La
“Lettera” del principe Amedeo di Savoia, capo della Real Casa di Savoia e duca
di Aosta, al Corriere della Sera (“Aiutare l'Africa con passione. L'esempio del
Duca degli Abruzzi”, 26 giugno 2018, pag.24), invita a riflettere sulla
concezione e sulla percezione degli spazi afro-asiatici da parte della Nuova
Italia, da anni eluse a cospetto della incalzante irruzione di milioni di
“africani” e di “asiatici” sulle coste settentrionali del Mediterraneo. Il
tema, vastissimo e aggrovigliato, richiede un'esposizione in prospettiva
storica, con riferimento ineludibile ad alcuni capisaldi della Costituzione vigente.
Con l'articolo 2 “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell'uomo...”. A differenza degli
articoli successivi, come rilevò anche Marcello Pera, esso non si riferisce ai
“cittadini italiani” ma all' “uomo”. D'altronde, la Carta venne scritta e
discussa nel 1946-47 e datata Roma 27 dicembre 1947, dopo l'approvazione dello Statuto
dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), aperto dall'enunciazione di
capisaldi etici di valore planetario. Essa entrò in vigore il 1° gennaio 1948,
l'anno nel quale “una tantum” l'Assemblea dell'Organizzazione delle Nazioni
Unite si radunò a Parigi per approvare la Dichiarazione universale dei diritto
dell'uomo.
Perduta
la guerra, l'Italia era sotto il pesantissimo ricatto dell'esecuzione del Trattato
di Pace (10 febbraio 1947), respinto all'Assemblea Costituente da Benedetto
Croce con un discorso che meriterebbe di essere affisso in tutti i pubblici
uffici. Uomo di pace e di alta cultura storica e filosofica, egli ricordò che
“la guerra è una legge eterna del mondo”.
Pertanto a suo avviso i tribunali istituiti dai vincitori per giudicare
i vinti costituivano “segno inquietante di turbamento spirituale”, come “il
vezzo di calpestare i popoli che hanno perduto una guerra, con l'entrare nelle
loro coscienze e col sentenziare sulle loro colpe e pretendere che le
riconoscano e promettano di emendarsi: pretesa che neppur Dio rivendicherebbe a sé”. I processi di
Norimberga e di Tokyo, conclusi con condanne ed esecuzioni capitali, a suo
giudizio erano una “infrazione della morale,
ma non da parte dei vinti, sì piuttosto dei vincitori, non dei
giudicati, ma degli illegittimi giudici”.
La
Costituente approvò un altro articolo di fondamentale importanza, ieri come oggi: il 10°, secondo il quale “l'ordinamento
giuridico italiano si conforma alle nome del diritto internazionale
generalmente riconosciute” e “lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese
l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione
italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le
condizioni stabilite dalla legge”. (Per ogni approfondimento sulla differenza
tra richiedenti asilo e migranti economici si veda il sito
www.giovannigiolitticavour,it, sezione Documenti). I padri costituenti avevano
in memoria i concittadini costretti o indotti a lasciare la patria per
sottrarsi alle persecuzione da parte di estremisti del regime di partito unico,
ovvero del fascismo, che poi li privò della cittadinanza e dei diritti
connessi, inclusi pubblici impieghi, pensioni, etc. Essi avevano in mente anche
la sorte di tanti europei raminghi per sottrarsi al nazismo, alla guerra di
sterminio sistematico delle opposizioni in Spagna (1946-1938) e nei Paesi via
via occupati dall'Asse, con applicazione delle leggi ai danni di minoranze, a
cominciare dagli “ebrei”, questione vasta e spinosa sulla quale torneremo.
Però
buona parte dei padri costituenti finse di non sapere e non vedere che anche
alcuni paesi vincitori (l'Unione sovietica del Maresciallo Stalin, la
Bielorussia, suo satellite, e la Jugoslavia di Tito: tutti sul banco dei
vincitori che all'Italia imposero il basto del Trattato di pace) non
garantivano affatto al loro interno l' “esercizio delle libertà democratiche
garantite dalla Costituzione italiana”, a cominciare da quelle religiose e
politiche: erano regimi totalitari né più né meno di quello hitleriano. Ma nel
dopoguerra non si registrò una migrazione di richiedenti asilo da quei paese verso l'Italia. All'opposto, in
taluni Stati caduti sotto il controllo dell'URSS si rifugiarono militanti del
partito comunista italiano ricercati o condannati per gravi crimini comuni.
Praga, sovietizzata, fu tra le città più ospitali nei confronti di tale
“migrazione”, che ebbe tra i suoi nomi emblematici quello di Francesco
Moranino.
Malgrado
le più ampie attestazioni di “buona volontà” verso i vincitori, l'Italia rimase
esclusa dall'ONU, in una sorta di limbo nel quale contrirsi. Vi fu ammessa nel
1955, insieme con la Spagna di Francisco
Franco: la cui salma il fatuo presidente del governo spagnolo, il socialista
Pedro Sanchez, ha deciso di estumulare alla svelta dal Valle de los Caidos,
ideato dal “caudillo” quale tempio della pacificazione nazionale.
Dopo
la decolonizzazione, in Italia risultò sconveniente ricordare la storia e
proporre un bilancio pacato del ruolo svolto Oltremare nell'Otto-Novecento,
Alcune considerazioni ora si impongono per comprendere la portata del rapporto
tra l'Italia e gli spazi afro-asiatici. In primo luogo va constatato che la
“missione” dell'Italia nel mondo fu propugnata dai profeti dell'unificazione
nazionale: Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi (che dall'Uruguay giunse in
Italia con il fido Agujar, già suo compagno in tante battaglie) e dalla
diplomazia del regno di Sardegna, soprattutto con l'avvento di Carlo Alberto di
Savoia-Carignano, che estese e rafforzò la propria rete in direzioni prima non
tentate.
Gli
altri Stati italiani pre-unitari non concepirono una politica coloniale. Gli
sprovveduti apologeti del regno delle Due Sicilie (è il caso di Pino Aprile)
dovrebbero ricordare che mentre gli inglesi vincevano la Guerra dell'Oppio
contro la Cina e stroncavano sanguinosamente l'insorgenza degli indiani contro
il loro dominio e mentre i francesi di Napoleone III entravano in Hanoi (1859:
l'anno Solferino e San Martino) Ferdinando II di Borbone non aveva ancora
capito la svolta in atto nel Mediterraneo con il taglio dell'istmo di Suez e la
seconda rivoluzione industriale (lo ebbe chiaro Cavour che puntò sul
“corridoio” ferroviario euro-padano: precursore della Alta Velocità di cui
l'Italia oggi ha e sempre più avrà bisogno per rimanere davvero in Europa, con
buona pace di tanti miopi provincialotti).
Tre
anni dopo la proclamazione di Vittorio Emanuele II re d'Italia (14 marzo 1861)
l'economista Gerolamo Boccardo domandò se fosse giusto, dignitoso e utile
“tenersi in disparte da quel vasto movimento coloniale, in cui tanti altri
popoli dalla natura meno privilegiati
vanno da secoli acquistando tesori di gloria e di ricchezza”. Gli fecero eco
Leone Carpi, mazziniani, garibaldini, militari, diplomatici, imprenditori ma
senza esito politico sino a che il Mediterraneo risultò troppo stretto. La
svolta venne nel 1881, quando Parigi, che dal 1830 con Carlo X e poi Luigi
Filippo d'Orléans aveva conquistato l'Algeria con metodi brutali, impose il suo protettorato sulla
Tunisia. Stipulata l'alleanza difensiva con Vienna e Berlino per pararsi le
spalle, su forte pressione della Gran Bretagna (che acquisita Cipro si “impose”
sull'Egitto) il regno d'Italia compì il primo passo politico: lo sbarco a
Massaua. Seguirono anni di scontri armati e di progetti, conclusi nel 1890 con
l'istituzione della Colonia di Eritrea, affacciata sul Mar Rosso. Con quali programmi e quale mentalità? La
“Lettera” del principe Amedeo di Savoia invita appunto alla riflessione. La
colonizzazione fu fortemente appoggiata dall'unico socialista scientifico
dell'Italia di allora, il filosofo Antonio Labriola, nel 1888 a un passo
dall'iniziazione nella loggia massonica “Rienzi” di Roma. Secondo Labriola, che
aveva letto bene Karl Marx ed era in corrispondenza con Friedrich Engels, l'Italia doveva partecipare
alla colonizzazione, processo di portata mondiale, e poteva sperimentare forme
di socialismo proprio Oltremare, armata di “qualche minuzzolo di diritto romano
e di due dozzine di articoli del codice civile”, in una terra che aveva altre e
diverse regole e costumanze. Bisognava almeno rendere omaggio “al
semisocialismo moderato e cooperativo di Giuseppe Mazzini”. Alla
colonizzazione agricola dedicarono
indagini severe Leopoldo Franchetti, già studioso con Sidney Sonnino della
questione meridionale e della Sicilia in specie, Ferdinando Martini (poi autore
del memoriale sull' “Affrica italiana”, di cui fu governatore civile, come
ricorda il suo biografo Guglielmo Adilardi).
A
distanza di quasi un secolo e mezzo risulta esemplare la figura del maggiore
Pietro Toselli, caduto con i suoi uomini all'Amba Alagi. Nel corso della sua
missione, Toselli ebbe modo di allestire un piccolo villaggio, al quale dette
nome “Nuova Peveragno”, in omaggio al suo comune natio, nel Cuneese. Ne scrisse
Vittorio Bersezio, storico, letterato, fondatore della “Gazzetta Piemontese”
(poi “La Stampa”). In quell' “esperimento” Toselli accomunò cattolici, copti,
ebrei, musulmani e agnostici. Ciascuno ebbe il suo spazio di preghiera o di
libera meditazione, e tutti erano accomunati all'insegna della tolleranza, di
un nuovo umanesimo universale. Negli
stessi anni Francesco Crispi, massone dal 1861, tentò la conciliazione con la
Santa Sede, come ricorda lo storico Francesco Margiotta Broglio, Premio Acqui
Storia 2018 “alla carriera”. Mentre la colonizzazione inglese aveva alle spalle
la chiesa anglicana, evangelici e riformati e la Francia contava sul sostegno
dei missionari cattolici, l'Italia era aperto conflitto con papa Leone XIII.
Erano gli anni dello scoprimento della statua di Giordano Bruno in Campo dei
Fiori (1889). Ma almeno Oltremare gli italiani dovevano essere uniti. E
potevano divenirlo solo con la collaborazione tra governo e clero cattolico,
senza pregiudizio verso ebrei, riformati e non credenti, all'insegna dello
Statuto che aveva parificato tutti i regnicoli dinnanzi alla legge.
Quel processo venne ripreso dopo la
costituzione della colonia di Somalia (1907) e con la proclamazione della
sovranità dell'Italia su Tripolitania e Cirenaica(1911-1912): un cammino
storico che merita di essere meglio conosciuto, proprio per ricordare a europei
e non europei i capisaldi della missione civile dell'Italia in Europa e nel
mondo.
Aldo A. Mola
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