NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 31 marzo 2020

Articolo interessante


Segnaliamo il seguente articolo perché ci appare interessante da un punto di vista storico.
Questo non vuol dire che ne sposiamo ogni sillaba.
Gli amici monarchici che vorranno leggerlo saranno sicuramente all'altezza di farsi la propria opinione.




I Fasci di Combattimento alla luce della Fatal Novara


Il 23 Marzo della Grande Guerra


Il 23 Marzo per la Storia dell’Unità d’Italia è un’altra giornata significativa sia dal punto di vista storico che simbolico, rappresenta l’inizio del processo di Unificazione Nazionale e il suo compimento, che si verificherà con la Grande Guerra. Dalla Prima Guerra d’Indipendenza alla Prima Guerra Mondiale, dal 23 Marzo 1849 la Fatal Novara, al 23 Marzo 1919 fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento, a Milano.
Il 23 Marzo ricorre l’inizio e la fine della Prima Guerra d’Indipendenza. Dopo tante eroiche battaglie la Guerra si concludeva con la Fatal Novara, o “Brumal Novara” di carducciana memoria. Tutti gli anni la città di Novara era solita celebrare l’Evento, con una rievocazione storica in costume della Battaglia. Quest’anno a causa della Pandemia del Coronavirus la manifestazione è stata sospesa.  
Proprio queste terre campo di battaglia della Prima Guerra d’Indipendenza e della Prima Guerra Mondiale, oggi sono state trasformate in un nuovo campo di battaglia, dove si combatte una nuova forma di guerra, la guerra del Terzo Millennio. Ora come allora molti Volontari da tutta Italia sono accorsi in aiuto; ai Volontari Militari e combattenti, oggi si sono uniti i Medici e il Personale Sanitario Volontariamente accorso per salvare vite umane, sensibili al “grido di dolore”.  
LA PRIMA GUERRA D’INDIPENDENZA. LA FATAL NOVARA
Cominciata spontaneamente con le Cinque Giornate di Milano, il 23 Marzo 1848 il Re di Sardegna Carlo Alberto fa sua la Causa Nazionale e dichiara guerra all’Impero Austriaco, andando in soccorso dei rivoluzionari lombardi. Momenti eroici impressi nella mente degli Italiani e nella Storia Militare d’Italia.
Ricordiamo l’8 Aprile a Goito il Battesimo del fuoco dei Bersaglieri, Corpo scelto fondato da Alessandro La Marmora, evento immortalato sul basamento del Monumento al Bersagliere di Roma e nel Museo di Porta Pia dove si conserva la spada di La Marmora, Sacrario dei Bersaglieri.
Il 30 Aprile la suggestiva carica dei Carabinieri a cavallo a Pastrengo, ancora oggi evocata e realizzata da oltre 100 carabinieri a cavallo durante la giornata della Festa dell’Arma.
Indimenticabile la tenace resistenza dei 7.000 giovani volontari toscani a Curtatone e Montanara, contro il potente esercito austriaco, a ricordo del loro sacrificio fu posta una lapide all’interno della Basilica di Santa Croce, a Firenze, dove riposano i grandi pensatori italiani. Il loro atto eroico permise al futuro Re Vittorio Emanuele II di espugnare la Fortezza di Peschiera.
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La travagliata storia del monumento torinese a Vittorio Emanuele II


di Sergio Donna 

TORINO. Com’è noto, le spoglie di Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia, spentosi il 9 gennaio del 1878, furono tumulate a Roma, nel Pantheon. I Torinesi si aspettavano che venissero accolte a Superga, dove sono custodite le tombe di decine di duchi, duchesse, Re, Regine e Principi sabaudi. Ma Vittorio Emanuele era il primo Re d’Italia, e si pensò che il suo corpo dovesse essere più opportunamente tumulato in uno dei monumenti simboli della capitale del regno, nel pieno centro storico di Roma.

Il nuovo Re Umberto I, figlio di Vittorio, consapevole dell’affetto dei Torinesi per la monarchia e in particolare per questo Padre della Patria, che proprio da Torino aveva progettato e ordito l’Unità d’Italia, si sentì in dovere di erigere, nella città che per quasi cinque secoli era stata sede del ducato e poi della monarchia sabauda, un imponente monumento alla memoria dell’amatissimo sovrano.

Umberto decise così di elargire la considerevole somma di un milione di lire per la realizzazione di un grande monumento a Torino, in onore di suo padre. Fu contemporaneamente indetto un bando di concorso per l’erezione del monumento. Come luogo di posizionamento, fu scelto l’attuale crocevia tra Corso Vittorio Emanuele e Corso Galileo Ferraris, allora coincidente con l’angolo a nord-est del quadrilatero delimitante l’antica piazza d’Armi.

Furono presentati ben 46 bozzetti e 8 disegni. Il responso della Commissione Giudicatrice fu pubblicato il 1° aprile del 1879 sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia. Fu considerato vincitore del progetto il giovane scultore genovese Pietro Costa, allora trentenne (1849-1901).

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Rosanna Benzi, una donna coraggiosa


di Emilio Del Bel Belluz 

Da anni possiedo un libro che mi assicura una forza interiore e mi aiuta a vivere. Questo testo ha sulla copertina una foto di una donna che sorride felice alla vita. Questa giovane è bloccata all’interno di una gigantesca macchina che l’aiuta a respirare. 

Non so quanti ricordino la vicenda della straordinaria Rosanna  Benzi. Il libro racconta la sua vita che è stata un susseguirsi di momenti che toccano le corde del cuore. Rosanna è morta nel febbraio del 1991, a soli 43 anni, nonostante la sua breve esistenza ha saputo lasciare una scia di forza che non potrà mai essere cancellata dal silenzio e dall’indifferenza. 

Penso a quanti avrebbero inveito contro il destino che impediva loro qualsiasi movimento, anche il più semplice. Più volte al giorno, il mio pensiero va alla Benzi, al suo coraggio e alla sua forza che cerco di imitare. 
A volte amiamo delle persone con tutto il cuore, anche se non le abbiamo mai incontrate.  La Benzi ha avuto una forza capace di superare anche il destino più disperato, grazie all’aiuto di Dio. Quando ho attraversato dei momenti difficili, ho cercato la forza in Rosanna Benzi. Pur essendo rinchiusa in un polmone d’acciaio, riusciva a sostenere con il suo coraggio le persone che le stavano accanto, viveva in un ospedale assieme ai suoi genitori che condividevano con lei i momenti  più importanti. In quella stanza, la buona Rosanna riceveva le persone che cercavano un significato alla loro vita. 
La penso come il capitano di una nave che non può abbandonare il posto finché tutti non siano stati messi in salvo. 
Coraggio, determinazione, grande amore per il prossimo e per Dio sono le parole che utilizzerei per definire la persona di Rosanna. E’ una che ha lottato fino all’ultimo, non pensando a se stessa, ma agli altri. Nel libro di Nino Salvaleschi: - Consolazioni - Edito da Corbaccio lessi la storia di un legionario svizzero: “ E penso a quello svizzero Alfredo Froidevaux, soldato della legione straniera ferito nel Tonchino, che nel corso di dieci anni fu quarantasette volte sulla tavola operatoria, sacrificando a poco a poco le dita, le mani, la braccia e le gambe, rimasto un semplice tronco, disse: “ Il sole brilla anche per me… Ma solo il credente è veramente forte”.  Penso alla sofferenza del legionario, che dopo molte battaglie è costretto all’immobilità totale. La guerra l’ ha trasformato, l’ ha mutato nel fisico, l’ ha mutilato in modo difficile da accettare, ma egualmente non ha perso la speranza,  ha avuto in sé la volontà di sopravvivere alla dura vita. Sempre nella stessa pagina lo scrittore Salvaleschi offre al lettore un’altra testimonianza di vita. Spesso mi ha aiutato in quei momenti, dove tutto mi pareva così difficile da comprendere. “ Katerine Mansflied, grande malata che soffrì terribilmente per lunghi anni, alla vigilia della sua morte avvenuta nel 1923, scrisse: “ Voglio prima di morire, lasciare una testimonianza: si può superare il dolore… Bisogna fare del dolore un principio di vita. Tutto quello che si accetta cambia di senso. Così la sofferenza si muta in amore, ecco il mistero”. 
Nel libro della Benzi - Il vizio di vivere - vi è una storia vera di un legionario che ha combattuto, ha sofferto e ha deciso di chiudere il conto con la vita. Questo soldato, dopo aver portato per molti anni l’uniforme, ha sentito che non aveva più ragione d’esistere e che solo la morte poteva liberarlo dalla sofferenza in cui viveva. Pensava di procurarsi la morte gettandosi nel vuoto. Nel libro la Benzi scrive: “ Luca G. era nella legione straniera. C’era perché non aveva paura della morte e perché pensava che il bilancio della sua storia fosse tutto in rosso o quasi. In una squallida camera d’albergo, a Teheran, passeggiava avanti e indietro con le mani dietro la schiena. Corrugando la fronte guardava la finestra e poi il muro sulla parete opposta, poi la finestra, poi di nuovo il muro. Avanti e indietro, avanti e indietro, il suo passo si faceva più veloce e convulso, perché sia la finestra che il muro gli facevano venire la stessa  idea. Si affacciò al balcone e guardò quanto era in alto. Sarà stato trenta metri sopra a un cortilaccio d’asfalto. Non soffrì le vertigini, non ne aveva mai sofferto. Luca G. guardava l’asfalto lercio comparso di polvere e pietrisco. Il grigio può essere un colore molto triste. Tornò a camminare nella stanza, più lentamente perché ormai aveva deciso che non c’era più bisogno di andare in fretta. Si poteva lasciare qualcosa di scritto. 
Non sappiamo capire il motivo della nostra nascita, ma possiamo spiegare qualche volta, perché togliamo il disturbo. A chi scrivere? Ci fosse qualcuno pensò, a cui scrivere una cosa così grossa, ora andrei  da lui e smetterei di guardare la finestra. Non devo spiegazioni. Non me ne chiedono. Non se ne chiederanno. Si sentì in compagnia, la compagnia di coloro che hanno scelto la morte. Era una grande compagnia. Camminò verso il balcone ancora una volta. Il cielo era molto azzurro, piatto e insensibile dietro le residenze sontuose e dietro le fetide stamberghe. Le guglie del minareto parlavano di uno strano al di là. Il cortilaccio  d’asfalto lo stava aspettando. Posò le mani sulla ringhiera e si sporse in avanti. Due bambini, che prima non c’erano, avevano preso a giocare di sotto. Raspavano fra le pietre e s’ intorcinavano nella polvere. Nuvolette si alzavano quando battevano per terra i loro piedini scalzi e sporchi. Ridevano. Si picchiavano. Si rincorrevano. I bambini non hanno colpa. Un uomo che muore è troppo brutto per loro. Luca G., il legionario, si calmò un momento, e rientrò nella camera. Si lasciò andare sul letto e accese una sigaretta. L’ultima, magari. Dal materasso si alzò un odore di muffa che si mischiò al fumo. Divenne un odore di funghi bruciati, di sottobosco inquinato. Nello specchio la sua immagine non compariva. L’angolo di rifrazione, pensò, mi butta sul soffitto, o in mezzo alla stanza, sul lampadario, e il mio corpo svanisce … lo specchio era accanto ad una cassettiera alta quanto un uomo. Quasi tutti i cassetti erano aperti. Luca G. si alzò e curiosò dentro, fra le sue cose. 
Chissà come, chissà perché, da un cassetto saltò fuori una rivista italiana, piegata a una certa pagina. In bella mostra c’era la foto della mia faccia, che rideva e faceva le boccacce, per scherzo. Luca G. cominciò a leggere la mia storia. Quando staccò gli occhi dalla rivista, il cielo era ancora azzurro e piatto, e il cortile lercio, e le stamberghe erano fetide, ma dentro al cuore gli era tornata la voglia di vivere, e i bambini potevano tornare a giocare tranquilli. Mi scrisse che gli avevo salvato la vita, che la mia forza lo aveva impressionato, che allora doveva farcela anche lui. Adesso Luca G. lavora in un lebbrosario. Dice che si sente dentro la necessità di fare qualcosa per gli altri”.  Dopo aver letto questa testimonianza della grande Benzi mi accorgo che sento il bisogno di fermare la mia attenzione sulla sua grande capacità di amare. Il Signore dona alle persone speciali, come la Benzi, una forza immane che sanno trasferire agli altri.. 
Voglio trascrivere una parte di quanto riportato nel risvolto interno del libro. “ Il vizio di vivere è il vizio di Rosanna Benzi, quello che non perdette quando la poliomelite la costrinse il 21 marzo del 1962 a giacere immobile in un polmone d’acciaio, all’ospedale di San Martino ( Genova). Da allora quella condizione non è mutata, ma la piccola stanza al Pronto Soccorso, anziché trasformarsi in un buio recesso di tristezze e disperazione senza appello, è diventata una crocevia dove si incontrano amici, personaggi famosi, giornalisti e perfino ammiratori. Attorno a Rosanna e al suo sbuffante polmone d’acciaio è sempre avvertibile un alone d’allegria, d’impegno civile e d’operosità. Si discute, si scherza, si redigono gli articoli della rivista che Rosanna dirige, si mangia, si festeggiano il Natale, e i compleanni..” Già dalle prime righe del libro si comprende come la sua vita sia stata molto difficile. “Il bicchiere era posato sul comodino accanto al letto. Avevo una sete terribile ma il mio braccio non si alzava abbastanza da raggiungerlo. La mano lo sfiorava, cercava inutilmente di afferrarlo e poi ricadeva lungo la sponda del letto, e io non potevo far altro che ritentare, perché avevo sete, una sete secca e spietata. Leggendo queste poche righe, il mio pensiero va al navigatore solitario Ambrogio Fogar, il cui sogno era quello di alzarsi dal letto dove il suo corpo era inchiodato e osservare il cielo e vedere le stelle. Penso pure al grande attore americano,Christopher Reeve, che nei suoi film aveva interpretato la figura di Superman e che dopo una caduta da cavallo rimase paralizzato. Passò la sua vita immobilizzato in una carrozzina, respirava attraverso una macchina e nonostante tutto seppe accettare il suo tragico destino. Anche questo grande attore aveva un sogno da realizzare: alzarsi dal letto e aprire una porta. Un piccolo gesto che compiamo tante volte al giorno e non ci rendiamo conto della fortuna  che possediamo. Nei duri momenti della mia vita, ho pensato molto a questi due personaggi. Il caro Fogar  passò gran parte della sua vita a sfidare la morte con  imprese che sembravano  impossibili e dopo fu costretto a sfidare il vivere quotidiano per ottenere dei piccoli risultati. Rosanna Benzi passò ventinove anni della sua vita nel polmone d’acciaio e questi ventinove anni sono stati importantissimi, diventarono un modello di vita spesa per aiutare gli altri e a infondere loro coraggio. Sul Corriere della Sera alla sua morte, la giornalista Daniela Attimani gli ha dedicato un grande articolo dal titolo: “ Donna Coraggio è morta con un sorriso – Ventinove anni in un polmone d’acciaio Rosanna Benzi aveva il Vizio di Vivere. 
Nell’articolo ho appreso che un gruppo d’intellettuali voleva che fosse nominata senatore a vita. Il primo sostenitore di questa nomina apparteneva al partito Democrazia Proletaria. Concludo questo ricordo di Rosanna con le parole della giornalista del Corriere: “ Domenica sera Rosanna Benzi ha lavorato. Nella sua stanza, tappezzata di quadri, piena di libri, animali di peluche, piccoli gadget colorati, si è riunita la redazione della rivista - Gli Altri-. Insieme hanno preparato il prossimo numero sul quale verrà pubblicata una lettera per la pace indirizzata a Bush e a Saddam. Quando i collaboratori si sono accomiatati, Rosanna “ stava abbastanza bene”. Durante la notte ha perso conoscenza, la fine è sopraggiunta ieri mattina”.

sabato 28 marzo 2020

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II

Con un po' di ritardo rispetto alla consueta cadenza mensile è stato aggiornato il sito del Re con una bella e a tratti profetica intervista al Sovrano del Gennaio 1976.
La perfetta conoscenza della situazione, i costanti richiami al bene della Patria ed alla libertà, l'ostracismo alle sue parole...

Il Sovrano che avrebbe impedito questa deriva demagogica ed antinazionale.

venerdì 27 marzo 2020

Considerazioni dantesche


Aver deciso di dedicare annualmente una giornata, il 25 marzo, a ricordare il nostro sommo poeta Dante è una delle iniziative commemorative e celebrative, con cui concordiamo, non solo per il valore letterario, “mostrò ciò che potea la lingua nostra”, di tutta la sua opera poetica, ma anche per le considerazioni storiche sull’Italia, della cui unità politica e spirituale è stato senza dubbio il maggiore precursore, ma anche della sua vita tumultuosa. Queste giornate speriamo portino al rinnovato piacere della lettura dei suoi versi, a studi ed approfondimenti che facciano risaltare la bellezza dei suoi componimenti e l’attualità di tante intuizioni, ma faranno anche aprire o riaprire le polemiche particolarmente su alcuni punti della “Commedia”, a cui gli immediati posteri aggiunsero giustamente “Divina”, termine con il quale da secoli ed in tutto il mondo è conosciuta.
Cominciamo dalla sua posizione politica : la famiglia Alighieri era “guelfa”, per cui Foscolo chiamando Dante “ghibellin fuggiasco”, confonde la scelta “monarchica imperiale” di Dante, con la sua posizione fiorentina, che ne fece un guelfo “bianco”, contrapposto ai guelfi “neri” secondo una tendenza “scissionistica” di cui abbiamo tanti esempi attuali, che quindi ha origini ben antiche. Seconda considerazione l’uso politico della giustizia per eliminare un avversario. Infatti mentre era a Roma, per una ambasceria ufficiale del comune fiorentino presso Bonifacio VIII, Dante, non potendo tornare a Firenze viene processato in contumacia e condannato con sentenza del 27 gennaio 1302, ad un esilio biennale, con multa di 5000 fiorini piccoli e bando perpetuo da ogni ufficio pubblico, per “fama publica referente” di baratteria, estorsione ed altri delitti. Nel frattempo a Firenze i “civili” avversari guelfi corsero alla sua casa e fu rubata ogni cosa. 
Di questo processo è da notare un’altra caratteristica negativa,, che, purtroppo è stata ripresa anche ai nostri giorni, e cioè la “retroattività” delle leggi, in quanto come scrisse Leonardo Aretino in una “Vita Dantis poetae carissimi”, di poco posteriore a “Della vita, costumi e studi del carissimo poeta Dante”, del Boccaccio, “ fecero legge iniqua e perversa, la quale si guardava indietro, che il Podestà di Firenze, ( Cante de’ Gabrielli di Gubbio !) potesse e dovesse conoscere i falli commessi per l’addietro nell’ufficio del priorato ( Dante era stato Priore dal 15 giugno al 15 agosto 1300), contuttoché assoluzione fosse seguita. A questa “benevola “ sentenza ne seguì nel marzo, sempre contumace, quella di essere “arso vivo”, per non parlare poi delle colpe dei padri che si fanno ricadere sui figli, quando nel 1303 sempre il comune di Firenze stabilì l’esilio per i suoi figli al compimento del quattordicesimo anno ! 

E che dire della ulteriore sentenza del 6 novembre 1315 quando avendo Dante rifiutata l’umiliante proposta fiorentina di modifica della pena, viene confermata la pena di morte, estesa questa volta anche ai figliuoli rei di essere nati da un rivoltoso. Dal che si vede come la passione politica o meglio partitica, perché tali erano stati ghibellini, guelfi e poi palleschi e piagnoni, quando supera un certo livello e non è bloccata dalla libertà che lo stesso Dante, assegnando a Catone l’Uticense, pur suicida, la funzione di Giudice del Purgatorio, ebbe a definire “sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta (Purgatorio, canto primo, versi 71-72), stravolge ogni certezza del diritto ed il concetto stesso della giustizia. E questa anticristiana, e non solo antigiuridica, condanna di figli per colpe (ammesso che lo fossero !) dei padri non era, è triste dirlo, solo a Firenze, ma anche a Pisa il che consente a Dante la famosa invettiva per i figli del conte Ugolino della Gherardesca, ”Ahi Pisa…chè se il conte Ugolino aveva voce di aver tradito…non dovei tu i figliuoi porre a tal croce”( Inferno, canto trentesimo terzo, versi 79-87).

Ancora più triste della divisione delle popolazioni della città in partito è quella legata a persone o famiglie e la condanna di Dante è inesorabile e nella citazione di queste famiglie vediamo quei Montecchi e Cappelletti ( Capuleti ), che secoli dopo ispirarono la grande tragedia scespiriana, come pure è netta la condanna dei tiranni, di qualsiasi origine popolana o nobiliare, per cui l’appello dantesco è rivolto ad un potere superiore, al di sopra e al di fuori di queste divisioni, potere di cui all’epoca accusa la mancanza, e di cui ben tratteggia il suo carattere nei versi finali del canto sesto del Purgatorio, da leggere e meditare. E sempre netta è la sua posizione contraria al potere temporale dei Papi, risalente alla donazione originaria di Costantino, che all’epoca era ritenuta veritiera, mentre la sua falsità fu dimostrata secoli dopo, nel 1440, dall’umanista Lorenzo Valla ( 1405-1457 ), nella “ De falso credita et emanata Constantini donatione”. Di tutti questi mali risalenti alle tre belve incontrate all’inizio del cammino dantesco, e particolarmente alla lupa, la fine verrà con il “ Veltro, che la farà morir di doglia. Questi non ciberà terra né peltro,ma sapienza ed amore e virtute, e sua nazion sarà tra feltro e feltro “( Inferno, canto primo, versi 101-105).Questo è uno dei punti della “Divina Commedia” che più hanno dato motivo di diverse interpretazioni, da chi lo considerava una profezia od un auspicio o addirittura la figura di qualche contemporaneo e la vicenda si è trascinata fino al Risorgimento ed oltre, considerando Dante l’iniziatore di quella dietrologia che ci compiacciamo di vedere in tanti fatti ed eventi anche a noi più vicini. 
Credo che la lettura pacata di queste righe non abbia portato fin dall’inizio alla loro esatta interpretazione, che si celava nelle parole stesse del poema. Il veltro è qui un termine metaforico relativo ad un cane da inseguimento e da presa, che univa velocità e forza, adatto a combattere un altro animale, ma il fatto che non si ciberà di cose materiali, cioè non sarà avido di territori e di ricchezze, già di per sé esclude uomini d’arme per grandissimi che fossero, dovendo avere delle doti tutte spirituali ben difficili a trovarsi in condottieri. Forse potrebbero riferirsi ad un nuovo Salomone o Giustiniano, ma nemmeno loro sarebbero all’altezza. E poi il luogo di nascita, il feltro vorrebbe alludere al Montefeltro ? Le risposte negative ci sembrano ovvie. Eppure inserita tra feltro e feltro nasce qualcosa e chi conosce la fabbricazione della carta comprende l’importanza di questa pressatura. 
Allora il veltro è la “ Commedia” scritta appunto sulla carta ! Il grande poeta latino Orazio, che Dante incontra nel castello degli spiriti magni,nel Limbo, non aveva forse scritto che la sua poesia avrebbe sfidato il tempo, come poi effettivamente è stato, “exegi monumentum aere perennius” ed allora anche Dante è così superbo da ritenere la sua opera capace di tanto ? No, non è superbia, ma con serena coscienza, la convinzione di aver scritto qualcosa che supera i limiti dello spazio e del tempo, cioè: “il Poema Sacro al quale ha posto mano e cielo e terra.”(Paradiso, canto ventesimo quinto, versi 1-9 ).

Domenico Giglio

Il libro azzurro sul referendum - XVIII cap - 1


Interferenze estere coll'intervento di Molotoff

Parigi 15 giugno 1946

Intervento di Molotoff al Palazzo del Lussemburgo (1)
Molotoff dichiara: «I reazionari monarchici italiani non vogliono accettare il verdetto del popolo a favore della repubblica. La situazione si è tesa in seguito alle dimostrazioni monarchiche e filofasciste inscenate dopo che il popolo si era già pronunciato... Gli alleati non possono restare indifferenti di fronte al pericolo della guerra civile in Italia. Le nazioni firmatarie della dichiarazione di Mosca I° novembre 1943 e delle rivedute clausole armistiziali con l'Italia sono tenute a incoraggiare il governo democratico italiano... ». La richiesta di Molotoff fu inclusa nel programma dei lavori tre giorni prima della data imposta alla Corte di Cassazione per il verdetto.

(1) Da Storia segreta..., pag. 255-56

giovedì 26 marzo 2020

Una biblioteca e una stalla sono la mia salvezza


 di Emilio Del Bel Belluz 
Uno scrittore che non è molto ricordato, ma che ha abbellito il mondo della letteratura italiana, Francesco Grisi scrisse: “La parola “diario“ suscita l’immagine di un uomo che nel silenzio della sua casa scrive in un quaderno il quotidiano. Con la penna stilografica trascrive su pagine bianche rigate storie personali, pensieri, segreti, riflessioni e frammenti della vita. L’uomo nel diario si specchia. Con emozione rievoca anche con l’intenzione di intendere meglio la sua stagione. Ci sono amori, delusioni, proposte, intuizioni, amicizie e le “cose”. Quando l’uomo del diario è uno scrittore la questione si complica”. Ci sono tempi difficili che vanno vissuti con speranza e con fermezza. 
In questi giorni l’Italia, un Paese meraviglioso, deve fermarsi per combattere un nemico invisibile. Le nostre abitudini devono cambiare, cosa tutt’altro che facile. Il poeta Sandro Penna, in una sua poesia diceva: “Guardo dalla finestra io che la vita ho sempre amato”.
Ora molti italiani devono guardare dalla finestra la vita, devono stare in casa. Per questo il mio stile di vita si è modificato, da sempre la mattina mi recavo al bar per bere un caffè insieme a qualche amico e mi soffermavo con loro per scambiare quattro chiacchiere. Poi mi fermavo all’edicola a comprare i giornali, solitamente sono tra i primi. Aspettavo fuori dalla rivendita che arrivi il furgone con i giornali, un rito al quale non mancavo mai. Era un appuntamento che mi permetteva d’incontrare alcune persone e parlare con loro. Ora all’edicola ci vado mascherato come se dovessi fare una rapina ai tempi del Far West, compro i giornali e mi allontano velocemente con il bottino. 
Dopo il virus, incontro raramente qualcuno, diventando ancora di più straniero nella mia terra. Successivamente devo andare in un paese vicino, Rivarotta di Pasiano, dove posseggo una casa e un pezzo di terra che mi lasciò in eredità mio padre. Vicino alla casa ho una stalla con quattro asinelli, e la mattina vado a sfamarli e a pulirli. La stalla è come quelle di cent’ anni fa, non ho cambiato nulla. Gli animali in questo periodo hanno un ospite, è arrivata una gattina e ha preso alloggio nella stalla. La mattina ora mi attende, perché avendo aggiunto un posto a tavola, devo sfamarla. Non è la prima volta che ospito una gattina, una mattina trovai la sorpresa di alcuni piccoli che erano nati nella mangiatoia, e gli asini li avevano adottati. La natura in questo periodo è davvero bella, vicino alla stalla ho un piccolo bosco, dove gli alberi da frutto sono in fiore e mi fanno apprezzare la primavera che sta arrivando. 
Dopo il saluto alla natura e a quel piccolo mondo me ne torno a casa. Alle nove inizio la giornata di reclusione, Dalla finestra osservo il mio mondo come nel romanzo di Dino Buzzati - Il deserto dei Tartari -. Ora il nemico che bisogna espugnare è il virus che miete molte vite. Dalla finestra della mia casa di Motta di Livenza, in provincia di Treviso, come il tenente Giovanni Drogo, personaggio principale del romanzo di Buzzati, osservo e scruto. 
Vedo il mio capitello che ho fatto costruire dedicandolo alla Sacra Famiglia, con degli affreschi del pittore Antonio Lippi, che raffigurano la Madonna con bambino, e ai lati i due Santi, Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII. La giornata viene scandita da un ritmo di caserma. La solitudine di chi non può uscire viene addolcita dalla presenza di mia moglie e dei miei nipoti. 
Questi giovani sono costretti a starsene in casa, allora li accolgo nella mia biblioteca, e mi sono accordato con loro che ogni giorno li parlerò di uno scrittore. L’idea di questo spazio letterario è stata di mia nipote Mariagrazia, accolta anche dai fratelli Aurora e Umberto. Il primo scrittore di cui abbiamo parlato è Orio Vergani, una grande penna della letteratura italiana, tra poche settimane si ricorderanno i sessant’anni dalla sua morte. E’ stato uno scrittore prolifico, che pubblicò numerosi libri. Vergani scrisse alcune pagine su Carnera, il gigante buono, l’uomo più forte e più buono del mondo. Il giorno successivo ho raccontato loro la vita dello scrittore Federigo Tozzi, mostrando loro il libro a me caro che è il primo volume dell’opera completa di Tozzi, edito dalla Vallecchi. 
Questo libro “ Tre Croci“ ha nel suo interno l’autografo del figlio Glauco Tozzi del Marzo 1943” Questo libro lo acquistai da un antiquario. Il 21 marzo saranno trascorsi cent’ anni dalla nascita dello scrittore. Ieri ho parlato dello scrittore Tommaso Tommaseo Ponzetta, medico illustre, professore universitario e autore di numerosi libri, tra i quali, l’ultimo, Omaira, che racconta del grande amore di Goffredo Parise. Libro che ha riscosso un grande successo e permette di conoscere Parise ancora più da vicino. Ai miei nipoti ho presentato poi il volume “La carrozza del nonno”, sempre dello stesso autore, in cui si parla del tempo passato con uno scrivere che assomiglia a quello di Parise, l’ incantatore. Domani parlerò loro del Re Umberto II che morì in esilio, nonostante desiderasse immensamente chiudere i suoi occhi in Italia. Nel giorno dell’anniversario della sua morte, pianterò un albero come faccio in questa ricorrenza.
Aggiungerò profumo e bellezza nella terra dei miei padri, dove almeno gli alberi non temono di prendersi qualcosa.Quando i miei nipoti se ne vanno, rimango da solo nella mia biblioteca, il posto, dove il mio animo trova tranquillità e pace. Uno scrittore disse: “ La felicità più grande è quella di stare con i libri, e non sentire il desiderio di uscire. Davanti a me gli scaffali pieni di libri che mi sono stati vicini nei momenti della tempesta, quei momenti in cui ti pare che tutto debba finire. Libri come guardiani del tempo. 
Da quasi quarant’ anni scrivo un diario composto da un quaderno nero per ogni mese. Racconto quello che la vita mi offre, dei libri che ho letto, e delle persone che mi hanno donato emozioni. In questo tempo, ho raddoppiato le pagine che scrivo quotidianamente, e di quaderni ne riempirò almeno due. Lo scrittore Orhan Pamuk diceva: “ Perché non c’è nulla di sorprendente come la vita. Tranne lo scrivere. 
Lo scrivere. Sì, certo, tranne lo scrivere, l’unica consolazione che abbiamo”. Osservo uno dei miei scaffali, i quaderni neri che ho scritto sono allineati davanti a me, sono all’incirca trecento, sono la storia di una vita che tramonta, ma fino all’ultimo respiro, la mia stilografica continuerà a calcare quei fogli. “ Il destino di molti è dipeso dall’esserci o non esserci stata una biblioteca nella casa paterna” .
(Edmondo De Amicis ).


martedì 24 marzo 2020

Io difendo la Monarchia Cap IX - 2


Ben pochi speravano che i tedeschi si acconciassero - al nostro armistizio e filassero via per il nord lasciandoci tranquilli nella recuperata pace. Ma in sostanza quando si giunse al fatale otto settembre nulla o assai poco era stato predisposto dall'alto comando per fronteggiare il nuovo nemico. La guerra non era stata mai ben condotta perché non era sentita nel paese e non era sentita nell'esercito. Ma dopo il 25 luglio si verificò nel meccanismo delle Forze Armate qualche cosa di più di un arresto. Vi fu vera e propria frattura tra il passato e il presente. Tutti avvertirono che si andava avanti per forza d'inerzia. Nella svagata e convalescente atmosfera di quell'estate (tutti credevano di essere usciti da un incubo e di procedere verso tempi migliori mentre in realtà tutti precipitavamo verso un più profondo abisso) i soldati pensavano che la guerra era ormai finita e che era giunto il momento della distensione dopo tanti anni di esasperata tensione. Invece le prove più dure dovevano cominciare.

Cominciarono intanto gli anglo-americani a inasprire la guerra. Dopo pochi giorni di attesa e di riserbo, la voce di Londra cominciò a pronunciare aspri attacchi alla Monarchia accusandola di continuare la politica di Mussolini. Sin dall’agosto (appena due settimane dopo la caduta di Mussolini) nostri emissari entra­vano in contatto con diplomatici e ufficiali alleati ep­pure ciò non bastava.

Forse per mascherare le trattative, le polemiche radiofoniche anglo-americane divenivano più aspre. Si è affermato che gli italiani della radio lon­dinese o i vari Sprigge, esperti di cose italiane, insinuas­sero dei dubbi sulla linea di condotta del nostro Gover­no. Un giovane consultore della democrazia cristiana ha anche stampato che da esponenti del partito d'azione si richiese il bombardamento delle città per costringere il Governo a cedere e a seguire la volontà del paese. Verrà tempo in cui tutto ciò sarà chiarito e se questo delitto contro la Patria è stato compiuto esso non gioverà certo alla causa di quegli arrabbiati.

Per tutto il mese di ago­sto e ancora nella prima settimana di settembre sulle nostre più illustri città si abbatté la furia dei bombar­damenti nemici. Napoli, Torino, Cagliari, Genova, Ro­ma, Viterbo, Grosseto, Benevento, Foggia, Taranto Ter­ni, Bologna, Civitavecchia, Bolzano, Rimini, Capua, Ca­tanzaro, Frascati, Padova, Vicenza e Milano: tutte le nostre città furono colpite con bombardamenti indiscri­minati che uccisero diecine di migliaia di italiani senza nessuna necessità bellica. Erano, quei morti, dei cuori che speravano da alcune settimane che il loro martirio stesse per finire e fervidamente credevano nelle promesse di radio Londra pur mentre piovevano le bombe stermina­trici. La guerra ha visto molte cose tristi e inutili, ma nessuna più triste e più inutile dei bombardamenti delle città italiane nell'agosto del 1943. Il nostro Governo era più che deliberato, ansioso di uscire dalla guerra. 

Col­pendo in quel modo le nostre città e le nostre popolazioni gli anglo-americani non giovavano alla propria azione, ma all'azione tedesca perché essi indebolivano quell'Ita­lia che doveva combattere contro i tedeschi e non contro di loro. L’Italia non aveva mai subito tanto scempio nei secoli più oscuri e più dolorosi della sua storia. Eppure nella sua quasi generalità la popolazione italiana conservò l'odio per i tedeschi e la speranza e la fiducia ne­gli anglo-americani. L'Italia aveva la colpa di tenere ad­dosso «un larvato Governo fascista» secondo la radio di Londra che esaltava a metà d'agosto il buon lavoro compiuto due giorni innanzi sul centro di Milano con 2000 tonnellate di bombe che avevano mandato in ro­vina la Scala, Palazzo Marino e Palazzo Reale. 
E nes­suno rifletteva, né italiano, né inglese che quel Governo era già spiato e guardato a vista da nugoli di spie tede­sche e le divisioni corazzate germaniche scendevano ra­pidamente dal Brennero e tra poco, sorpresi e traditi in tutti gli angoli del territorio balcanico, e di Francia e d'Italia, centinaia di migliaia di soldati italiani avreb­bero" preso la via dei campi di concentramento e di ster­minio del Reich. Nessuno prevedeva che di li a poco nella sola isola di Cefalonia novemila soldati italiani sa­rebbero morti in 12 giorni di combattimento contro il tedesco, senza ricevere dai dominatori dell'aria e del mare, né un aeroplano, né una nave in loro soccorso. Ah, come doveva essere amara la prima lotta per la li­bertà. Erano i giorni in cui Fiorello La Guardia sermo­neggiava di repubblica e di monarchia in Italia e invitava a cacciare il coltello nella pancia dei soldati tede­schi. 
Non neghiamo gli errori del Governo Badoglio tra il 25 luglio e l'8 settembre, ma bisogna riconoscere che da tutti, all'interno e all'esterno, gli fu resa la vita ama­ra. I tedeschi lo consideravano il Governo del tradimento e preparavano il suo castigo; gli inglesi e gli americani un «larvato governo fascista »; i partiti italiani un Go­verno debole e indeciso che non poteva condurre la guer­ra, ma non poteva neppure fare la pace. Ma fare la pace o almeno l'armistizio il Governo voleva con tutta  la sua forza. E ad affrettare le sue decisioni, ad accogliere le richieste nemiche che ripetevano sempre più ru­demente l'intimazione di Casablanca (resa senza condi­zioni) lo sollecitavano tutti i partiti del Comitato di li­berazione.
È stato spesso notato che i Governi pagano i loro atti virtuosi a prezzo molto più caro dei loro misfatti. Così il trattamento riguardoso usato a Mussolini (in Ger­mania o in Russia si sarebbero sbarazzati di lui in modo molto sbrigativo) costò al Governo e alla Monarchia assai più di tutti gli errori veri o presunti.
Cominciò dunque Badoglio le trattative, né facili, né rapide per l'armistizio e non vi fu nessuno che disap­provasse il suo atto. Tutti anzi lo incoraggiavano ad af­frettare. Ma questo non dipendeva da lui. Perfino Mus­solini nell'esilio di Ponza diceva ai carabinieri: «occorre sganciarsi dai tedeschi al più presto possibile. Questa é la sola salvezza d'Italia» (1). Una volta iniziate le trat­tative il Governo del Re non era più padrone della scelta del tempo. Gli anglosassoni si riservavano di annunciare l'armistizio alla data per essi più opportuna. L'armisti­zio fu firmato il tre settembre in Sicilia. La data prescelta dal Comando alleato per annunciarlo fu quella dell'otto settembre.
Tra l'otto e il dieci settembre l'Italia poteva cacciare i tedeschi almeno fino alla linea gotica e guadagnare sul campo, prontamente il suo brevetto di eroina della libertà, il suo «biglietto di ritorno». Subì, invece, la più nera disfatta di tutta la guerra e fu calpestata e spo­gliata per circa due anni dall'invasore tedesco.
Poiché questo è avvenuto, è naturale che l'opinione pubblica cerchi un responsabile nel Governo in carica e al disopra del Governo nello stesso capo dello Stato. Se questo fosse il giudizio dell'uomo comune il quale vede la sua città e la sua casa invasa, il suo campo di­strutto, i suoi alberi tagliati, la stessa terra sua e dei suoi avi combusta (quella terra che — scriveva Alvaro in quei giorni — porta il pane e i frutti e l'olio e il vino, gli alimenti di questo popolo sobrio) se questo è il giu­dizio dell'uomo comune si potrebbe anche accettare. La responsabilità è come un fatum sospeso sul capo di chi sta più in alto di tutti e come tale ha tutti i poteri, tutti i diritti ma anche tutti i doveri. Ma così non è. Il giu­dizio negativo, amaro, gonfio d'ira e di rimprovero è di quella esigua minoranza che professava da anni l'odio all'istituto monarchico: gli insulti alla dinastia vengono da quei fuorusciti che già attesero dalla guerra etiopica l'imbottigliamento delle navi italiane nel mar Rosso; mi­gliaia di nostri marinai in fondo al mare, l'isolamento e la sconfitta della Patria. Essi vivevano all'estero alimen­tati dai fondi dell'antifascismo internazionale e sogna­vano la rovina del paese. Appena cessata, con loro scor­no quella folle speranza, essi: si lanciarono nella guerra di Spagna per sfogare contro i loro fratelli l'acre odio della guerra civile. Essi non erano per la Repubblica di Mazzini, ma per la Repubblica rossa di Azaña.

PAOLO MONELLI : Roma 1943, pag. 229.

Sonnambuli. Guardare oltre il “contagio”

Immagine, bellissima,  dell'Associazione Nazionale Carabinieri Chiaravalle


di Aldo A. Mola

Parole e fatti...
L'Italia non è “in guerra”. È alla prese con la diffusione di un virus, classificato “covid-19”, in costante mutazione, di ampia diffusione e a modo suo di normale letalità. Parlare di “stato di guerra” è un errore grave, evitato (al momento) dal Governo in carica ma usato a sproposito da altre “istituzioni”, che diffondono allarmi in un Paese di per sé emotivo, superstizioso, incline a informarsi sui “siti” anziché da fonti ufficiali, possibilmente attendibili. Le parole pesano. Parlare di “guerra” per un’emergenza sanitaria è mancanza di rispetto nei confronti della Guerra vera, quella che anche oggi viene combattuta in tanti Paesi dai confini artificiosi e labili. Gli italiani ricordano i bombardamenti su Sarajevo? Le centinaia di bombardieri in volo dal suo territorio per annientare vite a pochi chilometri dai suoi confini? Le stragi per motivi etnici e religiosi a due passi dall'ultima “apparizione della Madonna”?
Che cosa ha a che fare la “crisi” del covid-19 con la tragedia dell'Afghanistan, dell'Iraq, della Siria, del Vicino Oriente, della Libia? Guerra non significa essere costretti a stare in casa, in condizioni spesso insostenibili come oggi accade per milioni di italiani. Guerra vuol dire non sapere dove scappare dai bombardamenti, vedere le città sventrate, i villaggi più sperduti spazzati via in pochi minuti da missili e i loro abitanti annientati col napalm, mitragliati dall'alto mentre cercano scampo, feriti senza soccorsi, cadaveri insepolti. La fame. La disperazione. La Guerra è Guerra.
Evocarla a sproposito è errore grave, non solo linguistico ma di Filosofia della Storia e di Politica. Se un giorno mai vi fosse davvero bisogno di parlare di Guerra quale termine bisognerebbe usare?
La prima regola, dunque, è misurare le parole. Ogni parola rappresenta un fatto. Lo insegnò Tommaso d'Aquino ottocento anni orsono. Diversamente è vaniloquio, deformazione della realtà, inganno, sia voluto, sia per retorica vanesia.
Alzare al massimo il volume delle parole ottunde la sensibilità, fa perdere il contatto con la realtà. Inchioda al presente e fa scordare quanto è avvenuto il giorno prima. L'informazione non è succuba del chiasso, non canta dai balconi, non sventola bandiere, non sguinzaglia gabellieri e delatori a caccia di chi senza nuocere a nessuno prende il sole in perfetta solitudine, lontano dal frastuono di “grida” tardive emesse a singhiozzo. L'informazione non cerca consensi. Recupera le tessere disperse del mosaico quotidiano e ricompone la storia, giorno dopo giorno.
Usare termini sbagliati conduce a decisioni inspiegabili. Fra queste una rimane senza risposta: perché impedire ad abitanti non contagiati, non in quarantena e debitamente attrezzati di trasferirsi nelle seconde case (ovunque le abbiano) così allentando il sovraffollamento delle aree urbane?
A quanti parlano a vanvera di guerra vanno ricordati gli “sfollati” ai tempi della Guerra vera, che picchiava soprattutto sulle aree molto antropizzate e industriali.

Sonnambuli di ieri...
Quanto è avvenuto in questi mesi evoca, ma molto molto da lontano (si parva licet componere magnis, dicevano i Romani), l'inizio della Guerra dei Trent'anni cominciata tra fine luglio e i primi d’agosto del 1914. Imperatori, re, presidenti di repubbliche, capi di stato maggiore di terra e di mare, governi, scrittori, sociologi, giornalisti tuttologi, cronisti e poetucoli a noleggio (un tanto la quartina, come un famelico Vate, foraggiato dal proprietario-direttore di un famoso quotidiano milanese...) sapevano che le grandi potenze erano armate sino ai denti e ogni anno accrescevano la loro capacità distruttiva. Nulla di nuovo. “Sudate, o fochi, a preparar metalli” aveva scritto nel 1629 il giurista, diplomatico e poeta bolognese Claudio Achillini (1574-1640) per incoraggiare Luigi XIII di Francia a invadere la pianura padana. Era l'anno della Peste descritta da Manzoni nei Promessi sposi.
Malgrado il fervore guerrafondaio e la gara a chi varava corazzate più invulnerabili, produceva cannoni più rapidi e dalla gittata più lunga, mitragliatrici più micidiali, fucili più precisi e persino i primi velivoli, a inizio Novecento l'Europa era adagiata tra le piume della Belle Epoque: lusso, divertimenti, viaggi, alfabetizzazione accelerata delle masse, progresso in ogni aspetto della vita quotidiana, riscaldamento e illuminazione elettrica delle abitazioni, acqua corrente, igiene personale. Povero professore, celebre ma senza proventi d'autore, quando si trovò a ricevere in casa l'ambasciatore di Svezia, Carl Bildt, che gli annunciava il Premio Nobel, per non sfigurare Giosue Carducci affittò un paio di lampadari. Ne andava del decoro dell'Italia, che procedeva a piccoli passi. Più dell'attuale, svagata e smemorata, ignara di sé ma misteriosamente corriva a svacanzare nelle isole più remote.
In “1913. L'anno prima della tempesta” (ed. Marsilio) Florian Illies ha narrato giorno per giorno quell'“Europa in pace”, colta, gaudente e tuttavia inquieta. Nel dicembre Oswald Spengler avvertì che essa si stava spogliando “di tutto: civiltà, bellezza, colori”. Lo stesso mese David Herbert Lawrence, il cui “Figli e amanti” riscuoteva straripante successo, scrisse “La mia grande religione è la fede nel sangue, nella carne, in quanto più saggi dell'intelletto. Ciò che il nostro sangue sente, crede e dice è sempre vero”. Il sano razionale positivismo ottocentesco cedeva il passo allo “slancio vitale”, al volontarismo. La scienza a rigurgiti di misticismo. Matisse e Picasso cavalcavano insieme. I rimatori si ergevano a profeti, mentre veniva dimenticato l'ungherese Ignace Semmelweiss (1818-1865) passato per pazzo perché diceva ai chirurghi di lavare ben bene le mani prima durante e dopo gli interventi per scongiurare la setticemia. Anche in Italia spopolavano parolai come Mario Morasso e Filippo Tommaso Marinetti, inneggiante alla guerra, “sola igiene del mondo”.
La storia sembrava correre su binari sicuri. Ogni tanto una galleria, una guerra coloniale, completa di stragi efferate e di orrori, ma là, lontano, ai confini del mondo. L'“Illustrazione italiana”, rivista di bellezza editoriale inarrivabile, alternava immagini festose ad altre orripilanti. Così si pensava di esorcizzare il Male, di allontanare il “guerrone”, incubo di papa Pio X, come ha scritto il suo biografo Gianpaolo Romanato.
Ma quei costosi binari (accade anche oggi) a volte avevano scambi difettosi. Nel 1914, come negli esperimenti in uso nelle aule scolastiche di fisica e chimica, il “precipitato” si cristallizzò. Un mese dopo l'assassinio di Francesco Ferdinando d'Asburgo a Sarajevo il 28 giugno (né il primo né l'ultimo di una testa coronata o di un suo erede), gli Stati si arroccarono, i governi si minacciarono e in pochi giorni scattarono uno contro l'altro, anzi uno prima dell'altro, nel timore di perdere il vantaggio per vincere la “guerra lampo”. Gettarono nella conflagrazione tutta la propria capacità offensiva e difensiva. Malgrado decenni di retorica pacifista il sentimento dominante risultò l'odio. I “popoli” scoprirono di doversi odiare a vicenda, per motivi in massima parte ignoti alla maggioranza. Per combattersi a quel modo bisognava odiarsi. Una guerra infame, come scrisse Luigi Cadorna, massimo stratega europeo. Tra le migliaia di episodi spicca la leggendaria “battaglia dei morti viventi”: il centinaio di russi che il 6 agosto 1915, sopravvissuti alle bombe al cloro dei tedeschi, con ferite aperte appena bendate e sputando sangue e pezzi di polmone, travolsero 7000 nemici assedianti la fortezza di Osowiec.
Pochi uomini politici (fu il caso dell'italiano Giolitti) capirono che la guerra sarebbe durata anni e avrebbe risucchiato le risorse del Paese per almeno una generazione. Ma non furono compresi. Il socialista francese Jean Jaurès, contrario alla guerra contro la Germania non perché filotedesco o traditore della patria ma convinto che l'Europa potesse risolvere le tensioni antiche in una visione continentale dei problemi locali, fu assassinato. I dissenzienti vennero isolati come appestati. Romain Rolland si giocò la vasta e meritata popolarità perché non bruciò incensi a Marte e a Bellona.
Cent'anni dopo la storiografia ha fatto passi avanti nello studio della “catena di comando”, ma nessuno nella comprensione del conflitto che sconvolse irrimediabilmente l'Europa. L'opera più meditata rimane “I sonnambuli. Come l'Europa arrivò alla Grande Guerra” di Christopher Clark (ed. Laterza): una “non spiegazione”. La storia procede a zig-zag, sfugge di mano. Clio danza avvolta nei veli delle molteplici interpretazioni che disputano sulle “ragioni” delle sue venture.

...e di oggi
L'incertezza dinnanzi a quel passato, alle sue possibili cause e concause (Sidney Sonnino, che certo non era un'aquila, una volta mestamente abbozzò che forse tutto era dovuto al passaggio di una cometa: annunzio di pestilenze anziché di vera Luce o, si diceva, di Epifania) ha poco da spartire con la condotta dei governi odierni a cospetto della diffusione del Covid-19.
Travolti e sempre più infastiditi dalle misure restrittive delle loro libertà elementari imposte dai governi, i cittadini sono storditi. Motivo in più per fare sintesi degli eventi nella loro arida sequenza: la cronologia è l'attaccapanni della storia, che non è profezia del passato ma ricostruzione dei fatti nella loro successione. Il meno che si può dire a ricapitolazione della tempesta in corso è la constatazione della manifesta inettitudine mostrata dai governi dei principali Paesi europei dinnanzi alla prevedibilissima diffusione del contagio. Se le parole hanno un senso, alcuni di essi si sono condotti da “untori di Stato”. La storia dirà se e quanto lo abbiano fatto di proposito, per miope calcolo o per  colpevole inettitudine. O semplicemente nel timore dell'opposizione, che è sempre più vociante e temibile della “maggioranza borbottante” disposta ad assecondare provvedimenti razionali.
I fatti, comunque, sono sotto gli occhi. Ridotti all'osso, valgano quattro “casi di scuola”.
In Francia il presidente tuttofare Emmanuel Macron ha introdotto le prime modeste misure anti-contagio solo dopo aver fatto “celebrare” le elezioni amministrative nelle quali i suoi candidati di fiducia sono rimasti travolti. A epidemia conclamata ha rinviato il ballottaggio a data incerta. In un paese per mesi squassato dai “gilets gialli” Asterix tace. In Francia si ammalano e muoiono come in Italia, sino a poco prima irrisa dai “cugini d'Oltralpe” in modi arroganti e indecenti. Lì il governo tecnocratico ha mostrato tutte le sue rughe.
In Spagna il vanesio Sánchez ha caldeggiato la superflua festa dell'8 marzo quando ormai il contagio dilagava. Un esempio clamoroso di imprevidenza e cecità. Il vicepresidente, in quarantena, ha partecipato al consiglio dei ministri. L'imprevidenza del governo di Madrid è colpevole. 
In Gran Bretagna (che ormai non fa più parte dell'Unione Europea) Boris Johnson pensava di pascere a piacer suo le pecorelle inglesi, ma il gregge, poco rassegnato al buon pastore, dalla Scozia al Galles gli ha imposto misure non troppo lontane da quelle italo-franco-iberiche. L'“Inghilterra” è molto più fragile, anzi friabile, ora che deve fare da sé. Che cosa le rimane aldilà della Regina e del Consorte Filippo di Edimburgo non proprio adolescenti?
La Germania rimane un caso a sé: uncinata non solo dai neonazisti ma dalla frammentazione dei suoi poteri e dal manifesto declino di Angela Merkel a due mesi dall'inizio del contagio non sta prendendo misure adeguate.
A sua volta, con delusione dei suoi ammiratori nostrani, il presidente degli USA Donald Trump sul coronavirus in pochi giorni ha detto tutto e il contrario di tutto, quasi ventriloquo di uno dei tanti siti che lo imputano a un complotto di Spectre (manca solo Licio Gelli) per allontanare da sé l'addebito più ovvio: è un sonnambulo, come Macron, Sánchez e i tanti altri che, a contagio ormai conclamato, o non hanno preso precauzioni personali o non ne hanno imposte ai propri “vicini”. È il caso di Alberto II di Monaco, “positivo” giorni dopo che il morbo aveva contagiato il suo primo ministro, il vescovo e altri molti in uno “stato” che sembra fatto apposta per la propagazione vertiginosa di un qualunque raffreddore.

L'Italia s’è desta?
L'Italia, per ora, è un caso a sé. Allertata per prima nell'Europa centro-occidentale dall'evidenza di malati, ha fatto e fa i conti con la sproporzione tra la sua volontà di circoscrivere la diffusione del contagio e la modestia dei mezzi disponibili anche in regioni che vantavano primati indiscutibili. Il mancato tempestivo approvvigionamento di “mascherine” lascia sconcertati. Virologi a parte, non era difficile intuirne l'urgenza e la quantità necessaria.
Senza nulla togliere ai meriti del governo, due constatazioni s’impongono. Il potere politico si è affidato “toto corde” alla scienza, ma questa non si è mostrata affatto unanime, né nell'analisi né nella terapia. Gli sforzi si sono concentrati sulla prima linea, ma con mezzi inadeguati, confidando che la tempesta presto sarebbe mutata in acquazzone e poi in pioggerellina di marzo. Di lì la propensione, ancora perdurante, a provvedimenti circoscritti nello spazio e nel tempo, “salvo intese”, cioè con la riserva di proroghe, senza indicazione attendibile del futuro superamento dell'“emergenza”. Assillato dall'opposizione e dai “sondaggi” il governo si è occupato più della trincea avanzata (vulnerabile, come sempre accade a chi sta in prima linea) che delle seconde e terze linee e della grande riserva: la pazienza degli italiani. Anche questo è un motivo ulteriore per evitare di parlare di “guerra”. Quando proprio si è spossati, per uscire da un conflitto al nemico si chiede un armistizio. Ma non lo si può chiedere al covid-19, che non fa indice conferenze stampa. Com’è venuto, se ne andrà. Come e quando non si sa.
La frontiera è la guarigione. Potere politico e scienza sono impegnati a raggiungerla. Vi sono però “terreni” che vanno governati con polso e con chiarezza: il rapporto fiduciario tra cittadini e amministrazione delle città e il sistema scolastico-educativo. L'osservanza dei Decreti del presidente del Consiglio dei ministri non può essere abbandonata all'arbitrio di “poteri” locali e dei loro “agenti” se non rischiando di infrangere il già vacillante rapporto di fiducia dei cittadini verso certe “autorità” e di scatenare i peggiori istinti di rivolta contro irruzioni pretestuose nella loro innocua quotidianità. Occorrono precisazioni ulteriori, ferme, precise e valide erga omnes (“agenti” inclusi) da parte dell'Esecutivo, nell'incalzare della “bella stagione” e nella notoria inadeguatezza della capacità abitativa nazionale ai bisogni elementari dei suoi utenti.
Quanto al sistema scolastico, tutto si può fare tranne che dare l'anno per concluso e valido con una “promozione” generalizzata senza alcuna verifica dell’effettiva trasmissione del sapere. Tanto vale dichiarare l'inutilità dell'istruzione pubblica e dei suoi diplomi. Aveva dunque ragione Luigi Einaudi a chiedere l'abolizione del valore legale dei titoli di studio. In settantacinque anni la Repubblica non gli ha dato retta. Ci voleva ora il covid-19 per dimostrare che egli era nel giusto?
Altrove il combinato disposto potere-scienza ha dato segni manifesti di sonnambulismo. Nel Paese Italia, che al momento si è mosso molto meglio degli altri, è il momento di abbassare i toni e di assumere misure accettabili e di lungo periodo: di ritrovare quel “senso dello Stato” che da troppo tempo si è perso a beneficio dei “sondaggi”, della ricerca di consensi. Il Governo di un grande Paese non cerca applausi. Non imita “il medico pietoso” che “fa la piaga cancrenosa” . La cura. E così avrà la gratitudine dei posteri.
Aldo A. Mola



lunedì 23 marzo 2020

23 Marzo, una visita a Palazzo Bellini, Novara


La Storia d'Italia, quella con la “S” maiuscola è passata a Novara. 

Il 23 Marzo del 1849 dopo la sconfitta delle truppe Sardo – Piemontesi alla battaglia della Bicocca il Re Carlo Alberto abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele per assumere solo su di sé il peso della sconfitta e fare in modo che al nuovo giovane Re fossero applicate condizioni meno dure.

Il trapasso dei poteri avvenne in Novara, a Palazzo Bellini, ove il Re pronunziò le famose parole: “Casa Savoia conosce la via dell’esilio non quella del disonore”.

E dove pronunciò le parole che fecero del figlio un Re. Il Re che compì l’Unità d’Italia.

Qualche tempo fa abbiamo compiuto un’interessante visita a Palazzo Bellini, attualmente sede centrale della Banca popolare di Novara. Uno svarione del cicerone, contestato con garbo, non ha menomato l’importanza della visita.

Ne riportiamo un piccolo resoconto fotografico sicuri di mostrare un luogo che non ha facilissimo accesso e di illuminare un po’ della nostra Storia, colpevolmente dimenticata.


Lato Nord, con lapide commemorativa.



Il testo della lapide


Lato est, la tradizione vuole che il Re Carlo Alberto abbia pronunciato le parole dell'abdicazione appoggiato al camino con su lo specchio.


Lato ovest, con ritratto di Re Vittorio Emanuele II 

Lato sud, com ritratto di Re Catlo Alberto

Particolare della lapide

Particolare della lapide

domenica 22 marzo 2020

Padre Savino Tamanza




In questo momento di dura prova per il popolo italiano il Signore ha voluto chiamare a Sé l’anima bella di Don Savino Tamanza, sacerdote, parroco, che aveva contratto il morbo per non aver rinunciato a portare i conforti religiosi alla sua gente di Bergamo, come il Fra’ Crisotoforo di Manzoni.


Padre Savino era stato nel Fronte Monarchico Giovanile prima di abbracciare la Tonaca ed era membro attivo del nostro gruppo su Facebook.

Il Santo Curato d’Ars diceva che i sacerdoti quando muoiono portano con loro tante anime, ovunque vadano.
Non abbiamo dubbi che don Savino si sia presentato al tribunale del Signore con una ricca messe di anime da lui salvate.

Potremo vantarci, grazie a Don Savino, di avere avuto un santo tra noi.

Dal Paradiso, caro don Savino, intercedi per noi e per l’Italia.