NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 27 febbraio 2012

Il blog del dottor Giusti


Nuovo non del tutto ma che in realtà, purtroppo, arriva solo adesso alla nostra attenzione. Il blog del dottor Corrado Giusti, autore di un libro sul referendum istituzionale del 1946. Un blog di cose non solo monarchiche, ricco di spunti decisamente interessanti. Compare da oggi tra i nostri link.

Vi segnaliamo in particolare il seguente post nel quale potrete ascoltare la voce del Ministro Lucifero che legge il messaggio di Re Umberto II per il 100° anniversario della fondazione del Regno d'Italia.


Ma il consiglio è di leggerselo tutto.

Nuove Sintesi


La lettera precedente è tratta dal periodico "Nuove Sintesi" diretto dal Professor Michele D'Elia.
Lo scopriamo, lo riscopriamo in realtà, con un numero dedicato interamente all'Unità d'Italia e ci complimentiamo per la quantità e per la qualità  degli articoli  in esso contenuto.

Ne raccomandiamo caldamente la lettura ai nostri amici visitatori. 

Una copia può essere richiesta al professor Michele D'Elia, Viale Marche  95, 20159 Milano

Una lettera di Vittorio Emanuele II a Cavour



Signor Conte,

Nell'istessa maniera che Lei mi scrive con franchezza, con franchezza le risponderò. Sappia che [la] sua lettera mi dispiacque. Sappia che è ridicolo fare progetti e teorie da Torino, mentre che noi che siamo sul posto ci caviamo la pelle per fare il nostro dovere. Alla guerra non vi è mai niente di certo sopra  i progetti che si fa: talvolta si cambia a mezzogiorno quel che si combina a mattina, secondo le mosse del nemico, talvolta quel che pare il più certo è quello che lo è meno.

I miei progetti sono sempre sottoposti a quelle teorie e sempre furono e sono d'accordo con le idee del Maresciallo Canrobert e generale Niel. Anche la mossa sopra Novi che Lei, con parole che Ella avrebbe potuto sparmiare, critica tanto, fu combinata col generale Canrobert, che venne sul posto. Ed essa sarebbe riuscita utilissima se si fosse realizzato ciò che si credeva imminente, e che se non accadde fu per pura bestialità dei Tedeschi.

Riguardo poi alle osservazioni che Lei mi fa sopra il nuovo movimento, capisce bene che non posso scriverle un libro tutte le volte che Le scrivo, avevo già fatte tutte le ipotesi e giusto per ciò che l'idea principale del gran salvamento di Torino spaventato, era più sua che mia; avevo già dato l'ordine alle mie divisioni di soffermarsi sulla posizione di Ponte Stura da dove le avrei fatte muovere secondo la necessità temendo io stesso che il nemico si sarebbe ritirato al loro primo comparire. Dunque vede che non siamo tanto bestia.


Il Suo affezionatissimo                                                              Vittorio Emanuele  

sabato 25 febbraio 2012

I lazzaroni del Re

di Giovanni Semerano

Massimo Di Massimo, giornalista, scríttore, ricordato autore di due particolari libri di successo: "A Donna Marcella tenutaria in Roma", Giovanni Semerano Editore, Roma 1958.
Rinomata Ditta Italia - "Cinquant'anni di usi e consumi" scritto assieme a Luciano Guidobaldi, Giorgio de Fonseca Editore,Roma 1973.
Massimo Di Massimo è stato il primo giornalista che andò a trovare il Re Umberto in esilio a Cintra in Portogallo. Era il 1947 mi pare di ricordare fosse nei primi mesi dell'anno, dopo che il Re ricevette, a dicembre del 1946, l'onorevole Luigi Filippo Benedettini, deputato all'Assemblea Costituente. Due avvenimenti che furono seguiti con interesse dai monarchici e da tutti gli avversari.

Benedettini intervistò Umberto II per il suo settimanale "la Voce Monarchica ". Di Massimo intervistò l'Augusto Esule per

realizzare un filmato che girò sul posto, improvvisando con una Hariflex 35mm presa a noleggio a Roma. Documentò una
giornata come la viveva il Re in esilio con la sua Famiglia, nella nuova casa, nel giardino, i giochi dei bambini.
Il documentario fu proiettato a Roma a un affollato pubblico, al cinema Galieria, nella Galleria Colonna, in una memorabile serata rumorosa di applausi e vivace di sventolii di tricolori con lo Stemma Sabaudo, la vera Bandiera degli Italiani. Replica dopo qualche mese a Napoli, si può immaginare con quanto scrosciante entusiasmo. Una copia della pellicola dovrebbe essere conservata nell'archivio dell'Unione Monarchica Italiana.
Dopo il Referendum del 2 giugno incontrai la prima volta Massimo nella redazione del settimanale "Italia Monarchica ", diretto da Alfredo Covelli e Pasquale Pennisi. In redazione c'era anche Paolo Glorioso. All'epoca io collaboravo con la "Voce Monarchica" dove scrivevano valenti giornalisti come Nino Serventi, Giuseppe Fanelli e Nino Guglielmi; quest'ultimo dopo essere stato Segretario Generale dell'Unione Monarchica Italiana costituirà il Partito Monarchico Italiano.
Si stabilì con Di Massimo subito un rapporto di vivissima amicizia e collaborazione. Ricordo di avere imparato molto da questo uomo piccolo di statura, occhi vivaci, grande parlatore, variopinta intelligenza. Impaginatore veloce sul bancone della tipografia tra piombi e caratteri: allora i giornali si stampavano su fogli grandi, formato elefante, su nove colonne, con testi corpo otto e giustezza dieci tutto piombo uscito dalla linotipe ancora fumante. Un giornalista dalla penna facile e di piacevole lettura, stile longanesiano. Quando Aldo Salerno mi chiamò alla condirezione della sua "Azione Monarchica". Di Massimo si unì a me e insieme stampammo il settimanale che nel formato si trasformò nel primo tabloid politico italiano. Erano con noi Nicola Torcia, anch'egli condirettore, Sergio Raffo, Carmelo Lo Voi, Enzo Sasso, Gianpiero Caffarrelli, Enrico Boscardi, Renzo e Alberto Puntoni e tanti altri, ma eravamo veramente tanti e il giornale rappresentò, nella nuova versione, l'organo del Movimento Giovanile del Partito Nazionale Monarchico. Fu quella una bella stagione ricca di entusiasmi e battagliere posizioni fino a quella di ostacolare con forza polemica l'azione intrapresa da Alfredo Covelli di realizzare una alleanza con il Movimento Sociale Italiano. Il giorno della firma tra Covelli e Michelini dell'accordo che stabiliva l'apparentamento elettorale del PNM con il MSI, Azione Monarchica strillò per le strade del centro di Roma la sua Edizione Straordinaria dove i giovani del PNM si schieravano contro tale accordo e uscivano per protesta dal Partito.
Fu l'ultimo numero di Azione Monarcbica. Ideato e diretto da Massimo Di Massimo nacque allora nella nostra stessa tipografia Francioni in via del Gambero il nuovo settimanale "Nazione Monarchica", organo della rivoluzione monarchica. Contemporaneamente Massimo costituì il Movimento dei Lazzaroni del Re. Fu un caso che il nuovo Movimento aprisse la sua sede in via Crescenzio proprio di fronte al portone del palazzo dove era l'appartamento del Ministro della Real Casa Falcone Lucifero. Con il Ministro Di Massimo stabili buoni rapporti e intercorsero spesso visite di cortesia. Cosi il Re veniva informato periodicamente dell'attività dei Lazzaroni che seguiva con simpatia. Di Massimo tenne un applaudito comizio al cinema Capranica di Roma per annunciare la nuova formazione e giunsero numerose le adesioni anche da tutte le parti d'Italia. I Lazzaroni del Re aderirono in seguito al Fronte di Unità Monarchica che fu costituito dagli onorevoli Tommaso Leone Marchesano e Gianfranco Alliata. Non aggiungo altro dai miei ricordi e riproduco qui di seguito l'articolo di Ilario Fiore pubblicato, il 4 agosto 1951, sulla prima pagina del quotidiano "Il Tempo" allora diretto da Renato Angiolillo. Mi sembra una della migliori testimonianze per ricordare dopo tanti anni I Lazzaroni del Re.
Giovanni Semerano


Gli ultimi arrivati sono stati quelli che hanno fatto più chiasso. I nuovi Lazzaroni del Re, circa quattrocento a Roma e duemila in tutta Italia, sono raggruppati intorno al giornale "Nazione Monarchica" che porta nel sottotitolo "Settimanale della Rivoluzione Monarchica". Col loro decalogo programmatico hanno sorpreso, fatto ridere, hanno commosso, hanno, insomma, fatto del rumore. Ed è quello che volevano.
Uno dei dirigenti, Di Massimo, che è stato poco tempo fa dal Re in Portogallo, afferma : "Per menare un colpo ai titubanti, ai frigidi, ai cauti lumaconi del monarchismo ufficiale...".
Il decalogo è "una manifestazione di protesta, un grido di reazione al quietismo giovanile":

1) il Re non si discute, si serve fino al sacrificio; 
2) quando sei stanco non riposare: cambia fatica; 
3) spesso con gli avversari, il migliore argomento polemico è un pugno in faccia;
4) ricorda che nella vita potrai diventare anche ladro, ma mai repubblicano; 
5) poiché la tua istituzione è la Monarchia, tutti gli atti della repubblica sono compiuti in tuo danno; 
6) la migliore vendetta è la vendetta; 
7) la repubblica ha sempre torto specialmente quando ha ragione; 
8) un solo Lazzarone vale cento comunisti, mille democristiani, diecimila repubblicani; 9) la Monarchia sarà liberale e  socialista o non sarà; 
10) è meglio essere affamati sotto la Monarchia che sazio sotto la repubblica.

Appena uscì, il decalogo fu riprovato da molte parti. Il documento era accompagnato da una dichiarazione che non risparmiava nessuno: dalla nostalgia dei colonnelli alle lacrime delle contesse valetudinarie. Un ex ufficiale dell' Esercito telefonò a uno dei ragazzi: Il vostro, per esser un decalogo sul serio, manca di un punto: non ce ne importa di nessuno parlate di noi bene o male non importa,
purchè ne parliate ......
Il ragazzo rise: forse il maturo ufficiale aveva ragione ; ma la verità è che quest' ultima manifestazione giovanile intorno al problema monarchico ha riproposto il tema delle relazioni passate tra l'istituzione e la gioventù. Recentemente, l'onorevole Marchesano disse: "Occorre tornare all'entusiasmo garibaldino che pervade le organizzazioni giovanili. E questi giovani che hanno assunto, resuscitandola dal passato la gloriosa denominazione di Lazzaroni del Re, insegnano a noi vecchi combattenti che la Monarchia non è morta se i giovani sono dalla sua parte".
Il decalogo può anche essere un saggio di umorismo come hanno detto gli avversari del gruppo giovanile di Nazione Monarchica, ma nella sua esagerazione contiene due aspetti fondamentali della causa monarchica: i giovani e il popolo.
Non è forse perché tra il popolo e il Quirinale vi fu durante il fascismo un'invisibile barriera di silenzio , che il due giugno la Monarchia fu battuta? E, ancora, non è forse per mancanza di un forte gruppo di uomini vivi, coraggiosi, audaci, intelligenti, intorno alla persona dell'ex Re, che la battaglia elettorale del Referendum fu perduta? In sede storica, il giudizio comincia a delinearsi e non c'è chi non possa ammettere che con quei risultati (dieci milioni contro undici), sarebbe bastata una maggiore dose di vitalità per spuntare l'accanita contesa.
Dicono i Lazzaroni: "Noi sappiamo quale esca abbiamo offerto ai nemici, ma noi
vogliamo smuovere le acque della palude monarchica".
Umberto, saggiamente, affermava nei mesi precedenti il referendum che il Quirinale doveva stare al di fuori dei partiti al disopra della battaglia politica . Ma i suoi consiglieri si resero ben conto qual'era la vera aria che tirava nel Paese, capirono fino in fondo la situazione sociale del dopoguerra nella quale un triste binomio, Monarchia e Fascismo, era stato lanciato come slogan dai nemici del Re? E non furono trascurati i giovani da parte monarchica, mentre la sinistra aveva già organizzato le proprie legioni giovanili?
Durante il periodo elettorale i giovani chiamati o impegnati nella propaganda per il Re non superarono il migliaio. Si parla, naturalmente, di quelli che presero parte attiva alla campagna, ai quali era stato iniettato quel carico di entusiasmo necessario per affrontare gli oratori repubblicani che sulle piazze vuotavano sacchi di insulti e di accuse contro i Savoia. Oggi, in ogni caso, queste sono discussioni accademiche e persino i
Lazzaroni se ne accorgono. Essi non appartengono a un partito monarchico, hanno aderito con qualche riserva al Fronte di Unità Monarchica, riserva condizionata all'opera che il Fronte presieduto dall' onorevole Alliata svolgerà per la convocazione di un congresso nazionale delle forze monarchiche.
Il linguaggio dei Lazzaroni del Re come quando dicono che essi credono nella rivoluzione monarchica senza santoni e senza profeti. Essi si propongono di andare alla ricerca di quei dieci milioni di Italiani che votarono per la Monarchia e che oggi sono dispersi e abbandonati a se stessi, per recuperarli alla buona causa.
Il loro movimento è un fatto curioso: noi non possiamo trascurarlo facendo il panorama della forze monarchiche nazionali. E i temi da loro agitati entrano di forza nel giudizio complesso che la storia darà sul cambiamento degli idoli costituzionali, votato dal popolo nella primavera di cinque anni fa.

Ilario Fiore (Il Tempo, 4 agosto 1951)

mercoledì 15 febbraio 2012

Il duce degli Ignoranti

dal blog del nostro amico Antonello Leone

Adriano Celentano è un miscuglio di contraddizioni politiche e morali con una sola grande costante: uno sclerotico carisma che lo porta a considerarsi la bocca della verità e l’unico vero rappresentante più che autorevole della coscienza civile della nostra nazione.
Non guardo da anni il Festival di Sanremo, perché ritengo che il mio intelletto ne possa fare a meno, non è certo affezionandomi ad un baraccone molto costoso in termini di tasse degli italiani, che io possa in qualche modo gratificarmi culturalmente come italiano. Quindi da molti anni ne faccio a meno, ma ciò non significa che sopportando la visione dei vari telegiornali io venga ugualmente a sapere cosa succede in quel petulante, volgare e populista carosello televisivo che si chiama Festival della Canzone Italiana. Così ho dovuto sopportare qualche secondo del monologo di Celentano, dove ho notato qualche simmetria linguistica con un certo Benito Mussolini. Mi riferisco ad un discorso che il Duce fece tra il 1908 e il 1910 in un teatro italiano, forse quello di Forlì, dove non disse cose troppo diverse da quelle dette dal Molleggiato. Con un’unica differenza: Mussolini fu fischiato e deriso, Celentano è stato applaudito e osannato. Ciò significa che la platea dell’Ariston (anziché teatro Ariston, dovrebbero chiamarlo teatro del Fascio) ha gradito il contenuto del monologo di Celentano, e quindi l’ha condiviso. Ha condiviso che in una repubblica democratica come la nostra, sia normale che qualcuno inviti la chiusura di giornali, soltanto perché quello che scrivono non ci piace, d’altronde chi se ne frega della libertà di stampa e d’informazione!!
 [..]

lunedì 13 febbraio 2012

Vittorio Emanuele III di fronte alla storia


Sul sito dedicato a Re Umberto II la terza ed ultima parte dell'articolo del senatore Bergamini in memoria di Re Vittorio Emanuele III.
Oltre all'importante testimonianza della reale esistenza del diario del Re colpisce la lucidità e la puntualità  delle sue memorie.

http://www.reumberto.it/bergamini48-3.htm

Buona lettura!

"Re Giorgio" si vanta dei tagli alle spese ma la sua reggia è la più cara al mondo

articolo di lunedì 13 febbraio 2012

di Laura Cesaretti

Ma quale austerità! Il Quirinale costa ancora il doppio dell'Eliseo: ecco i finti tagli fatta dal presidente della Repubblica
Gli annunci in clima austerity della presidenza della Repubblica: risparmiati 60 milioni in 5 anni. Esborsi congelati, eppure con 228 milioni a bilancio il Quirinale costa ancora il doppio dell’Eliseo. Riduzione del personale e contributo di solidarietà dal 5 al 10% per gli alti funzionari. Con i conti on line Napolitano vuole lanciare il messaggio: tiriamo la cinghia anche noi
Roma - Sessanta milioni di euro in meno a bilancio, spese ferme al 2008, diminuzione progressiva del personale: il Quirinale rende pubblico il suo budget, e si allinea all’austerity dell’era Monti. Più che tagliando, congelando gli esborsi.
I costi della presidenza della Repubblica restano monumentali, soprattutto messi a confronto con i budget di altre istituzioni equiparabili in Europa (dall’Eliseo alla Corte di St. James), ma nel corso del suo settennato Giorgio Napolitano ha imposto un progressivo dimagrimento al corpaccione burocratico ereditato. E soprattutto sta adattando anche l’opaco regime di interna corporis della prima istituzione repubblicana a nuove regole di trasparenza. A cominciare appunto dai bilanci, un tempo riservati ma da qualche anno forniti con dettagli crescenti. Con una altrettanto crescente attenzione alla pubblica opinione. In tempi di drastici tagli, con una difficile trattativa aperta sulla riforma del lavoro e il temibile spettro delle agitazioni di piazza in Grecia, è chiaro che Napolitano voglia dare un segnale di buona volontà: anche il Colle tira un po’ la cinghia.
Il bilancio di previsione per il 2012 è stato reso pubblico ieri, accompagnato da una nota illustrativa pubblicata online sul sito del Quirinale. La dotazione a carico del bilancio dello Stato per la presidenza della Repubblica è di 228 milioni di euro, pari a quella del precedente esercizio finanziario, che era già inferiore di 3 milioni e 217mila euro rispetto a quella del 2009.
Sostanzialmente, si sottolinea, è rimasta pari a quella del 2008, nonostante l’8,4% di inflazione. Un risultato, spiega il sito del Quirinale, possibile «grazie ad una serie di provvedimenti di riforma e riorganizzazione amministrativa adottati dall’inizio del settennato». L’elenco delle misure va dal blocco del turnover del personale alla progressiva riduzione dei «distaccati»; l’introduzione anche sul Colle del regime pensionistico contributivo; il blocco degli stipendi al 2008; la limitazione degli straordinari. Alle cospicue indennità degli alti gradi, dal Segretario generale Donato Marra in giù, è stato applicato il contributo di solidarietà del 5 e del 10%. Il personale si è ridotto rispetto al 2006 di 394 unità. «Nel corso del 2011 - si legge sul sito quirinalizio - si è avuta una ulteriore riduzione di 20 unità del personale di ruolo (da 843 a 823) mentre è rimasto stabile l’ammontare sia del personale comandato (103 unità) sia del personale militare e delle Forze di polizia (861 unità)».
Cresce invece, sia pur di soli 300mila euro, la spesa per «beni e servizi». Ma qui, si spiega, oltre all’incremento dell’inflazione e all’aumento dei tributi fiscali, c’è anche una buona ragione: «le spese per le celebrazioni del 150/mo anniversario dell’unità d’Italia e per la intensificazione degli interventi di restauro e manutenzione, nonché alla fruizione del Palazzo del Quirinale da parte del pubblico». Un palazzo che, nel corso del solo 2011, è stato visitato da 250mila persone: un vero museo a disposizione della cittadinanza, sottolinea il Colle.
[...]

domenica 12 febbraio 2012

UN “GIORNO DEL RICORDO” MOLTO AMARO

Riceviamo e moltissimo volentieri pubblichiamo il seguente comunicato stampa:




La Segreteria Nazionale



Mail istroromano@teletu.it
Milano 10 Febbraio 2012




COMUNICATO STAMPA









Un “GIORNO del RICORDO” molto amaro.
Anche il nostro Movimento Nazionale Istria Fiume Dalmazia, ha partecipato, insieme alle altre Associazioni consorelle. tutte ufficialmente accreditate  alla commemorazione del “GIORNO del RICORDO”  a Milano in Largo “Martiri delle Foibe”, promossa e organizzata dal Sindaco Avv. Giuliano Pisapia con la Sua Amministrazione.
Purtroppo, con grande amarezza e delusione,  il Sig. Sindaco Pisapia, arrivato in tutta fretta e con i minuti contati, dopo aver letto il suo discorso, pur riconoscendo il nostro dramma, ha ricordato e rimarcato, l’occupazione della Jugoslavia da parte dell’Italia fascista, non negando le foibe, ma quasi giustificando la reazione con le atrocità dei  comunisti titini, ovviamente, tali passaggi non sono totalmente condivisi da noi esuli, mentre non ha consentito ai rappresentanti degli esuli presenti, di poter ricordare, sinteticamente i nostri morti, il nostro dramma con le immani sofferenze subite  di tutti i 350.000 esuli italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia: UNICO E PRIMO CASO(SPERIAMO CHE RIMANGA L’UNICO!) VERIFICATOSI IN ITALIA. Ciò ha provocato, in noi esuli presenti,tra cui alcuni parenti di infoibati,   una nuova umiliazione e indignazione,  anzichè pacificare, ha riaperto ferite ancora non del tutto guarite. Sappiamo a che area appartiene il Sindaco Pisapia, probabilmente per non dispiacere ai suoi compagni,(e forse a se tesso!)  non ha voluto far sentire anche la controparte,parte integrante della commemorazione, che vuol raccontare e testimoniare  le  VERITA’ ANCORA SCOMODE!.
Sig. Sindaco Pisapia, con la Sua mezza cerimonia,non ha commemorato i nostri morti,la nostra diaspora, Lei ci ha umiliato e offeso, chieda scusa agli esuli istriani fiumani e dalmati di Milano e non solo.

                                         Il Segretario Del  Movimento Nazionale Istria Fiume Dalmazia
                                         Romano Cramer

sabato 11 febbraio 2012

Il martirio di Mafalda III parte

LA CARITA' DI MAFALDA

La carità di Mafalda trovò il mezzo di esprimersi, di concretarsi anche nel campo di Buchenwald. La sua sofferenza, compendio di tutte le sofferenze che possano essere inflitte ad una creatura, sia essa Principessa o la più infelice donna del popolo, non attenuò, nemmeno per un attimo, il suo fervore caritatevole. Dimenticava sè stessa per occuparsi e preoccuparsi degli « altri ». Distribuiva, ogni giorno, dei viveri ai prigionieri ed, in modo speciale, al Boninu che veniva invitato a sedersi al tavolo della Principessa. Ella l'autorizzava a parlare di Lei ai loro connazionali e l'incaricava, se ciò si fosse dimostrato possibile, a far pervenire al marito le sue notizie. Gli diede l'indirizzo del suo figlio soldato: Maurizio, del Conte di Sant'Elia in Alghero (Sardegna) e della famiglia Riccio.

E Boninu ricambiava la confidenziale benevolenza di Mafalda con un modesto dono, dell'argilla, che consentiva ad Essa, artista, di fabbricare dei vasi cotti durante la notte nelle stufe, vasi che sperava di poter un giorno, sia pure un giorno lontano, portare ad Elisabetta, la sua piccola, ch'Ella ricordava con struggente tenerezza.

Un giorno, uno di quei t anti giorni su cui pesava la cappa del terrore, Boninu venne destinato ad un altro coniando: perfino la permanenza alla baracca n. 15 gli era vietata. Non vedendolo, Mafalda riuscì attraverso la complicità di un francese ad inviargli dieci marchi avvolti in un pezzo di carta sul quale aveva scritto il nome di lui e « tanti saluti ».
Boninu conserva e conserverà sempre come si custodisce un tesoro quel candido foglio: i k tanti saluti >'.

Il campo di Buchenwald ebbe un solo bombardamento: il 24 agosto 1944. Stormi di apparecchi alleati : officine distrutte, le caserme delle S.S. danneggiate. Non una sola bomba cadde entro il recinto del campo. Malgrado ciò le vittime, anche tra i prigionieri, furono notevoli dato che alla maggior parte degli internati non riuscì possibile allontanarsi dalle officine, e che le scariche della fucileria delle guardie ucraine colpirono coloro che cercavano scampo fuggendo nel bosco.
La nostra Principessa Mafalda si trovava in quel momento nella trincea : le macerie della baracca, colpita da una bomba incendiaria, le caddero addosso, la ricoprirono.

Alcuni prigionieri raccontano di aver udito grida d'aiuto, strazianti voci femminili, ancor prima che l'ultima pioggia di bombe, vicinissime, rovesciasse completamente il muro dì cinta e trasformasse in un braciere la baracca crollata. Gli aiuti non furono solleciti. Gli ufficiali S.S. si affrettarono a reclutare i primi volonterosi che si erano avvicinati alla baracca 15 ed imposero loro di mettere in salvo, innanzi tutto, gli oggetti, le cose che a loro premevano. Fra questi volonterosi vi era un Vorarbeiter tedesco che per ben due volte fu costretto ad interrompere la sua opera pietosa per portare dei pacchi a due ufficiali S.S.: ufficiali che non hanno più diritto di chiamarsi nomini.
Quando il Vorarbeiter riuscì, finalmente, a ritornare sul posto, si trovò dinnanzi al più lugubre degli spettacoli: un terreno ingombro, sconvolto dai resti fuinanti della baracca.

SI LEVA UN GRIDO...

Dalla trincea franata si leva un grido femminile una disperata invocazione d'aiuto. Una voce di donna: la voce della nostra Principessa sabauda.
Soltanto la testa di Mafalda. Soltanto il suo volto diafano e dolorante, affiora dalle macerie. I suoi grandi occhi, trasformati da un'espressione di terrore fissano il cielo: forse invocano la clemenza degli uomini invocano, certamente, la benevolenza di Dio.
Aiutato da altri volonterosi il Vorarbeiter incomincia a disseppellire la Principessa, ma ancor prima di aver portato a termine il suo lavoro, che poteva significare vita o morte, egli, per ordine di Mafalda disseppellì la signora Breitscheid che le giaceva vicina. questa, però, era soltanto svenuta.

Liberate le due signore esse furono trasportate dai loro salvatori, prima sulla strada, poi al campo, nell'ospedale. L'ospedale zeppo di feriti, sonoro di urli strazianti, non aveva la possibilità di accoglierle
Il calvario continuava.
Si aprirono ad esse le porte di un postribolo trasformato in un lazzaretto di fortuna. La casa che ospitava ieri un piacere anonimo accoglieva, oggi, indegnamente, una Creatura alla quale era stata imposta la più acuta sofferenza : sofferenza spirituale, sofferenza fisica.

Ore sedici. Le prime cure. La Principessa aveva riportatouna grave contusione al braccio sinistro ed inoltre presentava una vasta scottatura di secondo grado, mentre un'altra scottatura. meno importante, si notava sulla guancia sinistra. La medicatura affrettata si ridusse ad una semplice fasciatura e, nulla, assolutamente nulla, fu tentato per riattivare la circolazione del braccio.
Mafalda, pur soffrendo il soffribile, trovava ancora la forza per sorridere a quelli che le erano vicini, a quelli che dovevano poche ore dopo firmare la stia condanna. Ella non aveva smarrito la sua, fede : Ella voleva, credere ancora nella bontà degli uomini.
Una prostituta d'origine scandinava, Iugan Luzedan, le faceva da infermiera. Nel tetro edificio, trasformato dalla guerra vibravano l'ansia, l'abbattimento, la speranza, il dolore. Colpe di ieri. Colpe di oggi : spettri di colpevoli, candide visioni d'innocenti umanità. Umanità dolorosa e dolorante.

Il braccio sinistro della Principessa non tarda il presentare i segni della cancrena. L'amputazione si impone li chirurgo Hans Wittland è, già pronto per l'operazione il comandante del campo ordina invece al dottore delle S.S. Schidlawstzj di procedere all'amputazione.

L'S.S. nicchia e rimanda di giorno in giorno, con pretesti puerili, l'atto operatorio. Si ha la netta sensazione che l'indugio sia provocato per attendere ordini superiori, che si desideri ritardare l'intervento chirurgico dimenticando ogni dovere umano l'imperiosa evidenza, l'esperienza clinica.

Mafalda,  creatura dispensatrice di pace, è, ancora una volta, vittima della crudeltà politica, figlia della guerra.

Finalmente il lunedì 28 agosto - sotto già trascorsi quattro lunghi, decisivi giorni - la Principessa viene trasportata all'ospedale per essere sottoposta all'atto operatorio. Una barella, come tutte le altre. Ore diciannove.
Il direttore S.S., contrariamente ad ogni previsione dichiara di voler operare Mafalda: non vuole che si possa dire che una Principessa di sangue Reale sia stata operata da un chirurgo prigioniero. Un altro tranello? E' veramente questo il tragico destino, la condanna che pesa sulla Principessa?
L'operazione viene fatta con l'assistenza del dottor Horn, del dottor Thomas George, assistente della clinica universitaria di Strasburgo, con istrurnentario Frank-Frank ed alla narcosi eterea Wunderfich.

Contrariamente all'avviso dei dottor Horn (che invece era sempre ascoltatissimo e stimato dagli S.S. ed in modo particolare nel campo chirurgico dal SchidIawskj, per la sua riconosciuta capacità chirurgica) il medico S.S. volle eseguire una minuziosa e classica operazione d'amputazione per disarticolazione alla spalla con pedante preparazione anatomica di tutti i muscoli e con la formazione di un estetico classico lembo muscolare d'amputazione.

Le gravi condizioni, quasi cachetiche, della Principessa, peggiorate dall'intossicazione post-traumatica avrebbero consigliato a qualsiasi medico un'operazione minuziosa e lunga, debilitante, con inevitabile e copiosa, perdita di sangue.

Sul registro delle operazioni l'intervento venne regístrato con uùa durata di mezz'ora.

Tempo già eccessivo per una disarticolazione. Tutti i presenti all'operazione ed anche il chirurgo francese Daladier che operava nella stanza a fianco, dichiararono che l'operazíone durò almeno tre quarti d'ora.

AGONIA

La Principessa, ancora addormentata, fu riportata nel postribolo.
Notte di silenziosa agonia: impercettibili sospiri, respiri lenti. L'alba indifferente e livida fu la prima a scorgere il suo cadavere: le cinque del mattino. Nessuno, durante la notte, era venuta a visitarla. L'alba indifferente e livida. fu la prima.
Prima di morire volle scrivere una parola, traeciare il suo ultimo saluto, ai Figli, ai Marito, ai Genitori.
Ciò che viene consentito a qualsiasi reo, a qualsiasi delinquente è stato negato a Lei, creatura regale e pietosa, è stato negato a Mafalda di Savoia.
Chiese, Lei, profondamente religiosa, Il assistenza e la benedizione di un sacerdote.
L'ultimo conforto concesso, per l'infinita cIemenza di Dio, anche al più ostinato dei peccatori, è stato negato a Lei, creatura innocente.

UNA PRINCIPESSA ITALIANA

Subito dopo la morte il corpo della Principessa Mafalda completamente nudo fu portato da due nomini al forno crematorio. Un certo Giorgio Stiel, che procedeva all'autopsia chiese, naturalmente, l'identità della defunta agli uomini che avevano trasportato il cadavere. Fungeva da prosettore l'internato Padre Giuseppe Tyl il quale, vedendo una salma di donna con il braccio amputato, chiese anch'esso ai portatori chi fosse.
La risposta fu laconica e breve: Una Principessa Italiana.
La salma era quella di una donna di piccola statura, molto magra di grave deperimento, con mucose completamente sbiancate, pelle pallidissima per evidente emorragia, con mancante il braccio sinistro. La spalla sinistra era fasciata e dalla fascíatura conipietamente imbibita di sangue, gocciolava ancora del siero sanguinolento. Le palpebre non erano completamente abbassate. La bocca serrata, il labbro inferiore stretto fra i denti, esprimeva anche dopo la morte un vivo dolore. Sulla guancia sinistra era visibile una vasta scottatura. Pure i capelli erano in parte bruciacchiati.

Il Padre Tyl che voleva, a tutti i costi, salvare la salma della cattolica Principessa dalla cremazione si recò, con questo intento, dall'Oberscharfuher S.S. dei crematorio, domandandogli a bruciapelo che cosa s'intendeva fare della salma di Mafalda di Savoia.
L'S.S. - logicamente - non riuscì a nascondere il suo disappunto. Malgrado le precauzioni prese la salma era stata identificata li Padre Tyl insistette ancora per ottenere un feretro: umile, pietosa richiesta L'S.S., dopo qualche esitazione finì con l'acconsentire.
Il prosettore prese allora una cassa dipinta in nero con ornamenti d'argento e vi depose, con mani pietose e cuore commosso la salma. Prima di chiudere la cassa egli tagliò una ciocca di capelli della Principessa, ciocca che, più tardi, divise in due: una parte, nascosta nella busta degli occhiali venne portata a Dachao al sacerdote Giorgio Stengher e l'altra ad un vecchio professore residente a Iena dal suo conoscente, il medico olandese Robert Jan.

La salma di Mafalda venne trasportata assieme a quella di altri S.S. a Weimar dove venne seppellita nel reparto d'onore riservato ai morti per causa di guerra.

UNA DONNA SCONOSCIUTA

La sua fossa porta il numero 262. Nel registro Essa venne notata come: - "Donna, sconosciuta" .

Sola. Ancora una volta: sola. Lontana dalla Sua Italia. Non la vigila nemmeno l'ombra pietosa di un nostro cipresso.

Ad alcuni marinai di Gaeta è stato concesso il privilegio di. porre sulla Sua tomba una croce di legno ed una lapide di marmo.

Questi marinai, interpreti di noi tutti, hanno deposto anche un vaso portafiori. Essi hanno compreso il nostro desiderio: quello di profumare il sonno della nostra Principessa con il profumo dei « suoi , dei nostri » fiori.
Profumo d'Italia. Profumo di terra lontana. Il popolo s'inchina dinnanzi a Mafalda di Savoia, Bandiera Italiana.
Carla Orlando, donna sensibile, -donna profondaniente Italiana, ha descritto con tono appassionato e commosso, ad un pubblico che non ha saputo trattenere le lacrime la nobile figura di Mafalda di Savoia.
Le parole sbocciate dal fervente cuore siciliano di Carla Orlando s'intrecciano con i fiori deposti dalle mani riverenti dei marinai di Gaeta.

DAISY DI CARPENETTO

domenica 5 febbraio 2012

150 - Francesco II di Borbone: Là dove finisce e inizia il Sud Italia.


giovedì 15 dicembre 2011 di Renata De Lorenzo

L’emblematica e controversa figura di Francesco II, ultimo re dei Borboni, è esemplare di quella decadenza del sud Italia che aprì le porte ai Savoia e alla definitiva unità d’Italia. Anche da lì ha origine l’ancora irrisolta forte distanza tra il Nord e il nostro Mezzogiorno.
Un contributo di Renata De Lorenzo, docente di storia contemporanea – Università Federico II di Napoli
Nell’ultimo giro per Napoli, in carrozza scoperta, a fianco di Maria Sofia, Francesco II tocca con mano i primi effetti dell’imminente cambiamento di regime. Prevale tra la gente una certa indifferenza, espressa in qualche cenno di saluto, senza manifestazioni né di ostilità né di favore, ma già le insegne dei gigli borbonici sono rimosse e compaiono nei caffè le bandiere con la croce dei Savoia. Il sovrano parte da Napoli lasciando il tesoro dello Stato e i suoi depositi personali.
E’ questa la percezione finale, sotto tono in cui l’antagonista del re è una struttura di relazioni sociali e politiche, che si confronta con la dimensione dell’individuo. Le dinamiche nella fase cruciale 1859-60 (II guerra d’indipendenza, spedizione dei Mille, crollo del Regno delle Due Sicilie) interagiscono su piani molteplici e coesistenti, manifesti o latenti: la patologia psicologica del re che condiziona il rapporto interpersonale e le modalità della politica; il contrasto intra e intergruppi, borbonici e liberali; i rapporti politici nazionali e internazionali.

1. La dimensione dell’individuo: patologia e crisi dinastica
Il conflitto interpersonale si precisa nel rapporto con parenti, amici, collaboratori, nemici, sullo sfondo della macrodimensione della guerra. Subentrato a Ferdinando II il 22 maggio 1859, a 23 anni, mentre il paese ancora gode di un certo credito internazionale presso le cancellerie europee che ne legittima la continuità dinastica e avalla il matrimonio con Maria Sofia, Francesco II si trova a capo di un regno minato dall’isolamento cui lo aveva relegato il padre dopo il congresso di Parigi del 1856.
Meno intelligente del genitore, sia per carattere che per inesperienza, non è l’uomo idoneo per la difficile situazione del momento. La crisi non è solo congiunturale, ha radici profonde sì che anche un altro sovrano, con diverso carattere, difficilmente avrebbe salvato il regno. A ciò si aggiunge l’immagine del re imbelle, creata innanzitutto dalla famiglia, dagli zii Luigi, conte d’Aquila e Leopoldo conte di Siracusa; quest’ultimo, di idee filoliberali, ha inutilmente spinto il nipote a sottrarsi alla camarilla di corte, mutando politica. Intrighi della Polizia hanno tentato del resto di far dichiarare erede al trono il fratellastro Luigi, conte di Trani. Diffusa è l’ ironia sulle sue manie religiose, sulle modalità bigotte e superstiziose di vivere l’educazione cattolica e il ricordo della madre, la «Reginella santa», Maria Cristina di Savoia. Nocivo è anche l’ affettuoso ma equivoco soprannome «Lasa», diminuitivo di «Lasagna» (per la predilezione per il piatto o per il suo colorito pallido), datogli dal padre, uomo dalla personalità prepotente, invadente e oppressiva. L’epiteto di «Franceschiello» sintetizza la scarsa presenza dell’individuo. Insicurezze e assenze, legate ad un carattere abulico, che al contrario si esprimono nelle lettere private in sfoghi violenti.

Diviso fra il partito di corte, facente capo alla matrigna, Maria Teresa, a personaggi del mondo ecclesiastico e militare, e quello riformista della moglie, di Carlo Filangieri e del principe Leopoldo, il nuovo sovrano finisce per adagiarsi in un immobile conservatorismo. Ben presto elimina ogni ipotesi di conflittualità: condizionato dagli ambienti conservatori, dalla sfiducia verso la monarchia dei moderati, sia esuli che rimasti nel paese, si dichiara neutrale nel conflitto scoppiato contro l’Austria, nonostante le pressioni di Napoleone III perché intraprenda una politica di riforme, dia una Costituzione e si allei col Piemonte.
Il matrimonio non felice con la diciottenne Maria Sofia di Baviera,da lui molto diversa per fascino personale e carattere, finisce anch’esso per evidenziare un ruolo marginale e «debole» della componente maschile nella coppia. La donna è esuberante, allegra, sportiva, Francesco è indifferente a qualsiasi esercizio fisico, taciturno e depresso, cattolico bigotto. A Gaeta, ella svolgerà un consapevole ruolo da regina che perpetuerà con determinazione anche dopo la fine del regno.
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http://www.altritaliani.net/spip.php?article929

150ESIMO DEL REGNO ASPROMONTE 1862: IL FALLIMENTO DELL’ESTREMISMO

di Aldo A. Mola

«Vogliamo tutto e subito!». Oppure: «Questo mai e poi mai!». Sono due malattie infantili della Nuova Italia. Recidivanti.
Fanno parte dell’«Anomalia italiana» indagata da Fabrizio Cicchitto. L’intera storia, del resto, e non solo quella italiana, è un cimitero di tragedie scatenate dalla miscela esplosiva di esaltazione mistica e di avventurismo criminale.
A prima vista, non sempre è facile distinguere il profeta dall’arruffapopoli. Solo il tempo separa la pula dal chicco. Talvolta anche l’eroe di buon cuore scatena il finimondo e va fermato, costi quel che costi, perché una cosa è lo Stato, un’altra la ridda degl’impulsi particolari. Cade a proposito il 150esimo della spedizione che nel luglio 1862 Giuseppe Garibaldi intraprese dalla Sicilia per abbattere Pio IX, il papa-re. Sotto il profilo militare, quell’avventura fu una colossale sciocchezza. Era del tutto improbabile marciare dalla Calabria a Roma con bande improvvisate e bisognose di tutto, in territori impraticabili e sconosciuti. Fatalmente
i garibaldini sarebbero apparsi non patrioti ma briganti, come era accaduto a Carlo Pisacane nel 1857. Peggio
ancora, lo avesse voluto o no, Garibaldi avrebbe innescato la rivolta dell’intero Mezzogiorno. In nome di che cosa? La repubblica? Era il primo a non crederci. Proprio nel luglio 1862 il neonato regno d’Italia venne riconosciuto dall’Impero di Russia e dal regno di Prussia a patto che concorresse alla pace europea. Il governo di Torino era già alle prese con il «brigantaggio» (sic) che nell’ex Regno delle Due Sicilie
sommava resistenza borbonico-papalina e rifiuto dello Stato moderno, che impone tasse e leva militare in cambio di sicurezza e opere pubbliche. Dalla proclamazione del regno (14 marzo 1861) in tante plaghe della Nuova Italia il governo fece in un quinquennio quanto Casa Savoia aveva fatto in secoli di «bonifica» dei suoi antichi domini per portarli al livello degli Stati più progrediti d’Europa.
[...]

sabato 4 febbraio 2012

Il martirio di Mafalda II parte

LA VITA SEMBRAVA SORRIDERLE...
La vita sembrava sorriderle: tenera madre di quattro figli, lunghe parentesi vissute nella , sua Italia, fra la sua gente, circondata dalla devozione del  suo popolo che aveva sofferto nel vederla andare sposa ad un Principe straniero. Ella ritornava, fedelissima, alla sua terra. Ella trascorreva i brevi periodi di riposo che concedeva alla sua caritatevole attività a Capri. Capri: la Principessa Mafalda ricompariva come ricompaiono le Principesse nelle fiabe, ai pescatori, ai poveri, li riconosceva ad uno ad uno, li chiamava per nome. La memoria del suo cuore era sorprendente. Sostava nel giardinetto generoso di fiori, ritrovava la sua forza fisica attraverso l'aria profumata da mille profumi, riprendeva ad essere se stessa, benediva il sole che la ribattezzava Italiana.

LA GUERRA
Eppoi, all'improvviso la guerra: questo terribile mostro dai troppi tentacoli, che fruga ed addenta in tutte le case, che impone agli uomini di uccidere degli altri uomini, che non rispetta nessuno, che livella tutte le classi sociali nel dolore che le accomuna.

La guerra non risparmia il cuore di Mafalda: ansia di moglie e di madre. Ella è soltanto una donna, come tutte le altre. Ella, come tutte le altre, si nutre d'ansia e di sofferenza. La follia di due Capi ha dimenticato, o vuol dimenticare, l'ombra di lutto che si addensa sulle case, sugli uomini pacifici ed imporrà ai campi un riposo che, forse, provocherà la farne, ed interrompe un ritmo fattivo: la follia di due Capi ha assecondato le ambizioni speculative ed ha dimenticato d'interrogare gli uomini che ne saranno i protagonisti e sapranno rivelarsi degni, malgrado non sentano la parte che è stata loro affidata, fino al loro ultimo respiro, del compito che è stato loro imposto.
La guerra addenta anche i sedici anni del Principe Maurizio: il primogenito della Principessa Sabauda. Mafalda possiede un'immensa forza: la Fede. Questa Fede la sorregge, questa Fede l'assiste concedendole il più grande dono che possa essere elargito dal Signore alle creature che se ne dimostrano degne. Ella trae dalla sua fragilità fisica una forza spirituale che può soltanto sorprendere coloro che non hanno avuto il privilegio di avvicinarla, od il desiderio di voler approfondire ciò che celava, per umiltà, il mesto riserbo della nostra Principessa.

LA MORTE DI RE BORIS
La notizia improvvisa della morte di Sua Maestà il Re Boris di Bulgaria, morte avvenuta in circostanze misteriose e che, con ogni probabilità fu una conseguenza del drammatico colloquio avvenuto con Hitler nella rocca di Berchtesgaden, è, ancor oggi, avvolta nel mistero. Si è ripetuto con un'insistenza che potrebbe essere una fonte di verità che Hitler sparò tre colpi di rivoltella nell'addome di Boris. Una cosa è certa: Boris ritornò a Sofia, moribondo, e vi morì due giorni dopo. Si era ai primi di settembre del 1943.

Fin dall'infanzia Mafalda aveva dimostrato una predilezione per Giovanna: Giovanna sua sorella minore; Giovanna, oggi, infelice Regina. Ella si recò immediatamente nella capitale Bulgara per sorreggere con la sua addolorata tenerezza la sorella, per assistere ai funerali del cognato. Pochi giorni: ore dense d'intimità e di dolore. Ore vissute lontane dalla ribalta a cui sono condannati i personaggi nati dalla Storia ed ai quali, non di rado, la Storia impone un destino tragico. Anche l'intiinità, la schietta, semplice intimità concessa al più umile figlio del popolo, rappresenta un dono raro, quasi un frutto proibito, per coloro che il destino ha elevato ad un rango ch'Essi non hanno preteso.

La Principessa Mafalda ritorna a Roma: esce da un'atmosfera tragica per ritrovare un'atmosfera più tragica ancora. Ha l'impressione che la sua Patria venerata abbia, all'improvviso, mutato volto ed anima. Stenta a riconoscerla. Stenta a ritrovare se stessa. Pochi giorni di lontananza sono riusciti a scavare un abisso. Ella, la soave Principessa, misura la drammatica solitudine che l'attornia: il Re e la Regina (per Lei rappresentano soprattutto « Suo Padre, Sua Madre ») sono andati a Brindisi con il Principe Umberto e Badoglio. Iolanda è partita per la Svizzera con la Principessa di Piemonte, il cognato, il Conte Calv.i di Bergolo, è stato internato, chissà dove, per l'aver rifiutato di collaborare con i tedeschi. Mafalda ignora dove si trovi suo marito, dove siano i suoi figli.

E' sola: è oppressa dal peso di questa drammatica, sconfinata solitudine che il destino risparmia alla gente del popolo, a coloro che non sono prigionieri dei « cosiddetti » privilegi di casta. E' sola. Non Le è nemmeno consentito di soffrire questa sua solitudine avvelenata da presagi funesti, fra le mura del Palazzo che l'ha veduta crescere.

Il Quirinale è vigilato dagli sgherri di Pollastrini e dalle S.S. tedesche. E' sola. Profondamente, tragicamente sola. Su di un cielo grigio e triste, foriero di un autunno precoce spicca, s'intaglia, la maestosa cupola di San Pietro. Questa cupola acquista il valore e la risonanza di un richiamo. La sventurata Principessa pensa che soltanto il Papa potrà darle aiuto e conforto.

L'ARRESTO
22 settembre 1943. Le campane di Roma vibrano per l'ansia di annunziare il mezzogiorno. Non si sono sbrigliate ancora. Attendono di poter elargire il loro dono sonoro.
La Principessa Mafalda esce dal Vaticano: è serena, ha ritrovato la sua forza, non teme l'avvenire. Una religiosa serenità l'investe e quasi la smemora. E' attratta dalla solenne, classica bellezza di Piazza San Pietro. Il prodigio d'armonia la seduce, seduce Mafalda, Italiana che lontano dall'Italia si è ammalata di nostalgia.

Le campane si sbrigliano nell'annunziare mezzogiorno.

Due poliziotti germanici fermano Pietro una donna Italiana.
Due poliziotti germanici fermano in Piazza San Pietro Mafalda di Savoia: la fanno salire su di una lunga macchina nera e chiusa. Non danno spiegazioni. Senza dubbio la Principessa non si abbassa  a chiederle.
La macchina sì dirige in fretta verso l'Ambasciata. L'ambasciatore von Rhan comunica alla
Principessa l'ordine d'immediata partenza per la Germania. Non le viene concesso di rivedere i suoi tre
figlioli nè di prendere nemmeno quel minimo di bagaglio indispensabile. Ella comprende troppo tardi
di essere considerata un prezioso ostaggio. Non le rimane  altro che chinare il capo ed ubbidire. Rivolge
un ultimo saluto ( doveva realmente essere l'ultimo) alla sua Roma, sfiora per l'ultima volta il suo suolo
natio prima di salire sull'apparecchio che la trasporterà a Berlino. Le hanno dato una compagna a cui sono state impartite direttive precise: una donna di facili costumi Mafalda non le serba rancore, pensa che, forse, anch'essa è stata costretta ad ubbidire.


Tragico volo acuta sofferenza vissuta nel cielo ,fra nubi e lembi d'azzurro, incertezza sta quanto le potrà accadere, angoscia al pensiero dei Figli. Quanto tempo dovrà trascorrere prima ch'Ella possa rivederli e dir loro: « Non sono fuggita... La vostra mamma era, quel giorno, soltanto un'infelice prigioniera? ».

Da Berlino sempre accompagnata dalla medesima donna che non l'abbandona un attimo, viene condotta in un'autovettura verso una meta non precisata. Le dicono ch'Ella rivedrà suo marito, il Principe di Essen. Essa ha quasi paura di credere. Teme un secondo tranello è entrata all'improvviso, da pochi giorni, in un mondo sconosciuto fino allora, che la sgomenta. Non osa nemmeno più sorridere.

BUCHENWALD
La conducono, infatti, a Buchenwald, la rinchiudono in una baracca speciale, numero 15, riservata ai prigionieri che possono destare un certo interesse.


La baracca è situata nel breve spazio esistente sulla sommità della collina, fra grandi officine e le caserme S.S. Il campo dei prigionieri si trova invece sul pendio settentrionale, poco discosto. La baracca recintata da un muro alto tre metri sormontato da sostegni di ferro inclinati verso l'interno che reggevano dei fili di ferro spinato e guarnito, in cima da pezzi di vetro, misurava dai 40 ai 60 metri.

Dalla baracca costruita in legno comune su di un rudimentale terrapieno, priva di soffitti, rifinita alla meglio si poteva soltanto scorgere il cielo. Sul lato occidentale erano allineate sedici stanzette: la porta di ciascuna si apriva su di un lungo corridoio che occupava la parte orientale della baracca. Sentinelle armate, di truppe S.S., reclutate in Romania: vigilanza continua di giorno e di notte, vigilanza spietata.
La Principessa si trovava nel lato settentrionale della baracca, lato opposto all'unico ingresso del recinto. Insieme ad Essa era una signora protestante, Maria Ruhnan (o Ruhn) che apparteneva alla setta
degli "scrutatori della Bibbia"  internati a Buchenwald soltanto perché si erano rifiutati d'impugnare
le armi.

Spazio ristretto. Letto di ferro privo di molle, formato  da semplici tavolette sulle quali era poggiato un saccone riempito di paglia di  lenzuola ruvide a righe celesti: lenzuola del campo.

Il vitto era simile al rancio dei soldati S.S., più abbondante e migliore di quello degli altri prigionieri. Consisteva in una porzione di pane nero, una Zuppa, una porzione di margherina, carne insaccata o miele o formaggio a seconda delle giornate già fissate: monotonia di settimane.
Il cibo per quanto sufficiente non si confaceva alla gracilità della Principessa. La nuova internata dimagriva in modo impressionante Ma. ciò nondimeno riusciva a conservare un aspetto giovanile.
Gli altri prigionieri ben lontani dalsupporre chi Ella fosse, la chiamavano, Gaudiger fraulein , (gentìle signorina) con tono rispettoso. La sua regale e dolce signorilità s'imponeva ancora una volta. anche tra estranei
 - Signorina?- Ella diceva sorridendo - No , sono madre di quattro figli...
Il sorriso sbocciato dalla, sua bontà scompariva all'iítiprovviso: la Madre ricordava i suoi quattro figli, lontani.
Non le era permesso di scrivere di svelare la sua identità Le era stato imposto, imposizione dettata da una crudeltà raffinata il nome di  Signora Abeba. Imposizione che, pur ferendola per l'Ironia che l'aveva suggerita non riuscì ad intimorirla. Presto tutti seppero che nel campo era rinchiusa una Principessa Italiana: l'avvicinarono durante lo scavo di una trincea scoperta, fatta fare nel cortile a scopo antiaereo.

La squadra dei lavoratori prigionieri era composta da uomini di varie nazionalità: tedeschi, francesi ed un italiano, il sardo « Boninu Leonardo ».

Questo fu il suo unico contatto con il mondo esterno: non riceveva posta, non poteva ascoltare la radio, non le era consentito di seguire gli avvenimenti che - Ella lo sentiva - ferivano la sua Patria, attraverso la stampa quotidiana. Esistenza dura e monotona. Le sue insistenze presso il comandante del campo non ottennero alcun risultato. Le sue lettere non vennero mai spedite. Soltanto un vecchio giornale, trovato per caso, le fece rivedere le sembianze del suo Consorte.

ERA GIUNTO L'INVERNO...
Era giunto l'inverno: un inverno nordico, generoso di un soffice candore. Mafalda che tanto amava il sole, i colori violenti della sua Capri, la benevola mitezza della sua Italia, considera, per la prima volta, la neve che cade per ore, senza, fretta, una complice. Ricorre ad uno stratagemma commovente. Elude la sorveglianza dei guardiani, affronta il freddo che le fa battere i denti, traccia a lettere cubitali sulla candida distesa due nomi: Italia - Mafalda. Il nome della sua Patria lontana: il « Suo » nome di Principessa prigioniera ed infelice. La sua mano è, decisa, vigorosa, eppur trema, un tremito di speranza. Spera che un aviatore abbassi lo sguardo sulla bianca distesa, scorga queste lettere ch'Ella ha tracciato ad una ad una, senza fretta, con fiducioso amore nostalgico. Questo aviatore che, forse, per caso, distoglierà gli occhi dall'azzurro per posarli un attimo su l'uniforme candore potrà rilevare e trasmettere dove Ella si trova.
Speranza commovente e vana.
Gli apparecchi solcano rapidissimi il cielo. Gli aviatori non abbassano lo sguardo e sorvolano il martirio di Mafalda, ignorandolo.
La Principessa non ricevette mai alcun cambio di vestiario: i mesi trascorrevano lentissimi, le stagioni si alternavano veloci. Una compagna di prigionia, mossa a compassione, le cedette un paio di scarpe. Quando sul finire dell'aprile 1944 i prigionieri entrarono nel recinto di Mafalda si accorse che su di uno di essi spiccava il triangolo rosso con la «I », imposto agli Italiani : era il Boninu. Ella lo fece chiamare dalle S.S.. che stavano di sentinella con il pretesto di farsi portare della legna. Boninu rimase assai sorpreso nel trovarsi di fronte ad una Signora Italiana ed immaginò subito ch'Essa doveva essere un personaggio importante. Mafalda, accortasi di questo suo stupore silenzioso gli chiese, sorridendo, se egli credeva di averla già veduta.

Il sardo esitò un attimo prima di risponderle: - mi sembra dì sì... su qualche fotografia - e soggiunse poi, dopo una lunga pausa, senza mai distogliere lo sguardo dalla sua persona, ch'Essa poteva essere un membro della casa Reale perché rassomigliava al Re.

Il sorriso della Principessa si trasformò in pianto convulso: un attimo. In quell'attimo la sua sensibilità dolorante aveva rivissuto tutto il suo passato. Dinanzi a Lei era un italiano, un sardo fedele, un operaio che, senza conoscerla l'aveva, senza saperlo, riconosciuta.
A Leonardo Boninu, Mafalda di Savoia volle confessare il suo nome, raccontare attraverso lunghi silenzi velati di lacrime e poche parole pronunziate sottovoce, la sua storia, drammatica storia; le sue ansie di madre, di sposa, di figlia. Triplice sofferenza di donna imposta a questa donna gracile.

Da quel giorno, ricorrendo ai più astuti pretesti Leonardo Boninu riuscì a penetrare quotidianamente nella baracca, ed Ella, in seguito, fece in modo di poter scambare con lui poche parole: brevi, spaventate parole, durante i lavori duri, estenuanti, a cui essi venivano sottoposti.
Ogni mattina, appena alzata, Mafalda apriva la finestra: questo gesto non significava per lei la rassegnata sofferenza di accogliere la luce di una nuova giornata ma la gioia schietta, giovanile, di salutare Boninu, Boninu l'italiano, che aveva, nella sua devota comprensione, misurato il suo dramma.
Leonardo Boninu grato e commosso, s'informava se Ella avesse ancora pianto, se Ella fosse riuscita, malgrado tutto, a riposare un poco: cercava d'infonderle coraggio, cercava, soprattutto, di trasmetterle il calore della loro Patria lontana.
Era questo il modo migliore d'incominciare la nuova giornata: entrambi, la Principessa e l'operaio sopportavano le ore estenuanti e nemiche per la forza che infondeva loro quell'attimo di dolorosa ed intensa solidarietà italiana. Un saluto mattutino: il calore della loro Patria lontana.

L'"inchino" a Re Umberto II


Un evento drammatico come il naufragio della Costa Concordia ci ha messo in condizione di scoprire l'affetto dei Marinai Italiani al Sovrano in esilio.


"Da ex navigante per 35 anni e da ex Comandante di navi mercantili, anche super petroliere e gassiere più grandi e più veloci, per 21 anni, sono esterrefatto: in caso di saluti e/o "inchini", come si usava fare a Cascais, in Portogallo, all'ex Re Umberto II di Savoia. finché vivente, il Comandante DEVE essere sul Ponte di comando, la velocità della nave DEVE essere a mezza-forza o adagio (4-6 nodi), e non avvicinarsi a nessuna costa a MENO di mezzo miglio, per salutare si facevano 3 fischi con la sirena di bordo, e da terra ricambiavano con un suono di campana."

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venerdì 3 febbraio 2012

Padre Pio e la profezia: “In Italia tornerà la Monarchia”

Continua a far capolino sui media nazionali, di tanto in tanto, una lontana profezia di Padre Pio. Poche settimane fa l’Unione Monarchica Italiana (UMI) e la Consulta dei Senatori del Regno hanno organizzato una manifestazione a conclusione del 150° anniversario della Proclamazione del Regno d’Italia nella sala della protomoteca del Campidoglio a Roma. Oltre a numerosi monarchici erano presenti i principi Amedeo, Maria Gabriella e Aimone di Savoia. Tra i vari interventi che si sono susseguiti ce n’è stato uno molto interessante del professore Giulio Vignoli che, analizzando vari aspetti della storia d’Italia legata a Casa Savoia, ha citato anche la famosa profezia di Padre Pio, secondo la quale in futuro ritornerà la monarchia nel nostro Paese. Una profezia che abbiamo già documentato sulle pagine di questo giornale (puntata XXIV), ma che evidentemente non smette di incuriosire e attirare l’attenzione. Di cosa si tratta? Profetizzò un futuro di forti sofferenze A ridosso delle Seconda Guerra Mondiale la futura regina d’Italia Maria José, moglie del Re Umberto, madre di Vittorio Emanuele e nonna di Emanuele Filiberto, oggi affermata star televisiva, si recò in visita da Padre Pio. Si narra che il frate profetizzò alla principessa che nel futuro della dinastia ci sarebbero state molte sofferenze, che il trono sarebbe stato perso e che a seguito di ciò vi sarebbe stato un amaro esilio. Cosa che avvenne puntualmente di lì a breve. Maria José ha più volte confermato la veridicità dell’episodio e della profezia che poi si è effettivamente avverata fin nei minimi particolari. Ci sono pure diverse lettere a sostegno Ma qui viene il bello. Secondo molte voci Padre Pio avrebbe fatto un’altra previsione: «Il ramo principale di Casa Savoia si rinsecchirà, ma la famiglia ritroverà la gloria di un tempo da un ramo secondario che darà un Re all’Italia».
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giovedì 2 febbraio 2012

La galleria di "uomini illustri" di Casa Savoia» - Torino, 26 gennaio – 26 febbraio 2012

Aperture serali della Mostra "Personaggi svelati" 

La piccola mostra che ricrea la suggestione della Galleria che un tempo univa il castello alla nuova sede ducale (oggi Palazzo Reale) distrutta da un incendio nel 1659, e dei giardini del Regio Parco, residenza di loisir tra le più amate da Carlo Emanuele I, in cui si trovavano alcune pregevoli statue della collezione ducale apre straordinariamente al pubblico in orario serale, fino alle 22.30, giovedì 26 gennaio, sabato 4 febbraio, giovedì 9 febbraio, giovedì 16 febbraio e sabato 25 febbraio.
Le identità delle teste-ritratto, personaggi privati, imperatori, filosofi e bambini e delle quattro statue di personificazioni femminili di stagioni e dee, che già un tempo avevano suscitato l'ammirazione di illustri viaggiatori, verranno "svelate" ai visitatori grazie alla presenza in sala degli archeologi del Museo.
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http://www.archaeogate.org/classica/event/1472/aperture-serali-della-mostra-personaggi-svelati-la-gall.html

Il re e il nichilista, un mistero coi baffi

NietzscheoUmberto
A quanto pare il dubbio circolava già da tempo in alcuni meandri della Rete, ma alla fine è stato il filosofo Maurizio Ferraris, un’autorità sull’argomento, a confermare ufficialmente l’esistenza curiosa di un presunto scambio fotografico fre il re e il nichilista. Scrive dunque Ferraris alle pagine 16 e 17 del volumetto divulgativo Nietzsche e la volontà di potenza, pubblicato di recente come allegato a La Repubblica:

“Qualche anno fa ho scritto con alcuni colleghi un’opera introduttiva a Nietzsche; in copertina, è stata messa una foto del filosofo [...] Avevo chiesto che non venisse messa la solita foto con i baffoni, di profilo [...]. Il libro era appena uscito quando mi telefona un amico fotografo: ‘Ci sei cascato anche tu, hai fatto mettere in copertina non Nietzsche, ma Umberto I di Savoia’. Com’era possibile? In una mostra sull’iconografia nietzschiana tenutasi proprio qui a Torino, circa quarant’anni fa , non si sa come, finì in mezzo alle varie  immagini di Nietzsche anche una foto di Umberto I di Savoia.”

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http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2012/02/01/il-re-e-il-nichilista-un-mistero-coi-baffi/