NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 23 dicembre 2016

Intervista del 1948 sul sito del Re

Sul sito di Re Umberto II l'ultimo aggiornamento del 2016.

Una breve intervista del 1948.

www.reumberto.it


A tutti i visitatori i più cordiali auguri di Buon Natale!


mercoledì 21 dicembre 2016

Monarchia Sociale e Comunità Nazionale

 Mozione della corrente di Sinistra Sociale al II Congresso Nazionale del 
Partito Nazionale Monarchico

IL II CONGRESSO NAZIONALE DEL PARTITO NAZIONALE MONARCHICO

AFFERMA

1) che il punto focale della situazione nazionale è attualmente costituito non da problemi politici che possano risolversi sulla base di blocchi, pregiudiziali, discriminazioni di carattere ideologico, ma dal problema economico-sociale, la cui gravità si accresce progressivamente per l'accrescersi della distanza tra le poche grandi ricchezze e la miseria estesa ad una vastissima aliquota della Comunità nazionale, per lo scarso potere di acquisto delle classi medie e popolari, per il prepotere - dietro lo schermo di vantate necessità ideologiche, e di non confessate nè confessabili solidarietà e compromissioni politiche - del grande capitalismo, spesso legato ad interessi finanziari e politici stranieri, per la disordinata contraddittorietà e la sostanziale nullità della politica economica e sociale sin qui menata dai Governi che si sono succeduti in regime repubblicano, per la perdurante mancanza di qualsiasi statuto sociale del popolo italiano, quale gli deriverebbe da una organica legislazione sindacale;

2) che in tale gravissima situazione economico-sociale, come nelle speculazioni propagandistiche e demagogiche cui essa offre facilissime e numerosissime occasioni, è da ricercarsi la prima e principalissima causa del progressivo dilatarsi dell'elettorato social-comunista, onde il problema dei progressi del Comunismo in Italia è problema che non può risolversi se non dopo, o almeno contemporaneamente, a quello posto dal prepotere capitalistico e dalla necessità di infrenarlo, ed a risolvere il problema del Comunismo non tanto possono valere restrizioni delle libertà democratiche e misure di polizia - che anzi lo esasperano - quanto può e deve valere una direzione della Cosa Pubblica che sia sollecita a risolvere i problemi economici e sociali pendenti, ed a risolverli in spirito di solidarietà nazionale e di giustizia sociale, pronta ad attuare le necessarie riforme di struttura così in alcuni settori dell'amministrazione statale come nell'apparato produttivo della Nazione e nelle leggi che lo regolano, ed aperta ad un leale operante colloquio con tutte le categorie produttrici e lavoratrici, senza pregiudiziali classiste e possibilmente al di fuori di qualsiasi interposizione di partiti politici e dei loro particolaristici interessi;

3) che il PNM - fedele interprete delle tradizioni nazionali e sociali della Monarchia risorgimentale di Casa Savoia, e geloso custode degli interessi perenni e degli auspici futuri dell'Istituto Monarchico, i quali non possono essere legati né a transeunti situazioni istituzionali né agli interessi di classi e di forze economico sociali che già una volta lo tradirono, e che non rispondono al comune interesse della Nazione - deve rivendicare a se stesso, coraggiosamente ed energicamente, l'iniziativa politica e legislativa di quella riconversione della vita economico-sociale della Comunità nazionale italiana che risponde insieme alla obiettiva situazione di fatto - e ad una urgenza di giustizia sociale e di solidarietà nazionale, e che può tuttora venire effettuata, nella collaborazione di tutte le forze sanamente operanti, su fondamenta nazionali, cristiane e popolari.

E PERTANTO AFFIDA AGLI ORGANI CHE IL CONGRESSO ELEGGERA' ALLA RESPONSABILITA' DI GUIDARE IL PARTITO ED Al SUOI GRUPPI PARLAMENTARI IL PRECISO MANDATO DI ATTUARE IL COMPITO COSI’RIVENDICATO Al. PNM IN NOME DELLA NAZIONE E DELLA CAUSA, ASSUMENDO, CON LE CONSEGUENTI POSIZIONI POLITICHE E PARLAMENTARI, UNA LINEA SOCIALE ED ECONOMICA LA QUALE CONDUCA:

Alla attuazione di una politica sociale decisa e realistica che senza tergiversazioni né infingimenti, predisponga i mezzi ed i sistemi necessari per effettuare una più equa ripartizione proporzionale del reddito (patrimoniale, di lavoro, professionale) secondo funzioni, capacità e rendimento, attribuendo così a ciascun partecipante alla Comunità nazionale la quota attribuibile a seconda della sua funzione o posizione sociale di proprietario, di tecnico, di professionista, di lavoratore, di indigente, di invalido, di vecchio, e così che tale quota ,sia per ciascuno - e per ciascun nucleo familiare, non mai inferiore al minimo vitale necessario.

RIFORMA FISCALE

Pertanto:

A) Nella strutturazione del sistema fiscale occorre invertire l'attuale situazione di preminenza tra imposte indirette e le dirette, riservando il maggior gettito fiscale alla imposizione diretta, che colpisca i redditi in scala progressiva, senza pero intaccare né il capitale da cui il reddito deriva, né quelle quote di reddito delle quali si possa dimostrare l’utilizzazione diretta in nuovi investimenti produttivi ed in una espansione

delle occasioni di lavoro. Nel nuovo ordinamento della imposizione diretta occorre altresì riformare, oltre ai metodi di accertamento che devono essere sempre ispirati alla lealtà tra contribuente e Fisco, ed alle aliquote che devono essere realisticamente non confiscatrici, la attuale proporzione, iniquamente squilibrata, tra l'imposizione che colpisce i redditi dell'agricoltura - esosamente chiamati a sopportare un - carico confiscatore - e quella che dovrebbe colpire i redditi degli affari finanziari ed i redditi industriali, conservando, anche a questo scopo, la nominatività dei titoli azionari. Nella riduzione della imposizione indiretta, occorre (provvedendo a concedere un'altra area fiscale ai Comuni ed a concederne una alle Provincie per l'assolvimento dei loro compiti) avere soprattutto di mira la riduzione delle imposte di consumo, e l'abolizione di quelle tra esse che gravano sui consumi popolari più diffusi insieme che su prodotti fondamentali della nostra economia agricola o artigiana. Gli stessi problemi si pongono per l’IGE.

domenica 18 dicembre 2016

Torino: in mostra 'Le Meraviglie di Casa Savoia'

Fino al 2 aprile, una mostra espone il patrimonio artistico di Carlo Emanuele I

La storia di questa mostra parte da molto lontano, e precisamente dal 1580, quando al trono dei duchi di Savoia salì Carlo Emanuele I detto "Il Grande", figlio di Emanuele Filiberto di Savoia e di Margherita di Valois, figlia di Francesco I re di Francia. Questi, una volta salito al trono, nel proseguire l'opera riformatrice avviata dal padre, trasferì la capitale del regno sabaudo da Chambéry a Torino, contribuendo a rendere questa città punto focale dello sviluppo artistico e culturale italiano.

Carlo Emanuele I si dimostrò da subito un regnante appassionato, un lettore vorace, un mecenate e un collezionista spasmodico di opere d'Arte e di scienza. In oltre cinquant'anni di regno trasformò il volto di Torino, rendendola una città in grado di competere per corte e sfarzo con le altre capitali dei principati europei, e finanziando pittori, scultori, letterati, scienziati e alchimisti.
Per valorizzare questo lascito, raro e unico, i Musei Reali, il MIBACT, la Compagnia di San Paolo e la Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino e altri enti cittadini hanno deciso di riunire per la prima volta opere provenienti da vari musei - nazionali e non - al fine di mostrare le meraviglie di quest'eccezionale collezione.

Allestita fino al 2 aprile alla Galleria Sabauda e alla Biblioteca Reale, la mostra espone dipinti, acquerelli, statue, ritratti, armi antiche, libri e curiosità che lasciano lo spettatore affascinato e colpito dalla finezza e dalla chiara selezione e gusto artistico e di passione che traspare dalla ricerca di una continuità stilistica e storiografica.


Curata da Annamaria Bava, Anna Pagella, con la collaborazione di Giovanni Saccani e Gabriella Pantò, "Le Meraviglie di Casa Savoia" è una mostra che in sé contiene alcuni elementi eccezionali e rari, come una curatela intelligente, una selezione di opere mai riunite in un solo corpus, corredata da un fitto calendario di visite e approfondimenti che mostra un lato della città sabauda ancora poco conosciuto o ignorato.

sabato 17 dicembre 2016

UN FRANCOBOLLO PER FRANCESCO GIUSEPPE

di Domenico  Giglio, presidente del Circolo Rex


Il  turismo  oggi  è, quasi  ovunque, un  elemento  non  trascurabile  di  “entrate”  per  cui  bisogna  sfruttare   le  occasione che la storia o l’attualità ci propongono. Ora per l’Austria, il  2016  è  il  centenario  della  morte dell’Imperatore Francesco Giuseppe, mancato  il 21  novembre  1916, dopo  68  anni  di  regno. Perciò  a  Vienna  sono  state aperte  quattro  mostre, in  luoghi  legati  alla  figura  dell’imperatore, cominciando dallo splendido palazzo di Schonbrunn, con il suo parco e l’aereo porticato della  “gloriette”, dove Francesco Giuseppe aveva vissuto, in  una  semplice  cameretta, dopo  essere  rimasto  vedovo, e  lavorato, ad  una  modesta  scrivania, fino  all’ultimo giorno  della  sua  lunga  vita, da  “primo”  impiegato  dell’ Impero, e  dove, purtroppo, per  lui, per  la  sua  Casata, e  per  l’Europa  tutta, aveva  firmato  il  28  luglio  1914, la  sciagurata  dichiarazione  di  guerra  alla  Serbia. Grandi  motivi  di  celebrazione  non  vi  sarebbero  stati, ma  l’attrattiva data  dalla  figura  ben  nota  di  questo vecchio  signore, ancora  alto, anche  se  leggermente  incurvato, snello, elegante  nelle vecchie colorate divise dell’esercito  asburgico, hanno  appunto dato  motivo a queste mostre che  hanno  rafforzato  il  ruolo  turistico  di  Vienna, già  ricca  di  attrazione  dal  Ring sul  quale  si  affacciano  i  grandi e  maestosi  palazzi  del  Parlamento , l’ Opera, il  Rathaus, i  Musei, alla  Hofburg,  poi alle  grandi  Chiese, al   “Belvedere”, il  palazzo del  Principe  Eugenio  di  Savoia, una  delle  più  belle  ed  eleganti  residenze  principesche  dell’Europa  ed  infine  al suo Danubio, che  nella  memoria  collettiva, è sempre “blu”.

Ma oltre alla mostre, per i filatelici, vi  è  stata  l’emissione, ad  agosto, di  un  francobollo  da  0,80, recante  l’effigie  dell’ Imperatore, e  le  semplici  date  “1830-1916”, il che  è  significativo, in  quanto  l’Austria  è  una  repubblica  dal  1918  e  ricordare  un  Sovrano  della  Casa  degli  Asburgo  è  un  segno  di  sensibilità  storica  e  di  rispetto  per   il  passato, elementi  fondamentali  della  nostra  civiltà, che  ha  secoli  e secoli  di  vita  e  dove, invece, la cancellazione  di  parte  della  storia, rivela  complessi  di  inferiorità, termine  più  che  benevolo  per  non  usarne  altri. Ed  è, sempre  filatelicamente , da  notare  come  nel  2014,  le  poste  austriache, abbiano  ricordato , con  l’emissione  di  un  bellissimo  “foglietto”, contenente  due  francobolli, uno  con  l’effigie  dell’Arciduca Ereditario, Francesco  Ferdinando, l’altro  con  la  effigie  della  sua  consorte “morganatica”, Sofia  Chotek, il  loro  assassinio  a  Serajevo, il  28  giugno  1914, data  tragica  non  solo  perl’imperoaustro-ungarico, ma  per  tutta  l’Europa, essendo  stata  la  scintilla  che  fece  scoppiare  la  Grande  Guerra, o  Prima  Guerra  Mondiale.

I  confronti   sono  sempre  polemici, ma  sono  i  fatti  che  parlano. In  Italia  le  poste , salvo  nel  2002  la  Regina  Elena, non  hanno  mai  ricordato  né  nel  1950, cinquantenario, né  in  epoche  successive, l’assassinio  di  un  suo  Sovrano, Umberto I, né  dopo   25  o  30  anni, la  morte  di  Umberto  II, mancato  nel  1983, né  hanno  mai  ricordato  la  prima  Regina  d’Italia, Margherita  di  Savoia, dal  lontano  1926, data  della  sua  scomparsa, né  nel  cinquantenario, né  successivamente, anche  quando  due  anni  fa  diversi  circoli, associazioni  e  comuni, avevano  fatto  ufficiale  richiesta  al   competente  ministero, di  un  francobollo  per  il  novantesimo  anniversario  del  2016, come  pure, quest’anno, ricorrendo il  settantacinquesimo  anniversario  della  morte in  prigionia, a  Nairobi, del  Duca  Amedeo di  Savoia,  malgrado  la domanda  motivata, illustrante  la  nobile  figura  di  questo  principe,   inviata  da   circoli  ed  associazioni  combattentistiche e d’arma, le poste  non  hanno accolto la  richiesta, dell’emissione  di  un  francobollo  commemorativo, preferendo  ricordare  altre  persone  ed  altri  temi  sui  quali  il  tacere  è  bello .



lunedì 12 dicembre 2016

"Le schede truccate del referendum del '46, mio padre vide tutto"

Negli scantinati del Viminale "pacchi di fogli con la croce per la Repubblica".
Parla il figlio del brigadiere testimone dei brogli


Pacchi su pacchi di schede: «Così grossi, raccontava mio padre, che ci si potevano infilare le braccia». Tutte schede già votate, e tutte con la croce sullo stesso segno: a sinistra, sull'Italia turrita che simboleggiava la Repubblica, contro la monarchia rappresentata dallo scudo dei Savoia.
Il giovane brigadiere Tommaso Beltotto vide quelle schede, negli scantinati del ministero degli Interni. Era la notte del 4 giugno del 1946, e i risultati del referendum non erano stati ancora annunciati, ma la voce nei palazzi romani già girava: vittoria alla Repubblica, Umberto II si preparava all'esilio di Cascais. Di ombre su quel risultato si è sempre parlato.

Ma ora, a settant'anni di distanza, arriva il ricordo di un testimone oculare dei brogli. Tommaso Beltotto allora aveva venticinque anni, e già alle spalle una vita intensa. Controfirmò la relazione del duca Giovanni Riario Sforza, comandante in capo dei corazzieri reali, con la descrizione minuziosa di quei sacchi nelle cantine del Viminale. E proseguì la sua vita da carabiniere.
Sono passati settant'anni, Beltotto è morto nel 2001. Di quei sacchi non ha più parlato, se non in famiglia. Oggi è suo figlio Gianpiero a raccontare in presa diretta al Giornale l'immagine quasi fotografica del referendum truccato, così come riferita da suo padre. A cosa dovessero servire quei sacchi di schede truccate, Beltotto non lo sapeva, e non lo sappiamo noi oggi: erano già state conteggiate come vere, o dovevano servire in caso di bisogno per ribaltare un risultato sgradito? Di sicuro, erano la prova concreta di un referendum fasullo.

Suo padre si era scandalizzato? «Era un uomo concreto, realista. Semplicemente, quando in televisione o sui giornali qualcuno ipotizzava brogli nel referendum del 1946, sorrideva: c'è poco da ipotizzare, i brogli li ho visti con i miei occhi».
[....]

domenica 11 dicembre 2016

Un saggio "definitivo" svela i segreti dell'eccidio di Cefalonia


Elena Aga Rossi ricostruisce le vicende della Acqui depurandole dalla retorica "resistenziale"
Francesco Perfetti
Sabato 10 dicembre 2016
 
La notizia della firma dell'armistizio giunse a Cefalonia ai militari della Divisione di fanteria Acqui, comandati dal Generale Antonio Gandin, nel tardo pomeriggio dell'8 settembre 1943 grazie a una intercettazione della radio delle Nazioni Unite.

Fu accolta con sentimenti contrastanti che viravano dallo stupore al dispiacere per la resa e, quindi, per la sconfitta, fino alla gioia legata all'illusione che la guerra fosse finita. Dopo qualche giorno di indecisioni sull'atteggiamento da assumere, consegnare le armi ai tedeschi o rifiutarsi e resistere all'ultimatum dell'ex alleato, i militari della Acqui furono impegnati, a partire dal 15 settembre, in furiosi combattimenti che si conclusero con la vittoria tedesca. E, soprattutto, con l'eccidio della Divisione, una vendetta sanguinosa destinata a fissarsi nella memoria collettiva come uno degli episodi più tragici del Secondo conflitto mondiale. A Cefalonia e a Corfù, subito dopo la resa, vennero trucidati migliaia di ufficiali e soldati, il numero esatto è controverso, senza alcun processo e in aperta violazione di ogni norma di diritto nazionale o internazionale. Fu una strage pianificata e del tutto ingiustificata voluta da Hitler come vendetta per il «tradimento» italiano. L'enormità e la brutalità dell'eccidio, perpetrato al di fuori di ogni convenzione internazionale, furono riconosciute al processo di Norimberga dove il Generale Telford Taylor, pubblico accusatore, dichiarò: «Questa strage deliberata di ufficiali italiani che erano stati catturati o si erano arresi è una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli. Questi uomini indossavano regolare uniforme. Portavano le proprie armi apertamente e seguivano le regole e le usanze di guerra. Erano soldati regolari che avevano diritto a rispetto, a considerazione umana e a trattamento cavalleresco».

Elena Aga Rossi ha dedicato un volume dal titolo Cefalonia. La resistenza, l'eccidio, il mito (Il Mulino, pagg. 256, Euro 22) proprio alla ricostruzione delle vicende delle quali fu protagonista la Acqui, ma anche, e soprattutto, al tentativo di spiegare i motivi per i quali, attorno al sacrificio dei militari italiani, sia stata creata, attraverso aggiustamenti e falsificazioni, una «memoria divisa». È un volume documentato e importante, per molti versi definitivo, che resterà, per la ricchezza del materiale e la finezza e l'equilibrio dell'indagine, un punto fermo nella storiografia.

La «mitologizzazione» dei fatti di Cefalonia, come esempio paradigmatico di «uso pubblico della storia», cominciò presto quando, già nell'ultimo scorcio del 1945, Ferruccio Parri, prima, e Alcide De Gasperi poi, celebrarono l'episodio come prima manifestazione di «resistenza partigiana». Ciò avvenne perché, come osserva l'Aga Rossi, quell'episodio di resistenza ai tedeschi, nel particolare momento storico che si stava attraversando, poteva essere valorizzato dal punto di vista politico: «poteva servire a riscattare, sia per fini interni sia sul piano della legittimazione internazionale, l'immagine di un Paese allo sbando che, per il modo in cui era avvenuta la resa, era stata prevalente fino a quel momento». Così, da più parti, si cominciò ad avallare l'idea che la Divisione Acqui fosse assimilabile a una «formazione partigiana».

La ricostruzione in dettaglio dei fatti di Cefalonia sulla base di materiale documentario, oltre che memorialistico, ha consentito ad Aga Rossi di mettere in discussione, senza peraltro diminuire né il valore sacrificale dell'eccidio né la sua portata storica, la vulgata propria della letteratura e della pubblicistica della sinistra filo-resistenziale. In questa ottica, alla studiosa gli episodi di ribellione o sedizione e il «referendum» stesso fra i militari all'origine della decisione di combattere i tedeschi, non appaiono affatto come un «gesto di eroismo resistenziale» come, in seguito uno dei protagonisti, l'allora tenente Renzo Apollonio, avversario del Generale Gandin, avrebbe cercato di avallare per presentare quello che accadde a Cefalonia come una sorta di «atto primo» della rifondazione del Paese.

In realtà, tra i militari di stanza a Cefalonia e a Corfù, ve ne erano moltissimi che non pensavano affatto a una discontinuità storico-istituzionale, quasi un nuovo inizio, della storia italiana post-fascista, ma, fedeli al giuramento prestato al Re, guardavano alla Monarchia come alla istituzione che avrebbe dovuto guidare e gestire la ricostruzione del Paese. Peraltro tra le molle che spinsero i militari a non cedere le armi e a imbracciarle contro i tedeschi non vi erano tanto «motivazioni antifasciste», quanto piuttosto ragioni diverse e concorrenti quali il senso della dignità e dell'onore, la stanchezza della guerra, la frustrazione e il desiderio di tornare a casa. È sintomatica, in proposito, la testimonianza di un reduce riportata dall'autrice: «è ancora vivo in noi il senso del dovere e dell'obbedienza e solo per questo abbiamo imbracciato le armi contro i tedeschi, come d'altra parte le avremmo imbracciate contro gli alleati se ci fosse stato ordinato. Quale interesse possiamo avere noi ad affiancarci ai tedeschi o agli alleati quando è stato firmato un armistizio senza condizioni, che ci umilia e ci avvilisce? In noi tutti manca la volontà di combattere una guerra perduta ed è vivo solo il desiderio di tornare al più presto in Patria». E, uno dei promotori della resistenza ai tedeschi, il Capitano Amos Pampaloni, di convinzioni antifasciste, avrebbe confermato in una delle sue ultime interviste: «Noi pensavamo che cedendo le armi diventavamo prigionieri. E invece noi, con l'armistizio, volevamo tornare in Italia. E questo è il concetto principale». C'era, pure, nei soldati della Divisione Acqui, con molta probabilità, la convinzione che gli anglo-americani, dopo lo sbarco a Salerno, sarebbero intervenuti nelle isole Ionie e avrebbero dato man forte contro i tedeschi. Ciò non avvenne anche perché gli alleati, impegnati nell'azione di consolidamento delle loro posizioni nell'Italia meridionale, sopravvalutarono l'effettiva capacità di resistenza delle truppe italiane. E non mostrarono, dopo tutto, un vero interesse ad «appoggiare» o «incoraggiare» più di tanto la resistenza italiana in vista delle decisioni postbelliche sull'assetto territoriale di quelle zone. In un certo senso, come emerge dal bel lavoro di Elena Aga Rossi, si potrebbe parlare anche di responsabilità sia del Governo Badoglio per gli ordini impartiti di resistere sia degli Alleati per il loro cinismo.

L'eccidio di Cefalonia, che secondo le stime di Elena Aga Rossi comportò il sacrificio di oltre 2000 italiani morti in combattimento o fucilati dopo la resa, fu il più brutale e imponente massacro compiuto dai tedeschi nei confronti degli italiani. E questo fatto, combinato col momento nel quale esso fu perpetrato, spiega perché esso sia diventato un vero e proprio «mito» funzionale alla «ragion politica». Un «mito» che Elena Aga Rossi, liberandolo dalle pulsioni ideologiche, ha riportato sul terreno concreto della storia. Rendendo, in tal modo, giusto omaggio ai Martiri.


giovedì 8 dicembre 2016

Involontari elogi per la Monarchia de "L'avanti!"

Le considerazioni nebulose di Stella, Roth e la “patria ritrovata” 

La coincidenza del centenario della morte dell’imperatore Francesco Giuseppe (21 novembre 1916) e la vittoria elettorale del verde Alexander Van der Bellen alle presidenziali austriache ha dato spunto a Gian Antonio Stella di svolgere alcune riflessioni sul sentimento patriottico («Corriere della Sera», 7 dicembre 2016, p. 53). Esse prendono avvio dal capolavoro Il busto dell’Imperatore dello scrittore ebreo Joseph Roth, nato a Schwabendorf nei pressi di Brody il 2 settembre 1894 e morto a Parigi il 27 maggio 1939. Dopo aver tratto da «la Repubblica» del 6 agosto 2011 la notizia relativa alla sua lapide («scrittore austriaco, morto in esilio», il giornalista del quotidiano milanese si lascia andare ad alcune considerazioni nebulose sul protagonista, il conte Franz Xaver Morstin, che – come si legge nella recensione pubblicata da «la Repubblica» – discende da una famiglia di origine italiana e descrive con nostalgia il mondo elegiaco dell’Impero austro-ungarico e il suo «complesso sistema di popoli e di razze».

Quale sia il nesso tra Van der Bellen, il protagonista del romanzo Il busto dell’Imperatore e Francesco Giuseppe I è noto solo al giornalista, che trova chiarezza alle sue considerazioni su Wikipedia per la molteplicità di nomi utilizzati per definire lo statista austro-ungarico. Sembra che egli accetti i giudizi del protagonista, senza tenere presente il percorso esistenziale di Roth, il quale verso il 1925 abbandona la sua fede socialista, difende la monarchia ed esalta la tradizione ruotante intorno ai valori religiosi e patriottici. Le sue scarse simpatie per il socialismo, dettate da una particolare sensibilità verso i più bisognosi, vengono meno durante il suo soggiorno in Russia, dove vi si recherà nel 1926 come inviato del «Frankfurter Zeitung».
[...]

mercoledì 7 dicembre 2016

Referendum, i Monarchici dell'Umi: “Prima elezioni poi nuova costituente”


L’Unione Monarchica Italiana non ha dubbi: “Subito alle urne”

“Gli italiani hanno nettamente bocciato la bizzarra riforma della Costituzione proposta dal Governo e il primo Ministro, che ha voluto personalizzare questa campagna referendaria, non poteva non tenerne conto”.
 Lo rende noto l'Umi in un comunicato nel quale spiega: “Dopo le dimissioni di Matteo Renzi, per scongiurare un periodo di forte instabilità, l’Unione Monarchica Italiana auspica che si vada quanto prima alle elezioni al fine di garantire nuovamente al Paese un governo che rispecchi la volontà del voto popolare, cosa che non è avvenuta con gli ultimi tre Esecutivi.
Il Governo di transizione che si andrà ad insediare dovrà avere come priorità assoluta una legge elettorale che porti al superamento dell’attuale sistema, dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale nel 2013.
L’Italia si è divisa in due di fronte a delle riforme che tutelavano i partiti e le lobby ed ha capito di avere la necessità di una vera e seria stagione di cambiamento. Bisogna andare oltre le briglie dell’attuale Carta costituzionale, ormai appesantita da quasi sette decenni di storia in cui il Paese è radicalmente cambiato.

Una volta che l’Italia avrà un Parlamento eletto secondo un sistema legittimo, si indìca un’assemblea costituente per dare al Paese una nova Costituzione che, tra l’altro, elimini mostri giuridici equivalenti all’attuale articolo 139. Basta con le limitazioni della sovranità popolare!
L’U.M.I., che in questa campagna referendaria si è battuta per la vittoria del NO, esprime la propria soddisfazione per il pericolo scongiurato con l’entrata in vigore di una riforma grottesca ma è consapevole che questo pronunciamento popolare debba essere solo il primo passo di un lungo percorso per risollevare il Paese.
La paura del voto che la classe politica tradizionale ha da qualche tempo deve essere superata, l’affluenza alle urne di questo referendum ha dimostrato che gli italiani vogliono e devono ancora poter dire la loro.

Abbiamo perduto fin troppo tempo, tergiversando con Governi succubi di interessi extra nazionali, e dobbiamo uscire  dall’impasse nel quale ci siamo venuti a trovare. Torniamo ad essere orgogliosi non solo della nostra Patria ma anche delle sue Istituzioni. Questo lo si potrà ottenere soltanto cambiando radicalmente l’attuale assetto politico. La strada è in salita ma non ci dobbiamo scoraggiare: la meta finale è il cambio istituzionale. La riscossa definitiva dell’Italia arriverà soltanto alla luce del sole di una nuova Monarchia costituzionale. Nel frattempo vigileremo con attenzione”.

GUERRA E GLORIA: PRINCIPE EUGENIO DI SAVOIA

Genio militare, eroismo bellico e nobiltà romantica dipingono solo in parte la straordinaria e notevole biografia di Eugenio di Savoia, salvatore d'Europa e soldato di tre Imperatori.
Federico Mosso – Lunedì 5 settembre 2016  

La terra trema: ventimila uomini dell’esercito imperiale asburgico marciano senza sosta verso Torino, capitale del Ducato di Savoia, guidati dal principe Eugenio, il Prinz Eugen. Corre l’anno 1706 e il Piemonte è occupato dalle truppe franco-spagnole,  acerrime nemiche dei Savoia durante la guerra di successione per il trono di Madrid. Intorno alle mura della capitale sabauda, chilometri e chilometri di trincee sono scavati per permettere ai fanti del Re Sole di cingere d’assedio i difensori del ducato. Con un lungo cannocchiale sbirciano la notte dal fortino piemontese sul Monte dei Cappuccini: il palcoscenico della guerra è illuminato dai fuochi delle artiglierie e dagli incendi dentro le mura. Che magnifica e terribile bolgia insonne, un pandemonio! Laggiù, migliaia di soldati si muovono agitati sulle passerelle, lungo i sentieri scavati nella terra, tra i mortai dalle larghe bocche; escono ed entrano come tante formiche frenetiche e terrorizzate dal fuoco in buchi neri che portano alle gallerie sotterranee dove viene combattuta l’ altra battaglia, quella in profondità, quella che non si vede,  per le talpe con i pugnali fra i denti che giocano a lanciare granate con la miccia corta, o cortissima. E talvolta infatti, la terra esplode. Ecco, una batteria francese alzarsi dal suolo dalla spinta di un bagliore bianco-giallo-rosso, e vanno in pezzi uomini e cannoni: è il lavoro delle truppe speciali torinesi, i minatori del Duca, che strisciano di sotto, e piazzano grandi botti sotto il culo dei gallispani, con gli omaggi di Sua Maestà Vittorio Amedeo II.
“Charger! … Feu!”
Strillano fino a ferirsi la gola, gli ufficiali di Francia, e i cannoni rispondono ai comandi migliaia di volte, sputando palle pesanti che tentano di aprire brecce sulle possenti mura della Cittadella, ma nulla, la pietra è rosicchiata ma non crolla, e allora le bocche da fuoco vengono alzate di un poco, e si bombarda la città che non si arrende, la città che ha la cinghia stretta e il volto sporco di fuliggine ma non alza la bandiera bianca, fiera. Ispiriamoci alle mirabolanti avventure del barone di Münchausen. Come se una palla di cannone avesse gli occhi, guardiamo la sua prospettiva di viaggio, noi siamo adesso la palla di cannone da 40 libbre (son 18 chili, fanno male se ti prendono in testa ai 300 km/h). Un bombista bretone, mostrato a intermittenza dai bagliori degli scoppi,  tozzo e nero di lerciume, ci sceglie da un mucchio di altre, ci accarezza, sogghigna con solo due denti buoni, ci bacia al sapore di vino acido, da suo rito personale.
“Bon voyage, ma petite fille.”
Scivoliamo dentro la canna di ferro, buio, poi udiamo il comando secco feu! gridato roco, e un lampo ci acceca. In orbita, una stella cometa vola sopra il campo di battaglia di Torino e le sue esplosioni nel cuore della notte sabauda, le grida ora sono solo rumori smozzicati, il vento ci avvolge, ci fa girare su noi stessi, ci alziamo in aria, sopra gli uomini che si fanno la pelle a vicenda, oltrepassiamo i bastioni illuminati dalle fiamme, scorgiamo in un pezzetto di attimo i difensori senza sonno che affollano i camminamenti delle mura bucherellate, anche loro instancabili a caricare bombarde e moschetti e a bestemmiare forte sotto i vessilli con l’effige della Consolata, adesso siamo sopra le case della città, sotto di noi il Quadrilatero Romano, Boja Fauss precipitiamo, velocissimi, tra poco impattiamo, Giuda Crin, picchiamo secchi sul campanile di Sant’Agostino, rimbalziamo come flipper, sfondiamo di naso un muro del palazzo nobiliare di signori conti, salutiamo nel salotto con il nostro passaggio velocissimo il signor conte con la gotta, la signora contessa con cane carlino, la vecchia suocera rimbambita di lui, un servo in livrea che rovescia il vassoio con la cioccolata, sfondiamo il ritratto di un  parruccone prelato e un’altra parete, roviniamo in strada tra due mercenari svizzeri ubriachi marci che balzano sui muri di lato come gatti sotto una secchiata d’acqua, mannaggia il demonio non è finita, ancora un bel rimbalzo in aria con il fiato strozzato e poi giù nella via Conte Verde, bassofondo e territorio di osterie mal frequentate e bordelli a buon mercato, davanti alla locanda dell’ Inferno interrompiamo una rissa al coltello tra granatieri crucchi e fanti canavesani, c’è ancora tempo per una spallata ad un edificio; la palla di cannone, cioè noi, finisce la sua folle corsa nel catino di una puttana zoppa, che guardiamo sotto le voglie di un sergente sudato e ansimante a cui abbiamo rovinato l’apice del piacere del materasso acquistato con mezzo tallero d’argento, ma Deo Gratias, non abbiamo stecchito nessuno. I giorni 6 e 7 settembre c’è l’ attacco rabbioso degli uomini del Principe Eugenio con violenti assalti di fanteria prussiana e cariche di cavalleria. Sono fiumi umani in piena che travolgono accampamenti e compagnie avversarie. Le baionette affondano nelle pance francesi e le sciabole mozzano teste spagnole, mentre il concerto con moto malvagio dell’ artiglieria fa sentire i suoi tuoni di grancassa e timpani. Fuggono i gallispani, in rotta. Torino è  liberata dal cappio dell’ assedio e i suoi eroi, il Duca Vittorio Amedeo II e il Prinz Eugen, con le parrucche delle grandi occasioni, entrano in trionfo da Porta Palazzo, e il Duomo ringrazia il cielo con il solenne inno del Te Deum.
Tu rex gloriae, Christe. / Tu Patris sempiternus es Filius./ Tu, ad liberandum suscepturus hominem, / non horruisti Virginis uterum. / Tu, devicto mortis aculeo, aperuisti credentibus regna caelorum. / Tu ad dexteram Dei sedes, in gloria Patris. / Iudex crederis esse venturus.
Quello appena concluso è lo scontro finale di un lungo assedio durato quasi quattro mesi di primavera-estate d’inizio settecento, 117 giorni per l’esattezza. Non si tratta di un episodio secondario della storia d’ Europa, tutt’altro, a Torino si è combattuta una Stalingrado del XVIII secolo; qua, sotto le sue mura, i sogni continentali ed extra continentali di Luigi XIV s’ infrangono una prima volta, nubi offuscano il Sole, suo nipote Filippo sarà sì Re di Spagna come il nonno aveva desiderato, ma il trono è ben separato da quello francese. Non ci sarà una superpotenza indistruttibile franco-iberica, inoltre inizierà l’ inesorabile declino di quello che un tempo era impero immenso: la Spagna decade e l’ Inghilterra la scalza e domina i mari. Gli Asburgo s’impongono in Mitteleuropa, nasce il regno militare di Prussia, i Savoia, ambiziosi guerrieri in ascesa, sono adesso  Re. La battaglia è vinta dai sabaudi per varie ragioni; una di esse è l’ indiscutibile abilità bellica di Eugenio di Savoia, uno dei protagonisti più celebri e in gamba dei campi di battaglia europei a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, periodo di odi dinastici, scontri orientali con i sempre turbolenti turchi e lotte per l’ egemonia sul Vecchio Continente mai in pace.
Eugenio è considerato da molti storici come l’ultimo grande capitano di ventura, un nobile mercenario, un condottiero fedele alla casata degli Asburgo (e generosamente  ripagato per i suoi sforzi ) che dalla Vienna imperiale resiste salda alle dolorose spallate degli ottomani da meridione e da Luigi XIV da occidente. Nato nella Parigi del Re Sole, è decisa per lui la carriera religiosa dall’indiscutibile volere dell’ odiato monarca francese, suo tutore. Eugenio, che di gran lunga  preferisce la strada delle lame e del sangue ad una vita di Pater Noster e ostie, fugge dalla Francia mascherato da donna per riparare presso la protezione austriaca di Leopoldo d’ Asburgo. Rulli di tamburo da guerra: colonna sonora della biografia del condottiero. Eugenio, Eugen, sale in groppa ad un destriero dei dragoni del Sacro Romano Impero. Battezza l’acciaio della spada con il sangue turco nella battaglia di Vienna contro le schiere di Maometto IV, dove mostra subito la propria concezione dell’ arte bellica: in prima fila a spronare i suoi uomini alla carica e non come altri generali più oziosi che considerano la guerra come una partita a scacchi da condurre tra gli agi della propria tenda. Conquista gradi, guadagna gloria, si procura cicatrici. Pare che quando si getti all’assalto, il suo volto si dipinga di una smorfia feroce ipnotizzata dalla morte e che inciti i suoi con grida e imprecazioni, seguito dai suoi sanguinari cani da caccia lanciati eccitati a fauci spalancate nella grande zuffa. Freddo e risoluto, ama nei momenti di difficoltà in mezzo alla baraonda della lotta sniffare tabacco, di cui le sue narici ne vanno ghiotte. L’armata del Principe è un vero e proprio esercito internazionale, europeo. Tra i ranghi marciano e combattono italiani, tedeschi, spagnoli, svizzeri, francesi, slavi, ungheresi.
A Zenta, in Serbia, nel 1697, con un esercito di mercenari scalcagnato e senza paga, riesce a compiere un’ imboscata colossale. Attacca gli ottomani che, tranquilli e ignari del pericolo di belve in agguato,  attraversano a migliaia il fiume Tibisco su ponti di barche. Le truppe del sultano sono in quelle ore così vulnerabili, ed Eugenio ne approfitta, le belve balzano sulla preda. Il nostro Feldmaresciallo li fa a pezzi sulla sabbia, li guarda affogare. È un successo che ha risonanza in tutte le corti,  Eugenio di Savoia è un grande condottiero, è nata una stella nella storia militare del continente. La sua capacità strategica detta  il corso della storia quando in Baviera, insieme all’ amico inglese Duca di Malborough, nonché antenato di Winston Churchill,  affronta i francesi nella vittoriosa battaglia di Blenheim che di fatto blocca l’ avanzata del nemico fino a Vienna. Se la campagna militare franco-bavarese fosse riuscita, sarebbero cambiati inesorabilmente i destini d’ Europa e i suoi assetti di potere.
Terribile è l’ esperienza della carneficina di Malplaquet, o battaglia dei due Re, in Belgio, sempre nello scenario della guerra di successione spagnola. Otto ore di lotta furibonda iniziata in una mattina di nebbia spessa, inquietante. Decine di migliaia di uomini sono in formazione ad aspettare la danza con la morte: danesi, sassoni, francesi, piemontesi, olandesi, inglesi, bavaresi, irlandesi, scozzesi, svizzeri, spagnoli … quante nazionalità! C’è mezza Europa, in mille uniformi, bandiere, marce di guerra. Calma, non si muove una mosca, la quiete prima della tempesta. E d’ improvviso la nebbia grigia è squarciata dal fuoco a volontà dell’ artiglieria. Il campo è caos, si susseguono i bombardamenti, le file di moschetti falciano le formazioni in attacco, gli uomini cadono, i cavalli pure, nel bosco di Sars avvengono cruenti scontri all’ arma bianca, gli squadroni di cavalleria contrattaccano senza badare alle perdite, nei trinceramenti si scannano uno sull’ altro, spade e baionette s’ incrociano tra gli alberi, scorre tantissimo sangue. Infine, nel primo pomeriggio, Malplaquet diventa teatro di un’ immane combattimento tra cavalieri, squadroni su squadroni intervengono uno dietro l’ altro nella mischia di nitriti e sciabole. Da una parte attaccano e ripiegano Carabiniers e Dragoni della Maison du Roi, dall’ altra contrattaccano e si ritirano gli imperiali a cavallo e i cavalieri dell’ Assia-Cassel. Sul campo rimangono circa 30.000 uomini, quel terribile 11 settembre del 1709. La vittoria è di nuovo dalla parte di Eugenio e del suo vecchio camerata John Churchill duca di Marlborough; però a quale prezzo! Le truppe imperiali sono ridotte così male che non riescono a inseguire i francesi perché letteralmente crollano sul terreno, esauste dopo un’ intera giornata di botte da orbi senza tirar fiato. Un generale inglese, tale Lord Orkney, dice su quel giorno maledetto:
 “Prego Iddio che questa sia la mia ultima battaglia”.
Battaglia di Belgrado, guerra austro-veneto-turca: mamma li turchi, di nuovo. Eugenio marcia nei Balcani per prendere la piazzaforte di Belgrado, tenuta dalla guarnigione ottomana di Mustafà Pascià. Inizia l’ assedio, ma alle spalle arriva un altro esercito nemico, forte di 150.000 uomini. Si crea una situazione di doppio assedio. Gli austriaci circondano i turchi asserragliati dentro le mura di Belgrado, altri turchi circondano gli austriaci assedianti, in un groviglio di trincee e batterie. Le battaglie si vincono anche con la fortuna, e la buona sorte aiuta Eugenio quell’estate belgradese. Un proietto di mortaio colpisce in pieno la santabarbara della fortezza. È un’ esplosione gigantesca, infernale, mai vista prima. Muoiono 3.000 nemici in un colpo solo, un’ atomica settecentesca. È l’ occasione buona. Allo scoccare della mezzanotte del 16 agosto del 1717, il principe ordina l’ attacco totale, tutti devono partecipare. Gli ottomani non se lo aspettano, di notte non si combattono le battaglie campali, invece Eugenio rompe gli schemi, l’ oscurità gli è musa. Comandante eccezionale, è lì a cavallo a condurre personalmente l’assalto, alla testa dei suoi, senza paura. I giannizzeri, la guardia pretoriana della Sublime Porta, casta guerriera di Costantinopoli, cede, arretra, è in rotta.
Tra una ferita e una carica di cavalleria, il Prinz Eugen trova anche tempo per spendere parte degli immensi bottini accumulati in anni di avventure. È Principe ricchissimo, rispettato, invidiato, odiato. Si fa costruire un lussuosissimo castello a Vienna, il Belvedere, che riempie di opere d’arte e di volumi preziosi, suoi fedeli amici. Mastino della guerra, sicuramente, ma anche uomo di grande cultura. Nel parco vuole pure un ricco giardino zoologico con più di cinquanta specie esotiche tra cui gli amatissimi leoni. Le malelingue dicono di lui che sia omosessuale: anche se fosse sarebbero fatti suoi, comunque sono solo calunnie volte a screditarlo presso la cattolica corona asburgica, che se ne frega di quei mormorii da cicisbeo invidioso, perché ben si rende conto dello straordinario valore di quel comandante imparentato stretto con i signori di Torino. A corte, piccoli uomini e cortigiane arrampicatrici lo denigrano per la sua fama e per l’ alta considerazione che tre Imperatori hanno di lui; i mediocri rosicano mentre gli eroi cavalcano nell’immortalità. Nonostante avesse scherzato con la morte in innumerevoli occasioni, muore in poltrona, addormentandosi per sempre una mattina di aprile del 1737. Gli intitoleranno marce, navi, corazzate, formazioni militari.
Un giorno Eugenio di Savoia, il salvatore di Torino, così si rivolge alla giovane Maria Teresa, futura Imperatrice d’Austria: 


“La pace, mia cara bambina, è meglio di ogni altra cosa al mondo. Tuttavia per difenderla, occorre essere disposti anche a fare la guerra.

martedì 6 dicembre 2016

Lettera (non pubblicata) a Sergio Romano

Caro Ambasciatore,
alla dilagante e sconfortante non conoscenza della grammatica italiana dimostrata ogni giorno da un numero crescente di esponenti politici nazionali si accompagna - evidentemente conseguenza delle stesse cause "scolastiche" - la non conoscenza della storia politica nazionale e internazionale.

Giorni or sono l'On. Meloni, a "Porta a Porta", discutendo dell'attuale proposta di riforma del Senato, non sapeva modalità di composizione e funzioni del Senato del Regno che, dal 1861 al 1946, vide tra i suoi membri, non eletti ma nominati dal Re nell'ambito di 21 categorie, le personalità italiane più illustri della cultura, delle scienze, delle arti, della diplomazia, della magistratura, delle Forze armate, oltre che, ovviamente, della vita politica (ne cito soltanto due: Benedetto Croce e Luigi Einaudi). 

Rileggere la lista dei Senatori del Regno di quegli 85 anni di storia italiana è, allo stesso tempo, impressionante e deprimente per il paragone con l'attualità.

Oggi sul "Corriere della Sera", a pag. 6, l'On. Miccichè, esponente di lungo corso della politica, già membro del Governo, fa una affermazione del tutto inventata: secondo lui esisterebbe "un patto scritto" tra i due partiti cristiani tedeschi alleati dal 1949, CDU e CSU, "per cui il cancellierato non andrebbe mai alla CSU".
Tale "patto" non è mai esistito.

Nel 1980 il candidato unitario CDU/CSU alla Cancelleria fu il Primo Ministro bavarese e leader della CSU Franz Josef Strauss che conquistò 226 seggi contro i 218 della SPD del Cancelliere Helmuth Schmidt il quale continuò a governare (fino al 1982) alleato dei Liberali che avevano ottenuto 53 seggi.

Nel 2002, di nuovo, il candidato unitario CDU/CSU alla Cancelleria fu il Primo Ministro bavarese e leader della CSU Edmund Stoiber che ottenne 248 seggi contro i 251 della SPD del Cancelliere Gerhard Schröder il quale continuò a governare con i Verdi che avevano ottenuto 55 seggi.

Ma anche il "Corriere"   in quanto a errori non perde colpi: sempre oggi, a pag. 23, nell'articolo sulla cittadina di Solferino, Napoleone III (erronamente scritto III°) viene definito "Re di Francia", roba da matita blu della Maestra di V elementare.

Cordialmente,
Ettore Laugeni   

LA MORALE DELLE FAVOLE

A  risultato  ufficiale  del referendum  costituzionale  del   4 dicembre,  si  possono  forse  capire  certi  atteggiamenti  di  Renzi, acidi   e   intolleranti , verso  i  fautori  del  NO, e  l’infelice   frase  sulla  “accozzaglia”, quando  la  lingua  italiana, che  pur  nacque  nella  sua  Toscana, ha  altri  termini  non  offensivi, quale ad  esempio  “eterogenea”. 

Del  resto  nei  “referendum”, fatalmente  si  formano  schieramenti   eterogenei, ed  il  maggiore  esempio  è  stato  dato  dal  referendum  istituzionale  del  2  giugno  1946, per  quanto  riguarda  lo  schieramento   repubblicano, che  vide  insieme  “repubblichini”, con  gli  intransigenti  antifascisti  del  Partito  d’ Azione, i  nostalgici  del  Papa Re, che  volevano  vendicare  la  “breccia  di  Porta  Pia”, insieme  con  gli  austeri  mazziniani, dalle  grandi  cravatte, unitamente  ai  social comunisti, che  di  tutto  potevano  essere  nostalgici, ma  non  certo  del  potere  temporale  né  dei  “Doveri  dell’uomo”, social comunisti il  cui  voto  è  stato, per  la  vittoria  ufficiale  della  repubblica, rappresentando oltre otto dei dodici milioni raccolti  dalla  repubblica, cioè oltre  i  due  terzi!   

Tornando a Renzi, che  con  la  sua  ossessiva  presenza  televisiva, non  pensava  di  essere  controproducente, come  in  realtà  è  poi  stato, certe  favole, con  la  loro  morale, avrebbero  dovuto  consigliargli, fin  dall’ inizio , invece  del  suo  “aut aut”, ben altro  atteggiamento o forse  la  sua mamma non  gli  aveva  mai  letto  ad  esempio  la  favola  di  quella  contadinella  che  va  al  mercato, con  in  testa  un   cestino  di  uova ( risultato  elezioni  europee ), e  camminando  pensa  che  vendendole  ad  un buon  prezzo, via via avrebbe guadagnato  molti soldi e tutti  la  avrebbero  riverita. 
Così  facendo si inchinò e le uova caddero spiaccicandosi  per  terra  ( referendum  costituzionale ).


Domenico  Giglio