NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 29 novembre 2014

Belle cose oggi a Novara

E c'era anche la Marcia Reale....
Un Grazie! a Marco Lovison



venerdì 28 novembre 2014

La Regina discreta

di Guido Rocca

Elena di Savoia è morta d'improvviso quindici giorni dopo che i giornali italiani e del mondo avevano pubblicato la notizia di un improvviso peggioramento del suo stato di salute. Allora, dopo il primo allarme, si diffusero voci tranquillizzanti, e le stesse interviste concesse da Umberto ai giornalisti italiani non sembrarono nascondere la preoccupazione per una tragedia prossima. Il medico curante della vecchia regina, da parte mia, pareva abbastanza ottimista sugli sviluppi delle cure che le stava praticando. Poco per volta si stabilì la convinzione che effettivamente la riunione di tutti i pirincipi Savoia intorno alla madre dipendeva da questioni strettamente familiari anzi, economiche - come voleva la prima versione ufficiale dell'avvenimento.

Al rientro dei giornalisti in Italia fece seguito la partenza da Montpellier della principessa Giovanna che ritornava a Madrid, di Maria di Borbone che partì per Cannes con l'Alfa Romeo di Umberto, infine di Umberto stesso. La Regina Elena restò sola, come ormai le accadeva per buona parte, dell'anno insieme a due sorelle, Xenia e la principessa di Battemberg, che però, per mancanza di spazio, alloggiavano all'albergo Metropol giù in città.
Molti erano ormai  propensi a considerare la notizia della scorsa settimana come un falso allarme e immaginavano già la vecchia Regina che se ne ritornava a pescare gli sgombri e i cefali insieme al dottor Lamarque, o a passeggio nel giardino che circonda il Mas du Ruel con la sua dama, di compagnia, la contessa Jaccarino o le sorelle. Invece venerdì scorso, improvvisa, giunse la notizia della sua morte.

Ascoltando il primo laconico annuncio primo radio: «Nella casa vicino a Montpellier dove ormai abitava da tre anni è spirata Elena di Savoia, ex-regina d'Italia» a molti dev'essere tornato in mente il testo dell'unica indiscrezione trapelata più che dal riserbo della vecchia regina dalle indiscrezioni dei suoi familiari: il suo tenace desiderio di ritornare in Egitto, ad Alessandria, per finire i suoi giorni nella casa dove morì Vittorio Emanuele III. La sua paura dell'Europa, la sua sensazione di esservi ormai come un'estranea.

Non ha potuto essere esaudita, ed è morta in una casa d'affitto, fra mobili non suoi, in un paese dove il sole e il bel clima, le partite di pesca, certo non la compensavano del fatto di vivere lontana -soprattutto ora che un oscuro presentimento la tormentava - dai luoghi dov'era il ricordo degli ultimi giorni di suo marito. La residenza cui la obbligava il suo stato di salute, era diventata ormai quasi come un secondo esilio.

Non esiste forse nella storia il caso di una donna che fu regina per cinquant'anni e di cui i suoi stessi sudditi sappiano tanto poco. Nessuna biografia è tanto povera di avvenimenti sensazionali, di fatti pubblici, di aneddoti; e se esiste una segreta vita, interiore, se si intuisce l'esistenza di una personalità certo non trascurabile anche se non clamorosa, chi è in grado di parlarne?

Molti aspetti del carattere di Elena di Savoia sono saltati fuori - si può dire - più attraverso questi anni del suo esilio, che non dal cinquantennio in cui fu Regina d'Italia. Per un'aneddotica su Elena di Savoia è fonte più ricca Montpellier di quanto non lo sia stata l'Italia intera. Gli stessi che oggi sono disposti a commuoversi, nell'ascoltare l'episodio del groom dell'hotel Metropol di Montpellier (un giorno alla vecchia Regina che gli chiedeva l'ora dovette rispondere di non possedere un orologio, e si vide regalare l'indomani un bel cronometro) sono forse gli stessi che molti anni prima erano propensi a rimproverare ad Elena di Savoia la sua vita troppo ritirata, troppo modesta, quasi indegna di una vera regina. Che magari, in segreto condividevano l'ironia della duchessa d'Aosta la quale parlando di Elena aveva l'abitudine di chiamarla «Ma cousine, la bergère».

Certamente non si erano mai fermati a considerare l'ipotesi che la logica semplicità della regina Elena, la sua fedeltà ai principi borghesi - proprio in quanto regina la sua costante convinzione nella serietà dell'esistenza, facessero parte di un'intuizione superiore dell'evoluzione del mondo assomigliasse ai doveri della regalità molto più di una, partecipazione alla vita mondana. Forse ancora oggi non si rendono conto di quanto abbia servito al prestigio della corona inglese l'improvvisa nota di austerità e di semplicità portata a suo tempo dalla regina Elisabetta, e di una rassomiglianza sostanziale che esisteva fra la Regina d'Inghilterra ed Elena di Savoia.
Se la regina Margherita fu personaggio ben più rappresentativo e celebrato, sul metro dei valori umani già oggi ben pochi tra quelli che facevano costantemente il paragone per gettar discredito sulla regina che le successe al trono d'Italia sono disposti a sostenere la dinamica moglie di Umberto I contro la modesta figlia del re pastore di Cettigne.

Primi a vederla fra tutti gli italiani furono i veneziani nella primavera del 1895. Fu in occasione del secondo incontro fra l'allora Principe di Napoli Vittorio Emanuele ed Elena del Montenegro, quintogenita tra sette fratelli e sorelle educata alla corte russa protettrice ed amica del suo piccolo paese.
La prima volta, i due giovani principi si erano incontrati a Mosca, (incontro abilmente preparato da Costantino Nigra ambasciatore italiano a Pietroburgo) durante la festa per l’incoronazione dello Zar Nicola II.
Secondo le descrizioni maligne di Maria di Romania, citate da Domenico Bartoli nel suo Fine di una monarchia Vittorìo Emanuele in quell’occasione dava il braccio a Maria Fiodorovna, moglie di Alessandro III protettrice di Elena. La giovane principessa faceva di tutto per trovarsi sempre con Vittorio Emanuele, come una collegiale innamorata, benché gempre secondo il giudizio della regina  romena - egli fu un cavaliere poco gradevole avesse un leggera tremito alle mascelle e un modo di parlare rotto e piuttosto brusco.

Elena, era molto graziosa, piacente, simpatica, conosceva gli usi della società, le lingue, aveva tutto quanto occorreva ad una regina di cinquant'anni fa. Scriveva anche poesie. (Dopo quella pubblicata sulla rivista russa Nedelia e ispirata a Vittorio Emanuele, non se ne videro però altre: "Egli è venuto dal mare - dal mare egli è venuto - è biondo come sua madre - ha nobile lo sguardo - ha altero lo sguardo).

Era bella, piacente, ma timida, un po' impacciata, quasi nascondesse un segreto tormento. Nel mondo dei principi e delle principesse essa era infatti la ragazza povera, protetta da re grandi e affettuosi, ma non riusciva a dimenticare quanto la sua reggia nel Montenegro fosse quella di un capo di pastori guerrieri e assomigliasse ben poco ad un grande castello. Fu forse la constatazione improvvisa di questo segreto tormento della giovane principessa che con Vittorio Emanuele (il quale aveva già rifiutato anni prima di sposare Elena d'Orléaas proprio per le ragioni opposte) a sgomberare il proprio a animo da tutte le riserve e a lasciarsi andare alla simpatia che gli ispirava la bella principessa  anche se molto più bella e molto più alta di lui.
Sappiamo che Vittorio Emanuele aveva timore delle donne alte e belle. Ossessionava la sua esistenza di giovane principe di statura straordinariamente bassa il pensiero che mai donna lo avrebbe sposato altro che per l'interesse che suscitava la sua qualità di principe reale. Per questo, nelle poche avventure, giovanili di cui si ha notizia - seppure vaga - egli aveva ripiegato sempre su donne piccole e brutte. D'improvviso aveva scoperto in quegli incontri cui lui stesso non credeva - e che sembravano dettati soltanto da esigenze politiche dalla necessità di portare con quel matrimonio un afflusso di sangue nuovo e sano nella vecchia famiglia dei Savoia che Elena di Montenegro soffriva, come lui, seppure per ragioni diverse, di un complesso di inferiorità.

Quel matrimonio che a suo tempo non suscitò alcun entusiasmo e che, alla maggior parte dei nobili italiani parve quasi “mesalliance” e piacque soltanto al popolo (la gente minuta apprezzò il fatto che il principe ereditario fosse andato a scegliersi la moglie fuori della cerchia convenzionale) si rivelò poi l'unico matrimonio veramente felice - nel senso più convenzionale e borghese della parola - nella storia della monarchia italiana.

Elena di Montenegro riuscì, come le sue sorelle maggiori, a sposare un principe reale; aveva potuto evadere dalla festosa e superba - per quanto ospitale - reggia della Santa Russia, ma quando ebbe coscienza delle difficoltà di cui sarebbe stata cosparsa la sua carriera di principessa e poi di Regina nella sua nuova patria - in un'Italia che attraversava un tragico momento storico e politico, con un opinione pubblica che non mostrava simpatie per il giovane principe suo marito - non trovò più la felicità che aveva conosciuto per la prima volta e in maniera così completa durante il periodo del fidanzamento. Era l'epoca in cui Vittorio Emanuele veniva a trovarla a Cettigne e trascorrevano le giornate nei boschi e nei prati a caccia di cervi e di lupi. Forse fu questo il periodo più felice, - il solo - anche nell'esistenza di Vittorio Emanuele. Alcuni documenti dell'epoca ci raccontano del principe di Napoli, loquace con gli occhi lustri per la gioia, che mangiava la selvaggina uccisa, nelle piazze dei villaggi montenegrini, insieme ai futuri cognati, al vecchio suocero e alla fidanzata, mentre i contadini cantavano le antiche ballate davanti al fuoco acceso. In quello stesso periodo, in Italia Scarfoglio scriveva un articolo «La bella Elena» nel quale titolo e sostanza volevano essere una aperta allusione all'operetta di Offenbach. Lo stesso Scarfoglio aveva scritto ben di peggio sul Mattino del 27 novembre 1896, un mese esatto, cioè, prima delle nozze. Un articolo di fondo intitolato “Le nozze coi fichi secchi” un documento ormai rarissimo citato da Alberto Consiglio nella sua Vita di Vittorio Emanuele III.

Vale la pena di ricordarne alcuni passi:
«Da due mesi non si sente predicare se non questo tema: - Badate, chi si sposa è Vittorio Emanuele di Savoia, non il futuro Re d'Italia. 

Così incominciava l'articolo. «Ora questo principe non aveva proprio bisogno d'un matrimonio celebrato a questo modo e in circostanze simili. A differenza di Umberto e di Amedeo, i quali erano già rispettati e adorati dal popolo, però che s'erano identificati con la patria sul campo di Custoza, egli è rimasto estraneo alla vita italiana come quei principi etiopici che sino ad un secolo fa erano educati sulla cima di un'amba solitaria. Di forme e di statura già poco conformi all'ideale fisico che il popolo ha dei re, le poche volte che è apparso in pubblico non ha conquistato certo l'immaginazione degli spettatori. Lo ricordo ai funerali dell'imperatore Guglielmo a Berlino nascosto nella sua mantellina di tenente di fanteria, tra un corpo di principi coloniali coperti d'oro e dalle lunghe barbe lohengriniane: chi avrebbe detto che quel tenentino, con quel pentolino in capo, rappresentava trentadue milioni di sudditi e ventitré secoli di storia? L'ho rivisto un mese fa a Cettigne, nel pieno esercizio delle sue funzioni di fidanzato ufficiale col suo piccolo paletot mastic, con un cappello a cencio sul capo, e pareva un collegiale in vacanza in mezzo a un popolo vestito del suo pittoresco costume e armato fino ai denti».

E più avanti: «Posizione non cattiva, badiamo; ma incerta, piena di dubbi e di oscurità, che rendono perplessi quanti credono inseparabili la fortuna della Monarchia e l'unità della Patria. Ora questo matrimonio celebrato a questo modo e in questo momento, non è fatto per migliorarla; e la freddezza con la quale n'è stato accolto l'annunzio aumenterà quando gli italiani vedranno la loro futura regina e con      stateranno co' loro occhi che essa non è né la gigantessa rigeneratrice di un sangue illanguidito, né la beltà fulminatrice, che s'è detto.
Graziosa, gentile,   dolce creatura; ma non certo un'Elena greca infiammatrice di cuorì per modo che ai feriti da lei sia impossibile aspettare il ritorno dei generale Valles, per evitare questi tristi e male auspicati sponsali».
Questo servirà, meglio di ogni altra cosa, per descrivere il clima nel quale Elena di Montenegro si preparava a diventare la moglie del Principe Ereditario al trono d'Italia.
E c'era Margherita.

continua


mercoledì 26 novembre 2014

Circolo REX Necessità immutata della filosofia: l’esempio di Giovanni Gentile

A  settanta  anni  dalla  barbara  uccisione  del  filosofo  Giovanni  Gentile, la  Sua  figura  di  studioso, di  legislatore  e  di  grande  organizzatore  della  cultura  italiana, sarà  ricordata, per  iniziativa  del  Circolo  di  Cultura  ed  Educazione  Politica  REX, domenica  30  novembre, alle  ore  10,30, in  Roma,  via  Marsala  42, sala  Uno,  dal  professore  Vincenzo  Cappelletti,  già  Direttore  Generale  e  poi  Vice  Presidente  dell’Istituto  dell’ Enciclopedia  Italiana.
Argomento  della   conferenza :

Necessità immutata della filosofia: l’esempio di Giovanni Gentile

domenica 23 novembre 2014

Novara, Convegno delle Guardie d'Onore al Pantheon per il 60° anniversario del ritorno di Trieste all'Italia


Delegazione Provinciale di Novara
INVITO  NOVARA SABATO 29 NOVEMBRE 2014


60° ANNIVERSARIO DEL RITORNO DI TRIESTE ALL’ITALIA
E in ricordo dei Martiri Caduti nelle Foibe

PROGRAMMA

Ore 15,00 Ritrovo presso il Monumento ai Caduti Viale IV Novembre
Ore 15,15 Deposizione Corone d’Alloro
Accompagnerà il corteo: CORPO BANDISTICO VERDE AZZURRA  di GALLIATE
Monumento Equestre di S.M. Vittorio Emanuele II Padre della Patria
Deposizione Corona d’Alloro - Piazza Martiri

Ore 15,45 – 15,50 Chiesa San Giovanni Battista Decollato – Piazza Puccini, 9
Santa Messa in occasione del 60 Anniversario del Ritorno all’Italia di Trieste
e di tutti gli Italiani Caduti nelle Foibe
Per tutti quelli che furono considerati Fascisti arrivando in Italia, dopo il doloroso ESODO dall’Istria e Dalmazia

Celebrante  l’Assistente Spirituale della Delegazione Cav. Uff. Mons. Gian Luca Gonzino

Interventi Storici

Presidente ASSOARMA Novara, Gen. di Br. Cav. Dr. Dario Cerniglia

“TRIESTE TORNA ALL’ITALIA”

Associazione Nazionale Venezia Gulia e Dalmazia,
Comitato Provinciale di Novara, Sig. Antonio Sardi

“TESTIMONIANZE DELL'ESODO E DELLE FOIBE”

Dirigente  della Lega Nazionale di Trieste e del Comitato 10 Febbraio, Dr. Lorenzo Salimbeni

"1914-1954 LA CONCLUSIONE DEL RISORGIMENTO AL CONFINE ORIENTALE - TRIESTE "

Corpo Infermiere Volontarie, Sorella Lucia Portioli

“ESODO E SOCCORSO PER GLI  ISTRIANI E DALMATI”

Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon, Cav. Marco Lovison

 "MESSAGGI SCRITTI DA RE UMBERTO II AGLI ITALIANI DI TRIESTE, ISTRIA, DALMAZIA DURANTE L'ESILIO"  

Ritrovo presso l’Enoteca Vivian – Rotonda Massimo d’Azeglio, 22 per rinfresco - NOVARA
Si invita gentilmente le Autorità Civili, Militari e Religiose a partecipare
I Presidenti delle Associazioni Combattentistiche e loro soci sono pregati di presenziare con Labaro/Bandiera, naturalmente l’evento è aperto a famigliari, amici e simpatizzanti

Il Delegato Provinciale 
Marco Lovison

 
PARTECIPARE CON TRICOLORE

sabato 22 novembre 2014

Alessandria: Santa Messa solenne in suffragio di Re Umberto, della Principessa Mafalda e di tutti i Caduti per la Patria

Domenica 23 Novembre 2014

Santuario della Madonna di Loreto di Santa Rita - Via Plana, 42
Alessandria

ore 17.30 
Santo Rosario pro defunti

ore 18
Santa Messa solenne in suffragio di

Umberto II Re d’Italia
Principessa Mafalda di Savoia Langravia d’Assia
 e di tutti i Caduti per la Patria


Club Reale Vittorio Amedeo II di Alessandria


Celebrante : Padre Angelo O.P.Domenicani
Coro : “Don Angelo Campora” di Lobbi
Si invitano tutte le Associazioni Combattistiche e d’Arma, Culturali
e di Volontariato ad intervenire con labari e bandiere di rappresentanza

venerdì 21 novembre 2014

Messaggio di S.M. il Re Michele I di Romania nel XXV della caduta del regime comunista


BUCAREST, PALAZZO DEL PARLAMENTO, 20 NOVEMBRE 2014.



“IN ROMANIA, IL COMUNISMO HA AVUTO INIZIO NELL’ANNO STESSO DELLA MIA NASCITA, NEL 1921. OGGI, DOPO QUASI UN SECOLO, HO LA FELICE OCCASIONE DI RIVOLGERMI A VOI, FESTEGGIANDO LA SUA CADUTA.”
“NEL 1927, ALLA MORTE DEL RE FERDINANDO I, MIO NONNO, FUI PROCLAMATO RE DI ROMANIA. NEI SUCCESSIVI 87 ANNI CHE SONO TRASCORSI, FUI TESTIMONE DIRETTO DELLA NASCITA E DELLA FINE DEL FASCISMO E DEL COMUNISMO. DUE SISTEMI CRIMINALI, CHE (IN ROMANIA, N.D.T.) HANNO PROVOCATO CENTO MILIONI DI VITTIME E DIVERSI MILIONI DI MUTILATI, EMOTIVAMENTE E FISICAMENTE.
regele mihai

La mia vita è stata una lunga e leale attesa. Attesa che l’Europa si riprendesse, attesa che la Romania ritornasse a se stessa. La pazienza può essere a volte un’arma contro il destino storico. L’attesa e la Fede. L’amore e il senso del dovere.
Ma nella mia lunga vita ho conosciuto anche  momenti di grazia. Dio ha voluto che fossi  in prima linea nel ritorno del mio paese in seno alla degna famiglia delle nazioni libere, con  l’ingresso della Romania quale membro a pieno titolo nell’Unione Europea e nell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.
La mia famiglia ed io abbiamo lavorato duramente negli ultimi venticinque anni dopo la Caduta del comunismo per una Romania democratica, prospera, libera e dignitosa. E continueremo a farlo fino alla fine dei nostri giorni, convinti come siamo che l’istituzione della Monarchia è parte della nostra identità statuale e nazionale.
“Il comunismo è arrivato in Romania lo stesso anno della mia nascita, nel 1921. Oggi, dopo quasi un secolo, ho la felice occasione di rivolgermi a voi, festeggiando la sua rovinosa  caduta.
Così Dio ci aiuti !
Mihai R”
Michele_di_Romania_autografo
La traduzione in italiano è a cura di: Contessa Dott. Simona Cecilia Crociani Baglioni Farcaş

giovedì 20 novembre 2014

I patrioti fedeli al Governo legittimo nella Liberazione di Roma



I  Militari  a   Roma  nella  resistenza  dall’8  settembre  1943  al   4  giugno  1944, la  loro  attività, i  risultati  raggiunti, il   loro  sacrificio  di  sangue, i loro Capi, dal Colonnello  Montezemolo, trucidato  alle  Fosse  Ardeatine al  Generale   Bencivenga, saranno  oggetto  di  una   conferenza   dal  titolo:

I  patrioti  fedeli  al   Governo  legittimo  nella   
Liberazione  di  Roma

indetta  dal   Circolo  di  Cultura  ed  Educazione  Politica  “REX”, che  si  terrà  domenica  23  novembre  alle  ore   10,30, in  Roma, Via  Marsala  42, Sala  Uno,  relatore  il


 Dr. ANTONIO GALANO

lunedì 17 novembre 2014

Fossano, partecipato convegno dedicato al Patrimonio araldico di Casa Savoia

Partecipato convegno dedicato al Patrimonio araldico di Casa Savoia che conferma nella Città di Fossano la sede privilegiata per lo svolgimento di iniziative di rilevanza nazionale per la tutela degli Ordini cavallereschi, sodalizi non ascrivibili solamente a esigenze di custodia della memoria storica e patriottica della Nazione, ma attivi nelle dinamiche economico sociali contemporanee e per questo meritevoli di una legislazione aggiornata rispetto a quella vigente a oggi da oramai oltre 50 anni.
Il convegno è servito a riaffermare, ove ve ne fosse stata ancora la necessità, la venuta meno di una serie di luoghi comuni che tacciavano di anacronismo ed elitarismo queste Associazioni invece libere e liberali e impegnate soprattutto nello svolgimento di attività mutualistiche e si solidarietà sociale che, ove ben conosciute, riacquisiscono una fortissima attualità in tempi di perenne crisi di risorse pubbliche.
[...]

domenica 16 novembre 2014

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II



Sul sito dedicato a Re Umberto II l'incontro, il giorno prima dell'armistizio tra il Principe di Piemonte ed il generale Graziani, Maresciallo d'Italia, nell'intervista al Sovrano di Nino Bolla.


sabato 15 novembre 2014

Sulle orme di casa Savoia: il Castello Reale di Racconigi

Il Castello Reale di Racconigi è stato per secoli dimora di numerosi nobili e reali, soprattutto legati alla casata dei Savoia. Oggi, invece, il castello è un polo museale di grande interesse, situato a Racconigi, in provincia di Cuneo, poco distante da Torino.La storia del castello di Racconigi è davvero affascinante. 
Prima di diventare proprietà dei nobili Savoia, la funzione del castello era quella strettamente difensiva di casaforte della Marca di Torino. Quando il castello entrò a far parte delle proprietà sabaude, nel XIV secolo, le sue fattezze erano quelle tipiche di una fortificazione medievale. Infatti, la fortezza era di pianta quadrata e vi si poteva accedere attraverso un ponte levatoio poiché era circondata da un fossato. 
Su ogni angolo del perimetro del castello, costruito in mattoni nudi, sorgeva una torre angolata.La struttura originale del castello rimase praticamente invariata fino al XVII secolo, mentre, a donare al castello quello che è il suo aspetto più recente fu Carlo Alberto di Savoia, che nel 1832 diede inizio a un’ulteriore ristrutturazione del palazzo, con l’intento di abbellirlo e renderlo adatto alla casata reale sabauda.
Gli arredi degli interni vennero sostituiti, pur preservando il gusto neoclassico delle decorazioni, anch’esse ampiamente arricchite durante i lavori di restauro.

[...]
http://www.guidatorino.com/sulle-orme-di-casa-savoia-il-castello-reale-di-racconigi/

venerdì 14 novembre 2014

UN AUTOGOL DEI “GRILLINI“


Il  recente  esposto   alla  Magistratura  di  un  deputato   “grillino”  sugli  accordi  tra  Renzi  e  Berlusconi  è, a  mio  avviso, un  clamoroso  errore  e  costituisce  un  precedente  pericoloso  perché  rimette   ad  un  potere  diverso  da  quello  esecutivo  e  legislativo, e  cioè  al  potere  giudiziario, la  questione  di  accordi  più  o  meno  riservati, tra  diverse  forze  politiche,  su  problemi  costituzionali   ed  istituzionali , per  i  quali  si  sarebbe  poi  pronunciato  il  Parlamento, che  sia  pure  con  tutti  i  suoi   limiti  ed  inadeguatezze, rappresenta  la  sovranità  popolare, quella  messa  a  base  della   Costituzione  all’art. 1, con  il  solo  limite, peraltro  da  tempo  contestato e  che  dovrebbe  essere  eliminato, dell’ art. 139  che  sottrae  a  questa  sovranità  la  eventuale  modifica  della  attuale  forma  istituzionale  dello  Stato.
Ora  che  la  Magistratura, la  cui  natura  non  è  elettiva, stia  prendendosi, in  questi  ultimi  anni , un  potere  superiore   agli  altri  due, sopra  elencati, decidendo  sulla  politica  economica, su  quella  industriale, vedi  il  caso  dell’ILVA  ed  altri  analoghi, o  chiamando  a  deporre  in  un  processo  penale  addirittura  il  Capo  dello  Stato, che  con  una  disponibilità  forse  eccessiva, ha  accettato  di  testimoniare, creando  un  pericoloso  precedente, è   evidente  agli  occhi  di  tutti, per  cui  se  ora  le  viene  richiesto  di  indagare  su  accordi  e  rapporti  esclusivamente  politici, che  sono  sempre  avvenuti  in  tutte  le  epoche  ed  in  tutti  i  paesi  dove  esistono  istituzioni  rappresentative, è  un fatto  di  estrema  gravità  e nella  sua  essenza  profondamente   anti democratico  ed  antiliberale.
Già  poteri  economici   e  finanziari  cercano  di   sovrapporsi   al  potere  politico  ed  ora  anche  il potere  giudiziario, per  cui  viene  legittimo  chiedersi   perché   votiamo? Alla  Magistratura  ordinaria, lasciando  fuori  nel  suo  autonomo  e  fondamentale  ruolo  la  Magistratura  contabile, spettano  altri  compiti  e  doveri  che  nessuno  discute  o  nega, quando  si  tratti  di veri  reati  di  diverso  genere, ma, ripeto, si lascino  fuori  gli  accordi  e  le  trattative  tra  partiti, gruppi  politici   e  parlamentari, di  carattere  elettivo, accordi  che  acquistano  il  loro  valore  ed  hanno  la  propria   consacrazione  e  legittimazione  solo  nel  e  con  il  voto  delle  Camere, dopo  aver  avuto il  mandato  dal  voto  popolare, anche  se  tramite leggi  elettorali  discusse  ed  oggi  oggetto  di riforma.


Domenico  Giglio  

martedì 11 novembre 2014

Per il Re

Salva   il  Re  che  dismesso
L’emellino
E  la  porpora, come  il
Fantaccino
Renduto  in  panni  bigi,
sfanga  nel  fosso  o  va  calzato
d’uosa
cercando  nella  cruda  alpe
nevosa,
Dio  vero, i  tuoi  prodigi.
Salva  il  Re  che  partisce  il
Pane  scuro 
Col  combattente  e  non
Isdegna  il  duro
Macigno  alla  sua  sosta
Né  pe’  suoi  brevi  sonni  strame
O  paglia….
Sospesi  ai  rossi   orli  della
battaglia
che  sotterra  è  nascosta.
Proteggi   il  Re  del   sollecito
Amore
Che  in  casta  forza  il  tremante
Dolore
Cangia  con  l’occhio  fermo,
il  Re  che  in  fronte  ha  la  ruvida
ruga

e  pur  si  dolce  esser  può
quando  asciuga
la  tempia  dell’ infermo.
Proteggi  il   Re  della  semplica
Vita
Chinato  verso  ogni   bella  ferita
Che  è  rosa  del  suo  regno,
chinato  verso  il  sorriso  dei
morti,
verso  il  sorriso  immortale  dei
morti,
che  è  l’alba   del  suo  regno.

Gabriele  d’ Annunzio -  dalla  terza  delle  cinque  “preghiere  dell’ avvento”  composta  il  19  novembre  1915    


Vittorio Emanuele III fu il Re della virtù e dell'ordine borghese

di Giovanni Artieri

Vittorio Emanuele III fu il Re della virtù e dell'ordine borghese.

Con lui la « prosa » entrò finalmente nella storia civile di un popolo dominato lungo i secoli dai poeti, dai musicisti, dai proverbi e dalle canzonette - Egli stesso si fece «impiegato dello Stato», con una coscienza quasi calvinista del dovere - Viveva con poco, talvolta un piatto d'insalata e un bicchier d'acqua gli erano sufficienti.


Il Regno di Vittorio Emanuele III durò quarantaquattro anni: quattro volte undici. Questa cifra - diceva il vecchio Re - coloriva di cabala il suo destino. Ricorreva nella sua vita e sempre a certi quadrivi lieti o drammatici. Da coscritto aveva estratto il numero 1111; era nato l'11 novembre 1869; nell'anno 1911 cadde il cinquantesimo anniversario dell'Unità e il momento, forse, più chiaro e prospero dell'Italia: con la parità aurea della Lira e l'impresa di Libia.

In quel 10 di aprile del 1944, quando i rappresentanti dei Governi inglese e americano si recarono alla Villa Cimbrone, a Ravello, per imporgli di firmare il decreto per la nomina del Principe Umberto a Luogotenente, il suo Regno finiva e la cabala si avverava: 1900-1944, quattro volte undici. L'indomani firmò. Era l'11 del mese.

Non che fosse superstizioso. Nessuno più di lui fu vicino alle cose, alla realtà misurabile. Appunto questa mentalità aritmetica, numerale, gli permise di scorgere quel «ritorno». nella propria biografia. Era, in lui, così forte e continuo il riferimento ai numeri che - si disse - visitando una mostra personale del pittore Tosi, gli chiese quanti abitanti «facesse» il villaggio dipinto in uno dei più bei quadri esposti. Ed anche la vera stima ch'egli avvertì per certe qualità eminenti di Mussolini risaliva al suo amore per la irrefutabile e secca eloquenza dei numeri. Apprezzava sovrattutto nel suo Primo Ministro la facoltà di riassumere tutto all'osso, di estrarre il sugo delle cose, di serrarle – spesso - in poche cifre.

Educazione ferrea

Questo carattere ci offre anche  la chiave della sua passione numismatica.
Monete e medaglie, alla fine, fermano la storia, con un nome e qualche cifra, nell'avaro cerchio di metallo. Tutto, in poco. Ecco una parola che gli piaceva. «Poco». Per elogiare Mussolini diceva: «Vive di poco». Lui stesso era così: viveva con niente: talvolta un piatto di insalata e un bicchiere di acqua.

La frugalità della sua vita fu avvertita anche dai soldati al fronte, durante la prima Guerra mondiale. Qualcuno di essi, talvolta, fu chiamato a dividere il pezzo di pane e frittata o la cotoletta fredda del pasto di Re Vittorio durante le quotidiane ispezioni alle linee. E una volta che egli ritornò per molti e molti giorni sullo stesso settore (il fronte degli Altipiani), gli costruirono un sedile di pietra e legno, per evitargli di sedere per terra, sull'erba, a mangiare con i generali e gli autisti.
Questa inclinazione spartana veniva di lontano: dall’educazione ferrea, impartita al suo fisico non felice; ferrea, letteralmente, per le costrizioni ortopediche a cui fu assoggettato; e figurativamente, per il rigore degli studi, esercizi, lavori, esami cui il colonnello Egidio Osio, suo governatore, lo sottomise. Quello stile quasi disumano, di monacale semplicità, veniva dal dissenso della sua natura umbratile, meditativa, conseguenziaria, rispetto al fasto, ai luccicori, alla parata di magnificenza del regno di Umberto I e della Regina Margherita. La sua « socialità » nasceva dall'aver visto il 17 novembre 1878, a Napoli, il pugnale dell'anarchico Passannante calare sul petto di suo padre e colpire - nella stessa carrozza, accanto a lui - il Presidente del Consiglio, Benedetto Cairoli. Infatti, non senza tacito dissenso, egli si estranea dai drammi del Regno umbertino (Adua, i moti rivoluzionari del 1898 nelle città, le «jacquerie » dei fasci siciliani, la corruzione - sin da allora - del sistema parlamentare, chiudendosi   nella sua vita di militare, nell'amore per la giovane Principessa Elena; trascorrendo sul mare, principalmente, la maggiore e miglior parte del suo tempo.

Come un orologio

Con lui, e con Giolitti,  secondo una felice definizione di Prezzolini, la «prosa » entra. finalmente, nella storia civile italiana. Vittorio Emanuele diventa il Re «borghese»; modella attorno a sé (o cerca di farlo) una società italiana più grigia, più compatta, più seria. Lui stesso si fa «impiegato dello Stato»; si reca ogni mattina «in ufficio», al Quirinale. I guardportoni dei palazzi reali aggiustano l'orologio sull'ingresso della sua automobile nel cortile. Non vorrà, tra l'altro, mai permettere al suo Aiutante di campo di portargli la borsa delle carte. Non ammetterà deroghe al calendario delle udienze e agli argomenti fissati. Due sole volte vi è costretto: per il colloquio con Mussolini a Villa Savoia, il 25 luglio 1943, e per lo scontro con i commissari alleati Mac Farlane, Noel Charles e Murphy, che gli impongono, il 10 aprile 1944, di passare subito e non a Roma, come egli voleva, i poteri a Umberto.

Chi voglia penetrare nel carattere del vecchio Re deve insistere su questa sua natura lineare, raccolta, espressiva quanto può esserlo una figura della geometria. Contrastava, certamente, con la media complessiva dei caratteri, umori, disposizioni degli italiani: di un popolo, cioè, dominato lungo i secoli dai poeti, dai musicisti, dai proverbi e dalle canzonette. Per la poesia, si fermava a Dante (conosceva a memoria quasi tutta la Divina Commedia), mentre per la musica non andava oltre le marce militari dei capobanda reggimentali.

In questo Paese, sempre uguale a se stesso nei difetti e nelle virtù, Vittorio Emanuele cercò di rappresentare il parametro dei modesti e preziosi pregi borghesi: la semplicità, la dignità, una coscienza quasi calvinistica del dovere, il rispetto della legge, la rinuncia al «proprio particulare» in vista del bene comune. Fu un rivoluzionario in nome della Corte dei Conti e della Ragioneria generale dello Stato. Il suo esempio, quasi sublimatosi a leggenda durante la prima Guerra mondiale, aveva già raggiunto la collettività nazionale. Milioni di famiglie italiane del ceto medio in formazione, si modellavano sullo stile del Re borghese; imponevano ai figli i nomi di quelli del Re; salutavano con reverenza la sua carrozza o lui stesso, a cavallo, nelle solari mattinate di giugno per la festa dello Statuto. Il suo prestigio morale obliterava la esiguità della figura fisica ed anche la satira sovversiva dei socialisti; che da lui, oggi, ripetono l'eredità del centrosinistra e, non fosse per altro, dovrebbero accoglierne la Salma nel Pantheon.

La sua filosofia

Non deve meravigliare, dunque, se per la sua inclinazione all’ordine, sostenuto da una vera e propria filosofia di vago sapore panglossiano, per cui - alla fine - ogni traversia o travaglio  s'aggiusta per il meglio, accolse nello Stato il movimento fascista nel 1922. Sperava - con gli uomini di maggior rilievo di quel tempo - di ridurlo al denominatore democratico. I critici repubblicani di Re Vittorio, a questo punto, omettono la considerazione del moto «totalitario» di cui l'Europa era investita: un moto iniziato - si badi bene - non dai «fascismi» europei, ma dalla Rivoluzione russa dell'ottobre 1917. I «fascismi» europei nascono come figliuoli prodighi, come reazioni o precessioni ai movimenti rivoluzionari dei comunismi occidentali in alcuni paesi; primo fra tutti, l'Italia. Mussolini aggiusta la sua dottrina sui presupposti della statolatria e della fobia delle libertà democratiche, proprie al pensiero non di Marx ma di Lenin. Non è senza un curioso e fatale significato che a Dongo muoia - di piombo comunista, accanto ai fascisti - Nicola Bombacci, amico di Lenin e amico di Mussolini.

Il Regno di Vittorio Emanuele, con la fine della prima Guerra mondiale, entra di colpo nel tifone rivoluzionario. E' un fenomeno repentino, inatteso. L'Italia ha vinto la Guerra, ma vi accadono i rivolgimenti tipici di un paese sconfitto. Il grigio e mediocre paradiso giolittiano, ordinato, «ventisettista», fondato sulla lira-oro e sul bilancio in pareggio si dissolve al suono delle revolverate domenicali tra fascisti e comunisti.

Revolverate (ed anche cannonate) se n'erano tirate per le piazze italiane, dal tempo di Umberto I in poi, ma queste di adesso ripetono la tecnica delle trincee e la violenza degli assalti sui fronti di Guerra. Già per lo sciopero militare di Caporetto Re Vittorio aveva capito di dover dedicare a ciò che chiamava «la piccola gente» tutta la sua attenzione. Adesso, con Mussolini, quella «piccola gente» si accalca attorno allo Stato. Lui non può scacciarla.
Fu un errore non aver dissolto le squadre fasciste accampate, il 28 ottobre 1922, attorno a Roma? L'operazione, secondo alcuni, era possibile. E noi pure lo crediamo. Ma ancora una volta i maggiori uomini di quel momento sconsigliarono la forza. E a sconsigliare valevano per il Re Vittorio anche i ricordi del Regno di suo padre. Così come a sbarazzarsi del fascismo e di Mussolini, durante la crisi del 1924 per l'assassinio del deputato Matteotti, fu sconsigliato principalmente dall'assenza di uno strumento costituzionale che Camera e Senato avrebbero dovuto offrirgli.

Beninteso non si vogliono occultare o negare gli errori del vecchio Re; ma si vuole anche affermare la sua stupenda onestà e chiarezza, il suo disinteresse, la sua costante volontà e decisione di agire esclusivamente per il bene concreto del Paese. Fu uomo della sua generazione, una generazione di coraggiosi che non tremarono di fronte al possibile e spesso all'impossibile. Era dell'età in cui il Duca degli Abruzzi e Cagni vanno al Polo Nord senza aver mai visto un pezzo di mare ghiacciato.

Praticava le virtù cristiane di nascosto, possedeva il pudore della carità e dava generosamente. Forse fu scettico. Ma conobbe, come pochi specialisti i due Testamenti e, strano a dirsi, il Corano di cui citava a memoria le «sure» più significative.
Nel 1933 durante un viaggio in Egitto con la Regina Elena e la principessa Maria, volle rivedere il Convento di Santa Caterina d'Alessandria. L'aveva visitato già nel 1887, e indugiò, come tanti anni prima, a guardare di sotto in su i quattro enormi fichi indiani del cortile. Volle pure visitare la Chiesa e si trattenne dinnanzi ad un quadro vasto ed eloquente, del pittore viennese Ender, dipinto nel 1847, con la raffigurazione di Santa Caterina Vergine mentre disputa con i filosofi del Museo alessandrino.
Tra quella tela e il retro dell'altare, Vittorio Emanuele III si aggirò notando che, appunto, la fabbrica andava riparata e restaurata. Lasciò una grossa somma ai padri francescani e andò via. Il 31 dicembre del 1947 proprio lì, nel piano verticale dell'altare, venne murata la sua breve bara. Il vano fu chiuso da un marmo col nome e le due date estreme. Nel 1953, durante un nostro viaggio, sostammo dinnanzi a quella tomba. Tra la fredda tela del pittore viennese e l'intonaco grezzo essa ci parve buia, triste, tralasciata. Dalle colonne di questo giornale chiedemmo una lampada per il Re. I lettori dettero generosamente. Adesso quella lampada arde dinnanzi al marmo. E chiunque, inchinandovisi, ripercorra mentalmente la lunga, dolorosa vita di Vittorio Emanuele III, deve cedere al pensiero di trovarsi dinnanzi a una grande, complessa figura della storia nostra.



lunedì 10 novembre 2014

Documento originale della resa dell'Amba Alagi sequestrato a un privato a Padova


Ottantenne custodiva la lettera originale del vicerè che dichiarava la resa dopo l'Amba Alagi, nella guerra d'Etiopia. Ha provato a venderla, la Procura ha aperto un’inchiesta.

PADOVA. Ha chiamato lo Stato Maggiore dell’Esercito per chiedere che valore aveva il documento originale nel quale Amedeo di Savoia firmava la resa di Amba Alagi, di fronte agli inglesi, del 17 maggio del 1941. Chi ha risposto all’ottantenne padovano ha fatto un salto sulla sedia visto che l’interlocutore diceva di avere il documento, dal grande valore storico, in mano. Lo Stato Maggiore ha interessato la procura della Repubblica di Padova che ha aperto un’inchiesta senza ipotesi di reato, con lo scopo di recuperare in tempi brevi la preziosa lettera.
I carabinieri della procura, su mandato del pubblico ministero Federica Baccaglini, gli hanno spiegato che quel documento non poteva venderlo visto il suo valore e vista la circolare 43 del 1950 che obbliga chiunque venga in possesso di documenti di rilevanza storica a consegnarli allo Stato. Il pensionato aveva quel telegramma del Governo centrale dell’Africa Orientale Italiana, perchè suo padre era il capo di Stato Maggiore dell’epoca e da quel 1950 quel documento militare su carta velina, originale, era rimasto sull’armadio di casa.
[...]

La manifestazione dell'UMI a Roma. Breve rassegna stampa










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