«I resti di quello che fu uno dei più
potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che
avevano discese con orgogliosa sicurezza». Questa celebre frase, asciutta e
scorrevole, chiude il bollettino della Vittoria con il quale il generale
Armando Diaz annunciò, il 4 novembre 1918, la sconfitta dell’Austria-Ungheria.
Per ricordare il personaggio e celebrare
il centenario della Vittoria, il Museo dei Granatieri, a Roma, ha allestito la
mostra “Diaz, una dinastia di militari” che sarà inaugurata domani, lunedi 9
luglio, alle ore 11.00 dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale
Salvatore Farina. Al progetto ha partecipato con entusiasmo la stessa famiglia
Diaz prestando numerosi importanti cimeli. Il colonnello Bruno Camarota,
direttore del Museo, spiega: «Non è stato facile raccogliere da tutta Italia
cimeli personali e documenti del generale, sia da privati collezionisti, che da
musei come quello della Grande Guerra di Gorizia. Un lavoro doveroso, ma anche
gratificante per l’esempio che il generale ci ha lasciato nella valorizzazione
delle risorse umane».
Il fatto di saper capire gli uomini fu,
infatti, una delle più grandi qualità di Diaz che si rivelò determinante per il
successo finale della guerra. Tuttavia, la sua figura è stata spesso
contrapposta, secondo un banale cliché “buono vs. cattivo”, a quella del suo
predecessore, il generale piemontese Luigi Cadorna che, de facto, pose le basi
tecnico-strategiche affinché Diaz potesse assestare l’ultimo colpo mortale
all’Impero asburgico.
Sangue ispanico-napoletano
Sicuramente, rispetto a Cadorna, Diaz
possedeva un carattere del tutto diverso, espansivo e affabile. Era nato a
Napoli nel 1861 da Ludovico, ufficiale della Marina borbonica di lontana
origine spagnola e dalla nobile Irene Cecconi. Come secondo nome gli era stato
imposto quello di Vittorio, per sancire la fedeltà del padre alla nuova nazione
italiana. Gli porterà fortuna. Il giovanissimo Armando fu presto orientato alla
carriera militare e condusse con profitto studi scientifici che saranno
fondamentali per il suo futuro da artigliere. Non trascurò nemmeno la pratica
da ginnasta che conferirà alla sua figura - non molto alta - una caratteristica
robustezza. La sua uniforme da Maresciallo d’Italia, esposta nella mostra, con
le spalle molto ampie ricoperte dalle spalline dotate di quattro stellette
bordate di rosso, ne offre dimostrazione.
Il matrimonio e la carriera
A 34 anni, nel 1895, Diaz sposa la giovane
Sarah de Rosa Mirabelli che gli donerà tre figli e alla quale rimarrà sempre
legatissimo. Testimonianza di questo lungo affetto è una tra le tante lettere
esposte nella mostra in cui, oltre a confidare alla moglie i propri stati
d’animo, la saluta «milioni di volte appassionatamente».
Il generale al lavoro
Da quel momento, la carriera
dell’ufficiale si svolge soprattutto nello Stato Maggiore. Come scrive Paolo
Formiconi in “Grande guerra, un racconto in cento immagini”, l’omnicomprensivo
volume da poco edito dalla Difesa: «Gioviale e cortese, ma riservato e prudente
nel parlare, Diaz vi si trovò bene distinguendosi per ordine mentale, capacità
quasi animalesca di sopportare la fatica e prontezza nell’adattarsi a
situazioni e problemi».
L’ufficiale non mancherà di dimostrare
queste qualità anche sul campo di battaglia. Nel settembre 1912, durante la
guerra di Libia, riceve, da colonnello, il comando del 93° reggimento di Fanteria
e, a Zanzur, rimane ferito alla spalla mentre conduce i soldati all’attacco.
Viene decorato con il prestigioso Ordine Militare di Savoia la cui bella croce
di smalto bianco e oro è esposta in vetrina. All’episodio, la stampa dedica
anche una tavola a colori su La Tribuna Illustrata.
Divampa la Grande Guerra
Allo scoppio del conflitto Diaz è promosso
generale e dirige l’ufficio Operazioni del Comando Supremo.
Nella mostra sono esposti i suoi berretti
circondati dalla greca, simbolo del suo nuovo grado. Interessante notare come,
durante lo svolgersi del conflitto, i fregi ricamati in canottiglia d’argento
vennero sostituiti dal più opaco filo di seta. I riflessi metallici, si era
notato, consentivano ai cecchini nemici di individuare più facilmente i
comandanti e di bersagliarli con precisione.
Nel primo anno di guerra, Diaz ricopre un
incarico “dietro le quinte” dove è sottoposto a una enorme mole di lavoro. Pur
avendo un superiore esigente come Cadorna si disimpegna molto bene tanto che,
nel ’16, ottiene la promozione a tenente generale e il comando della 49a
divisione sul Carso. Ha così modo di verificare l’efficacia del suo stile di
comando, indulgente con i soldati per le piccole mancanze, in cambio di una
totale abnegazione e obbedienza in combattimento. Fra i tanti cimeli della sua
vita da campo sono esposti in mostra l’elmetto, le posate portatili e la
siringa personale.
Nel ’17, Diaz viene ancora promosso a
comandare il 23° corpo d’armata che faceva parte della III Armata, “l’Invitta”,
comandata da Emanuele Filiberto di Savoia e comprendeva la brigata dei
Granatieri di Sardegna. Con tale incarico, Diaz, riporta discreti successi
sull’Isonzo, anche se a prezzo di ingenti perdite.
Per la seconda volta viene ferito, in
questo caso dallo scoppio di una granata durante una ricognizione e si guadagna
la Medaglia d’argento al Valor militare. Oltre ad essere, da sempre, molto amato
dai soldati, in questo periodo diviene particolarmente abile a mantenere buoni
rapporti con la stampa e con il governo, guadagnandosi sempre più la stima del
Re.
[...]
Per tutti gli amanti della storia nazionale, la mostra è visitabile da
martedi 10, dalle ore 9.00 alle 16.00 a Roma, in Piazza S. Croce in
Gerusalemme. Ingresso libero.
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