (1842-1928), pionieristica e lungimirante, e il suo alto senso dello Stato sono ancor oggi attualissimi, meritano studi e approfondimenti e rimangono misura di una classe dirigente all'altezza delle aspirazioni degli italiani.
Alla sobria iniziativa memoriale hanno presenziato o aderito con messaggi eloquenti: S.A.R. la Principessa Maria Gabriella di Savoia; la Prefettura di Cuneo; il dott. Nerio Nesi, presidente della Fondazione Camillo Cavour (Santena); il cons. reg. Gianna Gancia; l’on. dott. Mino Giachino, già sottosegretario di Stato; il col. Antonio Zerrillo, Comando Militare Regione Piemonte; il dott. Francesco Rossa, Civico 20 News; il gen. Giorgio Blais, l’ing. Gianfranco Billotti, Presidente UniTre Piemonte e la prof.sa Catterina Maurino, Unitre Cavour; il dott. Camillo Zuccoli, ambasciatore del Sovrano Militare Ordine di Malta in Bulgaria;  l’arch. Roberto Einaudi, Fondazione Luigi Einaudi (Torino), l’avv. Attilio Mola, Presidente della Associazione di Studi sul Saluzzese; il prof. Giovanni Rabbia, Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo e componente della Consulta dei Senatori del Regno; l’on. Enrico Costa; l’on. Guido Crosetto; l’on. Daniele Capezzone; l’on. Daniela Ruffino; il geom. Mario Monge, Sindaco di Torre San Giorgio, aderente alla ASSGG; il Prof. Romano Ugolini, Presidente dell'Istituto per la StorIa del Risorgimento Italiano, Roma; il prof. Cosimo Ceccuti, presidente Fondazione Giovanni Spadolini- Nuova Antologia; la dott.ssa Albina Malerba, Direttrice Centro Studi Piemontesi, Torino; il prof. avv. Tito Lucrezio Rizzo, giurista, Univ. La Sapienza Roma; il prof. Nico Perrone, Università di Bari; Enrico Morbelli, Scuole di Liberalismo, Torino; l’avv. Gianmaria Dalmasso, past Presidente Rotary Club Cuneo 1925; l’ing. Domenico Giglio, Circolo Rex, Roma; il dott. Giuseppe Catenacci, presidente on. Associazione Nazionale ex Allievi della Nunziatella; il conte Alessandro Cremonte Pastorello, vicepresidente della Consulta Consulta dei Senatori del Regno; Gianni Stefano Cuttica, l'avv. Pietro Luca di Windegg e il dott. Luciano Garibaldi, membri della Consulta dei Senatori del Regno; il cav. Giovanni Ruzzier; il dott. Andrea Borrella, Comitato Scientifico dell'Annuario della Nobiltà Italiana; il prof. Dario Seglie, Direttore CeSMAP; il col. Carlo Cadorna; il dott. Marco Bertoncini, saggista; il dott. Vanni Cordero; il dott. Alfonso De Filippo, l’avv. Alessandra Terzolo; il prof. Carlo Sburlati, Premio Acqui Storia; il sig. Alberto Guerci, assessore alla cultura del Comune di Viù (TO); la dott.sa Annalisa Santini, storica; il prof. Aldo G. Ricci, Sovrintendete Emerito dell’Archivio Centrale dello Stato; l'avv. Pietro Luca di Windegg; il dott. Agostino Mattoli (nipote dell’omonimo medico di Giovanni Giolitti) e il dott. Alfonso De Filippo.
Il sen. Giorgio Bergesio, nel corso della seduta del pomeriggio, ha ricordato nell’aula del Senato l’importante ricorrenza, rendendo omaggio a Giovanni Giolitti e citando, nel proprio intervento, la cerimonia in quel momento in corso a Cavour.
Al termine dell’incontro il direttivo dell’ASSGG ha annunciato il convegno di studi sull’età emanuelino-giolittiana (1900-1921) in programma il 28-29 settembre a Vicoforte (CN), ove riposano le Salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena.

I partecipanti hanno dichiarato il loro stupore per l'assenza della Provincia di Cuneo e dei sindaci (o loro rappresentanti) di Cuneo, Cavour, Dronero e Mondovì, tutti invitati, quasi Giolitti non sia parte sostanziale della loro storia.

venerdì 20 luglio 2018

I Savoia e quella riserva di caccia


La Riserva reale di caccia di Valdieri e Entracque nacque ufficialmente nel 1857 ma il colpo di fulmine era scattato già due anni prima, nell’agosto del 1855, quando i principi Vittorio Emanuele e Ferdinando, duca di Genova, avevano visitato Entracque. Il giovane Vittorio Emanuele era un appassionato cacciatore di camosci e venne subito colpito dalle Alpi Marittime e in particolare dalla Val Gesso per la selvaggina abbondante, gli scorci incantevoli, un clima salubre e il diversivo delle acque di Terme di Valdieri. Una volta incoronato, il re mise così subito nel mirino la Valle Gesso per farne uno dei suoi distretti venatori e ottiene dai comuni di Valdieri e di Entracque la concessione esclusiva dei diritti di caccia, e, successivamente, anche di pesca, su gran parte dell’alta Valle Gesso.  
Ovviamente l’arrivo dei sovrani di Casa Savoia sconvolse la vita della valle. 
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http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-07-09/i-savoia-e-quella-riserva-caccia--181058.shtml?uuid=AEPOLIJF

mercoledì 18 luglio 2018

Il Duca della Vittoria, apre la mostra dedicata al generale Armando Diaz


«I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza». Questa celebre frase, asciutta e scorrevole, chiude il bollettino della Vittoria con il quale il generale Armando Diaz annunciò, il 4 novembre 1918, la sconfitta dell’Austria-Ungheria.  

Per ricordare il personaggio e celebrare il centenario della Vittoria, il Museo dei Granatieri, a Roma, ha allestito la mostra “Diaz, una dinastia di militari” che sarà inaugurata domani, lunedi 9 luglio, alle ore 11.00 dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Salvatore Farina. Al progetto ha partecipato con entusiasmo la stessa famiglia Diaz prestando numerosi importanti cimeli. Il colonnello Bruno Camarota, direttore del Museo, spiega: «Non è stato facile raccogliere da tutta Italia cimeli personali e documenti del generale, sia da privati collezionisti, che da musei come quello della Grande Guerra di Gorizia. Un lavoro doveroso, ma anche gratificante per l’esempio che il generale ci ha lasciato nella valorizzazione delle risorse umane».  

Il fatto di saper capire gli uomini fu, infatti, una delle più grandi qualità di Diaz che si rivelò determinante per il successo finale della guerra. Tuttavia, la sua figura è stata spesso contrapposta, secondo un banale cliché “buono vs. cattivo”, a quella del suo predecessore, il generale piemontese Luigi Cadorna che, de facto, pose le basi tecnico-strategiche affinché Diaz potesse assestare l’ultimo colpo mortale all’Impero asburgico.  


Sangue ispanico-napoletano  
Sicuramente, rispetto a Cadorna, Diaz possedeva un carattere del tutto diverso, espansivo e affabile. Era nato a Napoli nel 1861 da Ludovico, ufficiale della Marina borbonica di lontana origine spagnola e dalla nobile Irene Cecconi. Come secondo nome gli era stato imposto quello di Vittorio, per sancire la fedeltà del padre alla nuova nazione italiana. Gli porterà fortuna. Il giovanissimo Armando fu presto orientato alla carriera militare e condusse con profitto studi scientifici che saranno fondamentali per il suo futuro da artigliere. Non trascurò nemmeno la pratica da ginnasta che conferirà alla sua figura - non molto alta - una caratteristica robustezza. La sua uniforme da Maresciallo d’Italia, esposta nella mostra, con le spalle molto ampie ricoperte dalle spalline dotate di quattro stellette bordate di rosso, ne offre dimostrazione. 

Il matrimonio e la carriera  
A 34 anni, nel 1895, Diaz sposa la giovane Sarah de Rosa Mirabelli che gli donerà tre figli e alla quale rimarrà sempre legatissimo. Testimonianza di questo lungo affetto è una tra le tante lettere esposte nella mostra in cui, oltre a confidare alla moglie i propri stati d’animo, la saluta «milioni di volte appassionatamente». 


Il generale al lavoro  

Da quel momento, la carriera dell’ufficiale si svolge soprattutto nello Stato Maggiore. Come scrive Paolo Formiconi in “Grande guerra, un racconto in cento immagini”, l’omnicomprensivo volume da poco edito dalla Difesa: «Gioviale e cortese, ma riservato e prudente nel parlare, Diaz vi si trovò bene distinguendosi per ordine mentale, capacità quasi animalesca di sopportare la fatica e prontezza nell’adattarsi a situazioni e problemi». 

L’ufficiale non mancherà di dimostrare queste qualità anche sul campo di battaglia. Nel settembre 1912, durante la guerra di Libia, riceve, da colonnello, il comando del 93° reggimento di Fanteria e, a Zanzur, rimane ferito alla spalla mentre conduce i soldati all’attacco. Viene decorato con il prestigioso Ordine Militare di Savoia la cui bella croce di smalto bianco e oro è esposta in vetrina. All’episodio, la stampa dedica anche una tavola a colori su La Tribuna Illustrata.  

Divampa la Grande Guerra  
Allo scoppio del conflitto Diaz è promosso generale e dirige l’ufficio Operazioni del Comando Supremo.  
Nella mostra sono esposti i suoi berretti circondati dalla greca, simbolo del suo nuovo grado. Interessante notare come, durante lo svolgersi del conflitto, i fregi ricamati in canottiglia d’argento vennero sostituiti dal più opaco filo di seta. I riflessi metallici, si era notato, consentivano ai cecchini nemici di individuare più facilmente i comandanti e di bersagliarli con precisione.  

Nel primo anno di guerra, Diaz ricopre un incarico “dietro le quinte” dove è sottoposto a una enorme mole di lavoro. Pur avendo un superiore esigente come Cadorna si disimpegna molto bene tanto che, nel ’16, ottiene la promozione a tenente generale e il comando della 49a divisione sul Carso. Ha così modo di verificare l’efficacia del suo stile di comando, indulgente con i soldati per le piccole mancanze, in cambio di una totale abnegazione e obbedienza in combattimento. Fra i tanti cimeli della sua vita da campo sono esposti in mostra l’elmetto, le posate portatili e la siringa personale.  

Nel ’17, Diaz viene ancora promosso a comandare il 23° corpo d’armata che faceva parte della III Armata, “l’Invitta”, comandata da Emanuele Filiberto di Savoia e comprendeva la brigata dei Granatieri di Sardegna. Con tale incarico, Diaz, riporta discreti successi sull’Isonzo, anche se a prezzo di ingenti perdite.  

Per la seconda volta viene ferito, in questo caso dallo scoppio di una granata durante una ricognizione e si guadagna la Medaglia d’argento al Valor militare. Oltre ad essere, da sempre, molto amato dai soldati, in questo periodo diviene particolarmente abile a mantenere buoni rapporti con la stampa e con il governo, guadagnandosi sempre più la stima del Re.  

[...]



Per tutti gli amanti della storia nazionale, la mostra è visitabile da martedi 10, dalle ore 9.00 alle 16.00 a Roma, in Piazza S. Croce in Gerusalemme. Ingresso libero.  

martedì 17 luglio 2018

Il libro azzurro sul referendum - XII cap - 1

La Suprema Corte di Cassazione
1)  Discussioni.
2) Comunicazioni del Ministro Togliatti al Primo Presidente della Corte.
3) Comunicazioni riservatissime a S.E. Pagano.

Discussioni alla Corte di Cassazione (1)

«Mentre il Re è ancora in Italia, la corrente della irrevocabilità del pronunciamento è in minoranza.
La legge stabiliva all’art. 17 che la Corte avrebbe dovuto proclamare l’esito solo dopo che fossero pervenuti i verbali da tutti gli uffici di circoscrizione.
In quei giorni furono particolarmente attivi dagli uffici della Corte di Cassazione al Parlamento il Sottosegretario agli Interni On. Spataro ed il Questore. Uno dei componenti della Corte si faceva premura di riferire al Ministro Guardasigilli on. Togliatti quello che ogni membro della Corte pensava; pare che l’on. Togliatti non gradisse questo comportamento».

Comunicazione di S. E. il Ministro di Grazia e Giustizia Togliatti a S. E. il Conte Pagano Presidente della Corte di Cassazione.

Il Ministro Togliatti sollecitò il Primo Presidente perché si facesse presto.
Il Primo Presidente rispose che la Corte avrebbe avuto bisogno di molte settimane per decidere sui reclami; al che il Ministro Togliatti replicò che il consiglio dei Ministri, nel fare quella legge, aveva
inteso, e di ciò aveva dato incarico ad insigni costituzionalisti come Bonomi ed Orlando, attribuire alla Cassazione il solo compito di controllare la somma dei dati numerici risultanti dai verbali delle varie sezioni elettorali. Disse anche che nessun paragone poteva farsi tra il compito assegnato alla Corte e quello della giunta delle elezioni della Camera dei deputati che è tutta un’altra cosa.
Il Primo Presidente rispose clic questo era un incarico adatto per un ragioniere e non per la Corte e il giorno della proclamazione presentò le calcolatrici.

(1) Da Storia segreta.... pag 143 e seguenti

lunedì 16 luglio 2018

Nel 90° dalla morte di Giovanni Giolitti il senso dello Stato


A 90 anni dalla morte (Cavour, 17 luglio 1928) Giovanni Giolitti rimane lo Statista eminente della Nuova Italia. Il trascorrere del tempo lo rende anzi sempre più paradigmatico. Di famiglia borghese, orfano di padre a un anno, crebbe vegliato dalla madre, Enrichetta Plochiù, e dai suoi quattro fratelli che, scapoli, investirono sulla sua formazione e sulla sua ascesa al servizio dello Stato, impersonato dal Re, Carlo Alberto di Savoia - Carignano (1831-1849). Due degli zii di "Gioanin” erano magistrati (Melchior e Luigi); un terzo, Alessandro, venne promosso generale per il valore mostrato nella battaglia di San Martino (21 giugno 1859); il quarto, Giuseppe, medico, fu ripetutamente eletto deputato di Cavour al Parlamento subalpino dal 1848. Melchior, di ampie vedute liberali, fu azionista del giornale di Camillo Cavour, “Il Risorgimento’! 
Il Risorgimento culturale e civile divenne la stella polare della vasta dirigenza del regno di Sardegna, restaurato e ingrandito con la Liguria dopo l'età franco-napoleonica (1814). Il nonno materno dello Statista, Giovanni Battista Piochiù, meritò la Legion d’Onore da Napoleone. Magistrato, vedeva nell’Imperatore il "Genio del Mondo” (come scrisse Hegel) che incarnava gli ideali più durevoli della Grande Rivoluzione, i diritti dell’uomo e del cittadino, da riconquistare anche in Italia quale base per l’unità. 
A lungo non fu chiaro se questa dovesse tradursi in federazione degli Stati esistenti, in "unione” presieduta nominalmente dal papa (come proponeva Napoleone III) o, come poi avvenne, in unificazione politica con le insegne di Casa Savoia. Alla meta finale si pervenne con le difficoltà ora narrate da Nico Perrone in “Il processo all'agente segreto di Cavour. L'ammiraglio Persano e la disfatta di Lissa” (Rubbettino).

Laureato a Torino in giurisprudenza a 18 anni, amato alla magistratura, sostituto procuratore del Re a 24, alto funzionario dello Stato negli anni di Firenze capitale e “prestato” al ministero delle Finanze, ove svolse delicati incarichi per Quintino Sella, nel 1882 il quarantenne Giolitti fu nominato consigliere di Stato per decisione del presidente del governo, Agostino Depretis, massone per essere eleggibile senza rischio di finire tra i pubblici dipendenti in eccesso sui numeri di seggi all’epoca loro riservati. Eletto trionfalmente nel collegio Cuneo I nell'ottobre di quell'anno, fu dichiarato ineleggibile dall’apposita commissione di verifica dei titoli. Si difese con abilità e nella primavera del 1883 venne convalidato. Critico nei confronti della costosa espansione in Africa, cui anteponeva la "colonizzazione interna’’ e la lotta contro la rendita parassitica (soprattutto nel Mezzogiorno), nel 1889 Giolitti fu nominato ministro del Tesoro (presto aggiunse le Finanze) nel governo presieduto dal siciliano Francesco Crispi. Tra i più fattivi della storia dell’Italia unita, questo varò elettività dei sindaci e dei presidenti delle deputazioni provinciali, nuovo codice penale (con abolizione della pena di morte), trasformazione delle"opere pie” in istituti di pubblica assistenza, promozione di casse di risparmio e banche popolari. Nel 1892 Umberto I incaricò Giolitti di formare il governo. Da presidente, egli ridusse da sei a tre le banche ancora titolate a emettere moneta, suscitando l’ostilità di opachi interessi, aggrumati in specie nel Banco di Napoli e nella Banca Romana, fonte di uno scandalo che lo travolse proprio mentre stava varando la riforma della Banca Nazionale.
Forte del consenso del "suo" collegio (Busca-Caraglio-Dronero, che lo rielesse sino al 1924), Giolitti visse alcuni anni tra persecuzioni e amarezze. Inseguito da un’imputazione senza motivazione, prudentemente riparò a Berlino, in visita alla figlia, Enrichetta, sposata con l’ingegnere Mario Chiaraviglio, massone. Tornato in patria e già in dialogo con il radicale Felice Cavallotti, affiancò Giuseppe Zanardelli nella riscossa liberale contro i reazionari, capitanati da Antonio di Rudinì, Sidney Sonnino e Luigi Pelloux. Si valse dei lungimiranti suggerimenti di Urbano Rattazzi jr, ex ministro della Reai Casa. A determinare la svolta furono l’assassinio di Umberto I a Monza il 29 luglio 1900 e l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele III. Esaurito l’esecutivo di transizione dell’ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato, il trentunenne sovrano chiamò al potere Zanardelli e Giolitti. Iniziò così l’età giolittiana’,’ che più correttamente andrà detta emanuelino-giolittiana perché, mentre vi si susseguirono una decina di diversi governi (dai programmi molto v'ari, senza dimenticare il Progetto proposto dal ministro delle Finanze Leone Wollemborg, dimissionario nell’agosto 1901), fu il Re a reggere la barra dell’Italia liberaldemocratica, capace di ampie riforme sociali per conservare le Istituzioni.
Nel 1911 il Paese tracciò il bilancio di mezzo secolo di unità, largamente positivo in tutti i campi, in specie nell’istruzione, nel progresso economico e nel consolidamento dello Stato, anche grazie all’opera dei prefetti. Quell’Italia raggiunse l’apice della propria capacità statuale con la dichiarazione della sovranità su Tripolitania e Cirenaica, coronata dalla pace di Losanna del 1912 a conclusione della guerra vittoriosa contro l’impero turco - ottomano, e con il diritto di voto maschile quasi universale. Certo il Paese registrava una forte migrazione verso l’Oltralpe e oltre Atlantico, ma anche questa era segno di vitalità. Crescevano correnti socialiste estreme, ma i riformisti erano numericamente più forti (anche se politicamente indecisi e spesso pavidi, come documenta Aldo G. Ricci). I cattolici moderati ormai prevalevano sui clericali che ancora rimpiangevano il papa-re.Le frange di nazionalisti e di scontenti (quale Paese non ne aveva?) sarebbero però rimastepoliticamente irrilevanti se nel luglio-agosto l'Europa della Belle Epoque non si fosse suicidata con la Conflagrazione, degenerata in Grande Guerra e poi in Guerra mondiale.
Giolitti avversò l’intervento dell’Italia a fianco dell'Intesa (Francia, Russia, Gran Bretagna) non perché pacifista o neutralista assoluto ma perché conosceva a fondo le condizioni del Paese e riteneva che una guerra grossa avrebbe sottratto risorse al riequilibrio Nord-Sud, a dannodell’unità effettiva e, quindi, delle Istituzioni stesse. Giustamente fece osservare che, non per caso, gli interventisti erano prevalentemente repubblicani o massimalisti, come Mussolini. Pochi mesi prima della conflagrazione europea, nel marzo 1914 Giolitti rassegnò le dimissioni e suggerì al Re di affidare il governo a Salandra, che poi, alla prova dei fatti, egli bollò quale bugiardo. Da deputato assicurò la piena lealtà alla Corona ma non potè influire sulle decisioni del sovrano, il quale ritenne prioritario l'ingresso in guerra per far coincidere i confini politici con quelli naturali (almeno a est: a ovest erano stati compromessi nel 1860 con la cessione di Nizza all’ingrata Francia). A deciderela partita fu anche l’incombenza di un attentato mortale alla vita di Giolitti, il 16 maggio 1915 costretto a lasciare Roma, preda del delirio interventistico, che,ignaro dell’accordo sottoscritto a Londra dal governo Salandra-Sonnino, si cullava nella fatua illusione di una guerra breve ed esclusivamente contro l’Impero di Austria-Ungheria.
Nel romitaggio di Cavour Giolitti visse nuovamente anni di amarezze. Tornò alla Camera nel novembre 1917, dopo Caporetto, per ribadire la piena e mai dismessa lealtà verso la Patria. Quarantun mesi di guerra stravolsero l'assetto del Paese. Avvantaggiati dalla sostituzione dei collegi uninominali con la ripartizione dei seggi in proporzione ai voti ottenuti, i partiti di massa (socialisti e popolari, cioè i cattolici orchestrati da don Luigi Sturzo, acremente antigiolittiano e antisabaudo) prevalsero alla Camera senza però assicurare stabilità di governo. In quattro anni si susseguirono sei diversi ministeri, a danno della continuità in dicasteri fondamentali (Esteri, Forze Armate, affidate anche a "borghesi” di manifesta inettitudine, Istruzione e governo dell'economia nel passaggio dalla produzione di guerra a quella  ordinaria...). Il 16 giugno 1920 Vittorio Emanuele III affidò ancora una volta il governo a Giolitti, che in pochi mesi superò l’occupazione delle fabbriche da parte di vanesi rivoluzionari socialcomunisti, costrinse Gabriele d’Annunzio a lasciare Fiume dopo la caotica "Reggenza” abolì il prezzo politico del pane che stava rovinando la finanza dello Stato e varò blocchi nazionali per ripristinare la corretta amministrazione di  comuni e province. A legge elettorale immutata, nel maggio 1921 gli italiani tornarono alle urne. Pochi giorni prima morì sua moglie, Rosa Sobrero, nipote del celebre chimico Ascanio, inventore della nitroglicerina. Con alto senso del dovere, lo Statista raggiunse la salma della sposa solo quando ebbe la certezza del controllo dell’ordine pubblico. Secondo la tradizione della sua terra, racchiuse in sé lo strazio di quella perdita. Nella tomba di Famiglia, a Cavour, Rosa Giolitti è ricordata quale Collaressa della Santissima Annunziata, l’onorificenza suprema della Monarchia, conferita al marito il 20 settembre 1904, comportante il rango di "cugino del Re’!
Di fronte alla frammentazione della Camera in 14 gruppi e allo sfarinamento dei "costituzionali” Giolitti rassegnò le dimissioni. Il veto opposto da don Sturzo a un governo comprendente liberali, popolari e socialisti riformisti, capace di fermare la guerra civile strisciante tra chi voleva “fare come in Russia” e i fascisti (dal programma ancora confuso), nel volgere di sedici mesi condusse alla crisi di fine ottobre 1922, riportata da Vittorio Emanuele III nei binari istituzionali con l’incarico a Mussolini, che formò un governo di coalizione nazionale. Come Luigi Einaudi, Enrico De Nicola, Vittorio Emanuele Orlando e la generalità di liberali e cattolici (a cominciare da Alcide De Gasperi), Giolitti lo approvò, nell’auspicio di una nuova legge elettorale, varata nel 1923 con la sua stessa regìa. Nelle elezioni del 6 aprile 1924 Giolitti guidò una lista di liberaldemocratici che ottenne tre seggi (con lui furono Marcello Soleri ed Egidio Fazio: voci estreme del Vecchio Piemonte) che negli anni seguenti si opposero a provvedimenti liberticidi.
Giolitti morì deputato in carica. Vittorio Emanuele III (che non presenziò ad alcun funerale, se non a quello di Armando Diaz) si fece rappresentare da  Adalberto di Savoia, duca di Bergamo, pluridecorato della Grande Guerra: omaggio della tradizione militare al rupestre statista. Poco prima di morire, Giolitti lesse la storia della "sua” Italia, scritta da Benedetto Croce, che aveva voluto ministro dell’Istruzione nel suo ultimo governo. Di sé aveva composto le “Memorie della mia vita" (erroneamente attribuite a Olindo Malagodi e meditatamente non aggiornate), uscite il 27 ottobre 1922, quando compì 80 anni, a Cavour: vigilia della fase apicale della crisi del governo Facta. A esse vanno affiancate le 5.000 pagine di "Giolitti al governo, in Parlamento, nel Carteggio’’ (ed. Bastogi) pubblicate tra il 2007 e il 2010 col sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo e il concorso dell’Associazione di Studi sul Saluzzese, in collaborazione con l’Archivio Centrale dello Stato. Neemergono la grandezza e l'attualità non solo di Giolitti ma di una vastissima dirigenza animata dal "senso dello Stato" una realtà apparentemente impalpabile. Come la luce, l’aria, l’acqua esso è vitale. Se ne scopre il bisogno quando comincia a mancare. (*)
Aldo A. Mola


(*) Nel 90° della morte, alle h. 18 del 17 luglio, Giolitti viene ricordato con un minuto di silenzio dinnanzi alla sua Tomba, nel cimitero di  Cavour, per iniziativa dell'Associazione di Studi Storici Giovanni Giolitti presieduta dal saggista Alessandro Mella.