NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 18 marzo 2020

Il Re a trentasette anni dalla morte







di Emilio Del Bel Belluz  


Il mese di marzo annuncia la primavera che arriva, la natura si risveglia, i colori degli alberi in fiore non passano inosservati. La terra che calpesto, prima di me è stata dei miei avi, loro con il duro lavoro l’hanno benedetta.  Ho davanti a me il mio bosco, e sono felice d’aver piantato anche quest’anno un albero in ricordo dell’ultimo Re d’Italia, Umberto II. L’albero che ho messo a dimora è un pesco, mi piacciono i suoi tenui colori e i frutti che produrrà più avanti. L’albero di pesco ha avuto la sua terra, dimorerà vicino ad altri alberi da frutto.
Penso alla figura del Re, ho recitato una preghiera, non manco mai di ricordarlo la sera prima di dormire. Nella mia vita gli ho voluto bene, avrei desiderato essergli vicino, accompagnarlo negli anni dell’esilio, parlare con lui, farmi raccontare i suoi dolori, i tormenti e quella malinconia che non ha mai trovato un porto su cui sbarcare.
Tanti di quelli che lo avevano conosciuto, si sono dimenticati di lui, ma la vita non è un inno alla fedeltà, le idee cambiano in base alle opportunità. Nella mia famiglia la fede nella Monarchia non è mai mancata, ha rappresentato quei valori per cui i miei avi hanno combattuto. L’uomo non può dimenticare quello che ha ricevuto.
Nella mia casa avrei voluto ospitare il mio Re, come diceva Aldo Fabrizi, che si dispiaceva perché non poteva invitare a pranzo il Re d’Italia. Altri l’hanno amato, penso a Totò e ricordo che nel suo salotto c’era una foto con l’immagine del re e la dedica al grande attore.  Giovannino Guareschi alla morte del sovrano avrebbe scritto delle parole che avrebbero meritato d’essere imparate a memoria.  Aveva sempre nel suo cuore il Re e la bandiera sabauda. Quelli che sono rimasti fedeli all’idea monarchica sanno che il giuramento vale per sempre, non si giura due volte.
Giovannino Guareschi aveva giurato una volta sola davanti al Re. Lo scrittore morì nel 1968 e in quella data il Re comprese la perdita di una voce vera, onesta. Alla morte del Re, il 18 marzo 1983, pensai subito al sovrano che avrebbe ritrovato i suoi genitori, la sorella Mafalda di Savoia e il buon Guareschi, che lo avrebbe abbracciato, a dimostrazione della fedeltà che aveva sempre nutrito nei confronti del suo Re. Giovannino Guareschi con i suoi scritti si legò per sempre alla monarchia, volle sulla bara la bandiera con lo stemma sabaudo, che aveva sempre amato.
Penso ai Savoia che hanno scritto mille anni della storia italiana, ma non sono ricordati.
I mezzi di comunicazione dedicano molto spazio alla Casa Reale inglese, dimenticando totalmente quella sabauda. Uno stato che non studia la propria storia, perde le sue radici. Il 14 marzo 2020, sono passati duecento anni dalla nascita del primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II, ma non credo che a questa notizia verrà dato risalto.
Mi tornano alla mente le parole dello scrittore Vilfredo Pareto: “ Non esiste nella storia alcun popolo grande forte prospero presso il quale non si trovino sentimenti profondi e attivi che si manifestano con un ideale, una religione, un mito, una fede.
Ogni popolo ove questi sentimenti si indeboliscono è in via di decadenza. Molti piccoli popoli sono diventati grandi perché avevano fede in se stessi: un popolo che perde questa fede è prossimo alla rovina. In un certo senso si potrebbe enunciare questo paradosso: nella vita dei popoli niente è tanto reale e pratico quanto l’ideale”. Lascio la terra dei miei avi, il bosco è più ricco, so di aver fatto qualcosa di buono, l’albero di pesco germoglierà , rendendomi più in sintonia con la natura. Trascrivo l’omelia rivolta dal Cardinale Ugo Poletti, Vicario Genarale di Sua Santità, il 18 Novembre 1983, pubblicata dalla rivista “ Opinioni “.
“ Arcibasilica di S. Giovanni in Laterano
Omelia nella celebrazione funebre per S. M. Umberto II nella consegna della “ Rosa d’Oro” al Capitolo.
Signori e Signore nello stile di austera semplicità o, meglio umiltà in cui è vissuto per molti anni, guidato dalla Fede il Re Umberto II, si compie ora una delle Sue ultime significative volontà. È un momento di preghiera e di fede che ci unisce a Lui. Sono trascorsi sette mesi dalla Sua Morte, ma Lo sentiamo vivo e presente. Noi vi prestiamo solo voce e gesti; ma solo la Sua Fede e il Suo cuore che oggi parlano a noi mentre offriamo a Dio il pio suffragio per la Sua anima e per la Sua venerata Madre, la Regina Elena. Il Capitolo dell’Arcibasilica del SS.mo Salvatore in San Giovanni Laterano che io, in qualità di Cardinale Arciprete, rappresento, e onorato di ricevere per il suo Tesoro come prezioso dono da custodire, la “Rosa d’oro” che Sua Santità  il Papa Pio XI mandò alla Regina Elena in circostanze storiche memorabili, ed è commosso che Sua Maestà nei lunghi anni di solitudine, di dolore e di preghiera, abbia pensato a questo Patriarcale Arcibasilica per farne oggetto di un squisito atto di amore e di venerazione.

Sua Maestà Umberto II, mi fu detto, oltre le volontà espresse del Suo Testamento, lasciò tre legati: tutti e tre di alto significato religioso e spirituale, in quanto sembrano esprimere i valori più sacri che hanno riempito di luce e di consolazione la Sua vita, che conobbe tanto soffrire.
Lasciò alla Santa Sede in proprietà il tesoro della sindone. La reliquia più insigne della passione di Gesù Cristo, segnata dal Suo Sangue Divino, doveva logicamente essere affidata alla chiesta, mistero di vita e di salvezza, nella quale ogni cristiano legge la sua storia eterna, di cui il breve periodo dell’esistenza terrena non è che l’inizio.
Re Umberto II nella fede cristiana possedeva forte il senso della Chiesa e lo volle esprimere con il dono della Sindone, che, da solo, qualifica la Sua Dinastia, congiungendola idealmente alla comunità dei credenti in Cristo che attendono la resurrezione per la vita eterna. Lasciò all’Abbazia di Montecassino il prezioso Crocefisso che consolò la Sua lunga passione terrena. Montecassino, la culla della civiltà europea, col suo martirio di distruzione e di risurrezione, ben può simboleggiare l’Italia, da Lui sempre amata. Nel momento di lasciare la vita terrena, a chi poteva mai affidare la sua Italia, se non al Crocifisso che ne domina tutta la storia, collocato nel cuore della Patria, precisamente Montecassino? Il Re aveva custodito con amore il dono gentile della “Rosa d’oro”, inviata dal Papa Pio XI alla Sua augusta Genitrice.
I rapporti intimi del Re Umberto con la Regina Madre e con la Famiglia Reale furono sempre coperti da doveroso riserbo; ma un animo nobile come il suo dovette certo coltivare un’amorosa venerazione per la Madre, dalla quale, anche se la sua Fede e religiosità ricevette conforto.
La Madre poi è sempre l’espressione più vera della stessa unità e armonia famigliare. Pertanto è particolarmente significativo che il re Umberto II volendo in qualche modo affidare la sua Famiglia intera a Dio, abbia pensato di consegnare l’oggetto prezioso, donato dalla chiesa a sua madre, a questa Patriarcale Arcibasilica che, per la sua storia (prima chiesa dedicata in Roma al SS. mo Salvatore) e per il suo prestigio di Cattedrale del Vescovo di Roma, il Papa, ben ha diritto e riconosciuta “la Madre e il Capo di tutte le Chiese” dell’Urbe e dell’Orbe.
Interpretati così rispettivamente i valori, espressi i nei Legali religiosi del Re Umberto II – pensando e pregando per Lui – possiamo ora fermarci brevemente sulla Parola di Dio ascoltata nella S. Messa, celebrata nella memoria dell’Evangelista San Luca.
Nel brano della lettera di Paolo al suo prediletto discepolo Timoteo, l’apostolo si lamenta della solitudine nella quale persone anche molto care lo hanno lasciato oppure gli hanno fatto torto; sul suo dolore tuttavia predomina la pazienza ed il perdono.
Vorremmo che fosse anche per noi così, che la Fede ci abituasse a queste disposizioni d’animo perciò è inevitabile per ciascuna persona di fare l’esperienza amara dell’ingratitudine, dell’incomprensione, dell’abbandono.
Beato chi possiede la Fede!

Umberto II ebbe a provare, in misura singolare, la solitudine e l’incomprensione. Ma nei lunghi anni di Cascais il suo spirito si è affinato fino a far proprie, per se stesso le coraggiose parole di San Paolo Apostolo, sempre perseguitato per la giustizia: le ha trascritte di suo pugno su un foglietto ritrovato sul suo scrittoio, in segno evidente di farne testimonianza per la sua vita: “Poco importa a me di essere giudicato da voi o da un Tribunale umano … ne mi giudico da me stesso, perché non ho coscienza di aver commesso alcunché; ma non per questo sono giustificato; mio giudice è il Signore” (PCor. IV 4 ).

A prova della sua buona coscienza, affinata dal dolore ha sottolineato due volte le parole: “Mio Giudice è il signore”.

Sembra di sentir pesare sul suo animo il fardello di tante e tante critiche e severi giudizi. Il tempo tuttavia metterà in luce la grandezza del Sovrano, che imparò dalla prova a diventar cristiano, profondo nello spirito e ricco di umanità. 

Allontanato dalla Patria per libera scelta del suo popolo, stremato da una guerra crudele ebbe la saggezza e la forza di spirito di non turbare mai quella scelta, ma ogni umiliazione ha accettato per Sé e per la Sua Famiglia, pur di rispettarla, con segnando così consapevolmente la Patria ad un nuovo avvenire.

Nel brano del Vangelo, tratto da San Luca (Lc. X, 1-12) i discepoli del Signore sono inviati nel mondo per essere portatori di pace.

Umberto II non fu mai promotore di guerra; piuttosto ne fu vittima; che accettò la sua sorte quasi in espiazione di errori altrui durante tutto il lungo esilio poi, visse in dignitoso riserbo la sua amara prova, facendosi silenzioso costruttore di pace.
A quale costo del Suo intimo?
Nessuno lo potrà mai sapere! Forse uno spiraglio della sua sublime maturazione in una umanità e spiritualità possiamo intravderlo ancora nella testimonianza di un suo biglietto autografo lasciato sullo scrittoio a Cascais quando ne partì per sempre.
Egli trascrisse e fece sua, quasi preghiera, una frase del testamento di Pietro I Bladika del Montenegro: “Io mi avanzo pieno di speranza alle soglie del Tuo Divino Santuario, la cui fulgida luce ravvisai sul sentiero misurato dai miei passi mortali. Alla sua chiamata vengo tranquillo …”
Basterebbe questo per meditare e per pregare con fiducia la Misericordia di Dio non solo per il defunto Re Umberto, ma per noi stessi, forse ancora tanto piccoli in una dimensione di presunzione umana.

Perciò, ora, anche noi preghiamo! “

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