sono mosse dalla severa Vostra presa di posizioni contro Re Vittorio Emanuele
III che contraddice diametralmente tanto la realtà dei fatti, quanto lo stesso
atteggiamento della Comunità ebraica nei tempi immediatamente successivi al
fascismo o quanto meno più prossimi a quei tempi, per cui debbo ritenere che le
Vostre convinzioni derivino soprattutto dal clima di polemica dei giorni
nostri. Mi perdoneranno se rubo loro un po’ di tempo per cercare di ristabilire
la verità dei fatti come io la conosco.
Mino
Monicelli, in un’attenta ricostruzione dei fatti, pubblicata il 17 febbraio
1968 sul quotidiano «Il Giorno», all’epoca dell’ENI, quindi espressione del
governo repubblicano, rammenta che Vittorio Emanuele III per tre volte negò la
firma dei Decreti in questione a Mussolini; ed invano attese che parlamentari,
intellettuali esponenti della società civile insorgessero; si sa, invece, che
diversi docenti furono ben lieti di subentrare nelle cattedre universitarie
agli ebrei espulsi per effetto di quei decreti.
Vittorio
Emanuele III attese che almeno dalla Chiesa venisse una indicazione; non vi fu
neppure quella!
Mino
Monicelli riferisce, nell’articolo che ho citato il colloquio avvenuto tra
Vittorio Emanuele III e Mussolini il 28 novembre 1938; e lo riporta con queste
esatte parole: «Colloqui Re - Mussolini. Per tre volte il sovrano riesce ad
infilare nel colloquio ‘provo una infinita pietà per gli ebrei’. Il duce ingoia
tre volte il rospo, digrignando la mascella quadrata».
Galeazzo
Ciano, nel suo «Diario 1937-1938», parla anche lui dell’episodio; alla data 28
novembre 1938, Galeazzo Ciano scrive testualmente: «Trovo il Duce indignato col
Re. Per tre volte, durante il colloquio di stamane, il Re ha detto al Duce che
prova ‘una infinita pietà per gli ebrei’... Il duce ha detto che in Italia vi
sono 20.000 persone con la schiena debole che si commuovo sulla sorte degli
ebrei. Il Re è tra quelli. Poi il Re ha parlato anche contro Germania... Il
Duce era molto violento contro la Monarchia. Medita sempre più il cambiamento
di sistema. Forse non è ancora il momento. Vi sarebbero reazioni. Ieri a Pesaro
il comandante del Presidio ha reagito contro il Federale che aveva dato il
saluto al Duce e non quello al Re».
Si sa che
l’anziano Sovrano cercò, con interventi personali, di attenuare la portata di
quei decreti, anche attraverso il trasferimento di ebrei in località delle
Colonie, lontano da zone soggette al predominio delle dottrine imperanti
all’epoca in Europa.
Si sa con
certezza che fu l’intervento del Sovrano ad ottenere considerevoli attenuazioni
a favore degli ebrei. Tra l’altro, la deliberazione del Gran Consiglio del
fascismo del 6 ottobre 1938, che non escluse «la possibilità di concedere… una
controllata immigrazione di ebrei europei in qualche zona dell’Etiopia».
Il duca
d’Aosta ha dichiarato alla televisione che suo padre e suo zio rimasero
«orripilati» (testuale) dalle leggi razziali; e che lo zio, nella sua qualità
di Viceré d’Etiopia, aveva pensato di salvare gli ebrei riservando loro una
regione dell’Etiopia. Ne parlò come di un sotterfugio all’insaputa del regime;
mentre invece si trattava di un accordo tra il Re ed il fascismo, al quale
Vittorio Emanuele III aveva strenuamente lottato fino a far meditare a
Mussolini l’accantonamento della Monarchia.
E c’è una
testimonianza assolutamente non sospetta a confermale. Tra i quaderni del
«Centro di documentazione ebraica contemporanea», in «Gli ebrei in Italia
durante il fascismo» a cura di Guido Valabrega nel marzo 1962, a pag. 20 del 2°
volume, si legge testualmente «Con tutto ciò, si deve obiettivamente
riconoscere che sino all’8 settembre 1943 la persecuzione razziale fu contenuta
in limiti moderati e di portata soprattutto economica» e più avanti, «Dopo l’armistizio
dell’8 settembre 1943 comincia per gli ebrei italiani un tremendo periodo
nuovo: l’Italia era ormai sotto il tallone tedesco e Mussolini voleva
riabilitarsi agli occhi dell’alleato».
Ed esistono
interi volumi di documentazione che dimostrano come il Regio Esercito, di
educazione e di sentimenti monarchici, salvò un grande numero di ebrei, i
quali, su ogni fronte, fuggivano delle zone occupate da nazisti, per riparare
sotto la protezione dei nostri reparti. Per tutti, si legga quanto scritto su
«Un debito di gratitudine. Storia dei rapporti tra l’Esercito italiano» di
Menachem Shelah, ebreo dalmata. Nella prefazione di Antonello Biagini, prof.
Ordinario di Storia dell’Europa orientale, parla dell’«opera di solidarietà
svolta dal personale diplomatico e dall’esercito italiano... legato
tradizionalmente alla Casa Reale non a Mussolini». Lo jugoslavo ebreo Yosef
Lapid, giornalista e docente in Università USA, nel presentare il libro scrisse
«Però gli italiani rifiutarono di contribuire al sistematico sterminio operato
dalla macchina di morte nazista e non presero parte al genocidio. Ebrei di
nazionalità italiana non furono deportati nei campi di sterminio (finché
l’Italia non cadde, dopo l’8 settembre 1943, sotto il diretto dominio tedesco).
Gli italiani presero sotto la loro protezione gli ebrei dei Paesi conquistati
nel Nord Africa, in Grecia, nella Francia Meridionale e in Jugoslavia». E
Menachem Shelah riferisce di «una delle suppliche più commoventi scritta dai
profughi di Sarajevo rifugiati a Mostar, cioè sotto il controllo
italiano... l’invio in un campo di concentramento croato
significherebbe... una condanna a morte... una morte lenta, tra infiniti
tormenti... una morte implorata per lunghi giorni e per lunghe notti insonni,
come si implora da Dio la grazia di essere finalmente liberati da un
martirio...».
Infine,
veniamo ad un'altra colpa che si attribuisce a Vittorio Emanuele III, ossia
all’avvento del fascismo al potere.
Aldo
Rossini, deputato eletto nella circoscrizione di Novara e poi Senatore del
Regno, ultimo sopravvissuto di quei giorni, in una rievocazione pubblicata sul
settimanale romano «Tempo», fece balenare una versione di quanto accaduto in
quelle ore febbrili; manifestò il dubbio che non fosse stato Facta a proporre
lo «stato d’assedio» e Vittorio Emanuele III a rifiutare di firmarlo; afferma
l’esatto contrario; che fu il Re a suggerire il provvedimento e Facta a
sconsigliarlo vibratamente; e, a sostegno della sua affermazione, scrisse che
di questo Mussolini gli sarebbe stato grato, inserendolo nella prima lista
proposta al Sovrano per la nomina a Senatore del Regno. Del resto Carlo Sforza
sostenne che non ci fu insistenza alla firma dello «stato d’assedio»; e Luigi
Sturzo, in «L’Italia e l’ordine internazionale», affermò: «Non intendiamo dare
la colpa solo a Vittorio Emanuele; né intendiamo attenuare quelle del Ministro
Facta». Sforza ricorda poi che la proposta fu caldeggiata tanto blandamente da
Facta, da far sorgere dubbi nel Sovrano, il quale convocò il Capo delle forze
Armate Armando Diaz ed il Capo della Marina Thaon de Revel per chiedere
espressamente cosa avrebbe fatto eventualmente l’esercito, qualora il Re avesse
dato ordine di usare la forza; e la risposta che ebbe da Diaz fu: «Maestà,
l’esercito è fedele alla Maestà Vostra, ma sarà meglio non mettere alla prova
la sua fedeltà». La versione venne accreditata in una lettera a Mario Missiroli
da George Sorel, il quale addusse a sostegno che il Re potesse contare
sull’esercito, la defezione di diversi reparti militari inviati a reprimere
l’impresa di Fiume e passati, invece, dalla parte di Gabriele D’Annunzio; in
un’altra lettera, sostenne anche che: «Il fatto che la nave ‘Dante’ sia rimasta
a Fiume, a dispetto degli ordini dell’ammiragliato, indica che il governo non
può contare sulla Marina». Del resto, si sa che diversi ufficiali anche
superiori, presero parte alla «marcia su Roma» e che il gen. Asclepio Gandolfo,
comandante del XXVII Corpo d’Armata, «fu uno dei generali che prepararono e
diressero la marcia su Roma e che già nel 1921 figurava come uno dei capi dello
squadrismo fascista». Lo fa sapere Guido Dorso, citando Italo Balbo, in
«Mussolini alla conquista del potere», Biblioteca moderna Mondadori, 1949.
A questo
punto Vittorio Emanuele III avrebbe dovuto reprimere l’intero Paese –
Parlamento, Degasperi compreso, esercito, Chiesa, la stessa opinione pubblica –
instaurando una dittatura Regia, in luogo di quella fascista?
Quelli
dell’avvento del fascismo al potere, furono tempi difficili, in cui qualsiasi
soluzione, comunque presa, sarebbe stata criticabile, salvo con il senno di
poi.
Vittorio
Emanuele III fece 25 tentativi di governo, prima di assegnare l’incarico di
formare il Governo a Benito Mussolini. Il Re, esperiti i diversi tentativi ed
accertato che Mussolini era l’unico esponente politico nei confronti del quale
non vi fossero preclusioni, chiamò quest’ultimo al Quirinale e gli chiese cosa
volesse; e Mussolini gli rispose: «Vogliamo il Governo»; il Re, Sovrano
costituzionale, gli replicò: «Bene, formi un governo e si presenti davanti al
Parlamento».
Mussolini,
recatosi in Parlamento, non nascose il proprio disprezzo per la classe politica
dell’epoca, dicendo: «Di quest’aula sorda e grigia, avrei potuto fare un
bivacco per i miei manipoli».
I partiti,
che si erano reciprocamente negati l’appoggio per la formazione di governi
stabili, subirono senza batter ciglio l’affronto e furono in larghissima parte
favorevoli nel sostenere il Governo al Capo del Fascismo, che aveva alla Camera
soltanto 35 Deputati.
Il primo
Governo Mussolini – un Governo che Malacoda definì «tranquillizzatore» –
ottenne la fiducia con 306 voti a favore, 116 contrari e 7 astensioni.
Tra i voti
favorevoli ci furono quelli di Alcide Degasperi, Ivanoe Bonomi, Vittorio
Emanuele Orlando, Antonio Salandra. Di quel Governo facevano parte, oltre a
fascisti, liberali, popolari (ossia quelli che nel dopoguerra sarebbero
divenuti i democristiani), demosociali, nazionalisti, oltre al generale Armando
Diaz e all’ammiraglio Paolo Thaon de Revel. Sottosegretario all’industria era
Giovanni Gronchi, che, nel 1955, sarebbe divenuto presidente della repubblica
italiana. Tutte persone che oggi danno la colpa a Vittorio Emanuele III di aver
aperto la strada al Fascismo e che all’epoca si dimostrarono i migliori alleati
di Mussolini.
Lo stesso
Parlamento il 25 novembre 1922 avrebbe votato a favore della concessione dei
pieni poteri, per consentire al Governo Mussolini «di risolvere liberamente,
senza le difficoltà della procedura parlamentare, i più urgenti problemi della
finanza e della pubblica amministrazione».
Ma l’atto
più grave che consegnò completamente il Paese al fascismo fu la votazione del
15 luglio 1923, che approvò la riforma della Legge elettorale. Per quella
Legge, su 535 seggi parlamentari, ben 356 – i 2/3 ! – sarebbero stati assegnati
alla lista che avesse ottenuto la maggioranza, non assoluta, ed anche di un
solo voto, purché raccogliesse almeno il 25 % dei voti. La Camera dei Deputati,
nel quale i fascisti erano solo 35, approvò quella legge con 303 voti, 140
contrari e 7 astenuti; tra i voti favorevoli vi furono anche quelli di
Degasperi e di Gronchi.
Anche il
Senato approvò la riforma. Il Re costituzionale non poté altro che firmare. Del
resto, la formula di una Monarchia costituzionale è «Il Re regna ma non
governa».
Don Luigi
Sturzo, nel suo libro «L’Italia e l’ordine internazionale», pubblicato nel 1944
per le edizioni Einaudi, ci fa sapere che «intervennero gli ex capi dei
gabinetti liberali Giolitti, Salandra e Orlando, che il Re chiamò a consiglio,
ed opinarono essere inopportuno avventurarsi in un cambio che preludesse ad un
governo dominato da socialisti e popolari».
Lo storico
Secondo Malacoda sostenne, al proposito, «di fronte all’affermazione di una
pretesa complicità tra la Monarchia dei Savoia e il fascismo, noi pensiamo che
nulla sia stato asserito di più falso e di più storicamente infondato, e che
nulla sia più contrario alla logica intima delle cose. In verità la Monarchia
non è stata complice del fascismo più di quanto il depredato non sia complice
del suo rapinatore».
La Camera
dei deputati ed il Senato, a grandissima maggioranza, e la stessa opinione
pubblica sostennero il fascismo. La stessa Chiesa, che con il fascismo aveva
già avviato trattative per pervenire al Concordato, impose a Don Luigi Sturzo,
il più acceso avversario cattolico del regime, l’esilio, senza che Mussolini lo
avesse richiesto. Pio XI definì Mussolini l’«uomo della provvidenza».
Il noto
giornalista Vittorio Gorresio a pag. 2 del quotidiano «La Stampa», riferendosi
a Flaminio Piccoli, scrisse «che in un discorso pronunciato A Bergamo il 2
novembre 1968... disse che la dc non è nata per investitura ecclesiastica, che
anzi la Chiesa la abbandonò nel 1923-24, e don Sturzo fu costretto all’esilio,
e Degasperi ebbe gravi difficoltà nei suoi rapporti con il Vaticano».
Carlo Sforza
, fortemente anti-fascista, del resto ammise: «Pochi uomini furono accompagnati
più di Mussolini da voti di successo così numerosi, anche se soltanto
rassegnati».
Dunque, a
questo punto, cosa sarebbe cambiato se in Italia allora vi fosse stata una
repubblica? Anzi; le cose sarebbero addirittura cambiate in peggio, perché
essendo l’intero Parlamento fascista o prono dinanzi al fascismo, non vi
sarebbe stato neppure l’effetto equilibratore della Corona a determinare
elementi di riflessione e di moderazione.
Ciò che è
successo durante il fascismo e con le leggi razziali addolora anche me, che non
sono ebreo.
Ma adesso si
dimenticano le colpe di Mussolini e del fascismo per addossarle a Vittorio
Emanuele III che fu l’unico ad opporsi a quel sistema ed a cercare di attenuare
la portata degli effetti di quel sistema.
Non si sta
andando al di là della verità, per scegliere la via più comoda della polemica
fine a se stessa?
Grazie per questa lettera. W il Re.
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