NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 2 marzo 2020

Nacque per l'incubo del colera la prima legge sanitaria d'Italia (1888)


di Aldo A. Mola

L'Italia: Stato giovane, particolarismi arcaici. 
Mentre ferve la sterile disputa di amministrazioni locali nei confronti della strategia messa a punto dal governo per arginare il contagio del Covid-19 giova ricordare gli albori della medicina sociale in uno Stato recente qual è l'Italia. Il Paese ha raggiunto l'unità politico-amministrativa solo nel 1861, o meglio nel 1870, quando anche Roma fu annessa e si riconobbe nel Regno, o ancora più esattamente nel 1918-1924, con Trento, Trieste e Fiume (senza plebiscito confermativo). L'unificazione fu voluta da una ristretta minoranza di illuminati duramente osteggiata da potenze estere e da opachi potentati interni, sorretti da interessi particolari, pronti a valersi di pregiudizi arcaici e di superstizioni spacciate per spiritualità. La Costituzione del 1948, nelle sue parti migliori ricalcante lo Statuto Albertino del 1848, nel Titolo V (regioni, province, comuni) è stata disfatta per calcoli politico-elettorali le cui conseguenze si pagano e si pagheranno. Mentre sono ormai del tutto immotivate le dispendiosissime “Regioni a statuto speciale”, da abolire prima possibile, va ricordato che quelle a statuto ordinario furono istituite mezzo secolo fa e, come previsto, divennero e sono fomite di sperpero di pubblico danaro con danno gravissimo per lo Stato, cioè per i cittadini perché, come insegnavano i liberali di una volta (pochi ma buoni), è sulle loro spalle che si scarica il debito pubblico in tutte le sue varianti e per molte generazioni. Poiché sono ormai migliaia i Comuni prossimi al fallimento e i debiti delle Regioni (sia a statuto speciale, sia ordinarie) sono stratosferici, vanno rimpiante le Province, enti tradizionalmente parsimoniosi oggi ridotti a uccelli impagliati da una delle tante sconsiderate “riforme a mezz'asta” varate senza memoria storica né visione di lungo periodo. I “capricci” si scontano, come avverrà con la riduzione dei parlamentari, colpo di grazia sull'ormai evanescente rapporto di fiducia tra cittadini e loro rappresentanti sino al 1913 votati per libera scelta. Quanto ora avviene in presenza della febbre virale che attanaglia l'Amministrazione pubblica, la vita quotidiana, l'economia e le suggestioni di massa, merita rievocare quando, come e perché lo Stato si dette la prima legge sanitaria: necessaria proprio per colmare le immense lacune degli Stati pre-unitari e fare dell'Italia un Paese moderno.
 

Quando il cholera morbus nel 1884 dette la sveglia 
Centotrentasei anni orsono fu l'ennesima devastante epidemia di cholera morbus ad aprire gli occhi a chi ancora non voleva vedere per non capire e non rimediare. Era l'Italia unita da un quarto di secolo.
Milleottocentoottantaquattro. L'anno si aprì con il “pellegrinaggio nazionale” alle spoglie di Vittorio Emanuele II  morto il 9 gennaio 1978, traslate all'interno del Pantheon nella tomba in cui ancor oggi riposa il Padre della Patria. Vent'anni dopo il trasferimento della capitale da Torino a Firenze (1864-1865) e poi a Roma (1870-1871) nel capoluogo piemontese fervevano i preparativi dell'Esposizione Nazionale inaugurata il 2 aprile dal Re, presenti la Corte, il presidente del Consiglio Agostino Depretis e gli alti dignitari dello Stato. Su un paese complessivamente tranquillo e operoso calò improvvisa la falce della Grande Visitatrice. Tra fine giugno e inizio luglio a Saluzzo, nel Cuneese, due operai risultarono affetti dal “vibrio cholerae”. Vi erano appena arrivati da Tolone, in Francia, ove la temibile epidemia approdata dall'Africa aveva iniziato a diffondersi e a fare strage. L'Italia conviveva con malattie endemiche favorite da denutrizione e malnutrizione (pellagra, malaria...), con le ricorrenti febbri influenzali e peggio: polmoniti, pleuriti, tubercolosi. Le statistiche dicevano che ogni anno nasceva circa un milione di bambini (più del doppio di quanti oggi vi vengano al mondo) ma appena la metà arrivava al 15° anno di vita. La vita media si fermava a 35 anni.
Nel 1884 per la quinta volta dall'inizio dell'Ottocento il colera tornò a imperversare nel bacino mediterraneo e a colpire dapprima i paesi rivieraschi, poi quelli interni. Presente in Italia dal 1832, la stessa epidemia era divampata con conseguenze particolarmente gravi nel 1835-37, 1854-55 e nel 1856-67, quando causò almeno 160.000 morti, bloccando per un anno il normale incremento demografico. Proprio nel 1883 il batteriologo e microbiologo tedesco Robert Koch (1843-1910) isolò in Egitto il vibrione del colera: ma i rimedi rimasero di là da venire.  
Nel 1884 le misure profilattiche si rivelarono inadeguate. In poche settimane dal Piemonte il vibrione  svalicò in Liguria, raggiunse Livorno e in breve arrivò in Sicilia. Napoli risultò la città più colpita. Accompagnato da Depretis, dal siciliano Francesco Crispi e dal calabrese Giovanni Nicotera il 29 settembre Umberto I, il “Re Buono”, visitò i colerosi ammassati nel Lazzaretto della città partenopea, che lamentò quasi 8.000 morti contro i 1500 di Genova e i 1650 del Cuneese. Era arrivato il momento di mettere a frutto il magistero di Max von Pettenkofer: le epidemie non sono una punizione celeste. Dilagano negli ambienti malsani. Lo si sapeva da quando il cholera morbus aveva fatto la sua prima irruzione in Europa partendo dalle rive del Gange e dalla fetida Calcutta.
La dura lezione dei fatti era stata bene appresa da Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino (Parigi, 1803-1857, figlio di Luciano, fratello e suggeritore politico di Napoleone il Grande), ideatore e stratega dei Congressi degli scienziati italiani che dal 1839, cioè all'indomani dell'epidemia, misero a punto progetti per arginarne nuove possibili ondate con metodi innovativi. Barriere confinarie, quarantene e suffumigi erano insufficienti in un Paese che all'epoca contava otto diversi Stati e una miriade di cinte tra centri urbani, frazioni e campagne. Meno ancora servivano l'esposizione delle reliquie e delle statue dei santi patroni, i pellegrinaggi, le prediche che spesso deragliavano nella insinuazione di colpevoli del tutto fantasiosi: eretici, ebrei, massoni...
I Congressi (a Pisa, Torino, Firenze, Padova, Lucca, Milano, Napoli, Genova e Venezia: significativamente tre volte in Toscana, due nel regno di Sardegna e nel Lombardo-Veneto, una sola nelle Due Sicilie, mai nello Stato pontificio) gettarono le basi morali dell'unificazione italiana, come subito intuì il piemontese Clemente Solaro della Margarita, reazionario avveduto: gli scienziati si “affratellarono” e “si prepararono a travagliar concordi per essere tutti uniti dalle Alpi al Faro per il gran giorno del sospirato risorgimento”. In effetti, in corrispondenza con le menti più illuminate d'Europa, essi cospiravano alla luce del sole. Come Kohelet nell'“Ecclesiaste” si interrogavano su rapporti e distanze tra sapienza e scienza, tra scienza e insipienza, tra sapienza e politica quale arte di governo, missione suprema secondo la tradizione greco-romana da Platone e Aristotele a Cicerone. Il Potere non è il Male. “Ogni cosa ha il suo momento. Tempo di nascere e tempo di morire...”. Lo si aveva chiaro dalla stagione degli Illuministi. Anzi, se bene ispirato, il Potere è l'acceleratore dell'incivilimento, della moralità fondata sulla ragione anziché sulla superstizione, su catechismi imparaticci. Etica non vuol dire sopruso.
La debolezza del Trasformismo
Dimissionario proprio alla vigilia dell'Esposizione di Torino, il 30 marzo 1884 Depretis varò il nono governo da quando il 25 marzo 1876 la Sinistra democratica aveva sostituito la Destra storica. La sua rimase una compagine debole. La Giovane Sinistra di Francesco De Sanctis e di antichi mazzinian-garibaldini come Giosue Carducci  (eletto deputato a Lugo di Romagna nel 1876 e nuovamente candidato perdente a Pisa nel 1886) rifiutava l'appello lanciato da Depretis a “collaborare” per “trasformare” il Paese. “Trasformismo” divenne sinonimo di compromesso al ribasso, anticamera della corruzione. “Trasformista” fu (e rimane) un insulto in un Paese che non aveva “partiti” e che da quando ne ha ha registrato il continuo via-vai da una all'altra parte. Avvolti nei panni di nobili ideali, tanti “progressisti” si sottrassero all'invito di Depretis, pertanto tentato da taciti accordi con la Santa Sede per ampliare le basi del consenso dopo l'incremento degli elettori da 600.000 a quasi tre milioni.
Fra le vittime della perdurante incertezza di indirizzo politico vi fu il varo di una legge sanitaria, cocciutamente ostacolata da interessi locali e particolari (avrebbe comportato nuova disciplina delle farmacie, feudi più immarcescibili del Sacro romano impero). Dopo il codice sanitario varato dal governo presieduto da Giovanni Lanza  (dicembre 1870) e logoranti discussioni nei due rami del Parlamento, la svolta arrivò con l'ascesa di Crispi a presidente del Consiglio in successione a Depretis (7 agosto 1887). Già ministro degli Esteri e dell'Interno, egli impresse l'acceleratore. La via era indicata dalla gigantesca “Inchiesta sulle classi agrarie” presieduta dal moderato Stefano Jacini ma pilotata dal medico garibaldino Agostino Bertani, radicale. Ne era emerso il quadro agghiacciante di un Paese dalle condizioni igienico-sanitarie spaventose, già descritte dalla Società italiana di igiene fondata nel 1879 e animata da Jacob Moleschott, Corrado Tommasi Crudeli, Guido Baccelli, Nicola Badaloni, Antonio Cardarelli e altri, anche massoni come Mario Panizza secondo il quale i “fratelli” sono i “templari della democrazia”.
Il disegno della legge sanitaria (soli 62 articoli) fu incardinato in Senato il 22 novembre 1887. La sua discussione iniziò il 15 marzo 1888. Illustrato dal celebre Stanislao Cannizzaro fu approvato il 1 maggio con 53 “si” contro 21 “no”. Nel corso del dibattito Gacinto Pacchiotti raccomandò l'insegnamento dell'igiene. Gerolamo Boccardo deplorò la costruzione di ospedali monumentali anziché funzionali e raccomandò che venissero edificati in sedi agevolmente accessibili per il personale sanitario e per i malati, che all'epoca si muovevano a piedi o su carri. Il 15 maggio il testo passò alla Camera. Dopo un dibattito di tenore elevatissimo fu approvato con 145 “si” e 59 “no”. Divenne la legge 22 dicembre 1888,n. 5849. Nel corso della discussione, Cardarelli si schierò nettamente a favore del primato dello Stato sulle amministrazioni locali, spesso prive di persone competenti nei ruoli di responsabilità suprema, sindaci e presidenti di provincia inclusi.
… e il suo “profeta”: Luigi Pagliani
Il demiurgo della legge sanitaria fu Luigi Pagliani. Oggi pressoché dimenticato, merita qualche parola di ricordo. Nacque a Genola (Cuneo) il 25 ottobre 1847. Suo padre, medico condotto, fu sindaco del piccolo comune allo snodo stradale e ferroviario della linea Savigliano-Cuneo/ Fossano/Mondovì. Studente in medicina e chirurgia a Torino, condivise una modesta soffitta con il futuro fisiologo e archeologo Angelo Mosso, promotore della formazione degli insegnanti di educazione fisica, in specie femminile. Libero docente di igiene a 30 anni e ordinario a 40, nel 1878 Pagliani creò il primo laboratorio di igiene in Italia. Incaricato di studiare genesi e conseguenze dell'epidemia colerica del 1884, richiamò l'attenzione sull'urgenza del risanamento urbano. Bisognava abbattere antiche cinte murarie: aria, luce, pulizia e soprattutto acqua potabile, rete fognaria, controllo dell'ambiente da parte di personale scientificamente preparato in tutti i comuni, grandi o piccoli fossero, perché malattie endemiche e, peggio, le epidemiche non si fermano all'alt dei vigili urbani o di militari mandati a vigilare sulle zone “infette”.
Il 1° gennaio 1889 Crispi istituì la Direzione generale della sanità pubblica nell'ambito del Ministero dell'Interno e gliela affidò. Pagliani si misurò con un ampio ventaglio di problematiche e di responsabilità connesse. Operò nel clima tipico dei medici umanisti dell'epoca, che condividevano l'entusiasmo di “Fare l'Italia”: patrioti cresciuti nel solco di Michele Lessona.
I capisaldi della legge sanitaria furono l'istituzione del Consiglio superiore della sanità, dei consigli provinciali medici e veterinari, coordinati dai medici e dai veterinari provinciali, la elevazione dei medici condotti a ufficiali sanitari decorosamente remunerati e liberi da condizionamenti dei sindaci, l'obbligo della denuncia di malattie contagiose, la vaccinazione obbligatoria, la certificazione dell'abitabilità delle costruzioni, nuove norme sulla sepoltura. Tutte norme sagge e tuttora vigenti.
Come Angelo Mosso, anche Pagliani promosse la cremazione dei cadaveri che all'epoca la chiesa cattolica considerava aberrante e deprecava. Erano passati pochi anni da quando Giuseppe Garibaldi, “primo massone d'Italia”, era stato sepolto a Caprera sotto pesante masso in violazione della sua richiesta di essere arso con la “pira omerica” poi evocata da Carducci. Pagliani aveva orizzonti e vastissimi. La lotta per il risanamento dell'igiene pubblica passava anche quella contro la prostituzione femminile, il controllo sanitario delle “case di tolleranza”, il miglioramento dei reparti di maternità e infanzia (meglio se con cliniche apposite), le cause ambientali e lavorative che spesso causavano malattie, in specie la tubercolosi. Si occupò inoltre di urbanistica sociale, promozione delle case popolari e di bagni pubblici comunali, di primaria importanza quando, in carenza di pozzi bianchi e neri, essi erano risorsa indispensabile per quanti dai borghi rurali affluivano nei centri maggiori per i mercati settimanali e ne profittavano “una tantum” per una bella lavata. Quella era l'Italia ben nota a chi, nato a Genola e cresciuto fra Torino e Roma, ne conosceva ogni lembo di persona o attraverso i questionari inviati obbligatoriamente dai sindaci al ministero dell'Interno. Già autore di opere apprezzate anche all'estero, Pagliani sapeva bene che la maggior parte degli amministratori locali non era all'altezza del suo compito. In migliaia di comuni non vi era alcun servizio di nettezza urbana. L'immondizia veniva raccolta e bruciata in cortili. In quasi 1300 non vi era neppure una latrina. Ben 6404 comuni non avevano rete fognaria. Perciò le statistiche lamentavano la diffusione di pustole, scabbia, morva, tigna,...sino al terribile carbonchio. A garanzia dei cittadini, la legge Crispi-Pagliani istituì ispezioni sanitarie alle quali i sindaci non si potevano opporre. Certo essa non fece miracoli da un anno all'altro: fu “un programma”, come la legge voluta dal deputato di Alba, Michele Coppino, che il 17 luglio 1877 decretò obbligatoria e gratuita l'istruzione elementare in un Paese che contava il 70% e più di analfabeti in molte regioni, sopratutto della “Borbonia Felix” da taluno ancor oggi stolidamente rimpianta.
Post fata resurgo...
Da alcuni “storici” Crispi è stato ritratto come “dittatore”. Nella sua più corposa biografia, Christopher Duggan manco cita Pagliani. Le grandi riforme varate dai suoi governi erano “di destra” o “di sinistra” o semplicemente indispensabili per traghettare l'Italia verso la modernità? Da tanta parte del clero, che alla legge sanitaria nazionale opponeva medici “cattolici”, quasi vibrioni e batteri abbiano una confessione religiosa, Crispi fu dipinto quale un satanasso, anche perché era massone notorio, come Carducci e Adriano Lemmi. E ancora non si sapeva che l'11 gennaio 1889, poco dopo l'insediamento alla Direzione generale della sanità, anche Pagliani fu iniziato massone nella loggia “Rienzi” di Roma (Grande Oriente d'Italia, matricola 8.193).
Dopo la caduta di Crispi (marzo 1896), il suo conterraneo Antonio Starrabba di Rudinì ne cancellò le riforme: eliminò la Scuola di igiene, trasferì il servizio di veterinaria al ministero dell'Agricoltura, azzerò la Direzione generale della sanità e ne cacciò il direttore. Pagliani tornò a Torino. Sino al 1913 fu preside della Facoltà di medicina (bastione di scienza all'avanguardia in Europa), fondò riviste, pubblicò il fondamentale “Trattato di igiene e sanità pubblica”, promosse innumerevoli iniziative culturali e filantropiche nel solco del “fratello” Tommaso Villa e, consigliere comunale dal 1906 al 1919, ebbe la stima del sindaco Teofilo Rossi di Montelera, di Antonio Carle e di Giolitti. Pagliani era l'emblema dell'Italia civile: niente retorica, molti fatti, visione alta dello Stato, dell'impegno patriottico ed educativo. Morì a Torino il 4 giugno 1932. L'urna con le sue ceneri veglia la Sala del Commiato nel Tempio crematorio che funzionò anche negli anni del regime incardinato sulla Conciliazione dell'11 febbraio 1929. Il suo magistero non andò affatto perduto. Lo evocarono ripetutamente Achille Mario Dogliotti e Giorgio Cavallo, che ne continuarono la Grande Opera. La loro lezione rimane attualissima nell'Italia europea.

Aldo A. Mola 
 

      
  

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