NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 26 febbraio 2023

Italia Reale a congresso: i monarchici si confrontano sul ruolo in politica

 


Sabato 25 e domenica 26 febbraio il nuovo congresso che vedrà ritrovarsi, per un confronto aperto e a tutto tondo, i monarchici di Italia Reale, unitamente ad altri gruppi.


Due giorni di lavoro di Italia Reale per rinnovare i vertici e affrontare i nodi caldi del Paese: fisco, Europa, famiglie, lavoro

Dopo le ultime esperienze elettorali, che hanno visto “Italia Reale” impegnata, spesso in solitaria o in mini-coalizioni alternative al sistema, si pone ora la questione - fondamentale - di ridefinire e confermare la presenza dei monarchici in politica: per non essere l’ennesimo cespuglio, ma una componete storica e valoriale per i troppi partiti senza radici.

“Non è importante cambiare maggioranza: è importante cambiare il sistema. - con queste parole il presidente nazionale Massimo Malluci de Mulucci ha annunciato la convocazione dei lavori congressuali - Il momento ci impone di ripensare lo Stato e di porre un freno a questa super Europa di tecno-burocrati, che fanno gli affari loro e colpiscono i risparmi delle famiglie”.

fonte:

Italia Reale a congresso: i monarchici si confrontano sul ruolo in politica - Affaritaliani.it

Capitolo XXXIII: Ludovico, il legionario carlista

 




di Emilio Del Bel Belluz

 

Ripresi con solerzia l’attività di pescatore, da solo, perché Ludovico non s’era presentato da alcuni giorni e senza darmi preavviso. Mi rammaricai anche perché lo avevo già considerato un fedele collaboratore. La sua compagnia mi rasserenava, e anche a mia moglie era simpatico, e lo vedeva come una persona affidabile. Ludovico si trovava a passare un periodo piuttosto triste, causato dalla solitudine in cui viveva, anche se da parte mia avevo cercato di confortarlo, di considerarlo un camerata a cui, però, avrei potuto dare ancora molto di più. Dopo aver passato la mattina a pescare senza una gran fortuna, mi avviai verso casa, con quel poco di pesce che avevo catturato. Però avevo pescato una grossa trota che dopo averla pulita, l’avrei consegnata ad Elena perché la cucinasse. Da lontano scorsi il camino che fumava della mia casa, stava bruciando della legna di acacia, che al mattino avevo accatastato vicino alla stufa. Quella legna che bruciava era quella che il fiume mi aveva donato, lasciandomela proprio davanti alla riva, dove s’era creata un’insenatura. In quel momento sentii il suono delle campane che annunciavano il mezzogiorno. Quanto amavo quei dodici rintocchi, mi davano un senso di liberazione e per tanti pescatori e contadini erano l’invito a staccare dalle loro occupazioni e di andare a pranzo. Il vecchio campanaro Angelo era sempre puntuale, non mancava mai di suonare quelle campane che avevano anche annunciato festosamente la fine della Grande Guerra. Avevano suonato con allegria anche nel giorno del mio matrimonio, rimasto indimenticabile.  Quando giunsi davanti alla porta di casa, Elena mi era venuta incontro con allegria, e da quando aspettava una nuova creatura i lineamenti del suo volto erano diventati più dolci. Quando mi vide, mi chiese subito perché Ludovico non era con me. Allora mi propose di andare a casa sua a chiamarlo perché venisse a mangiare da noi. Aveva preparato un ottimo pranzetto che avrebbe arricchito con la trota.  Non entrai neanche in casa, lasciai il pesce a Elena e mi incamminai.  Non avevo molta strada da percorrere per arrivare alla casa di Ludovico, e se avessi preso quella scorciatoia che conoscevo bene, sarei arrivato in un lampo.  Durante la mia strada incontrai alcune persone che mi salutarono allegramente, pensai che fossero felici perché stavano raggiungendo la loro abitazione per pranzare. Erano contadini con il volto madido di sudore e sorreggevano la falce che avevano adoperato per ore sotto un sole cocente. Giunsi in prossimità della casa di Ludovico e mi meravigliai che le imposte fossero ancora chiuse. Pensai sia che fosse andato via senza avvertirmi, sia che gli fosse successo un malore. Bussai e gridai di aprire, e non sentendo nulla raddoppiai la mia forza, bussando come se avessi dovuto buttare giù la porta. Quando stavo per andarmene, sentii la sua voce che diceva che sarebbe uscito. Attesi ancora e nel frattempo un giovane che passava lungo il canale, sentendo le mie urla, si fermò pensando che fosse accaduta una disgrazia. Questo era un ragazzo che non avevo mai visto prima, aveva con sé una canna e alcuni pesci che aveva catturato. Il ragazzo si presentò e, nel frattempo, venne alla porta ad aprire Ludovico.  Il suo volto era pallido come quello di un morto, mi fece entrare in casa, e mi accorsi che alcune bottiglie di vino vuote erano sopra il tavolo. Ludovico non mi disse nulla, perché comprese che non ci voleva molto a capire cosa gli fosse accaduto. Mi confidò, senza molti giri di parole, la sua scontentezza che rasentava la disperazione per essere tornato in patria con una gamba mutilata, e per la paura del domani.  Lo invitai ad andare a lavarsi e togliersi i vestiti che puzzavano di vino, come pure tutta la stanza. Aprii le finestre per far entrare l’aria, la sua casa era disadorna e necessitava di pulizie a fondo. Me la ricordavo diversa, ma erano passati molti anni. La sua famiglia non c’era più, vidi le foto appese ai muri dei genitori e una di Ludovico con la divisa dei carlisti, e ciò mi emozionò.   Per un attimo pensai che una soluzione per lui poteva essere quella di trovare una persona che lo amasse e l’aiutasse ad uscire dalla crisi esistenziale che stava vivendo. Alla fine era un bravo ragazzo che dalla vita aveva ricevuto poco e meritava tutta la mia comprensione.  Quando tornò sembrava già diverso, e l’odore del vino era in qualche modo sparito. Gli dissi di fare presto a vestirsi perché l’avevamo invitato a pranzo. Ludovico si mise una camicia di quando era soldato in Spagna. Dopo una mezzora eravamo seduti a tavola. I bambini avevano già mangiato, solo Genoveffa e Elena avevano voluto aspettarci. Il pranzo preparato con dovizia da Elena soddisfò tutti. Non accennai a quello che era capitato a Ludovico. Alla fine del pranzo eravamo tutti più sereni. La giornata era splendida, il sole scaldava anche gli animi ed era giunta l’ora di riprendere il lavoro. Quello che mi entusiasmò, fu il vedere Ludovico salire in barca con un’espressione meno triste. Mentre calavamo le reti, mi rivolse tantissime domande sui segreti del fiume Livenza e sulle sue varietà di pesci. Lasciava trasparire una grande volontà di apprendere e ciò mi consolava enormemente. Quando raggiungemmo l’altra riva, decisi di portalo a bere un caffè in un’osteria a poca distanza da dove avevamo attraccato la barca. Uno scrittore aveva detto che nella vita si può sbagliare tante volte, ma se si comprende l’errore, è difficile che ci si possa ricadere. Dissi, in modo fraterno, a Ludovico che lo avrei aiutato a rialzarsi dalla situazione in cui si trovava, ma doveva pure lui fare la sua parte. Prima di tutto era necessario che ricominciasse ad avere fiducia in sé stesso e nelle sue capacità. La sua vita non era finita, gli sarei stato accanto ma spettava a lui il decidere tra il bene ed il male. Ludovico abbassò la testa, divenne rosso in volto: le mie parole lo avevano imbarazzato. In qualche modo doveva accettare la sua menomazione, e la pesca gli poteva essere utile per ritornare ad una nuova vita. Remava velocemente, grazie alla forza possente delle sue braccia. Quando giungemmo vicini all’osteria gli battei una pacca incoraggiante e fraterna sulla spalla. Ludovico mi sorrise, apprezzando il mio gesto. Entrammo e la moglie dell’oste si avvicinò con un boccale di vino rosso tra le mani, ma Ludovico ordinò solo una tazza di caffè. Prima del tramonto s’avviarono verso la barca. Gli consigliai di trovarsi una ragazza a cui donare il suo amore, e forse, in tempi non lontani, anche lui avrebbe potuto godere della gioia di avere una sua famiglia. Questa volta mi sorrise, ma disse che difficilmente avrebbe trovato qualcuna che lo amasse con la sua menomazione. Gli raccontai allora di una persona che avevo conosciuto, e che era relegata in una sedia a rotelle.  Costui, che doveva avere oltre cinquant’ anni, disse che aveva perduto in un incidente sul lavoro le gambe, ma aveva ritrovato la testa. La sua vita era cambiata in meglio, poteva fare tante cose che prima si sognava, come leggere dei libri che gli permettevano di andare in qualsiasi posto. Aveva anche un lavoro soddisfacente e pure una meravigliosa famiglia.  Ludovico non aggiunse nulla, sembrava che stesse meditando sulla storia appena sentita. Camminando a passo veloce, giungemmo a casa.

sabato 25 febbraio 2023

Umberto II di Savoia, quarant’anni fa la scomparsa a Ginevra dell’ultimo Re

 



A quarant’anni dalla scomparsa del Re una messa in suffragio delle Loro Maestà Umberto e Maria José di Savoia sarà celebrata nell’Abbazia Reale di Hautecombe sabato 18 marzo 2023 alla presenza di tutta la famiglia reale

Di Andrea Cianferoni


Sono passati quaranta anni dalla scomparsa, avvenuta il 18 marzo 1983 all’ospedale cantonale di Ginevra di Umberto II, l’ultimo Re d’Italia. Umberto di Savoia nacque a Racconigi, il 15 settembre 1904, figlio di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena del Montenegro. Divenne Re d’Italia, dal 9 maggio 1946 fino al 2 giugno 1946, data di un referendum istituzionale molto discusso (le schede furono bruciate quasi subito per evitare ogni riconteggio) e per evitare una guerra civile (lo slogan del Fronte Popolare era “O la Repubblica o il Caos”) e il 13 giugno Umberto lascia l'Italia, per non farvi più ritorno. Più fortunata, se così si può dire, fu Maria Joseè, alla quale, in virtù della stato di vedovanza, fu acconsentito il rientro in Italia, che avvenne grazie ad un parere favorevole del Consiglio di Stato, per assistere ad un convegno storico su Sant' Anselmo d' Aosta, sorprendendo un po' tutti, persino gli organizzatori che l' avevano invitata e i nostalgici della monarchia che palpitano già per una meno fugace visita in Italia di colei che ancora considerano la loro regina: con tanto di cerimoniale, feste e croci dell' Ordine di San Maurizio e Lazzaro per i fedelissimi che non hanno dimenticato. Maria José di Saxe Coburgo Gotha era accompagnata dalla figlia Maria Gabriella, da Michele Falzone membro della Fondazione Casa Savoia e dall' amica Janine Rochard che sovente la segue nei suoi viaggi. Proveniente da Merlinge, la sua residenza elvetica nei pressi di Ginevra, arrivò ad Aosta verso le 10 quando già erano in corso i lavori del convegno al quale era stata formalmente invitata a partecipare dal professore Ettore Passerin d' Entreves, presidente dell' accademia di Sant' Anselmo di cui l' ex regina è membro autorevole da alcuni anni. “Non ho votato né per la monarchia né per la repubblica” rispose a chi gli chiedeva di pronunciarsi su un argomento che ancora oggi appassiona gli storici. E perché l' Italia avrebbe atteso tanto prima di consentire a una Savoia di rientrare dall' esilio? Su questo argomento non penso niente, è stata la risposta, secca e senza alcuna inflessione che potesse far pensare a un sia pur celato tentativo di recriminazione o di indiretta polemica.

[...]

Umberto II di Savoia, quarant’anni fa la scomparsa a Ginevra dell’ultimo Re - Il Giornale d'Italia (ilgiornaleditalia.it)

Il partito dello Stato I senatori del Regno, non eletti ma votati

Inaugurazione della XXV Legislatura. Re Vittorio Emanuele III con i Principi Reali. 



di Aldo A. Mola

 

La Costituzione è “rigida”? Allora va ripensata.

 

   I costituzionalisti insegnano che lo Statuto Albertino del 1848 era flessibile mentre la Costituzione della Repubblica è rigida. Ma non è affatto immutabile. Quando lo ha voluto, il legislatore l'ha modificata, talvolta in modo opportunistico e maldestro. L'intero Titolo V (Regioni, province, comuni) è stato messo a soqquadro da una maggioranza risicata. Fatto il danno, diviene difficile riparare. Vittime illustri delle Camere sono stati gli articoli 56 e 57 della Carta, con il drastico “taglio” di deputati e senatori, senza significativo risparmio per lo Stato né miglioramento apprezzabile della qualità dei “rappresentati della Nazione”. Mentre occorre la diversificazione di formazione e competenze delle due Camere, il Parlamento ha conferito l'elezione del Senato ai diciottenni (qualcuno proponeva i sedicenni) nella fatua illusione di ampliare la partecipazione al voto. E allora? L'astensione aumenta sia nelle “amministrative”, sia nelle “politiche”. Le “verità” sono “scomode”, ma vanno dette. La Carta vigente fu pensata e approvata con l'occhio rivolto a un passato che nel gennaio 1948 era già remoto. Quando già esisteva l'ONU e, a fronte della “guerra fredda”, l'Italia stava per aderire alla Nato (1949), la Costituzione non affrontò il “problema dei problemi” di uno Stato sia pure a sovranità limitata, cioè la politica estera, fugacemente accennata nell'articolo 11 (“L'Italia ripudia la guerra...”), destinato a rimanere una petizione di principio. Perciò, al netto di elogi d'occasione, bisogna prendere che venne scritta mentre incombeva l'imposizione del punitivo “Trattato di pace”, quando non esisteva neppure l'ombra dell'Unione Europea, del G7, del G20 e dei rapporti globali odierni economici e, purtroppo, militari. In quel “mondo” Africa e Asia erano ancora “colonie”. La Carta va “ripensata” nel suo insieme. Il “corpo” dello Stato d'Italia è cresciuto. Per dargli una veste istituzionale non bastano “rattoppi” occasionali. Come da decenni si ripete, occorre una stagione costituente.

   Analogo interrogativo si pose sul finire dell'Ottocento a proposito del Senato del regno.

 

Una Camera “ringiovanita”. Un Senato immobile.

Il 29 giugno 1881 il Parlamento approvò la legge elettorale proposta dalla “Sinistra storica” guidata da Agostino Depretis. Il diritto di voto fu conferito ai maschi che sapessero leggere e pagassero 19,80 lire di imposte dirette, una somma modesta. Gli elettori crebbero da seicentomila 600.000 a poco più di due milioni, il 20 per cento dei maschi ventunenni. Nel maggio 1882 fu introdotto lo scrutinio di lista in collegi circoscrizionali, per garantire l'elezione di candidati di minoranza: un sistema arzigogolato. Nel 1892 si tornò al collegio uninominale, ancor oggi rimpianto, nel quale l'elettore può essere ingannato una volta sola e diffida di candidati paracadutati “dall'alto”.Secondo Giuseppe Galasso, storico sommo, nel 1882 vennero eletti deputati competenti e assidui ai lavori.

  Risultò quindi urgente “ammodernare” anche il Senato, che era di nomina regia e vitalizio. Ma come? A intuire che la sua immobilità poteva essere pericolosa per il futuro delle istituzioni  fu  Ruggiero Bonghi (Napoli, 1826-Torre de Greco, 1895), deputato dal 1860, già ministro della Pubblica istruzione. Nel 1884 denunziò nella “Nuova Antologia” il decadimento del “regime parlamentare”: “L’uno o l’altro partito diventa governo. Ebbene, quantunque il partito che occupa il governo abbia una maggioranza in suo sostegno, non è punto certo che la rappresenti, anzi è assai probabile, e in più casi è più che probabile, che non la rappresenti. Se è così, che cosa resta di rappresentativo al regime parlamentare? Gli eletti non rappresentano i collegi; i partiti dividono la Camera, nessun d’essi la rappresenta, non che tutta, neanche in maggioranza. Non v’ha dubbio, il regime parlamentare si è sviluppato dal rappresentativo; ma è un figliuolo che ha soffocato il padre. Quando io penso al regime stesso, così come vige tuttora, mi ricorre a mente quel verso - cattivo, sì, ma non peggio di quanto va diventando la cosa -: Questi è un uomo che morra.”

  Lo pensava anche Marco Minghetti, ultimo presidente del Consiglio della “Destra storica” (1873-1876). “Per mio avviso”, questi scrisse nel subito celebre saggio su “L'ingerenza dei partiti nella pubblica amministrazione”, “la Corona deve accuratamente serbare le prerogative che le accorda lo Statuto e mai lasciare che altri le usurpi, imperocché quelle prerogative, ben usate sia nella scelta di ministri sia negli scioglimenti della Camera, possono in talune circostanze salvare il Paese.” Tra di esse spiccava la scelta dei senatori, che non poteva essere lasciata in balìa del presidente del Consiglio di turno, come Depretis, giunto a farne nominare 220 in otto anni e nove mesi di governo. Riempiendo il Senato di ex deputati ligi al governo impoveriva la dignità della nomina regia, spogliava la Camera Alta della sua superiore indipendenza dalle passioni partitiche contingenti e recideva alla radice il suo requisito di Istituto super partes.

   Decenni prima, nel saggio  sulla Monarchia rappresentativa in Italia Cesare Balbo aveva configurato il Senato quale vera e propria élite. “Soffiando su tutta Europa continentale il vento democratico del Quarantotto, tutti gli statuti italiani dati al principio di quell’anno fecero senati non ereditari ma a vita. Se invece di gennaio, febbraio e marzo, fossero nati nei mesi successivi, è poco dubbio che non sarebbero rimaste nemmeno quelle due ultime reliquie aristocratiche dell’elezione dei senatori fatti a vita e da principi: ché i senatori si sarebbero fatti eleggere a tempo dal popolo. Un senato per rimaner senato, per fare effetto diverso in qualche parte dalla Camera dei deputati, debb’essere diverso da questa, diverso nella durata e nell’elezione. Se vogliamo istituzioni repubblicane, facciamo una repubblica; ma se vogliamo monarchia, facciamo istituzioni monarchiche; verità sempre da per tutto; in tutto verità.”

   Determinante per la continuità del Senato fu il passaggio di Francesco Crispi dai fautori dell’elettività di entrambe le Camere (propugnata dal cattolico Fedele Lampertico e, ai suoi esordi, da Domenico Farini, componente del Consiglio dell'Ordine del Grande Oriente d'Italia) a quella della esclusiva nomina regia dei patres conscripti. Ebbe il conforto dalle amare riflessioni di Gaetano Mosca sulla nuova classe dirigente: “Il tempo farebbe pure dimenticare la prima origine impura di molte fortune e molte influenze; ai figli nati in elevata fortuna sarebbero risparmiate le bassezze e le contraddizioni che, per arrivarvi, furono necessarie ai padri...”. 

   Materia prima della “teoria delle élites” elaborata da Mosca fu proprio il Senato del Regno.

  Per una fortunata congiunzione astrale tra calcoli di potere e invenzioni della “buona stella” che costituiscono caratteristica della storia d’Italia, a conferma dell’eterogenesi dei fini anche nella vita politica, proprio Crispi e il suo emulo Giolitti di infornata in infornata gonfiarono a dismisura il corpo del Senato ma al tempo stesso ne serbarono elevato il rango, riscattandosi dall’insinuazione che la quantità dovesse necessariamente comportare lo scadimento della qualità. Ogni nuovo senatore recò alla Camera Alta un capitolo della storia d’Italia, che affondava radici nelle cospirazioni liberali e nelle patrie battaglie del Risorgimento.

   In quegli anni entrarono in Senato Giosue Carducci, maestro e vate della Nuova Italia e Costantino Nigra, decano della diplomazia. Sarebbe stato umiliante che per concorrere alla vita parlamentare italiana quelle personalità dovessero assoggettarsi a notabili locali, talora più forti persino del potere corruttivo di prefetti e viceprefetti, come narrò Amedeo Nasalli Rocca nelle sue gustosissime Memorie di un prefetto. Accadeva, per esempio, che, non essendo riuscito a convincere gli elettori a votare per il candidato che gli era stato raccomandato, il sindaco di un piccolo borgo scolasse da solo tutto il vino acquistato coi fondi neri governativi per propiziarne il successo e venisse rinvenuto ubriaco in un fosso: sconfitto, alle urne e senza speranza di essere premiato con l’ambita croce di cavaliere.

   Nominato presidente del Consiglio, Giolitti camminò nel solco tracciato da Depretis e Crispi. Nelle due infornate del 10 ottobre e 21 novembre 1892, prima e dopo il rinnovo della Camera, tra parecchi patres di fama non imperitura inserì quanti bastavano a conservare lustro alla nomina regia e vitalizia.

   Nel 1892 il Senato riservò a Giolitti un’accoglienza gelida. Il suo governo contava un solo pater, il savoiardo ammiraglio Antonio Pacoret de Saint-Bon, che morì pochi mesi dopo la nomina. Un affronto alla Camera Alta? Il precedente ministero, però, presieduto da Antonio di  Rudinì, ne aveva avuti appena due. La ragione era dunque altra. In Giolitti la Camera Alta intravvide chi avrebbe chiesto ai patres che non si contentassero del laticlavio come fosse una onorificenza, ma concorressero con maggiore partecipazione al grigio travaglio di elaborazione delle leggi. Alla proclamazione del Regno, nel 1861, i senatori erano 211. Dopo il trasferimento della capitale da Torino a Firenze risultavano 276. Divennero 308 con l’annessione di Roma. Nel passaggio dalla Destra alla Sinistra (marzo 1876) se ne contavano 328. Depretis li portò a una media di circa 330 durante il suo decennio di governo. Crispi li fece balzare a 411 nel 1890 e a 416 nel 1891. Giolitti, fece di più. Li accrebbe a 464. Poche decine meno dei 508 deputati. Come prevedibile, venne chiamato a darne conto in Assemblea. Andrea Guarneri lo accusò di mettere a repentaglio l’intero edificio “alla cui sommità v’ha, o signori, la Maestà del Trono di Italia”. Come al solito, Giolitti eluse le questioni di principio, terreno lubrico d’interminabili dispute bizantine, e andò al punto che gli premeva. Da anni la Camera Alta faceva registrare un grave e non edificante assenteismo. Nelle due votazioni più importanti della precedente legislatura (1890-1892), sull'abolizione dello scrutinio di lista e ritorno al collegio uninominale e sull’esercizio provvisorio del bilancio per sei mesi, dei 375 senatori in carica in aula se ne contarono appena 83 per la prima legge e 116 per la seconda. Quello fu anche il numero di presenze più elevato fatto registrare dai patres nell’arco dell’intera legislatura: meno di un terzo dei componenti. Non era dunque il governo a mancare di rispetto al Senato immettendovi energie nuove, in gran parte provenienti dalla Camera e quindi aduse alla dialettica parlamentare. Erano i senatori, a volte presuntuosi e assenteisti,  ad aver trascurato il loro dovere. La Camera Alta non era un’Assemblea di congerrones, cioè di compagnoni, come avrebbe lamentato a suo tempo Marco Tullio Cicerone, che in Aula si trovavano di quando in quando quasi per divertimento. Il Senato del Regno era la Prima Camera. Tenuta, come l’antica, a far sì che sempre si dicesse “Senatus populusque romanus” e mai “Populus et senatus”. La differenza non era poca. Il Senato doveva comprovare con la propria condotta che il re tale era “per grazia di Dio” prima che “per volontà della nazione”. Giolitti era conscio che non tutte le assenze potevano essere addebitate a negligenza, giacché molti senatori erano anziani, cagionevoli di salute, residenti in lande remote dalla capitale, difficile da raggiungere per chi abitava nelle grandi isole o nelle province periferiche del Regno. Ammise che gli ex deputati costituivano il gruppo più numeroso dei nuovi senatori. Ma se il Senato voleva non solo una “vetrina” di celebrità ma un'assemblea politica, poiché non ci si poteva attendere partecipazione assidua di diplomatici, militari, magistrati, scienziati, cattedratici e accademici in missione e dediti alle loro discipline, era bene che la Camera Alta venisse rinvigorita con ex deputati, molti dei quali avevano titoli anche per altre categorie.

 

Come veniva preparata una “infornata”?

In pagine scritte col pennino intinto nell’amaro inchiostro di chi temeva l'avvento dei clericali, nel Diario di fine secolo Domenico Farini lasciò resoconto minuzioso di come fossero decisi i laticlavi da proporre al Re, Umberto I. Narrò il colloquio avuto all'Hotel “Suisse” di Torino con il presidente del Consiglio generale Luigi Pelloux. Scorrendo le liste trasmessegli dal precedente presidente del Consiglio e quelle da più parti pervenute i due passarono in rassegna vizi e virtù degli aspiranti senatori. Poiché la Camera Alta contava un solo ammiraglio, che a detta del ministro Benedetto Brin non sapeva né leggere né scrivere, s’imbatterono nella candidatura di un suo pari grado che secondo il re era “un grande intrigante”. A Pelloux risultava anzi che mentre era imbarcato sul “Colombo” aveva persino rubato. Occorreva bilanciare nomi di sinistra con altri di destra. I due si scambiarono battute feroci. Miceli era “un rammollito”. La candidatura dell’ex deputato di Milano Luigi Rossi pareva sostenuta dalla duchessa Litta (vale a dire dal re, di cui era notoriamente intrinseca) benché fosse mezzo radicale, mezzo socialista, dotato di ingegno e cultura e quindi “un uomo che può riuscire in Assemblea molesto”. Ulderico Levi, in aggiunta a Ugo Pisa, avrebbe portato gl’israeliti a due su trenta in una sola tornata. Troppi. “E di Parpaglia che dici?” domandò Pelloux. Farini di rimando: “mi pare una brava persona, ma bada, in Sardegna che ora ha un solo senatore, vi ha un vecchio parlamentare che non si può trascurare: il Salaris”. Pelloux replicò: “Sì... il Salaris... ma è vecchio e non verrà mai. Parpaglia è ottimo”. Farini: “Ma Salaris, ufficiale fino dal 1848 nei cacciatori sardi, è un liberale, ha undici legislature”. “E del Piaggio, ex deputato, che diresti?” domandò Pelloux. Rispose Farini: “Non credo si debba nominare chi è direttore d’una società come quella di navigazione, tanto legata al Governo”. Pelloux: “Così pare anche a me. Ma dicono che il Piaggio è amministratore delegato e non direttore generale... ”. “Questa è ipocrisia da curiali, quasi che il titolo muti la sostanza...”. Infine i due concordarono nel deplorare “il pettegolezzo giornalistico intorno alle nomine senatorie, le autocandidature, le sfacciate pretese, le impudenze inaudite”. A un certo punto Pelloux esclamò che “in mezzo a tanto putiferio, il meglio sarebbe di non far nulla di nulla”. Fu incoraggiato da Farini che gli osservò come i patres già fossero 326, oltre a tre che ancora non avevano prestato giuramento e a cinque principi del sangue, uno dei quali gli era inviso per legami con gli Orléans. Era il 13 ottobre 1898.

  Il 17 novembre avvenne l’infornata di trenta senatori, aperta proprio dall’uomo del “Colombo”. Comprese Giuseppe Carle, Antonio Cefaly, diadoco di Giolitti nel Mezzogiorno e massone, il garibaldino Abele Damiani, che Pelloux aveva detto a Farini di non volere “assolutamente”, i due ebrei Ulderico Levi e Ugo Pisa, Luigi Miceli, Salvatore Parpaglia (ma non Salaris), Erasmo Piaggio e il giolittiano e proprietario della “Stampa” di Torino, Luigi Roux, perché in fondo, pettegolezzi per pettegolezzi, era bene avere amico almeno uno dei giornali più influenti.

Malgrado tutto...

   Il Senato mostrò di essere il luogo istituzionale più propizio per lanciare messaggi politici a futura memoria, come il conferimento dei collari della SS. Annunziata a sovrani, presidenti di repubbliche e principi esteri lo era per le linee che lo Stato si apprestava a percorrere nelle relazioni internazionali. Se n’ebbe la conferma il 14 giugno 1900. Nel 1870, l’anno di Porta Pia, alla Camera Alta venne chiamato il laniere di Schio Alessandro Rossi, clericale e massonofago. Nell’anno del Giubileo il laticlavio fu conferito ad Antonio Fogazzaro, il più prestigioso scrittore cattolico italiano tra Otto e Novecento, più volte candidato al premio Nobel per la letteratura come documentato da Enrico Tiozzo. La Corona non precludeva l'Aula senatoria ai talenti acclarati e non badava alle contese in corso tra clericali e anticlericali. Lo scrittore era “un nome”.

   Va ricordato infine che l’ingresso in Senato non comportava alcuna remunerazione e neppure alcuna “quota” da parte dei suoi componenti: una un “patto” alla pari tra Monarchia e Patres, come spiegò Luigi Einaudi, monarchico e liberale “a schiena dritta”.

    Il regio Senato, in sintesi, era e rimase un “élite”, con tutte le contraddizioni interne del nome, che indica una classe dirigente esistente “di per sé, non “eletta” (élite derivi da eligere) e tuttavia “votata”: non dal suffragio popolare, però, ma dalla propria vocazione. Un groviglio che merita un'apposita trattazione.

Elena, Regina di carità e pace


 

lunedì 20 febbraio 2023

CARLO EMANUELE III DI SAVOIA NEL CCL DALLA MORTE

Statua di Re Carlo Emanuele III a Novara 


di Gianluigi Chiaserotti 


Cadono, il prossimo 20 febbraio i duecentocinquant’anni dalla morte del secondo Re di Sardegna, Carlo Emanuele III, detto “Il Laborioso”, che era nato a Torino il 27 aprile 1701.

Salito al trono in pieno conflitto con il padre, Vittorio Amedeo II (1666-1732), si circondò di militari a cui conferì le più alte cariche dello Stato. Sotto il suo regno, che durò quasi quarantatre anni, lo Stato sabaudo continuò a militare al fianco delle grandi potenze sia nella guerra di successione polacca, sia che in quella austriaca, ottenendo considerevoli acquisizioni territoriali, come vedremo, che collocarono il confine sabaudo al Ticino.

Carlo Emanuele nacque appunto a Torino dal Re Vittorio Amedeo II di Savoia e dalla sua prima moglie, la principessa francese Anna Maria d’Orléans (deceduta nel 1728). 

Suoi avi materni erano Filippo I d’Orléans (1640-1701) ed Enrichetta Anna Stuart (1644-1670). 

Carlo Emanuele era imparentato con la Casa Reale Francese e con quella Spagnola.

Alla nascita il Nostro, in quanto secondogenito, ebbe il titolo di Duca d’Aosta.

Carlo Emanuele era il secondo dei tre figli maschi nati da Vittorio Amedeo II, e pertanto, alla nascita, non era l’erede al trono; suo fratello maggiore Vittorio Amedeo (nato nel 1699), che era il principe ereditario, morì nel 1715, e da quella data Carlo Emanuele divenne Principe di Piemonte, ottenendo un’educazione severa ma conforme ai suoi compiti futuri, predisposta appositamente dal padre secondo i suoi personali canoni.

Carlo Emanuele viveva in una Torino profondamente cambiata dagli ultimi avvenimenti politici. Il Piemonte, dopo alterne vicende, era uscito vittorioso dalla guerra di successione spagnola, sconfiggendo l’esercito francese, e suo padre, Vittorio Amedeo II, aveva acquistato il titolo di re di Sicilia, che poi scambiò con quello di Sardegna. Il re ripudiava sempre più i fasti della corte, la mondanità e il lusso: vestiva di semplice panno e le sue camicie erano di tela grezza. Torino si era pertanto trasformata radicalmente: per volere regio, le feste erano bandite, l’ostentazione di ricchezza era reato.

Vittorio Amedeo II, dopo i trionfi politici e militari, si era sempre più chiuso in sé stesso, diventando schivo e solitario, ma avendo operato una profonda ristrutturazione dello Stato Sabaudo dal punto di vista giuridico, artistico e culturale.

Dopo il 1728, le stranezze del re iniziarono a degenerare sempre di più, probabilmente per una malattia mentale. La moglie Anna, madre di Carlo Emanuele, era morta e anche il primogenito, molto amato da Vittorio Amedeo, si era spento: il vecchio re decise di abdicare e di lasciare il trono al figlio Carlo Emanuele III.

“Carlino” o, in dialetto piemontese, “Carlin” come era stato soprannominato, non era amato dal padre: gracile e quasi gobbo, si era incupito negli anni passati all’austera corte torinese e sembra che parlasse poco, solo l’indispensabile. La sua istruzione era stata sommaria, poiché tutte le attenzioni erano andate al fratello maggiore. Le sue lacune furono colmate lavorando a fianco del padre, che gli faceva visitare le piazzeforti militari e lo interrogava dopo ogni colloquio con i ministri.

Nel 1722 Vittorio Amedeo II fece sposare il figlio con la principessa palatina Anna Cristina Luisa del Palatinato-Sulzbach (1704-1723), che morì dopo appena un anno dando a Carlo Emanuele un erede, che morì in età infantile.

La seconda moglie, scelta sempre dal padre, fu Polissena d’Assia-Rheinfels-Rotenburg (1706-1735), che diede al marito la maggior parte dei figli. Fu molto amata da Carlo Emanuele e venne mal vista da Vittorio Amedeo che, ritenendo che ella distogliesse le attenzioni del figlio dalla politica, giunse ad imporre agli sposi di dormire in due appartamenti separati.

Premesso che la storia della sua abdicazione presenta ancora dei lati non chiari, quel che si sa è che nell’estate del 1730 Vittorio Amedeo decise di lasciare al figlio la sovranità sul Piemonte e il 3 settembre ne diede l’annuncio a tutti i suoi ministri, appositamente riuniti in consiglio nella residenza di Rivoli. Sembra che Carlo Emanuele avesse implorato il padre di restare al trono, lasciandogli soltanto la funzione di Principe Reggente, ma che egli avesse risposto: «No, io non sono solito né saprei ridurmi a fare le cose dimezzate od imperfette, la mia divisa è tutto o niente. Potrei non approvare le decisioni di mio figlio, ne nascerebbero dissapori, l’unità del comando ne risulterebbe rotta e il decoro della corona offeso».

Dopo poco tempo passato a Chambéry, Vittorio Amedeo riprese a dare ordini e consigli al figlio, che tuttavia ripristinò balli, feste e lussi presso la corte torinese. Il padre fu colto da un malore nella notte del 4 febbraio 1731, ma si riprese e meditò di tornare sul trono. Nell’estate del 1731, mentre Carlo Emanuele III si trovava a Chambéry, lo coprì d’ingiurie davanti al Consiglio dei Ministri, tacciandolo di inettitudine.

Vittorio Amedeo decise, quindi, di riprendersi il trono. Rientrò in Piemonte e confermò i ministri. La reazione però non fu quella che lui si aspettava e che aveva anticipato al Ministro, Marchese d’Ormea

[Carlo Vincenzo Ferrero di Roasio, al secolo Marchese d’Ormea, (1680-1745)].

«Ognun giubila in cor suo, poiché sa che col mio ritorno il governo riprenderà quello splendore offuscatosi così repentinamente».

Carlo Emanuele, informato delle mosse del padre, convocò in seduta straordinaria il Consiglio dei Ministri, che decretò che Vittorio Amedeo II andava arrestato ed imprigionato. Si temeva un’inframmettenza dell’imperatore, nella sua qualità di signore della “Reichsitalien” comprendente tutta l’Italia settentrionale (con l’esclusione di Venezia) e quindi pure il Regno del Piemonte, poiché proprio all’imperatore Vittorio Amedeo II aveva minacciato d’appellarsi. Una scorta di soldati venne dunque spedita ad arrestare il vecchio re, che fu chiuso nel castello di Moncalieri, dove restò fino alla morte.

Nel febbraio 1733 Augusto II (nato nel 1670), re eletto di Polonia, morì e le potenze europee si divisero sul suo successore: il figlio del defunto sovrano, Augusto (1696-1763), era appoggiato dall’Austria e dalla Francia. Carlo Emanuele III si schierò con suo nipote Luigi XV (1710-1774) e, come stabilito dal trattato di Torino, marciò verso Milano per occupare la città e, con essa, la Lombardia, aprendo le ostilità il 28 ottobre:

senza troppo combattimenti e spargimenti di sangue (vittorie sabaude a Vigevano, Pizzighettone, Sabbioneta e Cremona) raggiunse Milano e se ne nominò Duca.

Nel frattempo era entrato in guerra contro l’Austria anche Filippo V di Spagna (1683-1746), che intendeva prendere sia il Regno di Napoli sia il Ducato di Milano. Carlo Emanuele III, generalissimo dell’esercito franco-piemontese, si trovò a dover seguire le farraginose trattative con la Spagna e la Francia su Milano e, al tempo stesso, a impedire che le truppe austriache, provenienti dal Trentino, potessero attraversare l’Emilia e congiungersi a quelle di guarnigione nel Regno di Napoli. I tentativi austriaci nel 1734 vennero impediti con le battaglie di Colorno, Parma e Guastalla, in seguito alla quale le truppe franco-sarde di Carlo Emanuele respinsero gli Austriaci fino alla Val d’Adige e bloccarono Mantova.

Nella seguente pace di Vienna del 1738 si imponeva sia a Carlo Emanuele III sia a Filippo V di rinunciare a Milano, ma, a titolo d’indennizzo, furono lasciati al Piemonte alcuni territori, tra cui le Langhe, il Tortonese e Novara.

Dal 1741 al 1748 l’Europa fu coinvolta nella guerra di successione austriaca, in seguito al rifiuto di alcune potenze firmatarie della Prammatica Sanzione del 1713 di accettare che Maria Teresa d’Austria (1717-1780), in qualità di regina di Boemia, potesse votare per il proprio marito Francesco I di Lorena (1708-1765), candidato nell’elezione a imperatore del Sacro Romano Impero Germanico.

Carlo Emanuele III si schierò con Maria Teresa, subendo quindi dei ripetuti tentativi d’invasione: prima da parte spagnola attraverso la Francia e, successivamente, da parte franco-spagnola dopo l’entrata in guerra anche della Francia. La sua partecipazione alle vicende belliche fu sostenuta finanziariamente dall’Inghilterra che, dal giugno 1741, quando la Francia entrò ufficialmente in guerra, e fino alla sua conclusione stanziò 200.000 sterline l’anno per il mantenimento dell’esercito sabaudo. Inoltre una squadra navale inglese venne schierata nel Mediterraneo in appoggio a Carlo Emanuele. I finanziamenti ricevuti permisero il mantenimento di circa 15-20.000 soldati operativi, pari al 30/50 % dell’intera armata piemontese.

Sconfitti gli spagnoli nel 1741 in Romagna e costretti alla ritirata, dovette accorrere in Piemonte per fermare un secondo loro corpo di spedizione che si affacciava sulle Alpi. Negli anni seguenti, pur perdendo la Savoia e la contea di Nizza, Carlo Emanuele riuscì a bloccare i tentativi nemici di passare le montagne a Casteldelfino nel 1743, e intorno a Cuneo nel 1744, pur venendo sconfitto tatticamente prima alle barricate e poi alla Madonna dell’Olmo.

Nel 1745 l’accessione di Genova al fronte nemico consentì l’unione in Liguria dell’esercito franco-spagnolo proveniente da ovest a quello ispano-napoletano, che proveniva da sud dopo aver battuto gli austriaci a Velletri nel novembre del 1744. Il Piemonte fu invaso, le truppe borboniche entrarono a Milano e si dovette concludere una sospensione d’armi. L’anno seguente, però, l’arrivo di rinforzi dall’Austria consentì di mettere in rotta le truppe franco-ispano-napoletane e genovesi. 

Genova quindi fu presa dagli austriaci, ma poi persa.

Nel frattempo, Carlo Emanuele, liberata la contea di Nizza, si apprestava ad assediare Tolone.

Nel 1747 l’esercito francese attaccò di nuovo il Piemonte, cercando di marciare direttamente su Torino attraverso un settore poco guarnito delle Alpi, profittando del fatto che la maggior parte delle forze sarde era impegnata sulle Alpi marittime contro i francesi e ad aiutare gli austriaci che assediavano Genova. 

I sardi ottennero tuttavia una schiacciante vittoria nella battaglia dell’Assietta, sebbene in condizioni di inferiorità sia numerica sia di armamenti.

Nel 1748, con il trattato di Aquisgrana, il regno di Sardegna ottenne nuovamente le province di Nizza e Savoia e acquisì il territorio del Vigevanese, spingendo la frontiera fino al Ticino, il Vogherese e l’Oltrepò Pavese (Bobbio).

Al termine delle lunghe vicende belliche che videro il regno di Sardegna coinvolto durante il regno di Carlo Emanuele III, il sovrano predispose l’ostensione della Sindone nel 1750 come ringraziamento per le conquiste ottenute e la sorte favorevole ai piemontesi.

Nel 1767, approfittando della perdita della Corsica da parte della Repubblica di Genova e degli scontri in atto fra la Francia e gli insorti di Pasquale Paoli (1725-1807), prese il controllo dell’arcipelago della Maddalena, geograficamente vicino alla Sardegna, ma profondamente legato alla Corsica.

Il Re dedicò molta cura alla fortificazione dei passi alpini e delle frontiere. Introdusse la meritocrazia nelle gerarchie militari, favorendo anche coloro di non nobile nascita. Sempre al fine di celebrare le sue imprese militari e quelle della sua dinastia, finanziò la storiografia nel regno, proteggendo storici quali Ludovico Antonio Muratori (1672-1750). Si servì anche del filosogo Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) al fine di realizzare il primo catasto piemontese (le c. d. “Mappe sarde”) che venne pubblicato nel 1770.

Il 19 dicembre 1771, Carlo Emanuele III promulgò un editto per la “liquidazione dei dazi fondiari feudali”, il che permise agli agricoltori di acquistare i diritti feudali dai loro padroni. Di fronte alla resistenza della nobiltà e del clero, il Re dovette ad ogni modo rinunciare al progetto, che verrà poi ripreso dal figlio Vittorio Amedeo III (1726-1796).

Il Nostro fu sostenitore di una politica assolutistica, cercando di concentrare nelle sue mani ogni potere: limitò le autonomie locali ed alla Valle d’Aosta furono abrogati i particolari privilegi di cui godeva. Essendo re Carlo Emanuele III concentrato su questioni militari e poco propenso a concedere patrocinio agli studi, grandi scrittori e intellettuali piemontesi del periodo come il poeta e drammaturgo Vittorio Alfieri (1749-1803), il tipografo ed incisore Giambattista Bodoni (1740-1813) ed il matematico Joseph-Louis Lagrange (1736-1813)  dovettero pubblicare all’estero i loro lavori.

Carlo Emanuele III morì il 20 febbraio 1773, duecentocinquant’anni or sono. 

La sua salma fu tumulata nella Cripta Reale della Basilica di Superga, dove la sua tomba monumentale è ubicata in posizione opposta a quella del padre.


Bibliografia –

Francesco Cognasso “I Savoia”, dall’Oglio, Editore, Milano 1971, passim; 

Gioacchino Volpe “Casa Savoia”, Luni Editore, Milano 2000, passim. 


sabato 18 febbraio 2023

Capitolo XXXII: Il soldato carlista



Di Emilio del Bel Belluz

La notte l’avevo passata ritornando con la mente a quello che mi aveva raccontato Ludovico: l’esperienza che aveva avuto in terra straniera e il coraggio che aveva dimostrato, combattendo contro i rossi. Quando si é in guerra, la morte ti è sempre vicina; non sai mai se potrai arrivare fino a sera incolume. La guerra chiedeva soldati coraggiosi che non temevano di morire. Ludovico, poi, anche a scuola aveva dimostrato d’essere un ragazzo forte e robusto che si batteva per quello in cui credeva. Mi venne in mente che una volta aveva difeso una donna che il marito stava picchiando, si mise in mezzo e, sebbene l’uomo fosse più forte di lui, era riuscito a resistergli finché non erano arrivate delle persone a dividerli. Quel gesto di coraggio l’aveva compiuto perché non amava le ingiustizie: una donna non si doveva toccare neanche con un fiore. Ludovico in quei tempi era come un cavaliere senza macchia, un paladino della giustizia. Quel giorno non si era beato del suo gesto, si era ritrovato con il volto sanguinante, e un occhio tumefatto. Il suo coraggio era tale che non volle ricorrere alle cure del medico, ma semplicemente si fece medicare da una donna che aveva assistito al fatto. Costei era una vedova di guerra e lo aveva portato nella sua casa, dandogli qualcosa di forte da bere e medicandogli le brutte ferite che sanguinavano. La donna aveva molta stima di questo ragazzo che non aveva pensato a se stesso, ma al bene degli altri. Ludovico il giorno dopo era andato a scuola come se niente fosse, con il suo occhio nero e la sua ferita al labbro. I suoi compagni lo avevano accolto con ammirazione, ma per lui aveva fatto solo quello che il suo cuore gli dettò. La maestra lo aveva abbracciato e baciato per il suo coraggio e da quel giorno gli volle sempre un gran bene. Ludovico chiedendomi di poter lavorare con me, mi fece capire che non sapeva come tirare a campare. Sperava che i tempi duri potessero cambiare ed io ero l’unico che poteva offrirgli un lavoro diverso da quello della coltivazione della terra. Ribadii che non ci sarebbero stati molti guadagni e la pesca non sempre era redditizia. Il giorno dopo, alla mattina presto, era di nuovo al fiume, con il suo bastone e mi fece cenno che voleva raggiungermi. Ludovico si era vestito da lavoro, aveva una giubbotto militare che lo faceva sembrare un soldato di fanteria. Nonostante il periodo duro della guerra che lo aveva fiaccato nel corpo, il suo volto dimostrava meno anni della sua età. Gli chiesi se avesse fatto colazione, ma non mi rispose. Allora gli consegnai la merenda che Elena aveva preparato per lui: una focaccia appena sfornata e una boraccia di caffelatte. Ludovico mangiò con appetito seduto su un tronco. Lo osservavo mentre caricavo le reti sulla barca e le cassette per il pesce.  Elena mi aveva preparato un paniere con del cibo perché  sapeva che  avremmo fatto tardi. La mia buona Elena aveva preparato delle ottime pietanze che non sarebbero avanzate. Volle darmi pure una bottiglia di vino rosso. Dopo aver lasciato la riva con la barca, mi accorsi che Ludovico aveva preso da una tasca la sua pipa e l’aveva accesa. Era passato del tempo da quando avevo sentito il  profumo del tabacco piuttosto aspro ed intenso che si mescolava con quello del fiume.  Ludovico era felice, aveva ritrovato l’umore giusto che ci deve essere quando si va a pesca. Quando tiravo le reti sulla barca, vedevo i suoi occhi felici se tra le loro maglie s’era impigliato un grosso pesce.  Gli avevo insegnato come togliere il pesce dalla rete. La nebbia si era alzata e aveva lasciato il posto a un pallido sole. Nella cassetta  c’erano molte specie di pesci che guizzavano, avevamo catturato una bella carpa e alcune tinche. Faceva bella vista nel secchio vicino una trota dai colori stupendi che si dimenava alla ricerca della libertà. Per mezzogiorno avevamo già  fatto un buon lavoro e decidemmo di fermarsi a mangiare. Il fiume aveva  dei posti dove era più facile raggiungere la riva per fermarsi. Ludovico fu davvero contento di quella  pausa, non lo diceva ma si vedeva che era stanco. Quello che mi stupiva era che avesse imparato a muoversi con agilità, nonostante i postumi della ferita alla gamba. Voleva confermare che sarebbe riuscito a fare il pescatore, a prescindere. Mentre mangiavamo, gli chiesi di raccontarmi qualche episodio che gli era capitato in guerra.  Passò subito a raccontarmi la storia di un prete e si tolse  dalla  tasca una sua foto che lo raffigurava sorridente. Ludovico aveva acceso nuovamente la pipa, si era sdraiato sull’erba, e per qualche minuto non disse nulla. Avevo la foto in mano e sul retro vi aveva scritto a penna il nome del sacerdote: don Martin Martinez Pascual, e la data di morte a soli trentasei anni. Dopo alcune boccate di pipa, Ludovico si mise a sedere e iniziò il suo racconto. Don Martin era un prete che aveva sempre fatto il suo dovere di pastore, vicino alla povera gente e agli umili. Era nato in Spagna l’11 novembre del 1910. Fece parte della  Fratenità Operaia del Sacro Cuore di Gesù. Fu ordinato sacerdote nel 1935, l’anno prima della sua morte. Gli venne affidato un compito come educatore al Collegio San Josè di Murcia e insegnante di latino presso il Seminario maggiore di Fulgenzio di Murcia. Quando scoppiò la terribile Guerra Civile Spagnola, i soldati miliziani della repubblica avevano dato l’ordine di fucilare tutti i sacerdoti. Questo giovane prete decise di scappare. Non gli fu impossibile trovare un nascondiglio, ma accadde quello che mai avrebbe pensato. I miliziani della Repubblica presero il padre in ostaggio e l’avrebbero fucilato, perché questa era il metodo dei repubblicani. Il giovane prete allora si presentò spontaneamente alla prigione dove era rinchiuso il padre. I soldati del fronte popolare lo presero e lo rinchiusero in carcere. Il 18 agosto 1936 fu prelevato e fucilato assieme ad altri sacerdoti. Furono messi di spalle davanti al plotone d’esecuzione , ma lui si girò e quando gli chiesero quale fosse il suo ultimo desiderio, rispose: “ Non voglio altro che darvi la mia benedizione affinché Dio non vi imputi la follia che state per commettere”. Dopo aver impartito la sua benedizione, aggiunse : “ E ora lasciatemi gridare con tutte le mie forze: viva Cristo Re !”


martedì 14 febbraio 2023

DAL SENATO DEL REGNO ALLA CONSULTA

 



di Gianluigi Chiaserotti

 

Nel variegato, e non sempre brillante, mondo monarchico oggigiorno operante in Italia, c’è anche la c. d. “Consulta dei Senatori del Regno”.

Anzi, ed è triste scriverlo, ce ne sono due, come spiegheremo alla fine di questo breve articolo essenzialmente esplicativo.

Vediamo brevemente la storia di codesta istituzione.

Soppresso il Senato del Regno il 1° gennaio 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana, i Senatori del Regno, pur estromessi dall’ordinamento della Repubblica Italiana, non decaddero dalla loro qualifica a vita essendo stati nominati al solenne laticlavio per titoli validi sotto qualsivoglia regime.

Quindi, prefissisi lo scopo di porre ancora, disinteressatamente, la loro lunga esperienza al servizio della Patria, la domenica 5 giugno 1955, ricorrenza celebrativa della Festa dello Statuto, si riunirono in “Gruppo Vitalizio  quale detentore legittimo dello spirito insito nella tradizione più autentica del Senato del Regno.

Successivamente, di fronte alla fatale legge naturale limitante il decorso della vita umana, progressivamente riducendosi il numero, ormai esiguo, di codesti Senatori «per non lasciare disperdere quella comunanza di intenti, di principi, di sentimenti che li unì nel tempo in cui essi degnamente servirono i più alti interessi della Nazione», attorno al loro originario nucleo i medesimi Senatori del Regno, con una loro deliberazione in data 11 novembre 1958, costituirono, per cooptazione, una Consulta Monarchica con persone scelte ai sensi dell’art. 33 dello Statuto Albertino.

In un secondo momento, e precisamente in data 11 novembre 1965, i Senatori del Regno approvarono la deliberazione normativa concernente l’unificazione del Gruppo dei Senatori del Regno e della Consulta Monarchica in unico Corpo Vitalizio, che assunse la denominazione di “Consulta dei Senatori del Regno”.

Essa, sia pure su un piano ridotto per circostanze contingenti, puo’  esprimere ancora qualcosa, se nei suoi componenti sono rappresentati gli eminenti servizi resi alla Nazione.

Così, essa si prefigge compiti di esame e di studio di problemi e di questioni di diritto pubblico, di economia, di politica estera ed interna, nell’intento di portare ogni contributo all’avviamento a soluzione di essi.

In ordine alle sue finalità, la Consulta ha il compito:

a) di indirizzare i Monarchici italiani nello svolgimento dell’azione intesa a rivendicare i valori etici e politici dell’Istituto Monarchico;

b) di contribuire, con studi e pubbliche manifestazioni, a rinsaldare i vincoli di solidarietà civile fra gli Italiani, all’ordinata cooperazione delle forze produttive, al benessere del popolo nel rispetto delle leggi destinate a tutelare la pace sociale;

c) di promuovere l’esame di problemi di diritto pubblico, di giustizia di politica estera ed interna, di economia, di industria, di commercio,  di agricoltura, di sanità, di lavori pubblici e comunicazioni, di difesa, di legislazione sociale, di sport e di spettacolo e di vita culturale, e dei provvedimenti legislativi inerenti, proponendo soluzioni idonee, che, al di sopra di qualsiasi interesse di parte, siano intese ad assicurare il bene del Popolo Italiano ed il prestigio della Patria;

d) di promuovere ed orientare l’azione dei Parlamentari di manifesta convinzione monarchica, affinché affermino e all’occorrenza tutelino, in ogni sede, i principi e le istanze costituzionali ed istituzionali monarchiche.

Essa quindi ha l’alto impegno di continuare «nel pensiero e dello spirito, il Senato del Regno, fiera di svolgere, senza presunzione e per quanto possibile, la sua opera per il bene dell’Italia».

Le finalità ed i compiti sono più che aulici.

I componenti sono tuttora scelti secondo i canoni e le categorie riportate all’art. 33 dello Statuto Albertino.

Purtroppo le vicende monarchiche degli ultimi anni le conosciamo, e bene, e la Consulta ha fatto ben poco se non pubblicando studi storici e di attualità molto validi.

Ma la disputa dinastica ha contribuito anche a dividere la Consulta.

Attualmente ci troviamo nella paradossale situazione di avere due Consulte.

Una fedele a Vittorio Emanuele di Savoia, Duca di Savoia, con presidente il professor Pier Luigi Duvina, e l’altra fedele ad Aimone di Savoia, Duca d’Aosta, con presidente il professor Alessandro A. Mola.

Crediamo che solo con una collaborazione comune a tutte le sigle e credenze monarchiche si puo’ giungere a quel giorno, molto lontano, in cui, anche in Italia, verrà restaurata la Monarchia secondo le nobili indicazioni che il Re Umberto, nei 37 anni di esilio, ha cercato sempre di indicarci.

Figura di Re che, a 40 anni dalla morte, non dimenticheremo e porteremo sempre quale esempio di vita, di amore di Patria, di tradizione italiana.

lunedì 13 febbraio 2023

Re Umberto I, il conservatore che abolì la pena di morte

 


Alla scoperta dei monumenti di Torino / Prese parte alla Seconda Guerra d’Indipendenza, distinguendosi nella battaglia di Solferino del 1859.Il 9 gennaio del 1878, alla morte del padre, salì sul trono italiano con il nome di Umberto I e con il nome di Umberto IV su quello sabaudo, dal momento che suo padre aveva stabilito, malgrado l’unità nazionale, il prosieguo della tradizione nominale sul trono sabaudo

Nel piazzale, davanti alla Basilica di Superga, si innalza
 imponente il monumento dedicato al Re Umberto I di Savoia. Su un basamento di marmo si erge un Allobrogo, guerriero capostipite dei piemontesi, con indosso un elmo alato, lunghe trecce, ascia e corno di guerra. Il guerriero tiene un braccio levato mentre con l’altro punta una spada sulla corona ferrea circondata dalle palme del martirio, in segno di fedeltà e con accanto uno scudo sabaudo lambito da due serpenti, simboli rispettivamente della dinastia reale e del tempo. 
Alle spalle del guerriero si trova un’ alta colonna corinzia di granito, il cui capitello in bronzo si prolunga in una figura d’aquila imperiosa ad ali spiegate, trafitta da una freccia; allegoria del re assassinato.

Umberto I nacque il 14 marzo 1844 a Torino, precisamente a Palazzo Moncalieri, da Vittorio Emanuele II (allora duca di Savoia ed erede al trono sabaudo) e da Maria Adelaide d’ Austria. Ebbe, come da tradizione sabauda, un’educazione essenzialmente militare e nel marzo del 1858 intrapreseproprio la carriera militare, cominciando con il rango di capitano; successivamente prese parte alla Seconda Guerra d’Indipendenza, distinguendosi nella battaglia di Solferino del 1859.Il 9 gennaio del 1878, alla morte del padre, salì sul trono italiano con il nome di Umberto I e con il nome di Umberto IV su quello sabaudo, dal momento che suo padre aveva stabilito, malgrado l’unità nazionale, il prosieguo della tradizione nominale sul trono sabaudo.

Assunse, sul fronte della politica interna, una posizione rigida e autoritaria soprattutto in senso anti-parlamentare: le insurrezioni e i moti, come quelli dei Fasci dei Lavoratori in Sicilia e l’insurrezione della Lunigiana (1894), che minacciavano l’ordine interno e l’unità stessa dell’Italia, lo portarono a firmare provvedimenti come ad esempio lo Stato d’Assedio. A seguito di questi e di altri gravi avvenimenti, si procedette, ad opera del governo Crispi, allo scioglimento del Partito Socialista, delle Camere del Lavoro e delle Leghe Operaie. Il suo regno fu contrassegnato da opinioni e sentimenti opposti, infatti se da alcuni venne elogiato per per il suo atteggiamento dimostrato nel fronteggiare sciagure come l’epidemia di colera a Napoli del1884 ( si prodigò personalmente nei soccorsi), o ad esempio per la promulgazione del cosiddetto codice Zanardelli che portò all’abolizione della pena di morte, da altri fu aspramente avversato per il suo duro conservatorismo. Fu aspramente criticato dall’opposizione anarchico-socialista e repubblicana italiana, soprattutto per la decorazione del generale Fiorenzo Bava-Beccaris che fece uso dei cannoni contro la folla a Milano per disperdere, il 7 maggio 1898, i partecipanti alle manifestazioni di protesta scatenate dalla tassa sul macinato. Dopo esser sfuggito a due attentati, Umberto I venne ucciso a Monza il 29 luglio del 1900, per mano dell’anarchico Gaetano Bresci.

[...]

Re Umberto I, il conservatore che abolì la pena di morte - Il Torinese

venerdì 3 febbraio 2023

Giolitti 1915-1928

Tramonto dello statista e del regime liberale

 


di Aldo A. Mola

 

“Moriar in patria saepe servata” pare abbia detto Cicerone porgendo il collo ai sicari che gli mozzarono la testa e, orrendo omaggio, la recarono ad Antonio. Al generale Paolo Puntoni, suo primo aiutante di campo, Vittorio Emanuele III osservò imperturbabile: “Non si può dire che da quando s'è formata l'Italia le cose siano andate proprio bene per la mia Casa! Solo mio nonno (Vittorio Emanuele II) ne è uscito bene, Carlo Alberto (il bisnonno) dovette abdicare, mio padre (Umberto I) fu assassinato”. Lo aspettavano l'abdicazione e l'espatrio. Non andò molto meglio ai maggiori statisti italiani. Nel 1861, appena proclamato il regno d'Italia, Camillo Cavour morì cinquantunenne per una febbre così violenta da suscitare sospetti e leggende. Travolto dalla sconfitta nella prima guerra d'Africa nel 1896, Francesco Crispi chiuse gli occhi a Napoli nel 1901 pressoché dimenticato. Con alto senso dello Statoil suo principale avversario, Giovanni Giolitti, volle che gli fossero rese solenni onoranze. Mussolini finì affisso per i piedi a Piazzale Loreto dopo una morte ancora al centro di diverse narrazioni. Alcide De Gasperi visse gli ultimi mesi estromesso dal potere. Aveva fallito l'obiettivo di varare la legge elettorale, combattuta come “truffa”, che avrebbe assicurato stabilità al governo. Negli ultimi anni il liberale Luigi Einaudi si rifugiò tra i suoi libri all'“Eremo” di Dogliani. Rifiutato ogni patteggiamento mortificante, il socialista Bettino Craxi preferì morire ad Hammamet. E Giolitti? Non gli andò molto meglio.        

 

 

Per una pace nella giustizia interna e internazionale 

 Costretto a lasciare Roma sotto la minaccia di attentato alla sua vita (17 maggio 1915) Giolitti visse appartato nella villa avita a Cavour, un borgo ai piedi della Rocca. Valicato un ponticello sul rio Marrone, dal giardino di casa andava a passeggiare sotto la cortina di glicini nel vasto parco, rifugio della sua orgogliosa solitudine di deputato da 34 anni, quattro volte presidente del Consiglio e ministro dell'Interno. Mentre divampava la prima guerra mondiale, rimaneva la Stella Polare dei “moderati”: liberali pensosi, democratici veri e cattolici conciliati con lo Stato.

  Dal seggio di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo il 14 agosto 1916 auspicò, con la vittoria, “la cessazione del più immane macello di uomini che lo storico ricordi e una pace sicura”. Un anno dopo indicò le fondamenta della futura ricostruzione: “Sarebbe pericolosa illusione credere che si possa riprendere con poche varianti l’andamento della politica estera a base di trattati segreti e della politica sociale ed economica del periodo storico che ha preceduto la guerra. Quel periodo è definitivamente chiuso, come fu chiuso il periodo dell’antico regime dalla rivoluzione francese. Questa guerra, che non è più solo un urto di eserciti ma un conflitto di popoli che vi gettarono senza misura vite ed averi, ha dimostrato la necessità di profonde mutazioni nella condotta della politica estera, ha messo in vista le eroiche virtù del nostro esercito e del nostro popolo, ma, d’altra parte, ha in stridente contrasto rilevato insaziabile avidità di danari, disuguaglianze nei sacrifici, ingiustizie sociali; ha mutato le condizioni della pubblica economia, ha concentrato ricchezze in poche mani, ha accresciuto in modo senza precedenti le ingerenze dello Stato e quindi le responsabilità dei governi. È inevitabile che, a guerra finita, lo spirito pubblico, specialmente nelle classi popolari, si trovi profondamente mutato. Quando milioni di lavoratori delle città e della campagna, la parte più virile della nazione, affratellati per anni dai comuni pericoli, sofferenze e disagi eroicamente sopportati per la patria, torneranno alle povere loro case, ritorneranno con la coscienza dei loro diritti e reclameranno ordinamenti improntati a maggiore giustizia sociale che la patria riconoscente non potrà loro negare”. Poche settimane dopo l’Italia si misurò con la rotta di Caporetto (24 ottobre) e l’Europa con la cosiddetta “rivoluzione d’ottobre” in Russia (7-16 novembre secondo il calendario giuliano).

   Il 12 agosto 1918 da Cuneo ancora una volta Giolitti parlò al Paese: “Possano gli avvenimenti bellici del 1918 avvicinare il termine della orrenda carneficina e fare che una giusta pace consenta al mondo il ritorno alla vita civile, al progresso, alla libertà. Ma sia pace e non tregua, non ritorno alla politica degli armamenti, preparazione di nuovi conflitti. L’immane catastrofe che si abbatté sul mondo persuada i popoli tutti della assoluta necessità di grandi riforme negli ordinamenti interni ed internazionali, fondandoli sulla giustizia e sulla libertà, poiché se le assemblee dei rappresentanti dei popoli continueranno a non avere sulla politica estera un’influenza decisiva e se i rapporti tra le Nazioni continueranno ad essere retti con le vecchie norme della diplomazia, sarà vano sperare in una pace sicura e i progressi delle scienze non serviranno ad assicurare ai nostri figli un migliore avvenire, ma a rendere i futuri conflitti così orribili da far impallidire il ricordo di quelli ai quali ora assistiamo”. Come provò la seconda guerra mondiale, chiusa con il lancio di due bombe atomiche americane sul Giappone.

   Il 12 dicembre 1918 le difficoltà di instaurare la “pace sicura” ispirarono anche il suo breve discorso al Consiglio provinciale di Cuneo: “Non solo il nemico è vinto, non solo è distrutto l’esercito nemico, ma sono distrutti anche gli imperi nemici, e il principio di nazionalità trionfa in tutta l’Europa. La riconoscenza del popolo italiano verso i valorosi nostri soldati e verso i condottieri che li guidarono alla vittoria sarà eterna, come eterno sarà il nome degli eroi che sacrificarono la vita per la salvezza e la grandezza della Patria. L’ingresso trionfale del Re d’Italia a Trento e Trieste, e la certezza di una pace che soddisfi tutti gli italiani, segnano l’inizio di una èra nuova nella storia d’Italia. Questa sarà era di libertà, di giustizia sociale, di fecondo lavoro, di progresso, di prosperità, se la pace secondo i principi del grande presidente Wilson, sarà una pace definitiva fra i popoli, e se le classi ricche accetteranno con patriottico slancio i sacrifici finanziari che occorrono per tenere alto il credito dello Stato, delle Province e dei Comuni, e per mantenere gli impegni assunti verso le classi popolari, e specialmente verso i combattenti, i mutilati e le famiglie dei morti in guerra. L’eroico esempio di milioni di soldati che alla patria offersero la vita dovrà far parere lieve qualunque sacrificio finanziario”.

 

A chi il potere di deliberare lo stato guerra?

   Nel discorso al Consiglio provinciale di Cuneo del l0 agosto 1917 Giolitti propose di trasferire dal re al Parlamento la deliberazione dei trattati internazionali. Ne fece il caposaldo del suo programma postbellico. Tornato in Aula (da osservatore poco propenso a prendervi la parola), dal seggio di presidente del Consesso cuneese nel dopoguerra Giolitti riassunse il programma nazionale “in una sola parola: lavorare” (12 agosto 1919). Urgevano ordine pubblico e disciplina per scongiurare il collasso finanziario dello Stato. La sovranità sulla politica estera rimase il perno dei suoi ragionamenti, perché ne dipendevano le spese militari, il ritorno alla normalità, il superamento delle tensioni nel Paese. Vi tornò nel discorso di Dronero del 12 ottobre 1919. Senza evocare le prerogative della Corona osservò “la più strana delle contraddizioni” degli ordinamenti italiani: “Mentre il potere esecutivo non può spendere una lira, non può modificare in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, non può creare né abolire una pretura, un impiego d’ordine, senza la preventiva approvazione del parlamento, può invece, per mezzo di trattati internazionali assumere, a nome del Paese, i più terribili impegni che portino inevitabilmente alla guerra; e non solo senza le approvazioni del Parlamento, ma senza che né Parlamento né Paese ne siano, o ne possano essere in alcun modo informati [...]. Nel 1848, quando fu sancito l’articolo 5 dello Statuto, il segreto diplomatico era norma di tutti gli Stati d’Europa, e le guerre erano fatte da eserciti professionali; ora invece [...] le guerre sono diventate conflitti di popoli, che si gettano uno sull’altro con tutta la massa della popolazione atta alle armi, con tutti i mezzi di distruzione dei quali possono disporre, e il conflitto cessa soltanto quando una delle parti è in completa rovina. È quindi vera necessità storica che i rapporti internazionali siano ora regolati dai rappresentanti dei popoli, sui quali è giusto che cadano queste terribili responsabilità [...]. Come corollario necessario dell’autorità data sulla politica estera al parlamento, la dichiarazione di guerra dovrà sempre esser sottoposta in precedenza alla sua approvazione. Sarebbe una grande garanzia di pace se in tutti i paesi fossero le rappresentanze popolari a dirigere la politica estera; poiché così sarebbe esclusa la possibilità che minoranze audaci, o governi senza intelligenza e senza coscienza riescano a portare in guerra un popolo contro la sua volontà”.

   Lo Statuto era flessibile. Toccava al Parlamento, non a Vittorio Emanuele III, fare la prima mossa.

Incaricato dal re di formare per la quinta volta il governo, Giolitti propose di conferire al Parlamento il potere di “deliberare” guerra (altra cosa dal “dichiararla” e dal “proclamarla”: prerogativa del sovrano), ma il disegno di legge non fu discusso. Sciolta la Camera, lo ripresentò. Invano. Si dimise. Se ne videro le conseguenze dal 10 giugno 1940 quando per la seconda volta l'Italia entrò in guerra contro grandi potenze (Francia, Gran Bretagna, Unione Sovietica, Stati Uniti d'America...) senza approvazione preventiva delle Camere, ormai ammutolite. 

 

Dal 1923: a u secolo dall'amaro crepuscolo di uno statista liberale

Rassegnate le dimissioni da presidente del Consiglio (giugno 1921), Giolitti vide allontanarsi la soluzione del problema che costituiva il porro unum et necessarium della sua visione della Nuova Italia. Non ne parlò più né in Aula né in pubblico. Nell’ultimo discorso agli elettori (Dronero, 16 marzo 1924) ripercorse rapidamente “le ragioni dell’azione politica”. Evocò la guerra implacabile condotta contro di lui dal partito popolare e citò la lettera a Malagodi (“che cosa può venire di buono per il paese da un connubio don Sturzo-Treves-Turati?”). Non disse parola sulla crisi di fine ottobre 1922. Il governo Mussolini non era nato in Parlamento ma era costituzionale. Nominato dal sovrano, aveva prestato giuramento di fedeltà al re e allo Statuto, si era presentato alle Camere e aveva ottenuto la fiducia “dai partiti liberali e democratici alla quasi unanimità”. Era stato il Parlamento, non il governo, a varare la nuova legge elettorale, detta “Acerbo” dal nome del suo relatore, approvata a maggioranza dalla commissione presieduta da Giolitti stesso, per parte sua favorevole al ritorno al collegio uninominale, “più rispondente all’essenza del sistema rappresentativo ed al sentimento del nostro popolo che desidera scegliere liberamente e direttamente i suoi rappresentanti”. Lo statista concluse evocando le glorie del partito liberale e la propria coerenza “in nome dei principi di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di devozione alla monarchia”. Il proposito di trasferire dalla Corona al Parlamento l’“approvazione dei trattati internazionali”, ovvero la sovranità nazionale, era ormai archiviato.

   Il 7 febbraio 1924 aveva presieduto il consiglio provinciale di Cuneo. Vi rivendicò di aver salvato l’indipendenza di Fiume e si dichiarò lieto che il governo Mussolini avesse completato la sua opera conseguendone l’annessione. Rieletto deputato nelle elezioni del 6 aprile, nulla disse nella seduta consiliare cuneese del 15 maggio. Il 13 ottobre 1924 Giolitti fu rieletto presidente con 37 preferenze, 5 schede bianche e due voti dispersi. Ringraziò i colleghi per averlo confermato a ricoprire l’ufficio. Non aggiunse altro. Non presenziò alla seduta del 22 dicembre 1924, presieduta dal suo fido Marco Aurelio Saluzzo di Saluzzo, già sottosegretario di stato e senatore. Tornò in Consiglio il 20 aprile 1925. Il 10 agosto, benché assente, fu eletto ancora una volta presidente con appena 29 preferenze su 37 presenti e 60 consiglieri in carica. Il 15 ottobre presiedette i lavori. Sapeva che era ormai giunto per lui “il momento del collocamento a riposo”, ma avrebbe obbedito di buon grado continuando a tenere l’“alto ufficio” conferitogli con mandato quadriennale.

   Sennonché il 17 dicembre 1925 ventitré consiglieri sottoscrissero la richiesta che il presidente della Provincia fosse politicamente allineato col governo nazionale: doveva avere la tessera del PNF o il beneplacito di Mussolini. L’amministrazione locale attendeva un cospicuo finanziamento straordinario per la prosecuzione di opere pubbliche avviate da anni. Come a Roma voleva il “duce”, furono i cuneesi (consiglieri del partito popolare, vari “liberali”, gli sparuti nazionalfascisti) a tradire Giolitti. Lo privarono della tribuna alternativa all’Aula parlamentare per rivolgersi al Paese, come aveva fatto anche nella Grande Guerra. In risposta, il 21 dicembre si dimise da presidente e, “per elementare senso di dignità”, da rappresentante dei mandamenti di Prazzo e San Damiano. Lo comunicò agli elettori da Roma, ove il 15 ottobre 1882 aveva datato il programma di aspirante deputato. Là egli era stato mandato dagli elettori politici e là rimase, almeno idealmente, deputato in carica sino all’ultimo giorno di vita. Tanti cuneesi lo tradirono o non lo capirono mai. Venne dimenticato per quasi mezzo secolo: “Ministro della mala vita” secondo la miope e ingenerosa etichetta appiccicatagli dall'interventista Gaetano Salvemini e da tanti sedicenti democratici. Ora lo deplora anche Paolo Mieli nel “Corriere della Sera”.

   Quel 21 dicembre fu un triste Solstizio d’Inverno per il partito liberale che nel discorso del 16 marzo 1924 Giolitti aveva chiesto di votare per non disperdere il ricordo di Cavour, Azeglio, Rattazzi, Lanza e Sella. Il 18 gennaio 1926 il consesso cuneese prese atto sbrigativamente delle sue dimissioni. Il consigliere Giorgio Tornari cercò invano di leggerne o farne leggere il testo. Il presidente provvisorio della seduta si oppose perché, a suo dire, era già iniziata la votazione. Così “a larga maggioranza” le sue dimissioni furono approvate senza neppure la rituale proposta di ripensamento. Con lui si dimisero Marcello Soleri, Aurelio di Saluzzo e altri liberali, seguiti da socialisti.

   I discorsi del 12 ottobre 1919 e del 16 marzo 1924 vanno confrontati con le relazioni di presentazione dei disegni di legge del suo quinto governo: un’eredità impegnativa non solo per quelli immediatamente seguenti ma anche per il secondo dopoguerra: controllo delle industrie da parte dei lavoratori, trasformazione del latifondo e colonizzazione interna e obbligo dell'istruzione a coronamento del disegno di legge sulla cittadinanza presentato alla Camera il 7 luglio 1911, trasformato nella legge 13 giugno 1912, n. 555, che indicò i requisiti dell’“italianità”, a particolari condizioni concessa agli stranieri.

L'eredità dell' “età liberale”

   Nei quarantasei anni dalla prima elezione alla Camera dei deputati e nei quaranta di consigliere provinciale Giolitti parlò solo nelle sedi istituzionali o, in forma programmata, ai suoi elettori. In rarissime funzioni civili pronunciò poche parole. Predilesse il contatto diretto con la popolazione. Stringeva mani, ricambiava saluti, chiacchierava con la curiosità del pius agricola gravato della responsabilità di pater familias della Nuova Italia. Quando poteva conversava in dialetto, con Vittorio Emanuele III o con i compaesani. Non si rivolse mai alla “piazza”. Non mirò mai ad attizzare passioni irrazionali. Additò invece gli ideali dai quali era nata l’Italia libera, indipendente e una, con un Parlamento demandato a modificarne gli ordinamenti secondo la volontà dei cittadini, dal 1912 elevati a elettori, compartecipi della sovranità. Preparò sempre accuratamente i discorsi. Li stese, corresse e copiò di suo pugno. Ciascuno di essi era frutto di lunghe ricerche sintetizzate in montagne di appunti. Ogni discorso veniva poi distillato in cartelle fitte di frasi lapidarie, spesso con parole sottolineate. Infine stringeva il tutto in una scaletta sintetica. La parola fluiva alta, solenne, rapida. Il 16 marzo 1928 motivò il suo voto contrario alla legge, proposta dal ministro nazionalfascista Alfredo Rocco, che attribuiva al Gran consiglio del fascismo la scelta dei deputati. Poiché “esclude(va) qualsiasi opposizione di carattere politico, (essa) segna(va) il decisivo distacco dal regime retto dallo Statuto”.

   “Dicendi peritus” anche per lui il “politico” è anzitutto “vir bonus” (parole di Cicerone), orgoglioso di rappresentare alla Camera elettiva i “fieri montanari” della sua terra, senza mai rinnegare “la fede liberale che professai in tutta la mia vita, e che fu quella di tutti i nostri rappresentanti dal 1848 in poi”.