L'Italia: Stato giovane, particolarismi
arcaici.
Mentre ferve la sterile disputa di
amministrazioni locali nei confronti della strategia messa a punto dal governo
per arginare il contagio del Covid-19 giova ricordare gli albori della medicina
sociale in uno Stato recente qual è l'Italia. Il Paese ha raggiunto l'unità
politico-amministrativa solo nel 1861, o meglio nel 1870, quando anche Roma fu
annessa e si riconobbe nel Regno, o ancora più esattamente nel 1918-1924, con
Trento, Trieste e Fiume (senza plebiscito confermativo). L'unificazione fu
voluta da una ristretta minoranza di illuminati duramente osteggiata da potenze
estere e da opachi potentati interni, sorretti da interessi particolari, pronti
a valersi di pregiudizi arcaici e di superstizioni spacciate per spiritualità.
La Costituzione del 1948, nelle sue parti migliori ricalcante lo Statuto
Albertino del 1848, nel Titolo V (regioni, province, comuni) è stata disfatta
per calcoli politico-elettorali le cui conseguenze si pagano e si pagheranno.
Mentre sono ormai del tutto immotivate le dispendiosissime “Regioni a statuto
speciale”, da abolire prima possibile, va ricordato che quelle a statuto
ordinario furono istituite mezzo secolo fa e, come previsto, divennero e sono
fomite di sperpero di pubblico danaro con danno gravissimo per lo Stato, cioè
per i cittadini perché, come insegnavano i liberali di una volta (pochi ma
buoni), è sulle loro spalle che si scarica il debito pubblico in tutte le sue
varianti e per molte generazioni. Poiché sono ormai migliaia i Comuni prossimi
al fallimento e i debiti delle Regioni (sia a statuto speciale, sia ordinarie)
sono stratosferici, vanno rimpiante le Province, enti tradizionalmente
parsimoniosi oggi ridotti a uccelli impagliati da una delle tante sconsiderate
“riforme a mezz'asta” varate senza memoria storica né visione di lungo periodo.
I “capricci” si scontano, come avverrà con la riduzione dei parlamentari, colpo
di grazia sull'ormai evanescente rapporto di fiducia tra cittadini e loro
rappresentanti sino al 1913 votati per libera scelta. Quanto ora avviene in
presenza della febbre virale che attanaglia l'Amministrazione pubblica, la vita
quotidiana, l'economia e le suggestioni di massa, merita rievocare quando, come
e perché lo Stato si dette la prima legge sanitaria: necessaria proprio per
colmare le immense lacune degli Stati pre-unitari e fare dell'Italia un Paese
moderno.
Quando il cholera morbus nel 1884 dette la
sveglia
Centotrentasei anni orsono fu l'ennesima
devastante epidemia di cholera morbus ad aprire gli occhi a chi ancora non
voleva vedere per non capire e non rimediare. Era l'Italia unita da un quarto
di secolo.
Milleottocentoottantaquattro. L'anno si aprì
con il “pellegrinaggio nazionale” alle spoglie di Vittorio Emanuele II morto il 9 gennaio 1978, traslate all'interno
del Pantheon nella tomba in cui ancor oggi riposa il Padre della Patria.
Vent'anni dopo il trasferimento della capitale da Torino a Firenze (1864-1865)
e poi a Roma (1870-1871) nel capoluogo piemontese fervevano i preparativi
dell'Esposizione Nazionale inaugurata il 2 aprile dal Re, presenti la Corte, il
presidente del Consiglio Agostino Depretis e gli alti dignitari dello Stato. Su
un paese complessivamente tranquillo e operoso calò improvvisa la falce della
Grande Visitatrice. Tra fine giugno e inizio luglio a Saluzzo, nel Cuneese, due
operai risultarono affetti dal “vibrio cholerae”. Vi erano appena arrivati da
Tolone, in Francia, ove la temibile epidemia approdata dall'Africa aveva
iniziato a diffondersi e a fare strage. L'Italia conviveva con malattie
endemiche favorite da denutrizione e malnutrizione (pellagra, malaria...), con
le ricorrenti febbri influenzali e peggio: polmoniti, pleuriti, tubercolosi. Le
statistiche dicevano che ogni anno nasceva circa un milione di bambini (più del
doppio di quanti oggi vi vengano al mondo) ma appena la metà arrivava al 15°
anno di vita. La vita media si fermava a 35 anni.
Nel 1884 per la quinta volta dall'inizio
dell'Ottocento il colera tornò a imperversare nel bacino mediterraneo e a
colpire dapprima i paesi rivieraschi, poi quelli interni. Presente in Italia
dal 1832, la stessa epidemia era divampata con conseguenze particolarmente
gravi nel 1835-37, 1854-55 e nel 1856-67, quando causò almeno 160.000 morti,
bloccando per un anno il normale incremento demografico. Proprio nel 1883 il
batteriologo e microbiologo tedesco Robert Koch (1843-1910) isolò in Egitto il
vibrione del colera: ma i rimedi rimasero di là da venire.
Nel 1884 le misure profilattiche si rivelarono
inadeguate. In poche settimane dal Piemonte il vibrione svalicò in Liguria, raggiunse Livorno e in breve
arrivò in Sicilia. Napoli risultò la città più colpita. Accompagnato da
Depretis, dal siciliano Francesco Crispi e dal calabrese Giovanni Nicotera il
29 settembre Umberto I, il “Re Buono”, visitò i colerosi ammassati nel
Lazzaretto della città partenopea, che lamentò quasi 8.000 morti contro i 1500
di Genova e i 1650 del Cuneese. Era arrivato il momento di mettere a frutto il
magistero di Max von Pettenkofer: le epidemie non sono una punizione celeste.
Dilagano negli ambienti malsani. Lo si sapeva da quando il cholera morbus aveva
fatto la sua prima irruzione in Europa partendo dalle rive del Gange e dalla
fetida Calcutta.
La dura lezione dei fatti era stata bene
appresa da Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino (Parigi, 1803-1857,
figlio di Luciano, fratello e suggeritore politico di Napoleone il Grande),
ideatore e stratega dei Congressi degli scienziati italiani che dal 1839, cioè
all'indomani dell'epidemia, misero a punto progetti per arginarne nuove
possibili ondate con metodi innovativi. Barriere confinarie, quarantene e
suffumigi erano insufficienti in un Paese che all'epoca contava otto diversi
Stati e una miriade di cinte tra centri urbani, frazioni e campagne. Meno
ancora servivano l'esposizione delle reliquie e delle statue dei santi patroni,
i pellegrinaggi, le prediche che spesso deragliavano nella insinuazione di
colpevoli del tutto fantasiosi: eretici, ebrei, massoni...
I Congressi (a Pisa, Torino, Firenze, Padova,
Lucca, Milano, Napoli, Genova e Venezia: significativamente tre volte in
Toscana, due nel regno di Sardegna e nel Lombardo-Veneto, una sola nelle Due
Sicilie, mai nello Stato pontificio) gettarono le basi morali dell'unificazione
italiana, come subito intuì il piemontese Clemente Solaro della Margarita,
reazionario avveduto: gli scienziati si “affratellarono” e “si prepararono a
travagliar concordi per essere tutti uniti dalle Alpi al Faro per il gran
giorno del sospirato risorgimento”. In effetti, in corrispondenza con le menti
più illuminate d'Europa, essi cospiravano alla luce del sole. Come Kohelet
nell'“Ecclesiaste” si interrogavano su rapporti e distanze tra sapienza e
scienza, tra scienza e insipienza, tra sapienza e politica quale arte di
governo, missione suprema secondo la tradizione greco-romana da Platone e Aristotele
a Cicerone. Il Potere non è il Male. “Ogni cosa ha il suo momento. Tempo di
nascere e tempo di morire...”. Lo si aveva chiaro dalla stagione degli
Illuministi. Anzi, se bene ispirato, il Potere è l'acceleratore
dell'incivilimento, della moralità fondata sulla ragione anziché sulla
superstizione, su catechismi imparaticci. Etica non vuol dire sopruso.
La debolezza del Trasformismo
Dimissionario proprio alla vigilia
dell'Esposizione di Torino, il 30 marzo 1884 Depretis varò il nono governo da
quando il 25 marzo 1876 la Sinistra democratica aveva sostituito la Destra
storica. La sua rimase una compagine debole. La Giovane Sinistra di Francesco
De Sanctis e di antichi mazzinian-garibaldini come Giosue Carducci (eletto deputato a Lugo di Romagna nel 1876 e
nuovamente candidato perdente a Pisa nel 1886) rifiutava l'appello lanciato da
Depretis a “collaborare” per “trasformare” il Paese. “Trasformismo” divenne
sinonimo di compromesso al ribasso, anticamera della corruzione. “Trasformista”
fu (e rimane) un insulto in un Paese che non aveva “partiti” e che da quando ne
ha ha registrato il continuo via-vai da una all'altra parte. Avvolti nei panni
di nobili ideali, tanti “progressisti” si sottrassero all'invito di Depretis,
pertanto tentato da taciti accordi con la Santa Sede per ampliare le basi del
consenso dopo l'incremento degli elettori da 600.000 a quasi tre milioni.
Fra le vittime della perdurante incertezza di
indirizzo politico vi fu il varo di una legge sanitaria, cocciutamente
ostacolata da interessi locali e particolari (avrebbe comportato nuova
disciplina delle farmacie, feudi più immarcescibili del Sacro romano impero).
Dopo il codice sanitario varato dal governo presieduto da Giovanni Lanza (dicembre 1870) e logoranti discussioni nei
due rami del Parlamento, la svolta arrivò con l'ascesa di Crispi a presidente
del Consiglio in successione a Depretis (7 agosto 1887). Già ministro degli
Esteri e dell'Interno, egli impresse l'acceleratore. La via era indicata dalla
gigantesca “Inchiesta sulle classi agrarie” presieduta dal moderato Stefano
Jacini ma pilotata dal medico garibaldino Agostino Bertani, radicale. Ne era
emerso il quadro agghiacciante di un Paese dalle condizioni igienico-sanitarie
spaventose, già descritte dalla Società italiana di igiene fondata nel 1879 e
animata da Jacob Moleschott, Corrado Tommasi Crudeli, Guido Baccelli, Nicola
Badaloni, Antonio Cardarelli e altri, anche massoni come Mario Panizza secondo
il quale i “fratelli” sono i “templari della democrazia”.
Il disegno della legge sanitaria (soli 62
articoli) fu incardinato in Senato il 22 novembre 1887. La sua discussione
iniziò il 15 marzo 1888. Illustrato dal celebre Stanislao Cannizzaro fu
approvato il 1 maggio con 53 “si” contro 21 “no”. Nel corso del dibattito
Gacinto Pacchiotti raccomandò l'insegnamento dell'igiene. Gerolamo Boccardo
deplorò la costruzione di ospedali monumentali anziché funzionali e raccomandò
che venissero edificati in sedi agevolmente accessibili per il personale
sanitario e per i malati, che all'epoca si muovevano a piedi o su carri. Il 15
maggio il testo passò alla Camera. Dopo un dibattito di tenore elevatissimo fu
approvato con 145 “si” e 59 “no”. Divenne la legge 22 dicembre 1888,n. 5849.
Nel corso della discussione, Cardarelli si schierò nettamente a favore del
primato dello Stato sulle amministrazioni locali, spesso prive di persone
competenti nei ruoli di responsabilità suprema, sindaci e presidenti di
provincia inclusi.
… e il suo “profeta”: Luigi Pagliani
Il demiurgo della legge sanitaria fu Luigi Pagliani.
Oggi pressoché dimenticato, merita qualche parola di ricordo. Nacque a Genola
(Cuneo) il 25 ottobre 1847. Suo padre, medico condotto, fu sindaco del piccolo
comune allo snodo stradale e ferroviario della linea Savigliano-Cuneo/
Fossano/Mondovì. Studente in medicina e chirurgia a Torino, condivise una
modesta soffitta con il futuro fisiologo e archeologo Angelo Mosso, promotore
della formazione degli insegnanti di educazione fisica, in specie femminile.
Libero docente di igiene a 30 anni e ordinario a 40, nel 1878 Pagliani creò il
primo laboratorio di igiene in Italia. Incaricato di studiare genesi e
conseguenze dell'epidemia colerica del 1884, richiamò l'attenzione sull'urgenza
del risanamento urbano. Bisognava abbattere antiche cinte murarie: aria, luce,
pulizia e soprattutto acqua potabile, rete fognaria, controllo dell'ambiente da
parte di personale scientificamente preparato in tutti i comuni, grandi o
piccoli fossero, perché malattie endemiche e, peggio, le epidemiche non si
fermano all'alt dei vigili urbani o di militari mandati a vigilare sulle zone
“infette”.
Il 1° gennaio 1889 Crispi istituì la Direzione
generale della sanità pubblica nell'ambito del Ministero dell'Interno e gliela
affidò. Pagliani si misurò con un ampio ventaglio di problematiche e di
responsabilità connesse. Operò nel clima tipico dei medici umanisti dell'epoca,
che condividevano l'entusiasmo di “Fare l'Italia”: patrioti cresciuti nel solco
di Michele Lessona.
I capisaldi della legge sanitaria furono
l'istituzione del Consiglio superiore della sanità, dei consigli provinciali
medici e veterinari, coordinati dai medici e dai veterinari provinciali, la
elevazione dei medici condotti a ufficiali sanitari decorosamente remunerati e
liberi da condizionamenti dei sindaci, l'obbligo della denuncia di malattie
contagiose, la vaccinazione obbligatoria, la certificazione dell'abitabilità
delle costruzioni, nuove norme sulla sepoltura. Tutte norme sagge e tuttora
vigenti.
Come Angelo Mosso, anche Pagliani promosse la
cremazione dei cadaveri che all'epoca la chiesa cattolica considerava aberrante
e deprecava. Erano passati pochi anni da quando Giuseppe Garibaldi, “primo
massone d'Italia”, era stato sepolto a Caprera sotto pesante masso in
violazione della sua richiesta di essere arso con la “pira omerica” poi evocata
da Carducci. Pagliani aveva orizzonti e vastissimi. La lotta per il risanamento
dell'igiene pubblica passava anche quella contro la prostituzione femminile, il
controllo sanitario delle “case di tolleranza”, il miglioramento dei reparti di
maternità e infanzia (meglio se con cliniche apposite), le cause ambientali e
lavorative che spesso causavano malattie, in specie la tubercolosi. Si occupò
inoltre di urbanistica sociale, promozione delle case popolari e di bagni
pubblici comunali, di primaria importanza quando, in carenza di pozzi bianchi e
neri, essi erano risorsa indispensabile per quanti dai borghi rurali affluivano
nei centri maggiori per i mercati settimanali e ne profittavano “una tantum”
per una bella lavata. Quella era l'Italia ben nota a chi, nato a Genola e
cresciuto fra Torino e Roma, ne conosceva ogni lembo di persona o attraverso i
questionari inviati obbligatoriamente dai sindaci al ministero dell'Interno.
Già autore di opere apprezzate anche all'estero, Pagliani sapeva bene che la
maggior parte degli amministratori locali non era all'altezza del suo compito.
In migliaia di comuni non vi era alcun servizio di nettezza urbana.
L'immondizia veniva raccolta e bruciata in cortili. In quasi 1300 non vi era
neppure una latrina. Ben 6404 comuni non avevano rete fognaria. Perciò le
statistiche lamentavano la diffusione di pustole, scabbia, morva, tigna,...sino
al terribile carbonchio. A garanzia dei cittadini, la legge Crispi-Pagliani
istituì ispezioni sanitarie alle quali i sindaci non si potevano opporre. Certo
essa non fece miracoli da un anno all'altro: fu “un programma”, come la legge
voluta dal deputato di Alba, Michele Coppino, che il 17 luglio 1877 decretò
obbligatoria e gratuita l'istruzione elementare in un Paese che contava il 70%
e più di analfabeti in molte regioni, sopratutto della “Borbonia Felix” da
taluno ancor oggi stolidamente rimpianta.
Post fata resurgo...
Da alcuni “storici” Crispi è stato ritratto
come “dittatore”. Nella sua più corposa biografia, Christopher Duggan manco
cita Pagliani. Le grandi riforme varate dai suoi governi erano “di destra” o
“di sinistra” o semplicemente indispensabili per traghettare l'Italia verso la
modernità? Da tanta parte del clero, che alla legge sanitaria nazionale opponeva
medici “cattolici”, quasi vibrioni e batteri abbiano una confessione religiosa,
Crispi fu dipinto quale un satanasso, anche perché era massone notorio, come
Carducci e Adriano Lemmi. E ancora non si sapeva che l'11 gennaio 1889, poco
dopo l'insediamento alla Direzione generale della sanità, anche Pagliani fu
iniziato massone nella loggia “Rienzi” di Roma (Grande Oriente d'Italia,
matricola 8.193).
Dopo la caduta di Crispi (marzo 1896), il suo
conterraneo Antonio Starrabba di Rudinì ne cancellò le riforme: eliminò la
Scuola di igiene, trasferì il servizio di veterinaria al ministero
dell'Agricoltura, azzerò la Direzione generale della sanità e ne cacciò il
direttore. Pagliani tornò a Torino. Sino al 1913 fu preside della Facoltà di
medicina (bastione di scienza all'avanguardia in Europa), fondò riviste,
pubblicò il fondamentale “Trattato di igiene e sanità pubblica”, promosse
innumerevoli iniziative culturali e filantropiche nel solco del “fratello”
Tommaso Villa e, consigliere comunale dal 1906 al 1919, ebbe la stima del
sindaco Teofilo Rossi di Montelera, di Antonio Carle e di Giolitti. Pagliani
era l'emblema dell'Italia civile: niente retorica, molti fatti, visione alta
dello Stato, dell'impegno patriottico ed educativo. Morì a Torino il 4 giugno
1932. L'urna con le sue ceneri veglia la Sala del Commiato nel Tempio
crematorio che funzionò anche negli anni del regime incardinato sulla
Conciliazione dell'11 febbraio 1929. Il suo magistero non andò affatto perduto.
Lo evocarono ripetutamente Achille Mario Dogliotti e Giorgio Cavallo, che ne
continuarono la Grande Opera. La loro lezione rimane attualissima nell'Italia
europea.
Aldo A. Mola
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