Cade nel corrente anno il
secondo centenario della nascita del primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II di
Savoia.
Una delle fondamentali Figure
nella storia del Casato e del Risorgimento Italiano.
Vittorio Emanuele (Maria
Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso) nacque a Torino il 14 marzo 1820, figlio
primogenito del Re Carlo Alberto (1798-1849)
e di Maria Teresa d’Absburgo Lorena (1801-1855).
In seguito ai moti del 1821 i
Principi di Carignano si trasferirono in Toscana, ove, il 16 settembre 1822,
nella villa granducale di Poggio Imperiale, per poco venne meno che il piccolo Vittorio perdesse
la vita nelle fiamme appiccatesi per l’imprudenza della nutrice, Teresa Zanotti
Racca, alla zanzariera del suo letto.
Fu salvo per il sacrificio
della nutrice medesima.
Sorse quindi la leggenda che
il piccolo principe fosse morto e che fosse stato sostituito da un bambino di
origini popolane.
Ciò, a nostro modo di vedere,
non poteva assolutamente essere in
quanto la madre, Maria Teresa, aspettava il secondo figlio, Ferdinando Maria
Alberto (1822-1855), che sarebbe venuto al mondo il 15 novembre 1822.
Vittorio Emanuele II, come
detto, è una fondamentale figura per la Storia d’Italia, ma è per il decennio ‘48-’59 che va certamente ricordato.
Dopo la “Fatal Novara” [dalla poesia
“Miramar” di Giosuè Carducci (1835-1907)], il Re Carlo Alberto abdicò in favore
del figlio Vittorio Emanuele, ed il 29 marzo 1849 il nuovo Re si presentò
davanti al Parlamento per pronunciare il giuramento di fedeltà, quindi, il
giorno successivo, lo sciolse, indicendo nuove elezioni.
Tali elezioni non espressero
una buona Camera, quindi il Re, dopo aver pronunciato il famoso “proclama di
Moncalieri” (20 novembre 1849), con cui si invitava il popolo a scegliere
rappresentanti consci della tragica ora dello Stato, sciolse nuovamente il
Parlamento, per fare in modo che i nuovi eletti fossero di idee più
pragmatiche.
Il nuovo Parlamento risultò
composto per due terzi da moderati favorevoli al governo di Massimo Taparelli
d’Azeglio (1798-1866) e quindi il 9 gennaio 1850 il trattato di pace con
l’Austria (a cui il Re teneva molto) venne, infine, ratificato.
Ma ecco che, in questi anni,
sorse un astro illuminato.
Fu Camillo Benso conte di
Cavour (1810-1861), già candidatosi al Parlamento nell’aprile 1848, ma, non
eletto, lo fece nuovamente nelle elezioni suppletive del 26 giugno 1848, e lo
fu in ben quattro collegi elettorali, ma optò per quello di Torino.
Il 4 luglio, prese, per la
prima volta, la parola alla Camera del Parlamento Subalpino.
Da quel momento la vita del
Cavour nuovamente cambiò.
Da gentiluomo di campagna e
giornalista, finalmente si immerse nella vita pubblica del suo Piemonte ed,
appunto, nel Parlamento Subalpino.
Il Conte vi entrò, pur
mantenendo una linea politica indipendente, cosa che non lo escluse da critiche
ma che lo mantenne in una situazione di anonimato fino alla proclamazione delle
leggi Siccardi [dal nome del Senatore del Regno, Giuseppe (1802-1857) che le
propose], che prevedevano l’abolizione di alcuni privilegi relativi alla Chiesa,
già abrogati in molti Stati europei.
Vittorio Emanuele fu
sottoposto a pesantissime pressioni da parte delle gerarchie ecclesiastiche,
affinché non promulgasse quelle leggi considerate “sacrileghe”.
Il Re, che pur non essendo
bigotto come il padre era molto superstizioso, dapprincipio promise che si
sarebbe opposto alle leggi, scrivendo addirittura una lettera al Papa nella
quale rinnovava la sua devozione di cattolico e si ribadiva fiero oppositore di
tali provvedimenti.
Tuttavia quando il Parlamento
approvò le leggi, si disse dispiaciuto, ma lo Statuto non gli consentiva di
opporvisi.
L’attiva partecipazione del
Cavour alla discussione sulle leggi ne valse l’interesse pubblico, ed alla
morte di Pietro de Rossi di Santarosa (1805-1850), egli divenne nuovo ministro
dell’Agricoltura, cui si aggiunse la carica, dal 1851, di ministro delle
Finanze del governo d’Azeglio.
Promotore del cosiddetto
“connubio” (tra il centrodestra ed il centrosinistra in senso liberale), Cavour
divenne il 4 novembre 1852 Presidente del Consiglio del Regno, nonostante
l’avversione che Vittorio Emanuele II e d’Azeglio nutrivano nei suoi confronti.
Malgrado l’indiscusso connubio
politico, fra i due mai corse grande simpatia, anzi Vittorio Emanuele più volte
ne limitò le azioni, arrivando persino a mandargli in fumo svariati progetti
politici, alcuni dei quali anche di notevole portata.
Però in tutto questo decennio
la storia è più che nota.
Fu, da parte del Cavour, un
tessere, giorno per giorno, momento per momento, occasione per occasione, le
maglie diplomatiche per l’unificazione dell’Italia sotto la fulgida guida del
Re di Sardegna, Vittorio Emanuele II.
Le occasioni ed i momenti
fondamentali furono, senza dubbio: la guerra di Crimea (ottobre 1853-gennaio
1856) e quindi l’appoggio piemontese alla Francia ed al Regno Unito di Gran
Bretagna ed Irlanda del Nord contro la Russia; il conseguente congresso (25
febbraio/16 aprile 1856) e trattato (30 marzo 1856) di Parigi, che sanzionò la
sconfitta russa nella guerra di Crimea, ed ove il Conte di Cavour pose
abilmente all’attenzione delle potenze europee la questione italiana, ed,
infine, gli accordi di Plombières (les-Bains), conclusi il 20 luglio 1858 con
l’imperatore dei francesi Napoleone III (1808-1873), i quali prevedevano l’aiuto
della Francia al Piemonte per muovere guerra all’Austria, con la cessione di
Nizza e della Savoia alla Francia medesima.
Prima della Guerra di Crimea
però il Re disse all’ambasciatore francese: «Se noi fossimo battuti in Crimea,
non avremmo altro da fare che ritirarci, ma se saremo vincitori, benissimo!
questo varrà per i Lombardi assai meglio di tutti gli articoli che i ministri
vogliono aggiungere al trattato [...] se essi non vorranno marciare, io
sceglierò altri che marceranno... ».
In un clima internazionale
così teso, l’italiano Felice Orsini attentò alla vita di Napoleone III
(1808-1873) facendo esplodere tre bombe contro la carrozza imperiale, che
rimase illesa, provocando otto morti e centinaia di feriti. Nonostante le
aspettative dell’Austria, che sperava nell’avvicinamento di Napoleone III alla
sua politica reazionaria, l’Imperatore francese venne convinto abilmente da
Cavour che la situazione italiana era giunta a un punto critico e necessitava
di un intervento sabaudo.
Fu così che si gettarono le
basi per un’alleanza sardo-francese, nonostante le avversità di alcuni ministri
di Parigi. Grazie anche all’intercessione di Virginia Oldoini, contessa di
Castiglione (1837-1899) e di Costantino Nigra (1828-1907), i rapporti tra
Napoleone e Vittorio Emanuele divennero sempre più prossimi.
La notizia dell’incontro di
Plombières trapelò nonostante tutte le precauzioni. Napoleone III non contribuì
a mantenere il segreto delle sue intenzioni, se esordì con questa frase
all’ambasciatore austriaco: «Sono spiacente che i nostri rapporti non siano più
buoni come nel passato; tuttavia, vi prego di comunicare all’Imperatore che i
miei personali sentimenti nei suoi confronti non sono mutati.».
Dieci giorni dopo, il 10
gennaio 1859, Vittorio Emanuele II si rivolse al parlamento sardo con la
celebre frase del «grido di dolore», il cui testo originale è conservato nel
castello di Sommariva Perno: «Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò
credito nei Consigli d’Europa perché grande per le idee che rappresenta, per le
simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché,
nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che
da tante parti d’Italia si leva verso di noi!».
In Piemonte, immediatamente,
accorsero i volontari, convinti che la guerra fosse imminente, ed il Re
cominciò ad inviare truppe sul confine lombardo, presso il Ticino.
Ai primi di maggio 1859,
Torino poteva disporre sotto le armi di 63.000 uomini. Vittorio Emanuele prese il
comando dell’esercito e lasciò il controllo della cittadella di Torino al
principe Eugenio di Savoia-Carignano (1816-1888).
Preoccupata dal riarmo
sabaudo, l’Austria pose un ultimatum a Vittorio Emanuele II, su richiesta anche
dei governi di Londra e di San Pietroburgo, che venne immediatamente respinto.
Ritiratisi gli austriaci da
Chivasso, i franco-piemontesi sbaragliarono il corpo d’armata nemico presso
Palestro e Magenta, arrivando a Milano il giorno 8 giugno 1859.
I Cacciatori delle Alpi,
capitanati da Giuseppe Garibaldi (1807-1882), rapidamente occuparono Como,
Bergamo, Varese e Brescia: soltanto 3.500 uomini, male armati, che ormai
stavano marciando verso il Trentino. Ormai le forze asburgiche si ritiravano da
tutta la Lombardia.
Decisiva fu la battaglia di
Solferino e San Martino.
Dopo questa battaglia, moti
insurrezionali sorsero un po’ in tutta Italia e Giuseppe Garibaldi, contro il
volere del Cavour, ma con l’appoggio del Re, il 5 maggio 1860 partì (con il
suoi “1000”) dallo scoglio di Quarto (Genova) e giunse in Sicilia.
Si assicurò l’isola, dopo aver
sconfitto l’esercito borbonico, in nome
di «Vittorio Emanuele Re d’Italia».
Già in quelle parole si
prefigurava il disegno del Nizzardo, che non si sarebbe certo fermato al solo
Regno delle Due Sicilie, ma avrebbe marciato su Roma. Tale prospettiva era
contro i progetti piemontesi, che adesso vedevano incombere il pericolo
repubblicano e rivoluzionario e, soprattutto, temevano l’intervento di
Napoleone III nel Lazio.
Vittorio Emanuele, alla testa
delle truppe piemontesi, invase lo Stato Pontificio, sconfiggendone l’esercito
nella Battaglia di Castelfidardo. Napoleone III non poteva tollerare
l’invasione delle terre papali, e più volte aveva cercato di dissuadere
Vittorio Emanuele II dall’invasione delle Marche, comunicandogli, il 9
settembre, che:
«Se davvero le truppe di V. M.
entrano negli stati del Santo Padre, sarò costretto ad oppormi [...] Farini mi
aveva spiegato ben diversamente la politica di V. M.».
L’incontro con Garibaldi,
passato alla storia come “incontro di Teano”, avvenne il 26 ottobre 1860:
veniva riconosciuta la sovranità di Vittorio Emanuele II su tutti i territori
di quello che fu il Regno delle Due Sicilie.
Con l’entrata di Vittorio
Emanuele a Napoli, la proclamazione del Regno d’Italia divenne imminente.
Rinnovato il parlamento, con
Cavour primo ministro, la sua prima seduta, comprendente deputati di tutte le
regioni annesse (tramite plebiscito), avvenne il 18 febbraio 1861.
Ed il 17 marzo 1861, nella
nobile e suggestiva cornice dell’aula del Parlamento Subalpino di Palazzo
Carignano di Torino, fu proclamato il Regno d’Italia.
La rivoluzione aveva dato
forza alla diplomazia, ma, senza quest’ultima, la rivoluzione non avrebbe nulla
concluso.
Però codesto spirito
rivoluzionario, imbaldanzito dalla fortuna, era divenuto l’anima di una partito
detto “di azione” che, insofferente di indugi, pretendeva di imporsi allo Stato
e di trascinarlo alle più arrischiate avventure.
L’Italia era unificata, ma
senza la capitale a Roma l’opera non poteva, non doveva essere completa.
Infatti il 25 marzo 1861, il deputato di Bologna, Rodolfo Audinot (1814-1874),
tenne alla Camera un vibrante discorso sulla questione romana, che dette lo
spunto al Cavour per le sue celebri dichiarazioni e per l’emanazione
dell’ordine del giorno con il quale Roma era proclamata capitale d’Italia [“(…)
non ci sarebbe stata l’Italia unita se Roma non fosse stata la Capitale”].
Questa fu la formula assunta
dal Parlamento per il Regno d’Italia: «Vittorio Emanuele II assume per sé e per
i suoi successori il titolo di re d’Italia. Gli atti del governo e ogni altro
atto che debba essere intitolato in nome del Re sarà intestato con la formola
seguente: (Il nome del Re) Per Provvidenza divina, per voto della Nazione Re
d’Italia».
Dopo la proclamazione del
regno non venne cambiato il numerale “II” in favore del titolo “Vittorio
Emanuele I d’Italia”.
Il mantenimento del numerale è
rimarcato da alcuni storici, e alcuni di questi osservano che questa decisione,
a loro giudizio, sottolineerebbe il carattere di estensione del dominio della
Casa Savoia sul resto dell’Italia, piuttosto che la nascita ex novo del Regno
d’Italia.
A tale riguardo lo storico
Antonio Desideri commenta:
«Il 17 marzo 1861 il
Parlamento subalpino proclamò Vittorio Emanuele non già re degli Italiani ma
«re d’Italia per grazia di Dio e volontà della nazione». Secondo non primo
(come avrebbe dovuto dirsi) a sottolineare la continuità con il passato, vale a
dire il carattere annessionistico della formazione del nuovo Stato, nient’altro
che un allargamento degli antichi confini, «una conquista regia» come
polemicamente si disse. Che era anche il modo di far intendere agli Italiani
che l’Italia si era fatta ad opera della casa Savoia, e che essa si poneva come
garante dell’ordine e della stabilità sociale.».
Altri storici osservano che il
mantenimento della numerazione era conforme alla tradizione della dinastia
sabauda, come accadde ad esempio con Vittorio Amedeo II (1666-1732) che
continuò a chiamarsi così anche dopo aver ottenuto il titolo regio (prima di
Sicilia e poi di Sardegna).
Quindi la Capitale del Regno
fu trasferita da Torino a Firenze.
Il 21 giugno 1866 Vittorio
Emanuele lasciava Palazzo Pitti diretto al fronte, per conquistare il Veneto.
Sconfitto a Lissa e a Custoza,
il Regno d’Italia ottenne comunque Venezia in seguito ai trattati di pace
succeduti alla vittoria prussiana.
Roma rimaneva l’ultimo
territorio (con l’eccezione di Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige) ancora non
inglobato dal nuovo regno: Napoleone III manteneva l’impegno di difendere lo
Stato Pontificio e le sue truppe erano stanziate nei territori pontifici.
Vittorio Emanuele stesso non voleva prendere una decisione ufficiale: attaccare
o no. Urbano Rattazzi (1808-1873), che era divenuto primo ministro, sperava in
una sollevazione degli stessi Romani, cosa che non avvenne. La sconfitta
riportata nella Battaglia di Mentana aveva gettato poi numerosi dubbi
sull’effettiva riuscita dell’impresa, che poté avvenire solo con la caduta, nel
1870, di Napoleone III.
Il giorno 8 settembre fallì
l’ultimo tentativo di ottenere Roma con mezzi pacifici, e il 20 settembre il
generale Raffaele Cadorna (1815-1897) aprì una breccia nelle mura romane.
Vittorio Emanuele ebbe a dire:
«Con Roma capitale ho sciolto la mia promessa e coronato l’impresa che ventitré
anni or sono veniva iniziata dal mio magnanimo genitore.».
Con Roma capitale si chiudeva
la pagina del Risorgimento.
A fine dicembre dell’anno 1877
Vittorio Emanuele II, amante della caccia ma delicato di polmoni, passò una
notte all’addiaccio presso il lago nella sua tenuta laziale; l’umidità di quell’ambiente gli
risultò fatale.
Il 9 gennaio, alle ore 14:30,
il Re morì dopo 28 anni e 9 mesi di regno, assistito dai figli ma non dalla
moglie morganatica, cui fu impedito di recarsi al capezzale, e dai ministri del
Regno.
Poco più di due mesi dopo
avrebbe compiuto cinquantotto anni.
Vittorio Emanuele II aveva
espresso il desiderio che il suo feretro fosse tumulato in Piemonte, nella
Basilica di Superga, ma Umberto I (1844-1900), accondiscendendo alle richieste
del Comune di Roma, approvò che la salma rimanesse in città, nel Pantheon, nella
seconda cappella a destra di chi entra, adiacente cioè a quella con
l’”Annunciazione”.
Ed ora qualche citazione
conclusiva.
Scrive lo storico Francesco
Cognasso (1886-1986) nel suo “Vittorio Emanuele II” (Dall’Oglio 1986,
pagg. 342ss.): «Vittorio Emanuele II,
come altri creatori del Risorgimento, conservò tutta la sua individualità, la
sua umanità, mentre perseguiva il raggiungimento del programma giurato a
Novara. Così, tutto il suo regno fu una continua lotta.
Combattè con il d’Azeglio e
col Cavour, col Ricasoli e col Minghetti e con tutti gli altri ministri che
ebbe sino al 1878, […]. Egli aveva le sue idee e sentiva il dovere di
difenderle e di imporle a tutti, non riconoscendo a nessuno il diritto di
sovrapporsi a lui, in nome di qualsiasi principio o ideologia democratica o
liberale. Egli era il re e della sua sovranità aveva la più perfetta coscienza.
Né in lui questa era un’ideologia. Si sentiva superiore a tutti, perché
rappresentava la dinastia che da otto secoli governava con l’indipendenza i suoi
Paesi, perché sentiva di essere l’erede e il prosecutore dell’opera degli
Amedei, di Emanuele Filiberto, di Carlo Emanuele, di Vittorio Amedeo, di Carlo
Alberto.
Non un’ideologia monarchica,
ma tutta la concretezza della tradizione dei re sabaudi.».
Scrisse il grande storico
Gioacchino Volpe (1876-1971):
«[…] La Monarchia, quella Monarchia
rappresentata da quel Casato di antica origine, che nel ‘700 rimase l’unico
Casato in certo senso “nazionale” della Penisola, cominciò ad operare, anche
senza proporselo, per l’unità, sin da quando, nel ‘600 e ‘700, essa, per
difendere il suo Stato o per guadagnare qualche provincia o città della
Lombardia, ebbe a fronteggiare stranieri e soltanto stranieri, Spagna o Austria
o Francia, richiamando su di sé l’attenzione, la simpatia e qualche speranza di
Italiani di ogni paese, stanchi di tanta sarabanda di conquistatori e predoni,
e diventando il punto di convergenza loro. […]».
Ed ancora:
«[…] E il dualismo (Italia
monarchica e sabauda e l’Italia di popolo) era poi destinato a scomparire,
quasi risolvendosi in forza, nel crescente riconoscimento che la Monarchia era
l’unità, era la continuità, era la forza necessaria in un paese che aveva, e
per di più poco benevolo, il Papato. […]».
Quindi la monarchia sabauda fu
accettata pur di veder realizzata l’Unità d’Italia.
E fu accettata anche in quella
Sicilia borbonica, attaccata alle sue tradizioni millenarie. Al riguardo è
interessante leggere quel capolavoro di romanzo che è “Il Gattopardo” di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957).
Da ultimo espongo un concetto
letterario/politico, che ritengo fondamentale, per quanto ho cercato di
scrivere fin qui. E’ di Francesco de Sanctis (1817-1883), storico della
letteratura italiana e ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo
dell’Italia Unita presieduto da Camillo Benso Conte di Cavour (23 marzo 1861/12
giugno 1861). Nella sua opera “Storia della Letteratura Italiana”, che è,
pertanto, anche storia dell’intera civiltà italiana dal Medio Evo agli inizi
del secolo XIX, vi si trova esposta la sua interpretazione del Risorgimento
come risultato della lotta delle due scuole, liberale e democratica. Esse
combattendosi aspramente, furono gli elementi necessari di una dialettica
feconda dalla quale scaturì l’azione concreta per l’Unità d’Italia.
Nel messaggio (alla Consulta
dei Senatori del Regno) del Re Umberto II (1904-1983) del 17 marzo 1961,
centesimo anniversario dell’Unità d’Italia, Egli brillantemente scrisse: «[…]
L’epica impresa poté grado a grado raggiungere l’altissimo fine, perché il re
Vittorio Emanuele II, con a fianco Camillo di Cavour, aveva assunto con mano
ferma la direzione e la responsabilità del moto nazionale, coraggiosamente
superando difficoltà di ogni genere.
Attorno ad essi sorsero da
ogni parte d’Italia – magnifico prodigio – falangi di patrioti, sempre tutti
presenti nei nostri grati cuori.
L’apostolato di Mazzini e
l’eroismo di Garibaldi integrarono l’opera meravigliosa, risultato di forze
confluenti e contrastanti, fuse dalla sintesi costruttiva della Monarchia
nazionale. Discordie e rancori di partiti furono arsi dal sentimento religioso
della Patria: così sorse il Regno d’Italia. […]».
Nessun commento:
Posta un commento