Se non ricordo male, Luigi Einaudi venne nominato senatore (a vita?) nel 1919 da re Vittorio Emanuele III. Quando ci furono le prime elezioni dopo la fine della guerra, dovette di nuovo candidarsi oppure riuscì a conservare quella carica?
Dino Crocetti, Lodi
Caro Crocetti, Nel Senato del Regno tutti i senatori erano «a vita» e venivano nominati dal re su proposta del presidente del Consiglio che era, nel caso di Einaudi, Francesco Saverio Nitti. Nell’interregno costituzionale del secondo dopoguerra, quando l’Italia votò per l’Assemblea Costituente, Einaudi si candidò nella lista dell’Unione democratica nazionale, una coalizione composta dal Partito liberale e dal Partito democratico del lavoro, noto anche come «demolaburista». Ma non partecipò alle prime elezioni politiche dopo l’approvazione della Costituzione, perché la seconda Disposizione transitoria della Carta prevedeva che nel nuovo Senato repubblicano entrassero anche coloro che avevano fatto parte del «disciolto Senato». Con un breve intervallo, dal 25 luglio 1943 al 1° gennaio 1948, Luigi Einaudi fu quindi senatore, prima del Regno poi della Repubblica. E tornò a Palazzo Madama, dopo la fine del suo mandato presidenziale, perché la Costituzione assegna agli ex presidenti della Repubblica un seggio senatoriale.
Approfitto della sua lettera, caro Crocetti, per rispondere ad altri lettori che mi hanno chiesto quale fosse il ruolo del Senato durante il regime fascista. Nella sostanza fu piuttosto modesto. Ma vi furono alcune sedute importanti come quella del 21 maggio 1927 nel corso della quale uno dei maggiori industriali italiani, Ettore Conti, alla presenza di un Mussolini imbronciato, criticò la politica deflazionista praticata dal governo per la rivalutazione della lira, e riscosse, secondo gli atti parlamentari, «applausi vivi e prolungati». In quella occasione il Senato non dovette votare. Vi fu un voto, invece, quando Mussolini pronunciò un discorso sul Concordato e i Patti lateranensi che aveva firmato con il segretario di Stato della Santa Sede l’11 febbraio del 1929. Quando i senatori furono chiamati ad approvare un ordine del giorno con cui «si plaudiva alla felice soluzione della questione romana», vi furono sei voti contrari: quelli di Luigi Albertini, Alberto Bergamini, Benedetto Croce, Emanuele Paternò, Francesco Ruffini e Tino Sinibaldi.
Per tutta la durata dal regime il Senato è stato una sorta di isola monarchica presieduta da personalità che erano state scelte dal re o gli erano gradite. Il generale tedesco che combatté a Montecassino, Frido von Senger, scrisse nelle sue memorie che questa era la maggiore differenza costituzionale fra il regime di Mussolini e quello di Hitler. In Germania non vi erano contropoteri e Hitler finì per trascinare il suo Paese nel precipizio. In Italia la monarchia assecondò il fascismo, ma conservò prerogative che le avrebbero consentito di riconquistare il potere nel luglio del 1943. Anche se questo non la assolve da tutte le sue colpe, è giusto ricordare che il re garantì la continuità dello Stato. Non è sorprendente quindi che il primo capo provvisorio dello Stato repubblicano, Enrico De Nicola, sia stato un monarchico napoletano e che il primo presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, avesse votato per la monarchia il 2 giugno 1946.
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