NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 30 settembre 2018

I Monarchici e il problema dell'Alto Adige - I parte


Periodicamente la Nazione si ritrova a dover affrontare il "problema" di una minoranza alloglotta, la più tutelata del mondo, che forte di questa sua tutela spesso e volentieri ricambia con discreta protervia nei confronti della "minoranza" italiana che è tale solo  nella provincia di Bolzano e che viene tenuta spesso ai margini grazie ad artifizi legali, che derogano dalla stessa costituzione repubblicana, come percentuale etnica rigidissmamente intesa ed altre amenità simili.
Sono recenti i tentativi di cancellare la toponomastica italiana, il divieto agli italiani non residenti di possedere una seconda casa in località turistiche, il tentativo del governo di Vienna di annettersi se non il territorio  almeno i cittadini di lingua tedesca e ladina.
Il che è decisamente irritante soprattutto quando pensiamo alla sparuta minoranza italiana rimasta al di là di Trieste che dopo più di 70 anni festeggia il fatto che a Fiume ci sia un cartello stradale che rechi il toponimo italiano.
Riportiamo il documento del 1957 con la posizione dei Monarchici Italiani del Partito Nazionale Monarchico in merito alla suddetta questione, rimpiangendo ancora una volta che non ci sia una adeguata rappresentanza politica per le nostre idee.




«Giuriamo per i nostri morti, per i nostri discendenti 
che questo passo sarà eternamente nostro »
Vittorio Emanuele


Queste parole, che il Re Soldato pronunciò nei lontano 1921 durante una suggestiva cerimonia al Passo del Brennero a consacrazione del diritto dell’Italia a quella frontiera, costituiscono per il Partito Nazionale Monarchico, che è appunto « l’appropriato strumento politico di tutti gli Italiani che intendono essere dichiaratamente monarchici» (Umberto II) e quindi fedeli alle tradizioni risorgimentali, una consegna alla quale esso non verrà mai meno.

Ed infatti il P.N.M. nella sua ormai più che decennale vita, ha sempre affermato e richiesto ai vari governi ciellenisti e quadripartiti l’adozione di una politica di dignità nazionale in difesa dell’integrità ed unità dello Stato Italiano, da più parti minacciata, politica che prevenisse le artificiose pretese di governi stranieri ad intromettersi negli affari interni dell’Italia come poi purtroppo accaduto nel caso dell’Alto Adige.
Ora quindi, di fronte alla « gonfiatura » da parte dell’Austria di un « problema dell’Alto Adige » ed alla inerzia con la quale da parte italiana si segue lo sviluppo della questione, i giovani monarchici denunciano all’opinione pubblica questo pericoloso stato di cose e per dimostrare che la critica è valida solo se da essa discenda una soluzione migliore di quelle fino ad oggi proposte ed attuate, hanno raccolto nel presente opuscolo tre articoli di insigni parlamentari del PNM, on.li Bardanzellu, de Francesco, Cantalupo, articoli nei quali sono trattati i diversi aspetti del problema ed è tracciata la strada per risolverlo. E che siano i giovani ad attuare questa iniziativa non è senza significato, giacché testimonia ai troppi pavidi ed agli immemori l’attualità e necessità dell’Istituto Monarchico e l’indissolubilità del binomio Monarchia-Nazione si che come disse il grande invalido Carlo Delcroix « Italia e Monarchia insieme sono cadute, insieme risorgeranno ».
Roma, aprile 1957
Il Commissario Nazionale DOMENICO GIGLIO




dell’ on. avv. Giorgio Bardanzellu
Per valutare bene il problema bisogna tener conto delle ragioni storiche di esso prima che delle argomentazioni politiche.
Che l’Alto Adige o sud Tirolo, come i tedeschi lo chiamano, sia Italia è, per chi serenamente ragioni, fuori questione.
La chiostra dalle Alpi fu considerata dai Romani prima, dai Longobardi poi ed anche da Napoleone come Claustra Italiae ed il Brennero come Castrum Italiae.
E’ la geografia che comanda, è Dio che ne ha fissato i confini in ossature di montagne ed in precisi percorsi di fiumi: Haec est Italia diis sacra, scrive Plinio il Vecchio!
Italia ad Alpibus incipit, hanno tutti sempre conclamato.
Alberto Dauzat ha scritto che il Brennero e la linea dello sparti-acque costituiscono la naturale frontiera tra le due lingue: «i tedeschi che abitano al sud sono ospiti del suolo Italiano», egli
afferma.
Ma valga per tutti il pensiero di Mazzini: « nostro, egli dice, semmai terra nostra è il Trentino, nostro fino alle Alpi Retiche e nostre sono le acque che ne discendono a versarsi nell’Adige nel Golfo Veneto. Porta d’Italia: valida frontiera segnata dalla natura lungo i vertici che separano le acque del Mar Nero da quelle dello Adriatico».         
La realtà storica conferma quella geografica.
Il dominio romano, iniziato il 15 A. C., è durato per sette secoli e ritroviamo le orme eloquenti di Roma nedl’Editto di Claudio in Val di Non che conferma ai Trentini la cittadinanza romana,
nella torre e nel ponte di Druso presso Bolzano.
Dopo Roma le popolazioni subirono il giogo di Teodorico.
I longobardi resistettero per lungo tempo ai Germani in Val Pusterla e ai Bavari nei valichi di Resia e sul Brennero.
Vinta la resistenza, costoro iniziarono la marcia verso il sud, dividendo le terre in contee: Tirolo, Eppan, Audach.
Ma, appena ne presero possesso, si dilaniarono fra di loro per il predominio. Essi erano di origini bavaresi, non austriaca, e tale rimasero fino a quando la « brutta contessa », Margherita Montasch, trasmise nel 1369 la contea del Tirolo al cugino austriaco Rodolfo IV.
Fu così che il Tirolo passò agli Asburgo, che ebbero una sola preoccupazione: cancellare quanto vi era di romano e di italico sulle terre di loro dominio.
Ma non riuscirono a spegnere la memoria degli istituti romani e gli Statuti di Bolzano e di Bressanone ebbero l’impronta italica come quelli di Trento. Larghe correnti di mercanti e di banchieri genovesi, lombardi, piemontesi alimentarono, col commercio, la lingua e la civiltà italica.
La rivoluzione francese portò i repubblicani a Bolzano, ma, col trattato di Campoformlo, ridiede la regione all’Austria.
Il trattato di Presburgo (1805) assegnò Alto Adige e Trentino alla Baviera. Contro di essa si ribellò Andrea Hofer che, catturato dai francesi, fu fucilato a Mantova nel 1810.
Napoleone incluse la Regione nel Regno d’Italia ed essa dopo il trattato di Vienna, ritornò all’Austria fino a quando il valore dei nostri soldati non spinse il Tricolore vittorioso fino alle vette d’Italia.
Là sono i termini sacri della Patria nostra.
Le vicende storiche, in Alto Adige come altrove, hanno determinato correnti umane che si sono sovrapposte, modificando talvolta caratteristiche e razze.
Vi sono però dei problemi ineliminabili che nascono dalle viscere stesse delle cose, dei problemi per cui la storia finisce per ubbidire al diritto divino della terra.


Non può mettersi in dubbio la legittimità del nostro confine geografico, che è indispensabile alla nostra esistenza nazionale.



Prima della liberazione, l'iniquità della frontiera settentrionale gravò, sempre sulle vicende della nostra storia. Vi furono 144 invasioni dal Brennero: se il Brennero è la Porta d’Italia, un grande Stato non può vivere con la chiave della porta in mano altrui.
Il diritto alla vita e alla sicurezza del Paese pretendono il confine delle Alpi. Noi abbiamo preso possesso dei nostri confini non tanto per diritto di conquista quanto per consacrazione di una insopprimibile verità storica.
E’ una verità eterna che supera il tempo, ma è anche un diritto che comporta da parte' nostra il compimento di una imponente schiera di doveri.
La guerra santificò e suggellò la nostra unità, unità delle nostre terre, unità delle nostre coscienze. Anche dopo le dolorose vicende recenti noi siamo rimasti fedeli al nostro destino. Siamo rimasti fedeli, cioè, ai voleri eterni dello spirito che si riassumono nella fede religiosa, nell'amore alla famiglia e nella devozione alla Patria.
Abbiamo però la consapevolezza dei doveri che ci incombono verso le popolazioni idi stirpe diversa che con noi convivono.
Non soltanto in Alto Adige esistono comunità d’altre stirpi entro 1 nostri confini: alcuni nuclei slavi vivono presso le frontiere orientali e potrei ricordare anche che una comunità di origine catalana, che si sente italiana nell'animo, costituisce la popolazione di Alghero, in Sardegna.
Possono sorgere per essi problemi particolari, ma sono problemi che devono risolversi entro il confine dello Stato.
Lo Stato è una forza morale che compie quei patti che né gli individui né le classi possono compiere e dai quali per secoli viene trasformato il mondo.
I tedeschi d’Austria ebbero un esempio della forza dello Stato quando l’Impero comprendeva razze diverse con religioni diverse, con lingue costumi e civiltà diverse. Tutti obbedivano alle leggi dello Stato come nella Confederazione Svizzera ubbidiscono alle leggi dello Stato tedeschi, francesi, italiani e ladini.
La questione dell’Alto Adige non va posta pertanto sul piano Internazionale poiché i limiti riconosciuti e consacrati dai trattati internazionali e dalla coscienza universale sono intoccabili e inviolabili: Pacta sunt servanda.
La questione va posta su di un piano di lealtà nazionale.
Io conosco e stimo la popolazione tirolese. I tirolesi sono arditi, laboriosi, Intelligenti: la loro vita è semplice, rude, informata dei principi della religione cristiana.
I loro costumi e il loro carattere ispirarono poeti e scrittori da Alberto Wolf a Giulio Leclerque, da Amelia Edwars a Gualtiero White e a molti altri.
Perciò mi appello alla loro lealtà. L’Italia li accoglie con ampio riconoscimento dei loro diritti, con rispetto ai loro costumi, alle loro tradizioni, alla loro lingua, alla loro religione che fortunatamente è anche la nostra.
Ma bisogna che essi non si lascino sobillare da elementi che hanno tutto l’interesse ad alimentare contrasti, a dividere la compagine dello Stato, a distruggerlo e ad accrescere in questa tormentata Europa le confusioni e i pericoli.
L’Alto Adige può considerarsi un punto nevralgico dell’Europa, confinante com’è, con un’Austria neutrale e preda possibile di ideologie che noi combattiamo.
Non deve perciò costituire un varco aperto a quelle propagande sovvertitrici mascherate di nazionalismo che, attraverso i torbidi, creano e preparano l’avvento ad un predominio distruttore di ogni fede sia nazionale che religiosa.
Possono sempre sorgere, di fronte a svariati problemi, delle difficoltà e degli inconvenienti. Ma in tal caso gli interessati è ai Governo che devono proporre le loro questioni, ma non devono agire contro l’Italia.
Se invece, sotto l’influenza di cattivi consiglieri essi tentano di incrinare l’unità dello Stato e di comprometterne la sicurezza, sbagliano nel loro stesso interesse.
In ogni modo ciò non può essere consentito a nessuno, come a nessuno straniero può essere consentito di interferire nelle cose interne del nostro Stato.
Abbiamo dimostrato al mondo che soffrendo e combattendo ci siamo guadagnati la nostra unità e questa unità vogliamo difendere con tutte le nostre forze.

sabato 29 settembre 2018

Sacra di San Michele: Santa Messa per San Michele


In onore della Festa Patronale di San Michele Arcangelo, Sabato 29 Settembre alle ore 11.30 si celebrerà la Santa Messa presso la Sacra di San Michele, monumento simbolo dei Piemonte.
Il Culto di San Michele approdò nella Val di Susa tra nei secoli V e VI.
La sua posizione in alto e lo scenario suggestivo circostante richiamano i due insediamenti micaelici del Gargano e della Normandia.
Fondata tra il 983 e 987 sullo sperone roccioso del monte Pirchiriano si trova al centro di un cammino di pellegrinaggio devozionale (oltre duemila chilometri) per il culto di San Michele: quasi tutta l’Europa da Mont-Saint Michel a Monte Sant’Angelo.

Il monte è stato sempre vissuto da insediamenti umani fin dai tempi preistorici.
Nelle epoche successive è stato fortificato dai Liguri e poi dai Celti.
Nel 63 d.C. quando le Alpi Cozie divennero Provincia Romana,l’impero sfruttò il luogo come area militare visto la sua posizione strategica.
Successivamente il monte fu invaso dai Longobardi i quali innalzarono muraglie e torri fino alla conquista del 888 d.C. dei saraceni che durò per ottant’anni.
Verso la fine del X secolo un discepolo di San Romualdo (San Giovanni Vincenzo) decise di dedicarsi alla vita eremitica in loco, grazie alle predisposizione del luogo e alla presenza di un’altra colonia eremitica su un altro monte.
Alle soglie dell’anno mille giunse nell’eremo di Giovanni il conte Ugo mandato dal Papa in esilio per penitenza.
Dopo l’edificazione del monastero, l’esempio di vita solitaria del Conte portò l’eremo ad essere centro di sosta di pellegriniquasi a livello internazionale.
Il continuo afflusso di fedeli gli fece ottenere l’autonomia e l’indipendenza come monastero benedettino.
In questo periodo la Sacra raggiunse il suo massimo splendore estendendo i proprio possedimenti in Italia e Europa con diritti spirituali, amministrativi e penali.
Nel 1379 iniziò la decadenza del monastero benedettino a causa della richiesta di Amedeo VI di Savoia di abolire la figura dell’abate monaco.
La Santa Sede accettò quindi i monaci furono sostituiti dai commendatari e da priori che governavano tutte le rendite.
Dopo 600 anni di vita benedettina, la Sacra restò abbandonata per oltre due secoli.
Nel 1836 Re Carlo Alberto di Savoia, desideroso di far risorgere il monumento dell’onore della Chiesa piemontese, decise di collocarvi stabilmente una congregazione religiosa.
Tale opportunità toccò al giovane fondatore dell’Istituto della Carità (Antonio Rosmini) il quale accettò.
Papa Gregorio XVI nell’agosto del 1836 nominò i Rosminiani amministratori della Sacra..
Carlo Albero decretò lo spostamento delle ventiquattro salme dei reali di Casa Savoia dal Duomo di Torino al Santuario, ora tumulate.
Affiancati dai Savoia, i Padri Rosminiani restano anche dopo la legge sui beni ecclesiastici che spogliavano le comunità religiose.
Ai Padri si sono uniti da qualche anno un gruppo di Ascritti rosminiani, membri dell’Istituto della Carità ma senza aver preso voti di povertà  castità e obbedienza.
Si uniscono alla Congregazione spiritualmente, partecipando alla comunione dei beni spirituali.
La storia attuale della Sacra prevede una grossa partecipazione di enti pubblici e privati per valorizzare questo monumento.

http://www.vaticano.com/sacra-di-san-michele-santa-messa-per-san-michele-2018/

venerdì 28 settembre 2018

La Sindone e la sua immagine in mostra a Torino

In occasione della riapertura della Cappella del Guarini, restaurata dopo l'incendio del 1997, a Torino inaugura la mostra "La Sindone e la sua immagine". 80 opere raccontano le ostensioni degli ultimi cinque secoli tra storia, arte, fede e devozione.

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80 opere, tra fede e storia, raccontano il rapporto tra Torino e la Sindone

L’esposizione conta circa 80 pezzi provenienti in particolare dal Castello di Racconigi e dalla Fondazione Umberto II e Maria Josè di Savoia di Ginevra, oltre che dal Museo della Sindone di Torino e dalle collezioni di Palazzo Madama. Sono immagini che illustrano lo stretto rapporto tra Torino e la Sindone: celebrative, legate ad eventi storici come ostensioni di corte, opere di alto livello esecutivo accanto ad altre di natura più devozionale. Incisioni, disegni, dipinti su carta, seta o pergamena, ricami e insegne processionali raccontano con la dovizia di una cronaca la Sindone nello scorrere dei secoli, accanto alla quale si avvicendano personaggi storici, ecclesiastici, nobili, santi e Madonne. Tra gli oggetti significativi è esposta la cassetta che servì a trasportare il lenzuolo a Torino nel 1578 e la macchina fotografica da campo utilizzata da Secondo Pia, il primo a documentare fotograficamente la Sindone nel 1898. “La più importante reliquia della cristianità nella quale è impresso il corpo di Cristo, - spiega la curatrice – è stata gelosamente custodita dalla Famiglia dei Savoia che spesso ne ha fatto un emblema del suo potere”.


Maria Gabriella di Savoia: “La cupola del Guarini un gioiello, ogni dettaglio nasconde un significato”


Gli occhi azzurri di Maria Gabriella di Savoia ammirano il profilo della città. La Principessa è arrivata a Torino l’altro ieri da Ginevra per una visita dai tanti significati. 
Oggi entrerà nuovamente nella cappella del Guarini restaurata e subito dopo sarà con le autorità per l’inaugurazione della mostra sulla Sindone che si apre oggi a Palazzo Madama. 
Molte delle stampe e miniature esposte fanno parte della collezione della Fondazione Umberto II e Maria Josè di Savoia da lei fondata.
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Della guerra alla toponomastica Sabauda


Sulla edizione  della  "Nuova  Sardegna"  di  Nuoro, del 24  settembre, vi  era un articolo in cui si riportavano le  dichiarazione di tre signori perché venissero eliminate tutte  le  vie  intitolate ai  Savoia .
Questa la lettera inviata al direttore del giornale dal Presidente Giglio.


Egregio Direttore : perché tanto livore se non odio verso i Savoia?

Letto l’articolo di Alessandro Mele, sul giornale del 24 settembre, edizione nuorese, relativo alla possibile eliminazione dalla toponomastica di Nuoro delle vie intitolate a Casa Savoia, sono rimasto sconcertato dai toni degli intervistati, per cui non è facile controbattere frasi piene di livore, che quasi sembrano ispirate da un odio irrazionale e immotivato, il che meraviglia maggiormente provenendo da persone che dovrebbero essere culturalmente qualificate.
Cominciamo però con una considerazione storica: nel referendum del 2 giugno 1946 la Monarchia, il cui simbolo era lo Scudo Sabaudo e Corona Reale, ebbe in Sardegna una netta maggioranza del 61% con 321.345 voti contro i 206.192 per la repubblica. Nel caso specifico di Nuoro, la provincia dette 61.941 voti monarchici e 47.827 repubblicani ed il comune vide 3899 monarchici contro 2813. Quanto al piccolo comune di Galtelli citato come antesignano di questa antistorica operazione di rimozione sabauda, aveva visto 469 voti per il Re e solo 176 repubblicani! Quindi furono voti per Casa Savoia ed ora eliminando i nomi sabaudi si offende il voto dei propri padri e nonni, che non erano degli sprovveduti e che conoscevano meglio la storia, avendone vissuto i periodi più delicati come le due guerre mondiali, di cui, della prima grande guerra ricorre proprio quest’anno il centenario della vittoria, alla quale contribuirono con il loro valore migliaia di sardi, tra i quali voglio anche ricordare Emilio Lussu, medaglia d’argento al V.M,che nella polemica politica non sarebbe mai sceso a questi livelli.
Parlare poi di “predatori piemontesi” quando la Sardegna fu assegnata ai Savoia, nel 1718, da una decisione delle principali potenze europee dell’epoca, sottraendola a mire austriache ed anche spagnole che erano state i reggitori dell’isola da centinaia di anni, per cui la Sardegna rientrava nell’aria geopolitica dell’ Italia, come lo sarebbe stata anche la Corsica, se non fosse stata svenduta vilmente alla Francia, dalla repubblica di Genova. Così diveniva parte di uno stato, l’unico in Italia, il Ducato di Savoia, che era rimasto indipendente dagli stranieri in tutta la sua storia centenaria! Parlare poi di re fuggiaschi è argomento inventato dai repubblichini di Salò, in quanto il trasferimento del Re Vittorio Emanuele III da Roma a Brindisi, città libera da tedeschi ed angloamericani, era indispensabile per assicurare la continuità dello Stato, e così infatti fu, come riconosciuto anche da storici non monarchici. Quanto ai Re “feroci” la frase è talmente ridicola che, ripeto può essere solo segno di livore. Così pure i danni arrecati all’Italia ed in “particolare” alla Sardegna, sono stati forse l’Unità Nazionale, che ci ha inserito nel novero delle maggiori potenze europee, dove ci troviamo ancor oggi? Ed i vituperati Savoia, dinastia millenaria che ha avuto principi il cui nome è onorato in Europa, hanno pagato un duro prezzo per questa loro opera con Carlo Alberto, morto in esilio, come poi Vittorio Emanuele III ed Umberto II, che volle, come Re, visitare per prima regione la Sardegna il 18 maggio 1946 , un Re assassinato, Umberto I, e solo Vittorio Emanuele II, massimo artefice dell’unità, morto nel suo letto, per non dimenticare il Duca d’Aosta, Amedeo, a cui gli inglesi avevano concesso l’onore delle armi,morto in prigionia a Nairobi! E per gli spessori culturali e morali ricordiamo le Regine, da Margherita, ispiratrice di poeti e musicisti, Elena che della carità fece motivo dominante in tutta la sua vita, tanto che il Pontefice la insignì della “Rosa d’Oro, e Maria Josè, storica insigne e mecenate di musicisti.
Dr.ing.Domenico Giglio - Presidente del Circolo di Cultura ed Educazione Politica - operante in Roma dal 1947 “il più antico circolo culturale della Capitale” - 
Roma, 27 settembre 2018


giovedì 27 settembre 2018

La Cappella della Sindone

Torino festeggia il suo gioiello ritrovato dopo quasi trent’anni.




Nella notte dell’11 aprile 1997 la Cappella della Sindone diventa una fiaccola protesa nel cielo di Torino. L’incendio che la devasta è spaventoso, offende le architetture del Guarini con una forza inaudita. Nessuno, nei giorni seguenti, scommette sulla sua restituzione integra alla città. Questa mattina, in una cerimonia riservata alle autorità, agli studiosi e alla stampa di tutto il mondo, il capolavoro barocco di Guarino Guarini riapre al termine di un difficile, complicato, persino miracoloso restauro durato oltre vent’anni. Da domani sarà aperto a tutti, compreso nel percorso di visita dei Musei Reali.
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mercoledì 26 settembre 2018

Io difendo la Monarchia - Cap VI - 1



Il fascismo conquista tutto il potere - Raffronti con la situazione odierna - Due importanti documenti polemici - La scuola della violenza - La riforma corporativa e l'interesse degli studiosi stranieri - Come fu giudicato il fascismo tra il 1926 e il 1935 - Il patto a quattro (1933), la mobilitazione al Brennero (1934.) - Conferenza di Stresa (1933) * L'impresa di Abissinia. Essa non era inconciliabile con l'equilibrio europeo - La guerra di Spagna e il conflitto ideologico in Europa - Il vero errore di Mussolini - L'anno decisivo.


La tempesta del 1924 passò e Mussolini, dopo alcuni mesi di prudente riserbo, tornò ai suoi atteggiamenti di incontrastato dittatore. Alla notizia dell'assassinio di Giacomo Matteotti tutti avevano pensato : « Questa è la fine del fascismo ». E invece il fascismo, dopo alcuni mesi di sbandamento e di crisi, costruì su quella esperienza le basi della lunga dittatura. Ma anche qui non si deve credere che ciò avvenne solo con la violenza. Osserva il Croce nella sua Storia d'Italia dal 1870 al 1915: « L'atteggiamento morale e politico della nuova generazione rispondeva all'irrazionalismo delle teorie il quale, a sua volta, come si è notato, era stimolato dallo spirito di conquista e di avventura, violento e cinico. L'ideale socialistico... non parlava più ai giovani. L’immaginazione e la bramosia della nuova generazione e dei delusi di quella un po’ antecedente, si rivolgevano come già prima in Inghilterra, Germania e Francia all' "imperialismo’' o "nazionalismo" del quale padre spirituale fu in Italia il d’Annunzio ».
Approfittando delle leggi eccezionali seguite al 3 Gennaio 1925  la conquista del  potere da parte  del fascismo  si fece totale e la pretesa restaurazione dell’autorità dello Stato si mutò in distrurione dello Stato liberale e si tramutò in una profonda rivoluzione. Quale rivoluzione? Mussolini procedeva su due strade alternando i tempi della sua marcia: la strada delle riforme sociali e la strada delle aspirazioni nazionali. Nel 1926-1927 la rivoluzione marciò di preferenza sul terreno sociale: con l'ausilio giurìdico di Rocco, Mussolini bandì ai quattro venti la « Carta del Lavoro » e la a riforma  corporativa » dello Stato, mediante la quale doveva affossare il liberalismo. È facile dire oggi che quelle dichiarazioni o nelle leggi erano vuote o false enunciazioni di principi che sarebbero stati applicati solo in quanto potevano favorire la dittatura. La crisi della democrazia parlamentare era una realtà e le leggi escogitate, per liquidare il passato e per iniziare una nuova esperienza, interessavano logicamente gli studiosi del mondo intero. In due volumetti dedicati alla «Bibliografìa Corporativa» nelle edizioni della rivista Il diritto del Lavoro abbiamo notato per gli anni 1928 e 1929 rispettivamente 2455 e 2712 voci italiane e straniere. Non tutto era falso, non tutto era scritto in mala fede. Se il socialismo non era stato capace di andare al potere o di compiere l'insurrezione, se il sistema parlamentare aveva fatto fallimento e si era rivelato incapace di dare un governo alla nazione, era naturale che una soluzione nuova della lotta sociale e il nuovo indirizzo dello stato autoritario, della nuova democrazia accentrata, come usava dire Mussolini, interessasse assai più della perpetua crisi dei parlamenti europei. Se a ciò si aggiunge l'enorme incremento delle opere pubbliche in Italia, le innegabili provvidenze per gli operai, per la maternità e per l'infanzia, e, in campo internazionale, il rispetto dei trattati e la ortodossa collaborazione alla Società delle Nazioni, in Ginevra, si comprenderà come il fascismo abbia avuto in quegli anni dei plausi calorosi all’interno come all’esterno. Sui grandi temi internazionali della revisione dei trattati, del disarmo, delle riparazioni e dei debiti, della sicurezza collettiva, i nostri rappresentanti svolgevano un’azione moderata e rivolta a scopi di pacifico equilibrio. Avvenne in quegli anni, in Italia, tra il 1925 e il 1926, la liquidazione totale dei partiti politici e della stampa di opposizione. Fu un male e si vedono le condizioni alle quali è ridotta oggi l’Italia; si può, anzi, aggiungere che fu un delitto. Di tale delitto si vuole, in mala fede, dopo la fine del fascismo, rendere responsabile la Monarchia. Ma l’accusa è assurda e disonesta. La Monarchia, si dice, ha lasciato violare lo Statuto. Parlano così, esattamente quegli uomini e quei partiti che hanno sempre avuto il fermo proposito di bruciare lo Statuto e il suo Regno. Privata del Parlamento, la Monarchia non poteva avere altra funzione che quella di evitare il peggio e di contenere e rendere inoffensive le iniziative più pericolose del dittatore. Per rendersi conto di questa dura realtà per la Monarchia si guardi al momento attuale. Il potere trovasi nelle mani dell’esarchia e cioè dei sei partiti che in periodo clandestino raggiunsero un accordo nella lotta contro l’invasore e contro il fascismo. Non esiste un Parlamento, ma esiste, con alcune limitazioni e stranezze, la libertà di associazione e di stampa. I sei partiti non sono concordi in nessuna delle principali questioni, ma sotto la pressione di forze armate che agiscono con spaventosa violenza (lo squadrismo fascista con i suoi eccessi apparirà al paragone come l’età romantica della violenza di parte) amministrano per loro conto l'uso delle fondamentali libertà. Dopo 15 mesi dalla liberazione di Roma è entrata in funzione una Consulta nominata dal Governo; e neppure furono fatte le elezioni comunali e provinciali nel Mezzogiorno e nel Centro d’Italia; e neppure fu creato un organo tecnico, qualche cosa come un Consigli di Stato per la elaborazione delle leggi. Non vi è un accordo sul concetto di legalità e di democrazia che alcuni intendono grosso modo come la legalità e la democrazia del 1914; altri come la legalità e la democrazia da instaurare con la forza per realizzare il nuovo ordine comunista. I democristiani stanno come al solito al centro del campo, cercando di valersi delle garanzie della conservazione e usando, d’altra parte, gli allettamenti demagogici della rivoluzione. Tra tutti pensano di raggiungere un minimo comune denominatore gettando alla folla, per soddisfarne la fame e le brame, le insegne della Monarchia. Ma già la maggioranza comincia a orientarsi per suo conto al di fuori del concerto dell’esarchia. In questi giorni (fine agosto 1945) si legge sul Risorgimento liberale una vigorosa protesta perché in Consiglio dei Ministri si tendeva a far passare una legge nella stampa assai più severa di quella fascista che fu almeno ampiamente discussa e tenuta molti mesi nel cassetto del Ministero dell’Interno e, infine, approvata in Parlamento. Nello stesso giorno si può leggere nel settimanale La Nuova Europa (2 settembre 1945) un grave ammonimento del più acceso dei laburisti sig. Laski al nostro Pietro Nenni.
Dice l’articolo del Laski: «Si afferma con molta autorità, che il signor Nenni, vicepresidente del Consiglio, abbia persuasa la maggioranza del Consiglio Nazionale del Partito socialista italiano, ad aderire alla fusione con i comunisti, sperando che dopo le elezioni italiane, per consolidare tale fusione, si proceda alla fondazione di uno stato a partito unico.
Si dice che egli abbia perduto la fiducia della democrazia e che egli creda che i cambiamenti fondamentali di cui l’Italia ha bisogno non siano raggiungibili con mezzi democratici.
Io spero di vero cuore che questa informazione non sia vera. Ho una profonda considerazione per la onestà e sincerità del Nenni. Son d’accordo con lui che nell’attuale inquieta situazione, l’unità delle masse lavoratrici di ogni paese in Europa è vivamente desiderabile, non fosse altro come garanzia contro il pericolo estremamente ovvio — per esempio in Francia — di una serie di controrivoluzioni mosse da interessi privilegiati prima che la spinta verso sinistra delle forze popolari si sia troppo inoltrata per essere arrestata.
Dopo lunghi anni di esilio, dopo l’insuccesso delle democrazie nel proteggere la repubblica spagnola, dopo il triste periodo di appeasement e non ultimo dopo la stupidità con la quale fu trattata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna l’Italia liberata, non è difficile comprendere la disillusione di Nenni. Ma rimane da vedere se i mezzi che egli è pronto ad adottare sono i più acconci per raggiungere il fine che egli si propone. Se riuscisse ad avere dalla sua la massa del partito egli creerebbe una dittatura. Egli certamente la chiamerebbe « dittatura del popolo». Questa sarebbe in realtà in un primo tempo una dittatura del suo partito e molto rapidamente diverrebbe la dittatura dell’organismo burocratico su tutto il popolo italiano.
Egli dovrebbe sopprimere la libertà di parola e la libertà di associazione, sia economica che religiosa. Vi sarebbe una resistenza da parte di alcuni potenti interessi economici, militari ed ecclesiastici che gli darebbero! particolarmente da fare. Si avrebbero arresti ed esili in massa anche fra coloro che combatterono contro l’odiosa dittatura idi Mussolini.

Che il signor Nenni sia ansioso con tutta l’anima di servirsi della dittatura nell’interesse delle masse, nessuno che lo conosce può negarlo per un solo momento; ma mi sembra che sia discutibile al massimo grado se la bontà delle sue intenzioni giustifichi la politica che egli sembra deciso a seguire. Per prima cosa veramente non si sa se egli trionferà. La nobile sollevazione dei partigiani del nord contro Mussolini ed il suo padrone tedesco è una cosa, ma è il signor Nenni così sicuro che essi si risolleveranno per appoggiare una nuova forma di dittatura?
Se si tratta di un regime che avrà la maggioranza nelle elezioni egli può stare sicuro che le Nazioni Unite appoggeranno la scelta popolare di una repubblica. Ottenuta la maggioranza per repubblica è ovvio che i partiti di sinistra predomineranno nell’assemblea costituente.
In tal caso essi non dovrebbero avere alcuna difficoltà nell’impiegare la loro maggioranza per il raggiungimento di un vasto programma di socializzazione.
Io credo che la politica che egli cerca di fare accettare al suo partito non è, come si crede, del buon marxismo, ma un cattivo esempio di come un sincero socialista può cambiare gli eroici, ma pietosi errori di Blanqui per le idee rivoluzionarie marxiste.
L’interesse dei socialisti è di non abbandonare la democrazia o la libertà fino a che gli eventi non dimostrino che queste non sono reali né sono capaci di divenirlo nella concreta situazione del momento. Il signor Nenni crede di poter fare un'altra rivoluzione di ottobre, osservatori non meno acuti di lui sono
altrettanto convinti che egli non vi riuscirà. Egli non si preoccupa degli effetti mondiali della vittoria della democrazia in questa guerra. Non fa caso alle immense ripercussioni della vittoria socialista nelle elezioni britanniche. Sarebbe una tragedia se gli amici del Signor Nenni non potessero persuaderlo
senza Indugio. di abbandonare una condotta che sarebbe fatale a lui stesso e potrebbe ritardare di anni quel procsso di ripresa costruttiva e di rigenerazione che iI popolo italiano  merita ed alla quale il mondo intero guarda ansiosamente.»
Harold Laski

lunedì 24 settembre 2018

Articolo del Presidente Semerano sulla Maschera funebre di San Pio


LA STORIA DELLA MASCHERA FUNEBRE DEL FRATE DEL GARGANO

di Giovanni Semerano
“Ho sempre creduto che i Santi non sarebbero mai morti!” Padre Pio, Santo lo fu già da subito, e il giovane Michele Miglionico incredulo, quasi immobile dal dolore, era impietrito davanti alla salma del Frate del Gargano.
Questa storia cominciò così, con la frase infantile di un giovane artista, che sempre, poi, resterà “legato” all'icona del Santo.Tatto cominciò all’alba del 24 settembre 1968, una mattina grigia e pesante, quando alle ore 3, insieme al professore Francesco Paolo Fiorentino, Michele Miglionico fu chiamato da Padre Pellegrino, dal guardiano Padre Carmelo di San Giovanni in Galdo e da Padre Giacomo (fotografo dell'evento delle stimmate scomparse), a recarsi presso il Santuario. L'intento era quello di far eseguire a Miglionico, già noto in paese per il suo talento e i suoi studi presso le accademie parigine, un calco funebre dal volto di Padre Pio. Ma data l'impossibilità dell’operazione, il professore Fiorentino disse che la cosa più semplice era quella di fare un disegno della salma. Essere davanti al corpo senza vita di Padre Pio, però non era come fare un ritratto qualsiasi, e l'emozione aveva preso tutti i protagonisti. Al professore Fiorentino, d'improvviso cadde la matita in terra e disse che non poteva, dalla commozione disegnare e pregò Miglionico di fare lui il disegno.
Dopo tanti anni a Taranto nel 1974, la Galleria l'Incontro organizzò una personale di Michele Miglionico, che per l'occasione, oltre ai lavori olio su tela, espose una ricca cartella di disegni a matita, ritratti, fiori, piazze e strade di Parigi e altro, e infilato tra i vari fogli, la Maschera Funebre di Padre Pio. Era un pomeriggio assolato di luglio, quando una distinta signora entrò in galleria. Molto attentamente pose il suo sguardo sui quadri esposti, ma la sua attenzione fu rivolta ai disegni. Tra questi scelse quello della Maschera Funebre e volgendosi verso Miglionico chiese quanto costasse.
Miglionico fu sorpreso che la signora potesse essere proprio interessata a quel ritratto e non volendosene liberare, chiese una cifra che, per come erano allora quotate e sue opere, era oltre modo inverosimile. Ma la signora, senza battere ciglio firmò un assegno.
Quella signora era la contessa Concetta Lanfranchi, dirigente nazionale del Movimento Femminile dell' U.M.I.. La contessa, acquistava l'opera, per farne omaggio a Sua Maestà Umberto II, in esilio in Portogallo, devoto come tutta Casa Savoia, di Padre Pio.

domenica 23 settembre 2018

La Maschera funebre di Padre Pio, racconto

Antonio Del Vecchio Cultura 22 Settembre 2018



[...] 

Ad un certo momento entrò in sala, una signora dall’abbigliamento e comportamento assai distinto, che dopo aver sostato presso ogni singolo quadro, come se ne volesse saggiare con il suo sguardo da esperta non solo l’insieme, ma anche il più trascurabile particolare. Al termine del suo veloce girovagare, anche lei fu attirata  dalla cartella dei disegni. Li scartabellò e fu attratta subito dalla “Maschera”, quadro che l’artista amava far vedere, ma mai vendere, perché in  esso   era racchiusa tutta la sua anima e sentimento di quegli attimi vissuti a stretto contatto con l’essenza terrena del Santo, quello che lo aveva attratto a sé come un inimitabile, difficile da gestire e da riprodurre. 
La donna gli chiese quando costasse il disegno e Michele, stupito per la richiesta che non si aspettava, quasi per liberarsene, le rispose, sparando una cifra esorbitante rispetto a quella del “Bolaffi”, il catalogo che ‘misurava’ le opere e gli artisti italiani e stranieri di grido del momento. La misteriosa interlocutrice, prese subito il libretto degli assegni e firmò subito quanto richiesto. A che l’autore fu costretto a cedere, per non fare una brutta figura. Seppe dopo che quella signora non era nientìaltro che la contessa Concetta Lanfranchi, la presidentessa del settore femminile dell’Unione Monarchica Italiana, braccio visibile nello Stivale, della Casa Reale dei Savoia e del cosiddetto ‘Re di maggio’,  Umberto II. Tanto per il breve regno sopportato, prima di essere esiliato a Cascais in Portogallo. Al disegno, quest’ultimo, come per il resto l’intera famiglia, ci teneva assai, in quanto era legata a doppio filo con la devozione verso la religione cattolica e in particolare verso i suoi personaggi più prestigiosi, quale era appunto, Padre Pio. E questo possedendo tra i suoi avi  dei personaggi canonizzati di un certo rilievo. Prima di morire, Umberto II  affiderà  la custodia del disegno al deputato. Filippo Benedettini, Presidente dell’UMI, che lo metterà in mostra presso l’ufficio della presidenza dell’associazione a Roma. Saranno, poi, i suoi successori a restituire l’opera d’arte a Casa Sollievo. E questo dopo una intensa corrispondenza epistolare tenuta dall’arcivescovo Domenico D’Ambrosio con il segretario generale dell’Umi, Giovanni Semerano, prima, e dal suo successore Michele Castoro (vedi foto con l’artista Miglionico), di recente scomparso. Ora il disegno, ben sistemato in un quadro è esposto alla venerazione dei visitatori nell’apposito Museo, allestito presso la Cappella grande della predetta struttura ospedaliera. “Tanto per rendere onore e lustro – ci dice visibilmente commosso Miglionico - ad uno dei più grandi interpreti ed intercessori dei nostri tempi, qual è appunto Padre Pio da Pietrelcina, di cui il mio  maggiore cruccio di non essere riuscito, nonostante i miei innumerevoli tentativi, di tradurlo in calco. Pace e bene!”.    

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